Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 69494 volte)

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #45 il: Febbraio 27, 2018, 01:45:06 am »
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Romania: scontro totale tra governo e anti-corruzione
Francesco Magno 13 ore fa   

Giovedì sera il ministro della Giustizia Tudorel Toader ha annunciato di aver avviato la procedura per la rimozione di Laura Codruţa Kövesi da procuratore capo della Direzione Nazionale Anti-Corruzione (DNA). La notizia ha nuovamente risvegliato la popolazione, che nelle principali città del paese ha sfidato il freddo per protestare contro la decisione governativa. Si tratta soltanto dell’epilogo di uno scontro, che dura ormai da anni, tra il partito social-democratico (PSD) e la magistratura; scontro che si avvia inesorabilmente verso la resa dei conti finale.

Chi è Laura Codruţa Kövesi, l’incubo dei socialisti

Laura Codruţa Kövesi (1973) è dal 2013 procuratore capo della DNA. Nata Laura Lascu, mantiene il cognome del primo marito Edvard Kövesi, nonostante il divorzio. Promessa giovanile della pallacanestro femminile romena (vicecampione europea nel 1989), nel 2006, a soli 33 anni, viene nominata dal presidente Traian Băsescu procuratore generale della Corte di Cassazione, la più giovane nella storia del paese. Vi fu chi storse il naso di fronte ad una scelta tanto inconsueta: una donna, giovanissima, al vertice della giustizia nazionale. Qualche anno dopo Băsescu spiegò la sua scelta motivandola con una necessità impellente di rottura rispetto al passato, che solo una giovane donna poteva garantirgli. Secondo altri, la scelta fu dettata dalla lunga amicizia tra Vasile Blaga, uomo forte dello staff di Băsescu, e Ioan Lascu, padre della Kövesi. Ioan Lascu è la personificazione vivente della continuità istituzionale che caratterizzò il passaggio dalla Romania comunista a quella democratica. Questi mantenne infatti la carica di procuratore capo della città di Mediaş tra il 1980 e il 2010, senza essere minimamente scalfito dagli eventi politici che funestarono il paese nel corso degli anni. Nel 2013 Kövesi venne nominata procuratore capo della DNA. Il suo operato è stato ben giudicato a livello europeo, grazie all’ingente numero di arresti che negli ultimi anni ha falcidiato la classe politica romena, afflitta dall’endemica piaga della corruzione.

Liviu Dragnea e la fronda anti-Kövesi

Un partito, più degli altri, è stato colpito dall’ondata di arresti degli ultimi anni, in quella che potremmo a buon ragion definire una “Mani Pulite” in salsa carpatico-danubiana. Il PSD ha visto la propria classe dirigente costantemente posta sotto lo sguardo inquisitore dei procuratori DNA; molti illustri esponenti della classe dirigente del partito sono finiti dietro le sbarre per episodi di corruzione. Lo stesso Liviu Dragnea è attualmente oggetto di un’indagine; secondo quanto sostengono i magistrati, questi avrebbe favorito la società di costruzioni Tel Drum (controllata da uomini a lui molto vicini), facendole vincere in modo più o meno lecito appalti per lavori nella regione di Teleorman, sua terra natale e feudo elettorale principale. La Tel Drum avrebbe poi ricevuto migliaia di fondi pubblici per lavori infrastrutturali mai effettuati. A seguito di queste indagini, nel novembre scorso la DNA ha congelato i beni di Dragnea, rendendo la frattura tra PSD e magistratura ormai insanabile.

I presunti abusi della DNA

Anche all’interno della procura anti-corruzione non mancano tuttavia le ambiguità e le ombre. Sono in molti a denunciare i duri metodi inquisitori della DNA, fatti di carcerazioni preventive, intercettazioni capillari, interrogatori fiume. Non sono mancati i casi di errori giudiziari, di polveroni risolti in un nulla di fatto, di conflitti tra corpi distinti della magistratura. I più maligni sostengono addirittura una fosca relazione tra mondo giudiziario e servizi segreti, qualcosa che trascende i limiti imposti in uno stato di diritto che aspira a standard occidentali, tanto che la Corte Costituzionale ha spesso redarguito la DNA per aver abusato dei suoi poteri. Oggi il paese è spaccato in due tra chi appoggia in toto i metodi della Kövesi, ritenuti un male necessario per sconfiggere definitivamente la corruzione, e chi invece ritiene (vuoi per tornaconto personale, vuoi per reale convinzione) che i metodi della magistratura non siano degni di uno stato membro dell’UE.

Iohannis, baluardo della DNA

Dopo che il ministro ha avviato la procedura per la rimozione del procuratore capo, la palla passa adesso al Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), che dovrà pronunciarsi contrariamente o a favore. La scelta del CSM è tutt’altro che scontata: non sono pochi i magistrati vicini al PSD e ostili alla Kövesi, che potrebbero quindi schierarsi a favore della sua sostituzione. Dopo il voto del CSM l’ultima parola spetterà comunque al presidente della Repubblica Klaus Iohannis, che ha le facoltà costituzionali per bloccare l’intero iter. Più volte Iohannis si è espresso chiaramente a favore della DNA e del suo procuratore capo, ed è difficile credere che possa avallare qualsivoglia cambio al vertice. Tuttavia, se anche il CSM dovesse schierarsi contro la Kövesi, la frattura istituzionale diventerebbe sempre più profonda. Dragnea potrebbe nuovamente sfoderare la carta della sospensione del presidente, giustificata dalla mancata approvazione da parte di Iohannis di una scelta già avallata dagli altri principali poteri dello Stato, l’esecutivo e la magistratura. La situazione resta fluida, pronta a rapide ed impreviste soluzioni anche nel breve termine.
«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
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Offline Sardus_Pater

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #46 il: Febbraio 27, 2018, 17:38:09 pm »
Le lotte negli stati balcanici per ovviare alla piaga della corruzione resteranno lettera morta, combattute dal solito baulardo di disperati stile Little Big Horn?
Anche stati che stanno molto meglio di Romania, Albania e Bulgaria hanno i loro problemucci, compresa la Rep. Ceca e quella Slovacca.
Il femminismo è l'oppio delle donne.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #47 il: Marzo 01, 2018, 00:47:40 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Slovenia/Media-in-Slovenia-tra-criminali-politici-e-barbari-186338

Citazione
Media in Slovenia: tra criminali, politici e "barbari"
Un lungo approfondimento sulla proprietà dei media in Slovenia dimostra come sia molto difficile, nel paese, fare in modo deontologicamente corretto il mestiere di giornalista
27/02/2018 -  Blaž Zgaga   

(Pubblicato originariamente da ECPMF )

Elogiata in passato come modello per i Balcani, la Slovenia – la parte più sviluppata dell'ex Jugoslavia, oggi membro dell'UE e della NATO – presenta molti problemi nel suo panorama mediatico. Il passaggio da ex repubblica socialista a democrazia parlamentare ha portato tanto successi quanto fallimenti, e la struttura proprietaria dei media sembra rimanere uno dei maggiori problemi, in quanto i proprietari dei media controllano apertamente o segretamente le politiche editoriali.

Durante la transizione, gli oligarchi locali hanno fatto fortuna soprattutto collaborando con i politici post-comunisti in discutibili processi di privatizzazione, in modo arbitrario e similmente agli sviluppi in Russia e in altri paesi in transizione. Un elemento importante dell'attuale panorama mediatico sloveno è che quasi tutti i proprietari di media mainstream sono indagati per gravi crimini da parte dell'equivalente sloveno dell'FBI, che si occupa di corruzione, crimine organizzato e terrorismo. Alcuni di loro hanno già subito condanne.
 
Per approfondire sullo stato della libertà dei media in Slovenia, naviga le risorse messe a disposizione dal Resource Centre curato da OBCT, a partire da qui .

Stojan Petrič, proprietario dell'azienda e gruppo di costruzioni Kolektor - che nel 2015 ha acquistato il principale quotidiano sloveno Delo e il tabloid più diffuso nel paese Slovenske novice - è sotto inchiesta per aver abusato della sua posizione e della fiducia nella sua attività commerciale. La polizia ha messo in rilievo come un gruppo di indagati, tra cui Petrič, avrebbero guadagnato almeno 1,8 milioni di euro da attività non lecite.

Ma anche le sue azioni da nuovo proprietario di Delo sono preoccupanti. Subito dopo l'acquisizione ha nominato caporedattore ad interim Gregor Knafelc, capo delle relazioni pubbliche nella sua principale holding, FMR. Knafelc, senza una sola giornata di esperienza giornalistica o editoriale alle spalle, ha licenziato molti giornalisti, per lo più di fama e con esperienza, e modificato in modo significativo la linea editoriale. Knafelc è stato sostituito il primo dicembre 2017 con un nuovo caporedattore ad interim, quindi il giornale rimarrà senza una guida dal pieno mandato.
"Lealtà" e "unità"

In un'insolita intervista rilasciata nel febbraio 2018 al proprio quotidiano, Petrič ha dichiarato di aspettarsi "lealtà" e "unità" dai giornalisti di Delo. Ha elogiato il sistema politico cinese e ha affermato che le nazioni più piccole dovrebbero seguire il modello cinese. Ha anche annunciato nuove acquisizioni di media in Slovenia.

Delo oggi è solo un'ombra del rispettato e influente quotidiano di una volta, paragonabile a The Times o Le Monde, ma la crisi di credibilità era già iniziata nel 2005, quando il governo di destra di Janez Janša è salito al potere e ha iniziato a intromettersi intensamente nella sua politica editoriale, aiutato dall'allora proprietario Boško Šrot. Šrot sta scontando una pena di cinque anni e dieci mesi per abuso d'ufficio in una vendita a catena di una partecipazione del 7,3% nella holding Istrabenz nel 2007, con una condanna aggiuntiva di 5 anni nel 2014 per abuso di posizione o fiducia e per riciclaggio di denaro. Šrot è ancora in prigione.

Nell'ottobre 2017 i pubblici ministeri hanno presentato una richiesta di indagine contro Stojan Petrič e altri co-imputati, che hanno negato qualsiasi accusa.

Il secondo quotidiano sloveno, Dnevnik, appartiene invece al gruppo finanziario DZS dal 2003. L'attività principale di DZS è il turismo. Il proprietario Bojan Petan è indagato in Slovenia e in altri paesi per diversi reati. Rischia fino a otto anni di carcere per abuso di posizione o fiducia in attività commerciali durante la privatizzazione del resort turistico Terme Čatež, che avrebbe portato decine di milioni di euro in guadagni illeciti alla sua società. Inoltre, è stato indagato per crimine organizzato e riciclaggio di denaro da parte della procura speciale in Bosnia Erzegovina. Ha negato qualsiasi illecito.
Operazioni aziendali in paesi offshore

Petan era anche comproprietario della principale agenzia pubblicitaria, di pubbliche relazioni e lobbying Pristop, insieme al socio in affari Franci Zavrl, fondatore di Pristop ed ex proprietario del settimanale di sinistra Mladina, marito della giornalista investigativa Anuška Delić, che ha lavorato con il Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi su Panama e Paradise Papers. Sia Petan che Zavrl hanno operazioni commerciali in paesi offshore e sono stati indagati dalla polizia per appropriazione indebita di decine di milioni di Euro. La polizia slovena ha perquisito gli appartamenti di Petan e Zavrl/Delić e molti altri uffici nel giugno 2014. Anche questa indagine è in corso, e l'imputato nega ogni accusa.

Infine, Bojan Petan è molto ben collegato, e il suo impero economico è un rifugio sicuro per molti ex funzionari dell'intelligence e del governo. Sebastjan Selan, ex direttore generale della principale agenzia di intelligence slovena Sova, è diventato uno dei più importanti manager nel suo impero economico. Anche altre ex spie lavorano per DZS. Nel frattempo, l'ex portavoce del governo Darijan Košir è diventato vicedirettore di Dnevnik e gestisce contemporaneamente la propria società di pubbliche relazioni.

Il processo contro Petan è ancora in corso, mentre sono cadute le accuse contro Zavrl. Tuttavia, questo non è stato l'unico incontro ravvicinato di Zavrl con la giustizia: è stato infatti indagato in passato dalla polizia finlandese e lussemburghese per riciclaggio di denaro per milioni di euro nella questione Patria*, uno dei maggiori scandali in Slovenia negli ultimi dieci anni. Anche queste accuse sono comunque cadute nel nulla.

L'ex primo ministro Janez Janša, che insieme a Zavrl è stato arrestato nel 1988 dall'esercito popolare jugoslavo nel "processo Roška" che ha innescato la cosiddetta "primavera slovena" (un movimento popolare che ha portato a cambiamenti democratici e al movimento di successione della Slovenia nell'allora Jugoslavia), è stato condannato a due anni di carcere per corruzione nell'affare Patria. La condanna di Janša è stata confermata da tutti i tribunali sloveni, inclusa la Corte Suprema. Tuttavia, la Corte Costituzionale ha in seguito abrogato queste sentenze e richiesto un nuovo processo, poi andato in prescrizione.
Guadagni illeciti

Il terzo quotidiano mainstream della Slovenia, Večer, è stato acquistato nel 2014 da Uroš Hakl e Sašo Todorovič, per solo un milione di euro. Tuttavia, l'affare era finanziato principalmente da debiti, e alcuni immobili di proprietà del giornale sono stati subito venduti per finanziarne l'acquisizione.

Todorovič è l'ex amministratore delegato del provider di telecomunicazioni T-2. Hakl è l'ex direttore dell'agenzia Pristop ed è stato anche indagato per abuso d'ufficio. Hakl e i co-imputati del processo nel quale è coinvolto avrebbero guadagnato oltre un milione di euro in aiuti di stato illeciti. Hakl rischia fino a otto anni di carcere. Le indagini sono in corso, e anche lui nega ogni illecito.

Un altro magnate dei media, ma anche del settore tipografico e della gestione dei rifiuti, è Martin Odlazek, condannato a sei mesi di prigione per abuso di posizione e fiducia in attività economiche nel 2013. Ha scontato la pena agli arresti domiciliari. Ma il suo passato criminale non gli ha impedito di espandere il proprio impero mediatico con il nuovo tabloid Svet24 e molti altri settimanali, compreso l'acquisto del settimanale di destra Reporter. Possiede anche diverse stazioni radio slovene.

