Autore Topic: Casalinghe e donne  (Letto 1863 volte)

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Offline COSMOS1

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Casalinghe e donne
« il: Luglio 27, 2012, 16:10:40 pm »
La demenza femminista si è scatenata contro la femminilità e qualunque ruolo tipico delle donne in quanto donne: i ruoli di cura, di relazione, anzitutto.
Perchè per qualche ragione dal loro punto di vista i ruoli maschili sono più interessanti e decorosi, è riprovevole soltanto ipotizzare che una donna possa dedicarsi ad una attività di donna.
In particolare a stare in casa, a fare la casalinga.
Le femministe descrivono un mondo claustrofobico, una specie di manicomio dove tutto ciò che può andare storto, va effettivamente storto. Su un blog femminista leggo questo: “Ho perso il lavoro due anni fa. Mi ha licenziata un imprenditore che ha delocalizzato la fabbrica in un’altra nazione dove le donne le paga molto meno. E mio marito non lo amo più da tempo. Ma attualmente è lui il mio datore di lavoro. Lui paga e io stiro. Lui porta la spesa e io cucino. Lui paga la bolletta e io gli lavo i panni. Lui porta il pane in casa e io pulisco e metto tutto in ordine. Sono una dipendente senza contributi. Non avrò mai una pensione.”
Tutto gira attorno a quella constatazione: mio marito non lo amo più da tempo. Come una ingiustizia della vita, una eventualità del destino avverso che trasforma tuo marito in un carnefice.
Reva Seth scrive da un punto di vista esattamente contrario: First Comes Marriage ripropone il matrimonio combinato tradizionale indiano in opposizione al matrimonio d'amore figlio del romanticismo occidentale. È un altro punto di vista, non necessariamente da sposare in toto, ma comunque provocante. Reva descrive le dinamiche con le quali anche in un matrimonio combinato tra due coniugi che prima non si conoscevano neppure, anche oggi, anche tra persone di cultura, laureate entrambe, professioniste, può sbocciare l'amore. Dopo, all'interno di una divisione di ruoli chiara, a priori.
Perchè ciò che manca nella follia femminista è una riflessione pacata, cosciente su ciò di cui stiamo discutendo. Sembra quasi che l'io che riflette su sé stesso e il proprio destino sia incapace di domandarsi cosa lo conduce alla felicità e cosa lo conduce altrove. Anzi sembra quasi che cerchi anzitutto l'infelicità, il dolore, il fallimento, l'autodistruzione.
“Non lo amo più” sembra una fatalità, un mattone che cade sulla testa. Come se l'io che non ama più non avesse alcuna responsabilità. Come se fosse la stessa cosa che “piove” oppure “fa sole”.
Sarebbe da chiedere alle spose, nel giorno del loro matrimonio, un minuto prima del loro “sì”: e quando non sarai più innamorata, cosa farai?
Come su tutto ciò che nella vita si fa insieme a qualcun altro, l'importante è che i patti siano chiari prima. Diciamocelo: se tra una settimana, un mese, un anno o dieci io non sarò più innamorata, farò così e così. Bene, siamo tutti felici. Lo sappiamo prima. Lo stesso vale per il marito, anche lui potrebbe non essere più innamorato. Nessun problema.
Qualche problema invece forse c'è, dobbiamo sistemare qualche particolare. Ad esempio che il parroco quando gli avete detto esplicitamente cosa farete quando vi disinnamorerete, si rifiuta di celebrare il matrimonio, quel retrogrado e oscurantista.
A questo punto le cose sono due: ipotesi uno, vi sposate solo in municipio. Ipotesi due: è necessario trovare una alternativa, quando l'innamoramento passerà si dovrà trovare un altro modo di stare insieme, se proprio ci tenete a sposarvi in chiesa.
Ora, il problema oggi è che alla seconda ipotesi si nega addirittura diritto di cittadinanza: non è pensabile porsi un problema di coerenza a priori, non è pensabile sposarsi sapendo quello che si fa, sapendo che si potrebbe disinnamorarsi e allora ci vuole un piano B che il parroco possa accettare.
In non voglio assolutamente negare il diritto a chi non si riconosce nel cattolicesimo di esperire altre ipotesi. Io mi domando solo perchè oggi il matrimonio cattolico non implica necessariamente una riflessione anche su questa eventualità, e una prassi coerente.
Dio cè
MA NON SEI TU
Rilassati