Nel panorama televisivo sloveno, il servizio pubblico RTV Slovenija continua a fungere da terreno di gioco politico per i principali partiti, che attuano la loro influenza sulla politica editoriale attraverso il Consiglio dei programmi, in cui 21 dei 29 membri sono eletti dal parlamento. Ad esempio, a luglio 2017, il nuovo direttore generale di RTV Slovenia Igor Kadunc ha tentato di sostituire il direttore del programma Ljerka Bizilj per aver violato gli standard editoriali sostenendo la redattrice Jadranka Rebernik che aveva approvato il programma promozionale in prima serata del cantante neo-Ustasha croato Marko Perković "Thompson". La proposta di Kadunc è stata poi rifiutata dal Consiglio dei programmi con la maggioranza dei voti dei membri di destra dello stesso. Questo caso conferma che la politica controlla ancora la politica editoriale delle emittenti pubbliche .

Il proprietario delle quote di maggioranza della piccola emittente televisiva privata Planet TV e del 100% delle azioni del noto media online Siol.net è la società statale di telecomunicazioni Telekom Slovenije, che offre ancora molti canali per l'influenza politica dietro le quinte.

La piccola emittente di partito Nova24TV, fondata dall'SDS di Janez Janša, ha invece ricevuto importanti finanziamenti dall'Ungheria. Alcuni proprietari di media ungheresi, amici intimi del primo ministro ungherese Victor Orban, vi hanno investito almeno 800.000 euro, ricevendo in cambio importanti quote di capitale in un canale di informazione che diffonde costantemente propaganda di destra. Anche il settimanale SDS Demokracija è oggi di proprietà degli amici di Orban. Janez Janša, il cui partito è membro del Partito popolare europeo, è strettamente legato a Orban e alla sua politica anti-immigrazione e anti-liberale.

Ma la vera scossa sismica nel panorama mediatico sloveno è avvenuta a luglio 2017, quando la società Pro Plus (proprietaria dei canali televisivi POP TV e Kanal A, che raggiungono il 70% degli spettatori nel mercato sloveno e ricevono una quota ancora maggiore di entrate pubblicitarie) è stata acquistata per 230 milioni di euro da United Group, di proprietà della società di private equity KKR di New York (Kohlberg, Kravis e Roberts). Prima ancora, Pro Plus apparteneva alla Central European Media Enterprises (CME), incorporata nel paradiso fiscale delle Bermuda.
"I barbari alla porta"

Henry Kravis e George Roberts sono noti come gli inventori del leveraged buy-out, e la loro acquisizione della società RJR Nabisco negli Stati Uniti è stata eloquentemente trasposta in un film di Hollywood del 1993: "I barbari alla porta". Tuttavia, questi "barbari" trovano forte sostegno per le attività di lobby nei Balcani da parte del presidente del KKR Global Institute David Petraeus, ex direttore della CIA e comandante delle forze militari statunitensi in Afghanistan e Iraq, che ha prestato servizio anche nell'operazione di pace NATO nei Balcani.

Petraeus ha fatto visita al primo ministro sloveno Miro Cerar il 18 maggio 2017, esercitando pressioni per l'acquisto della principale compagnia televisiva slovena, che possiede anche il sito più visitato: 24ur.com. Inoltre, KKR ha contemporaneamente acquistato il canale televisivo più visto della Croazia, ma i regolatori croati non hanno approvato questa parte dell'accordo. Dragan Šolak, azionista di minoranza e presidente di United Group, ha incontrato anche il premier Cerar il 19 aprile 2017.

Dopo l'attività di lobby di Petraeus, l'Agenzia slovena per la protezione della concorrenza (CPA) ha dato il via libera all'accordo KKR di 230 milioni di euro, nonostante tale investimento stia creando un'integrazione verticale nei mercati dei media e delle telecomunicazioni, con rischio di monopolio in molti altri mercati locali. Inoltre, la nomina del nuovo direttore della CPA Andrej Matvoz solleva molti dubbi sulla sua indipendenza. Nonostante la mancanza di qualsiasi esperienza in questo impegnativo campo del diritto, è stato nominato dal ministro dello Sviluppo Economico e della Tecnologia come direttore ad interim. Ma la corte slovena ha dichiarato in seguito illegale la decisione. Inoltre, la Commissione slovena per la prevenzione della corruzione ha sporto denuncia contro Matvoz per aver barato in un esame di esperti presso la polizia slovena. Tuttavia, questa serie di questioni non ha impedito alla coalizione politica al governo di confermare Matvoz in parlamento.

L'intensiva attività di lobby è confermata anche dalla decisione del ministero della Cultura sloveno, che ha stabilito formalmente che Pro Plus non è parte correlata dei programmi POP TV e Kanal A, di cui Pro Plus detiene il 100% delle azioni. Pertanto, il ministero della Cultura si è tirato indietro rispetto a qualsiasi decisione in merito all'acquisizione di United Group (KKR), abdicando al proprio ruolo di regolatore dell'industria dei media.

United Group, registrata nei Paesi Bassi, possiede anche le società di telecomunicazioni SBB e Telemach, Sportklub, Total TV, Net TV e molte altre società di comunicazione nell'ex Jugoslavia. Raggiunge 1,74 milioni di famiglie e ha realizzato ricavi per 488 milioni di euro nell'ultimo anno. È uno dei più importanti fornitori di servizi di telecomunicazione e media nei Balcani, offre anche servizi di telefonia mobile e trasmette il canale N1 TV, partner locale della CNN in Croazia, Bosnia e Serbia.

L'azionista di minoranza serbo-sloveno di United Group, Dragan Šolak – fra i più ricchi nei Balcani – opera regolarmente nei paesi offshore. Secondo il settimanale croato Nacional*, la sua controllata United Media con sede a Zurigo è riuscita a canalizzare 6,7 milioni di euro dalla Croazia verso conti segreti in Liechtenstein e Cipro per la trasmissione di licenze senza pagare tasse significative.

Fra una tale concentrazione di proprietari di media con un passato e presente criminali, politici corrotti e aggressivi baroni di Wall Street, è praticamente impossibile lavorare come giornalista indipendente in Slovenia. Molti giornalisti esperti hanno già lasciato la professione o sono stati costretti all'espatrio. D'altra parte, una nuova generazione di giovani giornalisti sembra essersi completamente adattata agli interessi commerciali e agli obiettivi dei nuovi proprietari di media. La solidarietà professionale fa parte di un passato ormai dimenticato. L'etica professionale e personale dei giornalisti al servizio di questi criminali, politici e "barbari" tende a cadere sempre più in basso.


 
* Lo scandalo Patria è stato portato alla luce nel 2008 in collaborazione tra il giornalista finlandese Magnus Berglund (YLE) e l'autore di questo articolo.

** L'inchiesta su Nacional è stata realizzata dall'autore di questo articolo.

Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #48 il: Marzo 10, 2018, 13:37:32 pm »
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SLOVACCHIA: Ricette per teorie del complotto, aggiungete Soros q.b.

Gian Marco Moisé 1 giorno fa   

Il primo ministro Robert Fico ha risposto negativamente all’ipotesi di un rimpasto del governo presentata del presidente della repubblica slovacca Andrej Kiska. Non solo, è passato all’offesa ventilando ipotesi di complotto, chiedendo spiegazioni rispetto all’incontro di Kiska con il milionario George Soros, fondatore dell’Open Society Foundation.

Come un vetro appannato

Con il duplice omicidio del giornalista investigativo Ján Kuciak e della sua fidanzata Martina Kušnírová, la cittadinanza è scesa in piazza per manifestare contro la corruzione, la mancanza di trasparenza, e incidentalmente, il governo Fico. Infatti, per quanto il primo ministro stia cercando di rendere la vicenda una questione personale, le proteste nascono da una scarsa lungimiranza della classe dirigente slovacca.

Già nel 2010, il piccolo paese centro-europeo è stato investito dal cosiddetto scandalo del Gorilla,* un rapporto dei servizi segreti che ha esposto una rete di tangenti tra il mondo degli affari e le più alte cariche dello stato. Nel corso del 2016, invece, il governo Fico aveva dovuto giustificare l’indagine ai danni del ministro degli interni Robert Kaliňák, sospettato di aver accettato un pagamento di 260.000 euro da parte dell’uomo d’affari Ladislav Bašternák.

La cosa peggiore è che i chiarimenti giudiziari rispetto alle vicende non sono ancora arrivati. L’esecuzione di Ján Kuciak, che stava indagando sui legami tra personaggi vicini alla ‘Ndrangheta e politici di SMER-SD, il partito del primo ministro, sembra l’ennesimo tentativo di far sparire la polvere sotto il tappeto. I cittadini slovacchi sono scesi in piazza, e tra loro, anche il presidente della repubblica Andrej Kiska, che domenica 4 marzo ha chiesto le elezioni immediate o un rimpasto del governo che metta da parte le figure poco trasparenti. Oggi, in Slovacchia. la popolazione guarda alle sue istituzioni attraverso un vetro appannato.

La teoria del complotto

Dopo aver rifiutato categoricamente le ipotesi ventilate dal presidente, Fico ha parlato di complotto, sostenendo che invece di focalizzarsi su questioni irrilevanti, Kiska dovrebbe spiegare alla cittadinanza perché nel settembre del 2017 si sia incontrato con Soros. L’accusa appare infondata. Infatti, l’incontro non era stato nascosto, ma addirittura reso noto dallo stesso Kiska su Facebook il 25 settembre. Il presidente slovacco ha incontrato il filantropo di origine ungherese negli Stati Uniti nel corso di un viaggio durante il quale si è intrattenuto con decine di persone. Il tema del loro incontro è stata l’integrazione delle comunità rom in est Europa, uno dei capisaldi dell’Open Society Foundation.

Fico sta cercando di distrarre l’opinione pubblica quel tanto che basta da permettergli di salvare il governo. Nonostante i suoi sforzi, lunedì 5 marzo, il ministro della cultura Marek Maďarič, di SMER, si è dimesso sostenendo che: “È chiaro che debbano esserci dei cambiamenti nel governo”, perché sono: “Gli stessi partiti della coalizione a chiederli.”

L’atteggiamento di Fico, oltre ad essere estremamente infantile, è antidemocratico e tristemente comune a larga parte dei leader politici mondiali. Abbiamo visto Donald Trump cercare di spostare l’attenzione sull’amministrazione Obama ogniqualvolta gli venga chiesto se sapesse delle ingerenze russe a suo favore durante la campagna elettorale. Anche se colui che trova in Soros il bersaglio preferito delle sue critiche è senz’altro il premier ungherese Viktor Orbán, con cui Fico sembra avere sempre più punti di contatto.

Il problema è che la cosa spesso funziona, e Soros, insieme ai vaccini e alle scie chimiche, sta entrando a pieno diritto tra gli argomenti più in voga tra i complottisti di tutto il mondo. Il problema non sono le notizie false, ma l’incapacità di distinguere tra il verosimile e il grossolano, tra uno scherzo e un argomento serio. Ne “Il Pendolo di Foucault” Umberto Eco scriveva: “C’era un tale, forse Rubinstein, che quando gli avevano chiesto se credeva in Dio aveva risposto: ‘Oh no, io credo… in qualcosa di molto più grande…’ Ma c’era un altro (forse Chesterton?) che aveva detto: da quando gli uomini non credono più in Dio, non è che non credano più a nulla, credono a tutto“.

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ELEZIONI SLOVACCHIA / 3: La tangentopoli slovacca e le elezioni anticipate

Matteo Zola 10 marzo 2012   

Le elezioni anticipate avrebbero dovuto essere incentrate sull’Europa e sul ruolo della Slovacchia nell’Unione, ma le rivelazioni sulla corruzione politica ai massimi livelli minacciano di far crollare l’intero sistema.

da Presseurop

Cadere sull’Europa

Quando in ottobre il governo di destra di Iveta Radičova è caduto a causa di una disputa sulla partecipazione della Slovacchia al bailout per i paesi indebitati dell’eurozona, è sembrato che il ruolo del paese in Europa avrebbe ridisegnato la politica nazionale.

In molti a quel punto hanno pensato che le elezioni del 10 marzo avrebbero sancito l’inizio di una nuova era in cui l’orientamento pro-europeo avrebbe compattato la coalizione di governo più di qualsiasi tradizionale divergenza ideologica (e nel caso della Slovacchia, anche culturale) tra destra e sinistra.

Spazzati via dal gorilla

Tuttavia, nel giro di qualche mese, la situazione è cambiata radicalmente. L’Europa è finita nel dimenticatoio, e la scena pubblica è ormai dominata dagli scandali legati alla corruzione che stanno sgretolando inesorabilmente la politica slovacca. La pubblicazione del documento “Gorilla“, un rapporto dei servizi segreti slovacchi (Sis) sui legami tra il mondo degli affari e la politica, ha spinto gli elettori (soprattutto quelli di destra) verso nuovi partiti, spuntati come funghi dopo un temporale.

Nel giro di poco tempo, però, anche le nuove formazioni sono state colpite una dopo l’altra da nuovi scandali. Probabilmente la conseguenza principale dell’attuale caos sarà un’affluenza ai minimi storici (45 per cento), con un terzo dei votanti che non ha ancora deciso a chi assegnare la preferenza.

Partiti nella polvere: il Sas

Per comprendere la situazione vale la pena di ripercorrere il cammino di alcune nuove formazioni politiche che recentemente hanno dominato la scena politica (insieme a Gorilla, naturalmente). SaS, giovane partito liberale euroscettico che ha provocato la caduta del partito di Radičova (per la ratifica del trattato sul fondo salva-stati Esm, ndr), ha visto improvvisamente crollare la sua reputazione di partito libero dalla corruzione e animato da saldi principi.

Per trascinarlo nella polvere sono bastate due rivelazioni: il ministro della difesa Ľubomír Galko ha chiesto ai Servizi segreti di intercettare le conversazioni telefoniche di alcuni giornalisti, mentre il leader del partito Richard Sulík ha lasciato che un imprenditore coinvolto nei “Mafia file” esaminasse le candidature del partito prima delle elezioni. Come dimostrano alcuni filmati registrati di nascosto e pubblicati anonimamente, quando era presidente del parlamento Sulík ha incontrato l’uomo d’affari Martin Kočner e gli ha passato informazioni riservate.

Gente ordinaria e 99%, nuove formazioni

Il partito Gente ordinaria di Igor Matovič è un’altra forza che aspira a ricoprire un ruolo di rilievo nella politica slovacca. L’anno scorso Matovič, un giovane populista, ha rotto con SaS ed ha formato una lista separata insieme a diverse personalità di spicco, appartenenti soprattutto ai circoli intellettuali conservatori.

Un’altra nuova formazione politica è 99%, fondata lo scorso ottobre. La sua lista è ricca di nomi sconosciuti, ma il partito ha potuto organizzare una massiccia campagna elettorale grazie al sostegno di una società produttrice di armamenti.

Panico e silenzi

A causa dell’ondata di scandali amplificati dai mezzi d’informazione, i politici slovacchi sono in preda al panico e si rifiutano di rispondere alle domande dei giornalisti e di apparire nei dibattiti televisivi, come è accaduto al leader nazionalista del Sns, Jan Slota, il cui partito è colato a picco nei sondaggi.
«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #49 il: Marzo 10, 2018, 13:40:48 pm »
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Il tonfo dei socialisti in Europa. Il tradimento si paga

Matteo Zola 3 giorni fa   

Un grande sciopero di medici, portuali e dipendenti del trasporto pubblico ha attraversato nelle scorse settimane le vie di Atene, dimenticata capitale del fallimento europeo. Ragione dello sciopero non è la povertà diffusa, il mancato pagamento degli stipendi, la carenza di medicinali negli ospedali, no, a questo i greci si sono abituati. È l’introduzione di una legge che limita il diritto di sciopero. La norma è inserita nell’ultimo, ennesimo, pacchetto di misure di austerità imposto dai creditori. Oh no, non si tratta di una cosa grave, solo una piccola correzione della percentuale di adesioni necessarie per poter indire uno sciopero, ma si sa com’è, i diritti si erodono un poco alla volta, senza clamore, finché non ne resta più nulla. Così i greci scioperano per il diritto di sciopero in un paese guidato – udite udite – da un partito che si definisce “social-democratico” e “marxista”, quello di Alexis Tsipras e dell’altra Europa che, a ben vedere, sembra uguale all’originale.

La sinistra europea è al capolinea, tutta: crollano i partiti di ispirazione social-liberale, si frantumano e polverizzano i movimenti più radicali, rovinano formazioni sopravvissute persino al crollo del comunismo, trasformatesi e riformatesi negli ultimi vent’anni cercando di adeguarsi alle nuove esigenze dell’epoca. A cosa si deve questo tracollo? Forse all’essersi troppo adeguati, all’aver spinto troppo in là il riformismo, abbracciando dottrine economiche e sociali che, di sinistra, hanno sempre meno, nell’illusione che lo zeitgeist del nuovo secolo fosse tutto globalizzazione e liberismo. Forse, per altri, il tracollo si deve all’aver troppo indugiato in sogni novecenteschi, magliette di cheguevara, coltivando chimere del bel tempo che fu, quando c’era lo zio Beppe a guidare le magnifiche sorti e progressive che poi tanto magnifiche non erano.

Di sicuro, per tutti, il crollo si deve all’aver dimenticato i lavoratori. I lavoratori tutti, non gli operai, che non ci sono più, ma quella grande massa di persone private della propria dignità personale in nome della flessibilità, tanto cara a una visione liberista della società, che nei fatti è precarizzazione. Insomma, ingiustizia sociale. La sinistra europea ha appoggiato quando non promosso misure che hanno reintrodotto norme feudali, come il lavoro a chiamata o quello accessorio, privando i cittadini di strumenti contrattuali, riducendo gli spazi della negoziazione, fino ad atomizzare il lavoro, mettendo tutti contro tutti, e persino poveri contro poveri.

La sinistra europea ha tradito i lavoratori, e il tradimento si paga.

Si è visto in Francia, dove il partito socialista è uscito distrutto da anni di governo in cui non ha saputo dare risposta al malessere sociale, e dove ora il bel Macron – fumo negli occhi della sinistra giovanilista, insieme al Picketty – sta forzando la mano proprio sul lavoro allo scopo di introdurre precarietà a dosi massicce. E si è visto in Germania dove, dopo anni di grandi coalizioni, l’SPD è diventato stampella di esecutivi votati a ridurre i diritti sul lavoro (no, la Germania non è il paradiso dei lavoratori che alcuni decantano!). I cittadini tedeschi si aspettavano di più da un partito che vanta, tra i suoi padri nobili, Karl Marx. Si aspettavano cioè di non dover calare le brache di fronte al dogma della produttività, di non trovarsi a fare i conti con uno stato sociale punitivo come quello incarnato dal Piano Harz, un inferno voluto dal governo socialista di Gerhard Schröder e che, dal 2005, toglie dignità a coloro che sono socialmente più deboli. E infine, si è visto anche in Italia dopo le ultime elezioni, e c’era da aspettarselo.

È un fenomeno europeo, dicono i politici di sinistra a propria discolpa, ma è proprio la dimensione europea che li inchioda: il tradimento dei lavoratori è andato di pari passo con l’adesione supina alle misure imposte da Bruxelles, ovvero a una visione dell’economia tutta votata al mercato e alla finanza, che ha visto nell’austerità uno strumento punitivo piuttosto che correttivo. Non a caso i creditori che oggi impongono una revisione del diritto di sciopero in Grecia sono la Banca centrale europea e la Commissione europea, oltre al Fondo monetario ovviamente. L’aver sostenuto, appoggiato, approvato norme siffatte (si pensi al famigerato pareggio di bilancio in Costituzione) costituisce anche un secondo tradimento, quello democratico: accettando cioè di farsi dettare l’agenda economica da un organismo scarsamente rappresentativo della volontà popolare, in parte sottratto a qualsiasi controllo di natura democratica, i partiti di sinistra hanno mancato nel correggere, limitare, fermare le derive dell’Unione. O forse non hanno voluto, accecati dal mito mitterandiano dell’euro-socialismo. Ma non era certo per questa Europa che Spinelli si è fatto il confino.

La crescita dell’estrema destra in Europa occidentale è collegata al fallimento delle sinistre.

È così che va se tradisci il lavoro. Lasci uno spazio politico che viene riempito dalla canaglia. Il tradimento dei lavoratori e dei cittadini si paga. Le forze reazionarie sanno cogliere questo malcontento. Lo useranno a quali fini? Occorrerà aspettare ancora un decennio prima che la sinistra comprenda l’errore storico che ha compiuto. Prima che ci si renda conto che rappresentare i lavoratori – vocazione e missione della sinistra – significa comprenderne le paure, trovare risposte, difendere i ceti meno abbienti e quelli intermedi dalle storture e della aggressioni del mercantilismo, opponendosi allo zeitgeist, individuando strade nuove, riaffermando il primato della politica sull’economia, smantellando se necessario quelle istituzioni che rendono i cittadini servi della gleba. Occorre che la sinistra comprenda che quelli che prima, anche decenni fa, votavano per i partiti comunisti o socialisti occidentali, sono esattamente gli stessi che oggi votano per i fronti nazionali e le leghe alternative. Ci vorrà tempo ma è necessario che la sinistra faccia piazza pulita dello snobismo intellettuale che vede negli altri, quelli che votano per la reazione, una massa di buzzurri ignoranti nemici del popolo. È quello il popolo.

Oh, il popolo, vituperata parola una volta cara alle bandiere rosse! La fiumana del quarto stato è ancora lì, e sempre più genti a ingrossarla. Il colore della bandiera conta. Non si può lasciare in mano alle destre sociali, ai movimenti reazionari, la difesa delle istanze popolari poiché quelli le useranno per fini assai poco democratici. Smantellare l’Europa a colpi di post-fascismo non è una soluzione ma ripensarla è necessario, perché c’è un nesso evidente tra misure economiche europee, vincoli comunitari, dottrine votate all’austerità e politiche del lavoro nei singoli paesi. È tempo che la sinistra europea torni a farsi espressione di questa fiumana lasciando da parte il conformismo europeista e la fascinazione finanziaria. Nel frattempo preghiamo che l’Europa ci sia ancora, che non restino solo macerie umane e materiali dopo la presa del potere delle forze reazionarie e delle loro parole d’ordine a passo dell’oca.
«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #50 il: Marzo 10, 2018, 13:50:01 pm »
Anche ad est parlano di femminicidio.

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Turchia/Turchia-la-mappa-della-violenza-sulle-donne-185984

Citazione
Turchia: la mappa della violenza sulle donne

Intervista con Ceyda Ulukaya, giornalista ed ideatrice della prima mappa del femminicidio in Turchia, un originale e apprezzato progetto di data journalism
08/03/2018 -  Fazıla Mat   

Ceyda Ulukaya, è giornalista ed ideatrice della prima mappa del femminicidio in Turchia. Il progetto, realizzato in collaborazione con Sevil Şeten e Yakup Çetinkaya, è stato nel 2016 tra i finalisti dei Data Journalism Awards, nella sezione Small Newsroom. La mappa copre il periodo tra il 2010 e il 2017, in cui sono state uccise almeno 1964 donne. Oltre a fornire la data e il luogo degli omicidi, ha dei filtri qualitativi che indicano le generalità delle donne uccise, il tipo di rapporto che gli omicidi avevano con le vittime, il “pretesto” dell’omicidio e l’esito per quanto riguarda l’omicida. Per la giornalista si tratta quasi di un bollettino di guerra. Nostra intervista.

Com’è nata l’idea di questo progetto?

È nata verso la fine del 2014, quando ho iniziato ad occuparmi di data journalism. Conoscevo il centro Bianet ed ero al corrente dei loro report annuali sulla violenza maschile perché avevo svolto lì uno stage. Conseguentemente ho iniziato ad analizzare la Convenzione di Istanbul, secondo la quale gli Stati firmatari sono tenuti a raccogliere i dati relativi agli omicidi delle donne. L’idea era quella di creare una mappa che potesse mettere in luce la gravità del fenomeno in maniera semplice e immediata, soprattutto per chi non si occupa della questione in maniera specialistica. Ho presentato domanda al programma di giornalismo investigativo Objective della piattaforma P24, che mi ha assegnato un fondo per portare avanti il lavoro, durato un anno. Il sito è stato poi pubblicato per la prima volta il 25 novembre 2015. Mi piacerebbe arrivare a coprire almeno 10 anni, fino al 2020, ma è necessario trovare nuovi finanziamenti.

Su quali fonti ha condotto la raccolta dei dati?

All’inizio avevo immaginato di poter ottenere i dati che mi servivano presentando domanda ai vari ministeri, sulla base del diritto di accesso alle informazioni pubbliche. Speravo così di ricavare anche delle informazioni dettagliate sulle donne. Purtroppo però, nessuna delle domande che ho presentato ha avuto risposta. Ciascuna delle sedi interpellate mi ha indirizzato all’altra, dicendomi di rivolgere la richiesta al ministero della Giustizia, alla gendarmeria, alla questura, al ministero dell’Interno… In ultima istanza mi è stato detto che i dati richiesti rendevano necessario un lavoro aggiuntivo e dunque non era possibile comunicarli.
Un'immagine tratta dalla mappa, interattiva e in continuo aggiornamento , sui femminicidi in Turchia

Ma i ministeri non dispongono di dati propri?

I ministeri, soprattutto quello delle Politiche per la famiglia, pubblicano periodicamente delle statistiche sul tema. Addirittura nel 2009, quest’ultimo aveva comunicato che c’era stato un aumento del 1400% negli omicidi delle donne, suscitando un grande polverone. Il ministero ha poi continuato ad aggiornare quei dati, con numeri che sono diventati molto più “accettabili”. Tuttavia, quando ho presentato domanda per avere accesso a questa informazione, mi è stato detto che non esiste un simile dato. Quindi non è chiaro se ne siano effettivamente in possesso. D’altra parte alcune organizzazioni di donne e la stessa Bianet hanno iniziato a contare i casi di femminicidio proprio a causa di questa incongruenza. Quindi, di fronte a una simile difficoltà, e volendo adottare il massimo della trasparenza sul tema, i media sono diventati la fonte diretta da cui attingere questi dati.

Quale metodo ha utilizzato per la raccolta dei dati?

Ho utilizzato come punto di partenza i bollettini di Bianet sulla violenza maschile, che sono redatti in forma di rapporto. In questi rapporti viene detto, ad esempio, che una donna, identificata con delle iniziali, è stata uccisa per accoltellamento in una data città. In particolare, nei casi un po’ più datati si fa spesso ricorso alle iniziali delle donne uccise. Per ciascuno di questi casi, quando mancavano informazioni, ho proceduto a fare una ricerca su Google, digitando le informazioni che avevo, o immaginando i titoli che i giornali locali avrebbero potuto dare al pezzo. In questo modo sono risalita alla notizia apparsa sulla stampa per ogni singolo caso. La prima mappatura comprendeva il periodo tra il 2010 e il 2015, mentre ora arriva a coprire i casi fino alla fine del 2017.

Pensa che i media riportino in maniera esaustiva i casi delle donne uccise?

Assolutamente no. Ed è per questo che nel fornire i numeri ribadiamo sempre che si tratta del numero minimo, che sono state uccise “almeno” un tot donne. Poi ci sono dei casi in cui le donne vengono indotte a suicidarsi. Anche su questo ogni tanto sono state riportate delle notizie, ma c’è indefinitezza sull’argomento e non si riesce a dire con esattezza quali e quanti casi rientrino in questa casistica. Molti altri omicidi vengono taciuti. Ad esempio il 25 novembre del 2017 ho preparato e inviato ai vari media un video assieme ad un comunicato che comprendeva i dati della mappa sul femminicidio. Secondo i dati della mappa Bayburt risultava come l’unica città dove non erano state uccise donne. E i media avevano riportato la notizia dicendo che Bayburt era la città ideale per loro. Ma qualche giorno dopo ho ricevuto un’email con cui mi veniva chiesto di rettificare questa immagine immeritata che avevo dato alla città, con il link ad una notizia su un delitto commesso lì contro una donna. Ci sono dunque dei casi in cui la notizia appare sui giornali locali, ma non raggiunge un pubblico più vasto e rimane perciò nell’ombra. Almeno però ora c’è un canale aggiuntivo dove le persone possono fare le loro segnalazioni.

Qual è il pretesto principale dei femminicidi in Turchia?

Al primo posto troviamo un pretesto “indefinito”. Questo significa che nel 22,4% dei casi conteggiati la notizia riportata sulla stampa non forniva informazioni sulla causa che avrebbe portato al delitto. Segue al secondo posto il pretesto della lite/discussione (nel 16,5% dei casi), ma anche questo è un movente estremamente vago. È infatti difficile pensare che negli altri casi non ci sia stata una discussione prima dell’omicidio. Sembra invece dare qualche elemento di riflessione la terza opzione,  il “sospetto di tradimento”. Va tenuto conto che la categoria del “pretesto” è stata preparata sulla base delle dichiarazioni fatte dai responsabili degli omicidi. Ma vediamo spesso che sono in molti a dichiarare di aver ucciso per sospetto di tradimento perché i colpevoli sperano  in tal modo di ridurre la pena. Altre attenuanti della pena sono la buona condotta - quando ad esempio l’uomo si presenta in tribunale indossando una cravatta e si dimostra remissivo di fronte al giudice. Vediamo che condanne all’ergastolo vengono ridotte a 8 anni, perché sono tenuti in conto la provocazione che gli uomini affermano di avere subito, la loro buona condotta davanti ai giudici e la legge sui crimini penali. Un altro, tra i pretesti di omicidio più frequenti, è il rifiuto da parte della donna di accettare la proposta di riconciliazione dell’uomo. Sono casi in cui ad esempio, l’uomo si reca dalla moglie, che è tornata a vivere a casa dei genitori. Il marito si presenta e chiede di far pace, ma ci va con la pistola, con l’idea che se non verrà accettato ucciderà la donna e, a volte, anche le persone che si trovano con lei in quel momento. Ma anche il fatto che una donna abbia riso, o che non abbia lavato il bucato, sono pretesti per ucciderle.

Chi sono gli uomini che commettono gli omicidi?

Al primo posto si collocano i mariti (40,6%), al secondo i fidanzati (11,4%). L’aggressore “sconosciuto” si trova all’ottavo posto, e rappresenta solo l’3,8% dei casi. I responsabili degli omicidi sono quasi tutti uomini che fanno parte della quotidianità della donna con la quale si trovano relazionati. Si tratta di una situazione tragica, perché troviamo moltissimi parenti di primo grado, inclusi padri, fratelli, generi e figli.

Cosa emerge invece nella sezione destinata all’esito degli omicidi?

Nel 59,7% dei casi, i colpevoli sono stati arrestati. Il secondo esito più frequente (17,6%) è il suicidio dell’assassino, seguito dalla resa alla polizia (11,5%). Nel 6,2% dei casi l’esito è “sconosciuto”, semplicemente perché non era riportato sul giornale esaminato. Non era possibile per me seguire tutto l’iter giudiziario dei singoli casi. Ma ci sono delle organizzazioni delle donne che lo fanno. Io però ho tenuto traccia di altri dati. Ho segnato se prima dell’omicidio c’era stato un periodo in cui la donna aveva cercato di separarsi o di divorziare dall’uomo. Oppure se aveva presentato un esposto alle autorità, o se si erano registrati precedenti episodi di violenza. La mappa indica che almeno 246 donne avevano notificato le minacce alle autorità, mentre 369 omicidi sono stati preceduti da eventi di violenza o di minaccia.

Qual è il quadro complessivo che emerge da questa mappa?

La stampa riporta questi omicidi come eventi di cronaca nera, come se fossero casi singoli, fatti tragici a sé stanti. Ma quando li osserviamo nel loro insieme emerge un unico schema ripetitivo. Questi omicidi si assomigliano tutti, hanno pretesti ed esecutori simili, che appartengono per la maggior parte alla cerchia familiare delle vittime. E questo ci dice molto sull’origine del problema e su come potrebbe essere contrastato. Ma la possibilità di contrastarlo dipende dall’intenzione. Volendo, a livello locale, nelle province dove c’è un numero più alto di omicidi si potrebbero sviluppare meccanismi di protezione per le donne, mentre a livello nazionale si potrebbero implementare misure legali più efficienti. Ad esempio si potrebbe fare in modo che il pretesto del sospetto di tradimento non sia più un’attenuante. La Convenzione di Istanbul è uno strumento molto importante, impone agli Stati di conteggiare gli omicidi delle donne, ma questo non viene fatto. Questa mappa dice tante cose, ma solo a chi le vuole ascoltare.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #51 il: Marzo 10, 2018, 23:07:29 pm »
Il femminismo è l'oppio delle donne.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #52 il: Marzo 12, 2018, 23:59:02 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Croazia-l-UE-critica-sui-veterani-di-guerra-186618

Citazione
Croazia, l'UE critica sui veterani di guerra

La Commissione europea punta il dito sull'esecutivo di Zagabria con riferimento alla recente legge sui veterani di guerra, i cui "privilegi", pensioni comprese, secondo Bruxelles renderebbero il welfare croato poco equo
12/03/2018 -  Giovanni Vale   

Troppi diritti ai veterani di guerra croati, parola dell’Unione europea. Nel suo ultimo rapporto sulla situazione economica nel paese, la Commissione europea ha infatti notato "l’esistenza di categorie privilegiate come quella dei reduci di guerra" e ha chiesto a Zagabria di intervenire per rendere il proprio welfare più equo nei confronti degli altri cittadini.

La scorsa settimana, l’esecutivo europeo ha pubblicato un documento di 73 pagine relativo all’andamento economico della Croazia nell’ambito del cosiddetto Semestre europeo. Nel commentare la ripresa "che dovrebbe continuare nei prossimi due anni" e al tempo stesso il fatto che il paese "ha realizzato pochi progressi nell’affrontare le raccomandazioni specifiche rivoltegli nel 2017", la Commissione torna a concentrarsi sul tema dei branitelji, ovvero dei «difensori» della «guerra patriottica croata» (così com’è ufficialmente chiamata in Croazia la guerra degli anni '90). Diciamo che «torna» ad intervenire sull’argomento perché, come fa notare il portale Index.hr , Bruxelles aveva già evidenziato, nel suo rapporto del 2016 , che "i criteri di eleggibilità per i sussidi di protezione sociale sono inconsistenti (in Croazia, nda.)", dato che a lato di uno schema generale rigido, coesistono "altri schemi che si applicano a precise categorie, come quella dei reduci di guerra e delle loro famiglie". Questa volta, tuttavia, l’intervento dell’Ue è decisamente più netto, colpevole anche l’iniziativa del governo Plenković che nel frattempo ha proposto di estendere, invece che limitare, questi privilegi.
Più diritti ai veterani

Che i branitelji, i «difensori» della guerra di indipendenza croata, godessero di uno status speciale all’interno della società non c’erano dubbi. Numerosissimi e spesso rappresentati da leader molto presenti nei media, i veterani di guerra sono in effetti una presenza immancabile nel dibattito politico in Croazia. Ma che il loro trattamento - «privilegiato» per citare il documento comunitario - fosse tale da preoccupare l’esecutivo europeo, questa è una novità rilevante. La Commissione europea, come detto, mette nero su bianco che "le autorità (croate, nda.) hanno proposto di estendere ulteriormente i benefici assicurati agli ex combattenti e alle loro famiglie, provocando così un aumento dei loro plafonds pensionistici". Ma non solo, l’iniziativa legislativa di Andrej Plenković avviene mentre "pochi progressi sono stati fatti per facilitare il reinserimento dei veterani di guerra nel mercato del lavoro" e in un momento in cui "le pensioni dei veterani sono generalmente più del doppio di quelle previste dallo schema ordinario".

Il riferimento fatto dall’esecutivo europeo è "alla legge adottata dal governo nel novembre del 2017" e che "riapre la possibilità di registrarsi come ex combattenti, riduce il limite di età per andare in pensione ed estende ai famigliari il diritto di ereditare le pensioni dei veterani". La misura che il governo conservatore croato propone va insomma in controcorrente rispetto alla velata osservazione dell’Ue fatta già nel 2016, al punto da introdurre "anche un numero supplementare di privilegi sociali per i reduci di guerra" e da imporre "l’obbligo di finanziare le associazioni di veterani (tra lo 0,3% e l’1% del budget dei governi locali)". Ed è interessante notare che Bruxelles non avanza ragioni economiche per criticare l’iniziativa della squadra di Plenković - si potrebbe ad esempio pensare all’elevato debito pubblico, che seppur in calo, si mantiene comunque al disopra dell’80% del Pil - ma denuncia un peggioramento del sistema di welfare croato, già "afflitto da una scarsa individuazione di chi ha davvero bisogno e dall’esistenza di categorie privilegiate come quella degli ex combattenti".
Un elettorato indispensabile

Se c’è un motivo per cui Andrej Plenković non soltanto disattende le raccomandazioni europee in questo ambito ma va apertamente contro il parere di Bruxelles, quel motivo è politico. In Croazia, i branitelji rappresentano una fetta di elettorato fondamentale e, grazie a dei leader noti a livello nazionale, sono in grado di pesare molto sulla bilancia politica. I dati rendono un’idea dell’ampiezza del fenomeno. Nella primavera del 2016, il registro dei veterani di guerra presso il ministero degli Ex Combattenti contava più di 505mila persone, in crescita rispetto agli anni precedenti. In percentuale, si tratta di oltre il 12% della popolazione croata. È chiaro che si tratta di un segmento sociale ampio e dunque non riconducibile ad un solo pensiero o orientamento politico, ma i gruppi più rumorosi sono tradizionalmente schierati a destra ed in grado di influenzare pesantemente l’Unione democratica croata (Hdz), il partito del premier Plenković, all’interno del quale contano non pochi sostenitori tra i più intransigenti.

A dimostrazione dell’importanza dei veterani di guerra, si pensi al gesto della presidente Kolinda Grabar-Kitarović, che nel giorno stesso della sua elezione a capo di Stato nel gennaio del 2015, decise di andare ad incontrare proprio i branitelji. A loro, che accampavano da mesi nel centro di Zagabria per protestare contro l’allora governo socialdemocratico di Zoran Milanović, la neoeletta presidente assicurò il proprio sostegno incondizionato. Ad un appuntamento elettorale successivo, quando nel settembre 2016 l’attuale premier Plenković sfidò l’ex capo dell’Sdp Milanović, fu quest’ultimo a recarsi proprio dai veterani, nel tentativo (vano) di convincerli a non votare per i conservatori. Le frasi del leader socialdemocratico, registrate e diffuse con o senza il suo consenso, gli valsero non soltanto la sconfitta alle urne ma pure la carica da segretario dell’Sdp. Per convincere gli ex combattenti a votare per lui, Milanović si era lasciato andare a dichiarazioni contro i serbi, che a detta del socialdemocratico "vorrebbero essere i padroni dei Balcani, ma sono solo una manciata di miserabili".

Più di recente ancora, gli ex combattenti delle Forze croate di difesa (Hos) hanno protestato contro la decisione di una commissione governativa di dichiarare incostituzionale il saluto ustascia «Za dom spremni!» (Per la patria, pronti!), che loro regolarmente usano in pubblico durante le loro commemorazioni. La commissione, nominata proprio dall’esecutivo Plenković per risolvere le questioni legate ai regimi del passato, aveva pertanto autorizzato delle eccezioni al divieto all’uso del saluto, proprio per permettere all’Hos di continuare con le proprie commemorazioni. Ma i veterani hanno comunque deciso di protestare.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #53 il: Marzo 20, 2018, 19:45:56 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-ammalarsi-d-ospedale-186696

Citazione
Romania: ammalarsi d'ospedale

I rumeni hanno paura a recarsi in ospedale e non senza ragione: si può entrare con una banale febbre ed uscire con un’infezione mortale. Un’inchiesta
19/03/2018 -  Laura-Maria Ilie,  Florentin Cassonnet   

(Originariamente pubblicato da Le Courrier des Balkans il 6 marzo 2018)


Gennaio 2018, ospedale di Sibiu: Adolf e Alexandra Lichtenstein hanno appena perso il figlio di tredici giorni. “Aveva la febbre, rifiutava il cibo, aveva la dissenteria e allora siamo andati all’ospedale”, spiega il padre al microfono della tv Digi24. “Gli infermieri hanno iniziato ad insultarci e ad affermare di disturbarli per una banale febbre. L’ospedale è in uno stato disastroso: sporcizia, vecchie coperte, il bimbo è stato messo in un letto di metallo arrugginito”. L’autopsia rivelerà più tardi la causa del decesso: una meningite di origine batterica non rilevata dagli esami effettuati e il batterio E-coli ESBL, una specie multiresistente contratta alla nascita.


Nello stesso momento, all’ospedale Sfântul Pantelimon di Bucarest, anche Nicoleta Radu perdeva il figlio, nato con parto cesareo, ucciso da un altro batterio multi-resistente di tipo Klebsiella. Secondo i medici le sarebbe stato trasmesso dalla madre ma Nicoleta non ci crede. “Sono stata seguita per tutta la gravidanza e tutto andava bene”, spiega, convinta che il figlio abbia contratto il batterio nell’ospedale Sfântul Pantelimon. Un ospedale che sarebbe “conosciuto per ospitare il batterio Klebsiela” afferma Vasile Barbu, presidente dell’Associazione nazionale dei pazienti. “Dopo la morte di mio figlio sono arrivati dei dottori ed hanno disinfettato tutto e preso dei campioni. Eravamo tutti scioccati. Sembrava cercassero di nascondere qualche cosa”, racconta Nicoleta.

Quello che “cercavano di nascondere” è senza dubbio l’ampiezza delle infezioni contratte negli ospedali della Romania. I batteri sono organismi viventi che negli ospedali subiscono forti pressioni selettive come conseguenza dell’utilizzo massiccio di disinfettanti e antibiotici. Le specie più deboli muoiono ma le più resistenti sopravvivono, mutano e si propagano. E divengono più pericolose. Un batterio viene chiamato multi-resistente quando resiste a più famiglie di antibiotici. È per non accelerare questo processo di selezione naturale dei batteri che in Francia si pubblicizza lo slogan “L’antibiotico, non è automatico”. In effetti la multi-resistenza può portare all’impasse terapeutica. I ricercatori temono infatti la nascita di “supergermi”, microorganismi resistenti ai medicinali conosciuti e potenzialmente devastanti, che potrebbero quindi causare terribili epidemie.
La tragedia del Colectiv

Ogni anno quasi quattro milioni di rumeni entrano in ospedale ed è proprio a seguito dei ricoveri ospedalieri che si propaga questo tipo di infezioni. Elena Copaciu è professoressa presso l’Università di medicina Carol Davila. Ci riceve tra due visite ambulatoriali che effettua presso una clinica privata dove lavora. È stata in passato capo-anestesista dell’unità di cure intensive dell’Ospedale universitario di Bucarest. “Gli epidemiologi controllano la situazione da più di vent’anni ed hanno visto i germi divenire sempre più resistenti. L’Oms ha redatto una lista dei batteri multi-resistenti più pericolosi e purtroppo noi, nel nostro quotidiano, ne incontriamo parecchi”, afferma. Una minaccia molto seria per la Romania che quindi “deve assolutamente partecipare allo sforzo mondiale per limitare la propagazione di queste specie”.

È con la tragedia del Colectiv, nel 2015 e con lo “scandalo Hexipharma” che ne è seguito che la questione è arrivata alla luce del giorno. I neonati e le persone anziane sono i più vulnerabili, ma chi ha subito ustioni lo è ancora di più: le ustioni permettono ai batteri di entrare nel corpo umano. Tra i 65 morti dell’incendio nella discoteca di Bucarest, il 31 ottobre del 2015, più della metà sono decedute all’ospedale non a seguito delle ferite ma per infezioni contratte proprio durante il ricovero.

È evidente che molte altre persone morivano negli ospedali rumeni anche prima di questa tragedia ma nessuno sembrava accorgersene. Da qualche anno l’Unità di cure intensive (ICU) per le bruciature e la chirurgia plastica dell’ospedale Arşi a Bucarest sembra a volte, secondo le parole di Comelia Roiu, dottoressa anestesista “una valle della morte”. “Sapete qual è il tasso di mortalità all’ICU?” Ha chiesto una volta al direttore generale dell’ospedale, attualmente ancora in carica. “Sì, del 90%”. “E vi lascia indifferente?”. Quest’ultimo avrebbe alzato le spalle e se ne sarebbe andato senza rispondere. Un segno di disinteresse, abbandono o sconfitta?

Mentre i feriti del Colectiv, sopravvissuti all’incendio, morivano in ospedale, il ministro della Salute dell’epoca, Nicolae Bănicioiu (Partito socialdemocratico) assicurava che gli ospedali rumeni possedevano “tutto quanto era necessario” ed offrivano condizioni sanitarie “simili a quelle della Germania”. Alcuni giornalisti rumeni allora hanno cercato di comprendere meglio la situazione. Ed è scoppiato uno scandalo sanitario: l’affare “Hexipharma” prende il nome dal produttore di prodotti per l’igiene che vendeva agli ospedali disinfettanti diluiti con l’acqua. Tra il 2010 e il 2016 la Hexipharma avrebbe “indotto all’errore” 340 ospedali sui 554 del paese. In Romania sono i direttori d’ospedale che firmano i contratti d’acquisto e non vi è alcuna autorità indipendente che controlla i prodotti utilizzati.

Hexipharma non è la sola azienda coinvolta e molte altre si sarebbero infilate nel vuoto di controllo da parte delle autorità statali. Una settimana dopo la pubblicazione del primo articolo sulla frode di Hexipharma, è stata aperta un’inchiesta giudiziaria su Dan Condrea, proprietario dell’azienda. Tre settimane più tardi, il 26 maggio del 2016, quest’ultimo è morto in un incidente stradale. Il processo Hexipharma è tutt’ora in corso.
Dati falsati

Ma in questo scandalo legato alla corruzione, è tutto il sistema che viene tirato in causa. Dopo il Colectiv, le autorità hanno finalmente avviato controlli negli ospedali di Bucarest: secondo queste indagini meno dell’1% dei pazienti ospedalizzati erano portatori di uno o più batteri all’uscita dall’ospedale. Un risultato sorprendente dato che la media europea è del 5,7%. E allora in Romania qual è la cifra vera: 10, 15, 20%? Di più? “Impossibile saperlo perché i dati ufficiali sono falsi, il fenomeno è largamente sotto-stimato”, continua Elena Copaciu. “si riporta ciò che abbiamo trovato e non ciò che non abbiamo trovato”, si difende Adina Enescu, direttrice medica dell’ospedale di Pitești. Dicendolo in altro modo: perlomeno si chiudono gli occhi, se non si camuffa consapevolmente il problema.

Camelia Roiu rifiuta questa politica dello struzzo. Dopo aver allertato il suo direttore medico ha informato della questione anche la direttrice dell’ospedale che le ha risposto che non era un suo problema. Dopo aver seguito tutte le strade interne si è quindi rivolta alla stampa ed è divenuta una whistleblower. Nel dicembre 2015 ha contattato il giornalista Cătălin Tolontan, autore dell’inchiesta su Hexipharma. Ora è stanca da anni di lotta ed è recalcitrante nell’incontrare giornalisti. Camelia Roiu ha anche provato, qualche anno fa, di partire per lavorare in Francia ma vi ha trovato un’accoglienza “fredda” e non se l’è sentita di proseguire con quello sradicamento. È resistita un mese ed è poi rientrata in Romania dove ha continuato nel suo posto di anestesista presso l’Unità di cure intensive dell’Ospedale Arşi.

Da anni Camelia Roiu denuncia l’indolenza, la disumanizzazione e la mancanza di professionalità dei medici che non rispettano sistematicamente i protocolli di igiene di base come quello di lavarsi le mani prima di toccare i pazienti o di portare la mascherina. “Siamo noi, i medici, i primi colpevoli. Molti la pensano come me ma sono dei vigliacchi, seguono i loro interessi, dicono che tengono famiglia, figli da crescere e che hanno bisogno del loro lavoro. Sono abituati al compromesso, alle piccole bustarelle... Preferiscono mantenere lo status quo, non vogliono cambiamenti, non vogliono scandali. Che i malati muoiano o sopravvivano, se ne fregano”.

Si trattava di un caso molto particolare, ma come è potuto accadere? “Le mosche - spiega Camelia Roiu - entrano dalle finestre, si posano sui pazienti e depongono loro uova dopo aver messo le zampe dappertutto”. Possono entrare dalla finestra o dai sistemi di ventilazione. L'ospedale Arşi è stato costruito cent'anni fa. Numerosi altri ospedali del paese hanno almeno 60 o 70 anni. Nessun ospedale nuovo è stato costruito dalla caduta del comunismo nel 1989, ci si è limitati a ristrutturare. Nel 2017 il budget dedicato al settore sanitario rappresentava il 4,6% del Pil rumeno, corrispondente a 7,7 miliardi di euro.

Rispetto alle infezioni ospedaliere i prodotti disinfettanti sono poco efficaci perché i batteri sono ovunque: nei muri, nei sistemi di areazione. Servirebbe ricostruire questi edifici dal nuovo. “È una lotta eterna, una lotta per la sopravvivenza, non si deve lasciar perdere, altrimenti potrebbe accaderci qualcosa di veramente grave”, sottolinea Elena Copaciu. Si riferisce al giorno in cui questi super-germi usciranno dagli ospedali, divenendo fuori controllo e diffondendosi tra la popolazione.
Un sistema che non s'interessa dei singoli

Secondo la legislazione rumena segnalare infezioni ospedaliere è compito del medico responsabile del reparto in cui si sono verificate, poi del direttore sanitario ed infine del direttore dell'ospedale. Ecco perché i medici e i direttori degli ospedali sono “reticenti a riportare la corretta situazione” e perché nessuno conosce dati effettivi relativamente alle infezioni ospedaliere in Romania: temono di essere coinvolti in un procedimento giudiziario. “Fin tanto che la legge continuerà ad essere così il fenomeno sarà sottostimato”, afferma Elena Copaciu.

Di fatto un sistema che non s'interessa del destino dei singoli. Il ministero della Sanità Sorina Pintea (Socialdemocratici) ha recentemente denunciato “l'indolenza e la pigrizia” dei medici ed ha promesso che dopo l'aumento dei loro salari saranno sottomessi a valutazioni più severe. Cosa promessa, cosa dovuta: a fine febbraio il governo ha aumentato il salario dei medici di circa 1000 euro. “Con questo aumento ci si aspetta servizi medici di migliore qualità ma se le strutture nelle quali lavoriamo non offrono buone condizioni, non sarà possibile”, chiarisce Victor Eşanu, presidente della Federazione dei sindacati dei medici della Romania. Rimane pertanto ancora più vantaggioso emigrare per esercitare all'estero, guadagnando di più e non dovendo condividere le responsabilità di un sistema che sta affondando. Ogni anno 3000 nuovi medici arrivano sul mercato del lavoro e 3500 lasciano il paese.

“Il ministero della Salute non coordina gli sforzi, i vari progetti non hanno sostenibilità, nessuno si appoggia su professionisti per determinare le direttive. A volte i ministri non capiscono appieno le richieste degli esperti. Si sono alternati 27 o 28 ministri della Salute dal 1989 e, ogni volta, i progetti del predecessore vengono abbandonati. I funzionari si adeguano ad ogni ministro entrante”, continua Elena Copaciu, che denuncia in modo diplomatico il pressapochismo e la polarizzazione presente all'interno delle istituzioni sanitarie.

Camelia Roiu lo dice in termini meno diplomatici: “I direttori degli ospedali sono di nomina politica e spesso non hanno le competenze adeguate per l'incarico che ricoprono. La formazione per il management ospedaliero consiste in un corso di tre mesi, io l'ho frequentato, è una presa in giro. Queste persone sono nominate solo per favorire contratti con determinate aziende legate al partito. Se il sistema continuerà ad essere controllato politicamente, non vi sarà alcun miglioramento. Nemmeno il governo tecnocratico di Dacian Cioloș, arrivato al potere dopo le dimissioni del gabinetto Ponta, a seguito della tragedia del Colectiv, non ha cambiato nulla. Io ci speravo, ma non è accaduto nulla”, continua Camelia Roiu. Ciononostante è proprio sotto l'impulso del ministro della Salute “tecnocratico” Achimaș-Cadariu, nel 2016, che è stato implementato un “Piano nazionale di sorveglianza per le infezioni ospedaliere”. Nessuno sa, due ministri della Salute più tardi, se è ancora in vigore o meno.
«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #54 il: Marzo 20, 2018, 19:59:40 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/La-Bosnia-Erzegovina-si-svuota-186646

Citazione
La Bosnia Erzegovina si svuota

In Bosnia Erzegovina è in atto una continua fuga di persone verso l'estero. Le Ong denunciano, le autorità si tappano le orecchie
15/03/2018 -  Dženana Karabegović   

(Pubblicato originariamente da Radio Slobodna Evropa , selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans e OBCT)


35.000 persone avrebbero lasciato la Bosnia Erzegovina nei primi dieci mesi del 2017. La Bosanska Posavina sarebbe la regione più colpita dall'esodo. Le destinazioni principali sarebbero Germania, Austria, Svezia e Svizzera. Secondo Mirhunisa Zukić, presidentessa dell'associazione "Unione per un ritorno sostenibile in BiH ", denuncia che le autorità stanno sottostimando il fenomeno e non fanno nulla per arginarlo.

A fine 2017 l'organizzazione che presiede, l'Unione per un ritorno sostenibile, ha annunciato che più di 150.000 persone avevano abbandonato la Bosnia Erzegovina nel corso degli ultimi quattro anni, di questi 11.000 originari di una sola regione, la Posavina, e negli ultimi dieci mesi. La situazione in questa regione nel nord della Bosnia è la più allarmante?

Noi studiamo da cinque anni il fenomeno dell'emigrazione dei cittadini della Bosnia Erzegovina. I nostri dati, che ci rivelano la partenza di 151.000 persone, sono stati raccolti sul campo, presso le comunità locali. Volontari lo hanno fatto porta a porta. Anche le autorità locali hanno condiviso con noi i loro dati. Purtroppo molte persone non informano le autorità della loro partenza, vanno all'estero tre o quattro mesi, poi ritornano un po' e poi lasciano il paese per sempre. Noi seguiamo continuamente questi movimenti complessi.

Dopo che avete reso pubblici questi dati alcuni rappresentanti locali hanno espresso le loro perplessità affermando che non corrispondono alla realtà delle singole municipalità. Cosa rispondete?

Ai tempi della nostra inchiesta ci siamo resi conto che le autorità locali sono impotenti rispetto a questo fenomeno e che non erano in possesso di dati adeguati. Siamo rimasti sorpresi nell'apprendere quando poco sapessero relativamente alla migrazione dei loro concittadini.

Alcuni ci hanno poi richiesto i dati che avevamo raccolto e li hanno verificati sul terreno con propri funzionari. Ma non si è nemmeno tentato di elaborare una strategia per mettersi in relazione con queste persone che sono tentate dalla partenza e nemmeno sono state fatte loro proposte per convincerli a restare, ad esempio iniziando a realizzare tutte le promesse fatte nelle varie campagne elettorali...

Hanno incassato la botta, ma senza provare a impedire alla gente di fare le valigie. Noi abbiamo offerto loro il nostro aiuto per mettersi in contatto con chi è tentato dalla migrazione, ma nessun sindaco ha risposto all'offerta.

Quali le principali cause di partenza? Molti di coloro che partono avevano un lavoro...

Quasi ad un quarto di secolo dopo la fine della guerra nulla cambia nel nostro paese: che si tratti dell'incertezza economica, della corruzione, delle tensioni politiche. I cittadini sono affaticati e stufi di promesse. Noi tentiamo, da parte nostra, di mostrare esempi positivi e di dire che è possibile vivere in Bosnia Erzegovina, restarci.

Avete dichiarato che i principali responsabili di questa situazione sono i politici ed avete inviato una lettera ai membri della presidenza tripartita della Bosnia Erzegovina affinché facciano visita alla vostra associazione nella regione della Bosanska Posavina, la più toccata dal fenomeno. Avete ottenuto risposta?

Abbiamo scritto ai tre membri della presidenza, abbiamo loro inviato la lista completa di tutte le municipalità e tutte le partenze ma, da parte loro, nessuna risposta, né scritta né orale. Ritengo questo silenzio inammissibile e che gli elettori ne terranno conto alle prossime elezioni. Spero che alla fine questi politici vengano sanzionati dall'elettorato perché, come ci dice la gente che incontriamo, quello che fanno questi politici non corrisponde alla volontà dei cittadini.

Occorrerebbe dedicare una sessione speciale del parlamento della Bosnia Erzegovina alla questione emigrazione. Ma cosa possono fare i politici per cambiare direzione al flusso?

Molto. Ma sono in grado i nostri politici di fare qualcosa? Ce lo dimostrino! Occorre sviluppare presso la popolazione una coscienza collettiva del problema, fornire spiegazioni. Ma l'ossessione del mantenere il potere accieca i nostri politici.


Citazione
Drazana Stefanovic Poletan • 5 giorni fa

Quella regione perché molte persone hanno ottenuto passaporto croato essendo nati dal altra parte di fiume Sava, andrebbero via anche dal altre città o regioni ma hanno poche possibilità. 9 su 10 giovani vogliono andare via dalla bosnia.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #55 il: Marzo 20, 2018, 20:04:02 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Infrastrutture-i-Balcani-colmeranno-il-gap-186559

Citazione
Infrastrutture: i Balcani colmeranno il gap?

Autostrada in Albania - Marjola Rukaj

Infrastrutture insufficienti o obsolete, stati senza risorse che non possono finanziare grandi progetti. Un rapporto FMI segnala un'impasse, senza individuare soluzioni possibili
16/03/2018 -  M. Obradović   

(Pubblicato originariamente da Danas , selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans e OBCT)

Il livello di reddito medio dei sei paesi dei Balcani occidentali (Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Macedonia, Montenegro e Serbia) corrisponde al 30% di quello dell’Unione europea. Non solo siamo in ritardo, ma il gap si riduce molto lentamente: del -12% dal 2000 ad oggi, con una stagnazione quasi totale dall’inizio della crisi economica mondiale nel 2008. Un ritardo che è possibile spiegare in gran parte con la mancanza di infrastrutture stradali, ferroviarie o energetiche e con il cattivo stato di quelle esistenti.

In febbraio il Fondo monetario internazionale (FMI) ha reso pubblico, a proposito, un rapporto sottolineando che le carenze nelle infrastrutture stradali limitano in modo considerevole l’accesso dei produttori e consumatori dei Balcani occidentali ai mercati sia internazionali che nazionali. Anche la scarsa affidabilità delle strutture di approvvigionamento energetico e idrico avrebbe contribuito, secondo l'FMI, a ridurre le capacità produttive, scoraggiando gli investitori esteri. Secondo il Rapporto sulla competitività mondiale per gli anni 2016/2017 il posizionamento medio dei paesi della regione è attorno all’85mo posto su 138 paesi presi in considerazione.

Investimenti pubblici in infrastrutture avrebbero effetti rilevanti sia nel corto che nel lungo termine. Potrebbero infatti garantire un innalzamento immediato della domanda attirando investitori stranieri. Più a lungo termine determinano un aumento dei livelli di produzione direttamente correlato all’efficacia dei progetti infrastrutturali stessi. Infine, se i finanziamenti a questi progetti sono equilibrati, è possibile che non impattino in modo negativo sul livello del debito pubblico. Ciononostante se le istituzioni sono deboli, se i governi sono poco efficaci e se la corruzione causa spese inutili e scelte sbagliate di utilizzo delle risorse pubbliche, i costi di queste infrastrutture possono divenire rilevanti.
Raccomandazioni FMI

Il documento dell’FMI si focalizza sulla buona gestione dei progetti infrastrutturali e formula una serie di raccomandazioni. Gli autori del rapporto rilevano che progetti per i quali esistono finanziamenti internazionali rimangono irrealizzati mentre a volte i governi dei Balcani insistono nel mettere a budget progetti attualmente irrealizzabili. Si sottolinea inoltre che a volte entrano in concorrenza tra loro istituzioni pubbliche diverse e comunque queste ultime si coordinano tra loro sempre in modo insufficiente. Viene sottolineato che anche il coordinamento tra autorità centrale e autorità locali è troppo debole.

Anche quando il quadro legislativo è adeguato, spesso non viene rispettato e non esiste alcuna procedura di monitoraggio e controllo delle performance finanziarie dei progetti e dei programmi di investimento delle istituzioni pubbliche. Gli autori del documento dell’FMI concludono affermando che la scelta sui progetti infrastrutturali dovrebbe essere “meglio protetta” dalle influenze politiche.

Ciononostante, dal 2007, si può notare un’accelerazione degli investimenti pubblici nella regione, spesso a seguito di iniziative internazionali, pur rimanendo lo stato delle infrastrutture pubbliche deficitario e ben al di sotto della media europea, in particolare strade e ferrovie, queste ultime all’abbandono da anni. Ad eccezione di Serbia e Bosnia Erzegovina, tutti i paesi dell’area hanno problemi di approvvigionamento energetico.

Per quanto riguarda le infrastrutture i Balcani occidentali si situano attorno al 50% della media europea. In questo contesto la messa meglio sarebbe la Serbia, con un ritardo di -30% rispetto alla media Ue mentre fanalino di coda è l’Albania con un -70%. Un ritardo che i paesi dei Balcani occidentali hanno anche rispetto ai paesi dell’Europa centrale o ai paesi baltici. Gli investimenti attuali sono insufficienti per colmare il gap.
Rischio indebitamento

Negli ultimi 15 anni gli investimenti infrastrutturali dei paesi della regione sono stati in media del 6% del Pil. Una media che può portare ad errori di valutazione dato che ad esempio la Serbia è in fondo alla lista e mette a disposizione solo il 3% del suo Pil per investimenti infrastrutturali mentre la Bosnia è in cima alla classifica dedicandovi l’8%. Anche se il valore capitale degli investimenti infrastrutturali è raddoppiato in 15 anni, a questo ritmo servirà aspettare 33 anni affinché i Balcani occidentali raggiungano l’attuale livello Ue.

Nei fatti, la possibilità di investire sono limitate dall’alto livello di debito pubblico di tutti i paesi della regione. Bosnia Erzegovina e Macedonia sono in parte risparmiati dal problema, ma in Serbia, Albania e Montenegro il debito pubblico supera il 65% del Pil e questo rende questi paesi fragili secondo i parametri del FMI. “I paesi troppo indebitati avranno problemi a finanziare il loro progetti infrastrutturali senza adeguamenti fiscali”, sottolineano gli esperti del FMI che si interrogano anche sulle possibilità di ricorso a partenariati pubblico-privato.

Il documento conclude che il settore bancario e il risparmio nazionale di questi paesi sono ancora troppo deboli per finanziare progetti infrastrutturali dai costi elevati e che comunque il credito rappresenta la sola e unica fonte di finanziamento malgrado il rischio congenito di aumentare il debito pubblico. E per il FMI non si può che guardare alle istituzioni finanziarie internazionali.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #56 il: Marzo 20, 2018, 20:12:19 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Bosnia-e-Serbia-le-infrastrutture-mancate-170178

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Bosnia e Serbia: le infrastrutture mancate

Gli abitanti di Glogonj riempiono le bottiglie dalla cisterna (foto CINS)

Serbia e Bosnia Erzegovina negli ultimi sette anni e mezzo hanno sprecato più di 47 milioni di euro in penali su crediti non utilizzati per importanti progetti infrastrutturali mai realizzati
19/04/2016 -  Dino Jahić ,  Vladimir Kostić

(Originariamente pubblicato da CINS , il 15 aprile 2016. Titolo originale: Poreski obveznici na dvostrukom gubitku zbog neodgovorne vlasti )

È una fredda mattina di novembre a Glogonj, piccolo villaggio mezzo addormentato distante più o meno un'ora di macchina da Belgrado. Questa è una regione pianeggiante della Serbia, rinomata per le coltivazioni di cavolo cappuccio e per le tracce di arsenico nell'acqua.

Gli abitanti del posto hanno riempito bottiglie e taniche d'acqua dalla cisterna posizionata di fronte all'edificio del comune. E' la loro quotidianità da quando, nel giugno scorso, l'acqua di colore giallastro che usciva dai rubinetti delle case è stata dichiarata non potabile.

"Fino a quando non è arrivata la cisterna, l'acqua la dovevamo comprare", afferma Boban Mitić, riempiendo una bottiglia d'acqua. "Adesso, un po' la compriamo e un po' beviamo quella della cisterna".

Nel frattempo a Glogonj è stata costruita una fontana pubblica, come soluzione temporanea, ma l'acqua è tuttora contaminata.
Prestiti ottenuti, penale pagata e treni mai utilizzati

Il governo della Bosnia Erzegovina ha ricevuto un prestito dalla BERS per il rinnovo della rete ferroviaria in entrambe le Entità il cui valore è di 70 milioni di euro, e per il quale fino alla fine del 2014 sono stati pagati 1,33 milioni di euro di penale. Il termine per la conclusione del progetto era stato inizialmente fissato per la fine del 2011, ma è stato prorogato diverse volte - e stando alle informazioni ottenute dai giornalisti del CINS - il progetto dovrebbe essere concluso entro la fine del 2016.

Dragan Ćalović, direttore dell'Unità per l'implementazione dei progetti della società pubblica delle ferrovie bosniache, afferma che la realizzazione ha subito rallentamenti a causa di una lunga procedura d'appalto - la scelta dell'esecutore dei lavori per la sistemazione dei binari è durata circa 15 mesi, e c'è stato un ritardo anche nel produrre la documentazione del progetto.

Ćalović spiega che ad un certo punto è stato deciso che per il progetto sarebbero stati spesi meno soldi di quanto inizialmente previsto, quindi con la BERS sono state concordate le modifiche al progetto, il ché ha allungato i tempi per la sua ultimazione e per il pagamento delle penali.

Un progetto per la ferrovia in Bosnia Erzegovina che è diventato inglorioso.

La società che gestisce le ferrovie della Federazione ha ottenuto il prestito per l'acquisto di nove serie di vagoni Talgo, dell'importo di 67,63 milioni di euro, che è stato utilizzato alla fine nel 2013. Il prestito era stato concesso dal governo della Spagna, ed era stata pagata una penale poco più alta di 60 mila euro. L'intero progetto è stato un fiasco totale: i treni con i vagoni Talgo non sono mai stati utilizzati, perché non sono affatto compatibili con i binari presenti in Bosnia Erzegovina. Il caso dell'acquisto di questi treni al momento si trova sotto inchiesta da parte della Procura del Cantone di Sarajevo.

L'acqua non potabile di Glogonj è solo uno dei problemi infrastrutturali che accomuna Serbia e Bosnia Erzegovina, e che le autorità avrebbero dovuto risolvere con fondi provenienti da prestiti di banche internazionali per lo sviluppo e da governi di altri stati.

Come già avvenuto in passato, i soldi non sono però stati spesi in tempo. I problemi sono rimasti irrisolti e i cittadini pagano un prezzo doppio: non ricevono i servizi che spettano loro e poi il denaro deve essere restituito alle banche creditrici, dato che lo stato non ha utilizzato i finanziamenti in tempo utile.

Dall'inizio del 2008 fino al giugno del 2015, la Serbia ha speso addirittura 35,2 milioni di euro in penali a causa dell'inutilizzo di denaro proveniente da prestiti, mentre la Bosnia Erzegovina per lo stesso motivo ha speso 12,4 milioni di euro. Lo dimostrano i dati forniti dal Centro per il Giornalismo d'Inchiesta della Serbia (CINS).

47,6 milioni di euro che potevano ad esempio essere utilizzati per fornire 35,8 milioni di pasti per gente bisognosa nelle mense popolari di Belgrado, oppure assicurare il funzionamento della mensa popolare di Tuzla per un periodo di 44 anni, se si prendono in considerazione i costi evidenziati dai gestori di queste mense e dai rappresentanti delle autorità locali.

"Questi sono soldi buttati", afferma l'economista bosniaco Erol Mujanović. "Queste cifre dimostrano che lo stato si è occupato di qualcosa non essendo però in grado di garantire un risultato - oppure era all'altezza ma non voleva, ovvero non poteva, portare a termine il progetto". "Torniamo alla politica o alla corruzione. O ad entrambi", aggiunge Mujanović.
L'utilizzo a rilento del denaro

Il villaggio di Glogonj non è che un piccolo esempio dell'inefficienza che caratterizza i progetti pubblici nei Balcani.

Questo villaggio ricade sotto l'amministrazione di Pančevo, ma il problema con l'acqua doveva essere risolto con il prestito proveniente dalla banca per lo sviluppo tedesca KfW. Un totale di 25 milioni di euro era destinato all'organizzazione dell'approvvigionamento idrico e della rete fognaria dei comuni di media grandezza in Serbia. A Pančevo spettavano tre milioni di euro.

Stando alle condizioni dettate dal contratto per il prestito, il denaro doveva essere utilizzato per intero entro la fine del 2016. Fino a giugno 2015 era stata spesa appena la metà dei soldi totali, e la Serbia ha dovuto pagare 286 mila euro per il mancato utilizzo del denaro.

Questa penale, definita come "commitment fee", riguarda molti prestiti per progetti di sviluppo, e non ricade tra i tassi d'interesse. Il suo importo dipende innanzitutto dal volume del prestito e dal modo in cui viene impiegato - i progetti vengono infatti realizzati gradualmente e di conseguenza il denaro viene impiegato in modo cadenzato. Questa tariffa si paga per le parti di prestito inutilizzate, e se il prestito non viene utilizzato entro il termine stabilito, ne consegue che, se si superano i termini, una parte del denaro non potrà affatto essere utilizzata.

Nel caso di Glogonj, il progetto è ad un punto morto sin dal principio.

Dal 2010, il direttore dell'azienda pubblica "Acquedotto e rete fognaria di Pančevo", che doveva garantire agli abitanti l'approvvigionamento di acqua pulita, è stato sostituito addirittura sei volte. Inoltre, i contrasti irrisolti riguardanti i rapporti di proprietà dei terreni hanno ostacolato la costruzione del nuovo acquedotto, con il quale doveva prendere avvio l'intero progetto.

"La costruzione del nuovo acquedotto è stata interrotta in quanto era stato verificato che dal 2005 al 2015 abbiamo razionalizzato talmente tanto il riduzione del consumo che il progetto iniziale non è più adatto", afferma Aleksandar Radulović, che ha ricoperto la funzione di direttore di quest'azienda fino a luglio 2011, per esser poi nuovamente nominato alla direzione nel settembre 2015.

Stando a quel che dice Radulović, i cambi frequenti ai vertici dell'azienda hanno sì contribuito a rallentare lo sviluppo dell'intero progetto, ma non in modo considerevole.

Sono numerosi i motivi per cui Serbia e Bosnia Erzegovina ritardano nella realizzazione di importanti progetti infrastrutturali: le lentezze burocratiche, le lunghe procedure che riguardano gli appalti, la mancanza della documentazione progettuale, la politicizzazione delle attività professionali, la mancanza di progettazione, i problemi con gli espropri della terra, il cattivo controllo sugli addetti ai lavori, le continue proroghe dei termini ecc.

"Il commitment fee è un male necessario, non si può evitare", afferma Edin Tokić dal ministero della Finanza della Bosnia Erzegovina. Aggiungendo anche che non esistono molti modi attraverso cui ottenere i finanziamenti per i progetti infrastrutturali ed è per questo motivo che lo stato deve accettare le regole imposte da chi fornisce il denaro.

Svitlana Pyrkalo, portavoce della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS), afferma che tali tariffe sono una consuetudine nei progetti di sviluppo seguiti dalla banca, la quale in questo modo può coprire le proprie spese operative.

Tra i creditori che applicano questa tariffa ci sono la BERS, la banca per lo sviluppo tedesca KfW, la Raiffeisen Bank, i governi dei singoli paesi ed altre istituzioni. Come spiega Svitlana Pyrkalo, "queste penali rappresentano un incentivo ai clienti, in questo caso i governi, affinché utilizzino il denaro dei prestiti entro i termini stabiliti".
Milioni di euro per progetti che riguardano i trasporti

Evidentemente, tali incentivi non sono serviti a Serbia e Bosnia Erzegovina, dove il tasso di disoccupazione è rispettivamente del 18 e 28 per cento, e il prodotto interno lordo è tra i più bassi d'Europa.

I giornalisti del CINS hanno fatto richiesta per ottenere maggiori informazioni ai ministeri della Finanza dei due paesi, e dopo aver analizzato centinaia di pagine di documentazione ufficiale hanno scoperto che in decine di casi i governi erano in ritardo con la realizzazione dei progetti infrastrutturali, spesso per colpa di una cattiva progettazione.

Di conseguenza, in quei paesi in cui ogni dinaro, marco o euro può fare la differenza, il denaro non speso proveniente dalle istituzioni creditrici è stato restituito utilizzando i soldi pubblici dei contribuenti.

Il governo ha dovuto restituire milioni di euro che erano destinati a progetti per la costruzione di strade e centrali elettriche, per l'ammodernamento del sistema sanitario, dell'istruzione e per l'agricoltura, nonché per l'approvvigionamento idrico, il rinnovo della rete ferroviaria, e tanti altri progetti.

In entrambi i paesi, la maggior parte dei finanziamenti è stata indirizzata ad infrastrutture e trasporti.

Dall'inizio del 2009 alla fine del 2014, per soli sei progetti di costruzione e manutenzione delle strade in Bosnia sono stati versati ben 5,79 milioni di euro di penale, ovvero l'1,4 per cento del totale dei fondi destinati a quegli stessi progetti.

La Serbia, invece, negli ultimi sette anni e mezzo ha dovuto pagare 13 milioni di euro in penali per i finanziamenti diretti alla costruzione delle strade, ovvero l'1,1 per cento dei fondi concessi.

Osman Lindov, professore alla facoltà di ingegneria civile dell'Università di Sarajevo, afferma che in Bosnia Erzegovina i progetti esistono, ma le istituzioni competenti non sono in grado di realizzarli, soprattutto a causa della poca esperienza e scarsa preparazione delle persone incaricate di portare avanti i lavori, che non capiscono che senza una buona rete stradale non ci può essere sviluppo economico.
Corridoi

Il ritardo nella costruzione del Corridoio Vc è costato 3,76 milioni di euro alle casse della Federazione di Bosnia Erzegovina (FBiH - una delle due entità in cui è diviso il paese). L'inizio dei lavori per il progetto di 209 milioni di euro finanziato dalla BERS era fissato per il 2009. Il credito concesso doveva essere impiegato entro il 2012, ma il termine è stato poi prorogato di altri due anni.

Per la realizzazione del progetto era stata incaricata la società "Autoceste FBiH", che esiste appena dal 2011. Nella risposta in forma scritta indirizzata ai giornalisti del CINS affermano che in precedenza il progetto era gestito da parte del ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture della FBiH, il che aveva rallentato le tempistiche nell'utilizzo del denaro.

Il Corridoio Vc è il tratto bosniaco del Corridoio 5, e i lavori di costruzione sono stati caratterizzati da diversi problemi, come non aver inserito nel progetto il tratto finale del corridoio, inoltre in uno dei cantieri, il direttore principale dei lavori è stato sostituito per ben tre volte.

La procura di Bosnia Erzegovina dal 2013 ha avviato l'esame del pagamento delle penali e dei prestiti non utilizzati per la costruzione delle infrastrutture stradali nel paese, a partire da quelli destinati alla costruzione del Corridoio Vc.

La procura si è rifiutata di rispondere alle domande dei giornalisti del CINS circa lo status dell'inchiesta.

In Serbia, per la costruzione del  Corridoio 10 nel sud del paese, tra Niš e Dimitrovgrad, sono stati restituiti, a causa di inutilizzo, 3 dei 150 milioni di euro del prestito concesso dalla BERS. Il contratto era stato firmato nel settembre del 2009 e i lavori dovrebbero terminare entro la fine del 2016. Fino al giugno dell'anno scorso era stato impiegato appena un terzo dei soldi concessi.

Relativamente al 2015, stando alle indagini condotte dal Consiglio Fiscale, l'organo statale indipendente predisposto al controllo della politica fiscale in Serbia, i lavori per la costruzione del Corridoio 10 si erano arrestati a causa di una cattiva gestione degli appalti pubblici e dell'espropriazione dei terreni. "Il fatto che vengano pagate delle penali per l'inutilizzo del prestito significa che i contribuenti pagano di tasca propria a causa di incurie delle istituzioni statali", afferma Vladimir Vučković, membro del Consiglio Fiscale.
L'incuria del governo e il problema della politicizzazione

Nel settembre del 2010, in piena campagna elettorale, l'allora Presidente della FBiH, nonché leader dell'HDZ-BIH Borjana Krišto, ha inaugurato l'apertura dei lavori per la costruzione del parco eolico nei pressi di Mesihovina, in Erzegovina.

Il prestito di 71 milioni di euro, concesso dalla banca tedesca per lo sviluppo KfW, era stato affidato alla compagnia pubblica "Elektroprivreda Hrvatske Zajednice Herceg Bosne Mostar". Il progetto prevedeva che i lavori terminassero entro il 2013, ma il termine è stato prorogato per due volte. L'inizio della produzione di energia elettrica è prevista per la fine del 2017.

L'intreccio di competenze tra tutti i livelli statali, le lungaggini burocratiche e l'enorme quantitativo di documenti che dovevano essere forniti dalle istituzioni - tutte consuetudini per il sistema bosniaco - sono solo alcuni dei motivi che hanno portato al ritardo nei lavori.

Tra le altre cose, il fornitore degli impianti è stato selezionato appena lo scorso marzo.

Fino al 2014 erano stati pagati 768 mila euro di penali - e al momento non è stata costruita nemmeno una pala eolica.

Anche quest'azienda non ha accettato di parlare con i giornalisti del CINS.

In Serbia, una parte dei 150 milioni di euro concessi dalla BERS destinati all'azienda pubblica "Srbijagas" doveva essere utilizzata per la costruzione di un impianto di stoccaggio del gas a Itebej, in Vojvodina. Il progetto è rimasto a un punto morto per anni a causa di irrisolti problemi circa la proprietà dei terreni e per altri problemi legati all'esproprio di queste terre, come si evidenzia nel rapporto sugli investimenti pubblici redatto dal Consiglio Fiscale.

L'impianto di stoccaggio del gas rientrava nel progetto del gasdotto "South Stream", che comprendeva il trasporto di gas dalla Russia verso i Balcani e quindi in Austria. Sino a quando la Russia non ha deciso di abbandonare il progetto del gasdotto nel 2014, la Serbia ha basato tutta la propria politica energetica proprio sul South Stream.

Per questo periodo, la Serbia ha dovuto sborsare dal proprio budget 2,5 milioni di euro a causa del mancato utilizzo del denaro.

Vučković, del Consiglio Fiscale, afferma che la contrattazione per il prestito è la parte più facile del lavoro e che il problema sorge quando bisogna investire il denaro e presentare un risultato. Aggiunge inoltre che gli errori delle autorità serbe sono avvenuti a tutti i livelli e in tutte le fasi della realizzazione del progetto: "Caratterizzato da un comportamento inadatto, inefficiente e poco credibile, così come dall'assenza di senso di responsabilità per gli impegni presi".

A Glogonj, mentre le autorità locali cercano di ripulire l'acqua dall'arsenico, gli abitanti sono costretti ad arrangiarsi come riescono. Questi affermano che i problemi con l'acqua esistevano anche prima ma che solo adesso è stata dichiarata non potabile.

L'arsenico rientra tra le 10 sostanze chimiche peggiori che l'Organizzazione Mondiale della Sanità classifica come dannose per la salute pubblica. L'arsenico viene descritto come estremamente tossico e si ritiene che un prolungato utilizzo di acqua contaminata da questa sostanza possa provocare diversi problemi alla pelle, così come tumori e quindi la morte. Può inoltre condurre a problemi cardiovascolari e al diabete.

I membri della famiglia di Mitar Đakovski bevevano sempre l'acqua del rubinetto, fino a quando una loro nipote ha cominciato ad accusare dolori allo stomaco. Da allora, comprano solo acqua in bottiglia, la cui spesa, come afferma Mitar, pesa sull'economia della famiglia.


Una bottiglia d'acqua da un litro e mezzo in Serbia costa un po' meno di 50 centesimi di euro, il ché non è poco, considerato che lo stipendio medio in Serbia è ufficialmente di 360 euro, anche se molti guadagnano molto meno.

"Io durante l'estate dovevo comprare sei litri d'acqua, tre volte al giorno", dichiara Đakovski.

Questo reportage rientra nel progetto finanziato dalle fondazioni Robert Bosch Stiftung e Thomson Reuters Fondation


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Prestiti ottenuti, penale pagata e treni mai utilizzati

Il governo della Bosnia Erzegovina ha ricevuto un prestito dalla BERS per il rinnovo della rete ferroviaria in entrambe le Entità il cui valore è di 70 milioni di euro, e per il quale fino alla fine del 2014 sono stati pagati 1,33 milioni di euro di penale. Il termine per la conclusione del progetto era stato inizialmente fissato per la fine del 2011, ma è stato prorogato diverse volte - e stando alle informazioni ottenute dai giornalisti del CINS - il progetto dovrebbe essere concluso entro la fine del 2016.

Dragan Ćalović, direttore dell'Unità per l'implementazione dei progetti della società pubblica delle ferrovie bosniache, afferma che la realizzazione ha subito rallentamenti a causa di una lunga procedura d'appalto - la scelta dell'esecutore dei lavori per la sistemazione dei binari è durata circa 15 mesi, e c'è stato un ritardo anche nel produrre la documentazione del progetto.

Ćalović spiega che ad un certo punto è stato deciso che per il progetto sarebbero stati spesi meno soldi di quanto inizialmente previsto, quindi con la BERS sono state concordate le modifiche al progetto, il ché ha allungato i tempi per la sua ultimazione e per il pagamento delle penali.

Un progetto per la ferrovia in Bosnia Erzegovina che è diventato inglorioso.

La società che gestisce le ferrovie della Federazione ha ottenuto il prestito per l'acquisto di nove serie di vagoni Talgo, dell'importo di 67,63 milioni di euro, che è stato utilizzato alla fine nel 2013. Il prestito era stato concesso dal governo della Spagna, ed era stata pagata una penale poco più alta di 60 mila euro. L'intero progetto è stato un fiasco totale: i treni con i vagoni Talgo non sono mai stati utilizzati, perché non sono affatto compatibili con i binari presenti in Bosnia Erzegovina. Il caso dell'acquisto di questi treni al momento si trova sotto inchiesta da parte della Procura del Cantone di Sarajevo.
«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #57 il: Marzo 20, 2018, 20:17:37 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/89028

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MACEDONIA: Il parlamento approva, l’albanese è lingua ufficiale del paese

Riccardo Celeghini 7 ore fa   

Lo scorso 14 marzo il parlamento della Macedonia ha approvato la nuova legge sull’uso delle lingue. Il testo, figlio dell’intesa tra il primo ministro Zoran Zaev e i partiti rappresentanti della comunità albanese, parte della coalizione di governo, eleva di fatto l’albanese a lingua ufficiale del paese, insieme al macedone. Nonostante il rifiuto del presidente della repubblica Gjeorge Ivanov di firmare la legge apra una crisi istituzionale tra governo e presidenza, gli albanesi possono esultare per il raggiungimento di un obiettivo a lungo inseguito, che punta a migliorare le relazioni tra le comunità all’interno del paese.

Il contenuto della legge

L’approvazione della legge era ormai attesa da tempo, essendo parte dell’accordo di coalizione tra i socialdemocratici di Zaev e i partiti della comunità albanese entrati nella compagine di governo. La legge, difatti, rappresenta un passo avanti consistente per quanto riguarda i diritti linguistici della comunità albanese, che costituisce, secondo il censimento del 2002, il 25% della popolazione della Macedonia. Alla lingua albanese erano state già garantite ampie tutele a seguito degli accordi di Ohrid del 2001, ma la messa in atto aveva mostrato diverse lacune.

Con il testo appena approvato, insieme al macedone, anche alla lingua parlata da almeno il 20% della popolazione (dunque, l’albanese) viene riconosciuto lo status di lingua ufficiale del paese. Prima di questa legge, tale status era valido solo nelle municipalità dove vivono gli albanesi, ma non a livello nazionale. La principale conseguenza di questo riconoscimento è l’obbligo per tutte le istituzioni statali di rapportarsi con i cittadini di etnia albanese nella loro lingua. Tale obbligo si riflette anche in parlamento, aprendo alla possibilità per i deputati di esprimersi in albanese. Un ispettorato sull’uso delle lingue si occuperà inoltre di monitorare l’applicazione della legge.

L’opposizione del presidente

La legge sull’uso delle lingue era stata già approvata dal parlamento a gennaio, ma era stata bloccata dal presidente della repubblica, proveniente dal partito conservatore oggi all’opposizione VMRO-DPMNE. Il secondo voto, quello di metà marzo, toglie però al presidente il potere di veto. L’annuncio di Ivanov di non voler comunque firmare la legge, dunque, viola la Costituzione e apre un ulteriore fronte di scontro con il governo a guida socialdemocratica, in carica da giugno 2017.

Le motivazioni presentate da Ivanov, secondo il quale la legge mina l’unità del paese favorendo una sola comunità, sono piuttosto deboli, e nascondono l’ultimo tentativo del partito che ha governato il paese nell’ultimo decennio di ostacolare l’esecutivo Zaev, come dimostrato dal tentativo dei deputati della VMRO, guidati dall’ex premier Nikola Gruevski, di togliere il microfono al presidente del parlamento per fermare il voto dell’aula. La stessa VMRO si è attivata per mobilitare i propri supporter in una serie di manifestazioni di piazza, nella speranza di mettere in difficoltà il governo.

Le prospettive future

Se il premier Zaev sarà in grado di respingere la forte reazione dell’opposizione e di superare lo scoglio dello scontro istituzionale con il presidente della repubblica, l’approvazione della legge può segnare un ulteriore rafforzamento dell’esecutivo, dato che consolida l’asse tra i socialdemocratici e i partiti della comunità albanese. Non a caso, lo stesso Zaev ha annunciato un rimpasto di governo nelle prossime settimane.

Il momento, d’altronde, è particolarmente delicato: la Macedonia è nel pieno dei negoziati con la Grecia per risolvere la ormai ventennale questione del nome. Se dopo aver migliorato i rapporti con la componente albanese della popolazione, il governo Zaev risolvesse la disputa con Atene, aprendo la strada verso l’adesione alla Nato e all’Unione europea, la Macedonia potrebbe davvero lasciarsi alle spalle i fantasmi del passato e guardare al futuro con ottimismo.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #58 il: Aprile 05, 2018, 19:35:17 pm »
Fosse accaduto in Italia, avremmo letto e ascoltato parole del tipo:
"Certe cose succedono solo in Italia".
Sì, infatti.

http://www.eastjournal.net/archives/89293

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RUSSIA: L’incendio di Kemerovo, fiera della negligenza

Maria Baldovin 9 giorni fa   

Sono ufficialmente 64 le vittime dell’incendio verificatosi in un centro commerciale di Kemerovo, città russa a circa 250 chilometri da Novosibirsk, in Siberia. Si tratta per la maggior parte di bambini, presenti in massa nella struttura, che ospitava numerose attrazioni, tra cui un cinema multisala, un parcogiochi e una pista di pattinaggio. L’incendio, la cui causa non è ancora stata accertata, è cominciato intorno alle 16 (ora locale) ed è divampato molto velocemente tra i diversi piani dell’enorme edificio. Una tragedia resa tale dalle caratteristiche dell’edificio stesso, uno scatolone grigio con poche finestre, costruito ignorando le misure di sicurezza, con un allarme antincendio non funzionante e alcune uscite di sicurezza bloccate. Una fiera della negligenza, che non ha mancato di far scoppiare polemiche e proteste di massa.

L’entità della tragedia rimane ancora sconosciuta. Sui social network, infatti, circolano cifre alternative rispetto a quelle riportate dai giornali e, secondo alcune speculazioni, le vittime potrebbero essere centinaia. Altre fonti riportano le denunce riguardo al tentativo delle autorità di nascondere il vero numero delle vittime. Nel frattempo, nella città di Kemerovo migliaia di persone si sono riversate per strada, chiedendo giustizia e le dimissioni del governatore locale Aman Tuleev. Al momento sono state arrestate e inquisite cinque persone, tra le quali il direttore tecnico della compagnia proprietaria dell’edificio e il capo dell’organizzazione che ha fornito gli allarmi antincendio. Tuleev si è scusato con Vladimir Putin per la tragedia avvenuta nella oblast’ di sua competenza, ringraziandolo allo stesso tempo di aver trovato il tempo di chiamarlo personalmente. Ai parenti delle vittime nessuno sembra ancora aver chiesto scusa. Neanche Putin stesso, volato a Kemerovo martedì mattina, ha presenziato alla manifestazione pubblica spontaneamente organizzatasi in città. Il neoeletto presidente russo, tuttavia, ha commentato l’accaduto definendo colpevole “una negligenza criminale” e ha indetto il lutto nazionale per il 28 marzo.

Nonostante le dimensioni (si parla di 23mila metri quadrati), il centro commerciale era stato definito una piccola impresa, quindi esente da controlli per i primi tre anni di attività, secondo una legge firmata nel 2015. Quest’ultima era stata una mossa molto popolare in favore delle piccole imprese, che in questo modo sarebbero “sfuggite alle persecuzioni da parte delle agenzie statali” commenta il giornalista Leonid Bershidskij. Un altro modo per dire che alcune attività agivano senza alcun tipo di controllo da parte dello stato, o di chiunque altro.

L’incendio di Kemerovo è solo una tra le tante tragedie scaturite dalla corruzione endemica, dalla supremazia del profitto sulle vite umane, dai favoritismi fatti al business man di turno e alle mafie. Una tendenza che anche il nostro paese conosce fin troppo bene.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #59 il: Aprile 09, 2018, 19:40:32 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Cecenia/Cecenia-a-scuola-di-corruzione-110568

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Cecenia, a scuola di corruzione

Nel suo ultimo messaggio televisivo alla popolazione, il primo ministro russo Vladimir Putin ha dichiarato che il livello di corruzione in Cecenia è minimo. In realtà, basta trascorrere pochi giorni nella regione per avvertire che la corruzione, come una ragnatela, avvolge praticamente ogni sfera della vita in Cecenia. A partire dalla scuola primaria
25/01/2012 -  Majnat Kurbanova   

Mentre in Russia diventa ogni giorno più popolare lo slogan “basta dar da mangiare al Caucaso!”, Vladimir Putin conferma gli investimenti per lo sviluppo del Caucaso del nord. Secondo molti analisti russi, la maggior parte di questi fondi finisce però in tasche ignote. Verificare queste accuse è molto difficile, dati gli stretti rapporti di parentela e clan che legano chi governa non solo la Cecenia, ma tutte le repubbliche del Caucaso settentrionale. Infatti lo stile di governo dei leader della regione ha molti elementi in comune: autoritarismo violento, nepotismo e assoluta mancanza di trasparenza nei flussi finanziari. A questo si aggiunge il totale controllo su stampa e televisione e l'attiva promozione del culto della personalità.

Tutto questo genera un contesto che è comune a buona parte della sud della Russia, ma senza dubbio dal punto di vista della corruzione la Cecenia ne è un caso esemplare. Un po' perché ha visto due guerre sanguinose dagli effetti devastanti, ma vede ora ingenti flussi di finanziamenti alla ricostruzione di ciò che si è distrutto. Un po' perché al governo c'è il carismatico Ramzan Kadyrov, protetto personalmente da Vladimir Putin. Ma certo anche perché i gruppi nazionalisti che in Russia gridano “basta dar da mangiare al Caucaso!” hanno in mente soprattutto la Cecenia nella quale nel corso di pochi hanni sono stati realizzati lavori di ricostruzione mozzafiato. Il grattacielo più alto nel Caucaso del nord, la più grande moschea d'Europa, l'orologio analogico più grande del mondo in cima ad un edificio di 45 piani... tutto questo è presente a Grozny oggi. Tuttavia, se a turbare i nazionalisti russi è il fatto stesso che enormi finanziamenti vadano ad una repubblica tradizionalmente ostile, a preoccupare gli abitanti della Cecenia, a cui queste somme non arrivano, è la quotidiana lotta contro la corruzione.
Corruzione in Cecenia

Corruzione, concussione e un sistema di regali e sussidi incomprensibile ai profani sono l'abitudine nel Paese. Non stupisce nessuno, ad esempio, il dover pagare una tangente per ottenere qualsiasi documento in un ufficio pubblico. Per una certa somma, qualsiasi medico vi certificherà l'idoneità alla pensione d'invalidità, anche se godete di ottima salute. Con questa vi recate all'ufficio pensioni e per una certa somma otterrete la pensione già dal mese successivo. Nel frattempo, migliaia di invalidi autentici che non possono permettersi la tangente sono costretti a passare intere giornate tra file estenuanti e umilianti controlli medici per dimostrare di essere realmente malati. Per il rilascio del passaporto, anche questo si capisce, la tangente è indispensabile: 300 dollari o 250 euro in aggiunta alla tassa di 2500 rubli. Secondo una donna che ha fatto il passaporto di recente, la scrivania del funzionario in questione aveva cassetti distinti per le varie tangenti: uno per i dollari, uno per gli euro e uno per i rubli. Per contare meglio. Senza alcun imbarazzo, quando lei gli ha consegnato i soldi, l'impiegato ha aggiunto i 250 euro appena ricevuti alla pila di banconote in euro che teneva ordinatamente assieme con un elastico.

Con i soldi, in Cecenia si può risolvere tutto. Ci si può laureare in medicina senza saper fare un'iniezione. Poi ci si può comprare un posto di vice-primario in qualsiasi ospedale o clinica, un incarico in cui non ti troverai mai a fare iniezioni, ma solo ad amministrare. Si può diventare docenti universitari senza aver nulla da insegnare. In un Paese dove giovani di neanche trent'anni fanno carriere da capogiro diventando come per magia ministri, rettori ed Eroi della Russia, tutto si può comprare. È solo questione di prezzo. Chi ha meno soldi, compra pensioni e sussidi. Chi ne ha di più, compra incarichi che danno potere sulla distribuzione di pensioni e sussidi. Ma il problema non è tanto la corruzione in sé, ma il fatto che questa sia diventata in qualche modo la normalità. Questo sistema mina le fondamenta della società e crea un clima in cui chi non ha l'opportunità di incassare tangenti invidia chi ce l'ha, e chi oggi è costretto a pagare una tangente ne estorcerà una domani se sarà in posizione di farlo.
A scuola di corruzione


L'abitudine alla corruzione si instaura già dall'infanzia. Proprio a scuola i bambini sono esposti per la prima volta alla corruzione e imparano come funziona la vita fuori dalle mura scolastiche. La scuola, un istituto statale con cui quasi tutti gli abitanti vengono a contatto, è anche l'esempio perfetto di come si fanno i soldi in Cecenia. Tre anni fa, ad esempio, il governo ha imposto l'uniforme nelle scuole di ogni ordine e grado. Per le ragazze gonna nera, camicia bianca e velo obbligatorio. Per i ragazzi giacca, pantaloni neri e camicia bianca. Niente di speciale, non fosse che l'uniforme è considerata regolare solo se di una determinata fattura, tessuto e modello: il tutto di produzione di una determinata azienda, di proprietà del clan dominante nel Paese. Vestire un bambino per la scuola costa almeno 70-80 euro, per gli studenti si arriva a 150-200. Se si considera che le famiglie cecene sono di norma numerose, il sussidio per ogni figlio ammonta a circa 5 euro al mese e il tasso di disoccupazione è fra i più alti in Russia, si può immaginare quale sforzo questo comporti.

Un altro popolare metodo per spillare soldi a scolari e genitori è la vendita dei testi scolastici. Scuole e docenti impongono agli studenti i testi di ultima edizione, a loro volta imposti alle scuole dal ministero dell'Istruzione. Funziona così: ogni anno il ministero acquista una certa quantità di libri a prezzi scontati da editori russi e ne riceve altri da distribuire gratuitamente ai non abbienti. I testi vengono poi mandati alle scuole perché gli insegnanti li vendano agli studenti a prezzo di mercato. Il ricavato va ovviamente nelle tasche dei dipendenti del ministero. La cosa assurda è che ogni anno gli alunni sono obbligati a comprare i testi appena usciti: i libri dell'anno prima, anche se della stessa materia e degli stessi autori, che potrebbero andare a fratelli o sorelle minori, possono invece finire nella spazzatura, perché il loro uso è espressamente vietato dal ministero e quindi dalle scuole.

Un altro diffuso metodo di arrotondamento per gli insegnanti sono le ripetizioni, parola che in Cecenia ha un significato un po' diverso che nei Paesi occidentali. Qui gli insegnanti abbassano di proposito i voti agli alunni per costringere i genitori a mandarli a lezione. A fare lezione privata sono gli stessi insegnanti: invece di fare il proprio lavoro in orario scolastico, quindi, si dedicano agli alunni nel tempo libero, peraltro non individualmente, ma in gruppo. Ad un profano che capitasse nel mezzo di una di queste “lezioni private” sembrerebbe di assistere ad una regolare ora di lezione, anche perché il tutto si svolge in aule scolastiche libere in quel momento.

Ajna vive a Grozny con il figlio, che frequenta una delle migliori scuole della capitale. Qualche anno fa, quando vivevano a Mosca, il figlio era considerato uno degli alunni più dotati della scuola e collezionava premi nelle varie olimpiadi scolastiche. In tre anni di vita scolastica in Cecenia, invece, non ha ottenuto un solo voto alto, per quanto impeccabili potessero essere i suoi compiti in classe. Gli insegnanti si lamentavano regolarmente del suo “scarso rendimento”, finché qualcuno non ha fatto capire ad Ajna che il ragazzo sarebbe stato bocciato se lei non lo avesse mandato a ripetizione dai suoi stessi insegnanti. Da allora Ajna paga “ripetizioni” di matematica, russo e fisica, e suo figlio è diventato improvvisamente uno dei primi della classe.

In media, le ripetizioni costano da 1000 a 2000 rubli al mese (25-50 euro) per materia. Se i genitori non sono in grado di pagare, ad attendere i figli ci sono voti sistematicamente bassi, atteggiamenti ostili da parte dei docenti e prospettive di bocciatura. Gli insegnanti giustificano il proprio comportamento non proprio pedagogico con le regolari tangenti che devono a loro volta pagare agli impiegati del ministero. Questi a loro volta dicono di raccogliere soldi per versarli nel fondo Ahmad Kadyrov, gestito dalla madre dell'attuale presidente Ramzan Kadyrov. Il fondo, che finanzia molte opere benefiche ma anche di ricostruzione, è ufficialmente costituito dai contributi volontari degli imprenditori ceceni. Secondo dati non ufficiali, tuttavia, somme significative arrivano dalle tangenti raccolte da impiegati pubblici e imprenditori.
Fuori dalle aule

La corruzione nel sistema scolastico non rappresenta certo un caso unico. Secondo esperti indipendenti, il picco di corruzione si è avuto dai primi anni 2000 al 2009 circa. Ad arricchirsi alle spalle della disastrata Cecenia in quel periodo furono anche i soldati dell'esercito russo e i numerosi funzionari di polizia e servizi speciali inviati nella repubblica. A suo tempo, WikiLeaks diffuse un dispaccio dell'ex-ambasciatore statunitense in Russia, che raccontava di come il governo ceceno si appropriasse sistematicamente di buona parte degli aiuti umanitari russi, e che il governo federale era costretto a tollerare tutto questo per “tenere calma la situazione”. Due anni fa, Kadyrov annunciò che la corruzione sarebbe stata assimilata al terrorismo e combattuta ferocemente. Da allora, le televisioni locali hanno mostrato qualche arresto dimostrativo di funzionari accusati di corruzione, ma l'aria che si respira nel Paese non è diventata più pulita. La corruzione si è semplicemente fatta più astuta, meno sfacciata. In questo quadro, l'affermazione di Putin sul basso livello di corruzione in Cecenia suona quantomeno cinica.
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