Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 68870 volte)

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Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #15 il: Gennaio 05, 2018, 01:35:27 am »
E' un articolo che ha a che fare con la parte povera della Germania, un tempo denominata DDR, per cui lo posto qui.

http://www.iltascabile.com/societa/poveri-bianchi-tedeschi/

Citazione
Società
Lorenzo Monfregola / Immagine: Emmanuele Contini
27.4.2017
Poveri, bianchi, tedeschi
Il lato meno raccontato della locomotiva economica d’Europa.
Lorenzo Monfregola è un giornalista freelance. Si occupa principalmente di Germania, politica e geopolitica. È italo-tedesco e risiede a Berlino.
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Cindy da Marzahn è una donna decisamente sovrappeso. Capelli scompigliati tinti di biondo, trucco pesante e tuta rosa shocking. Cindy ha un tipico nome da starlette americana, perché viene dalla periferia est di Berlino. Pare che da quelle parti vadano di moda i nomi americanizzati, ispirati dalla cultura di massa. Almeno, questo è quello che il tedesco medio pensa di un quartiere come Marzahn: troppa tv, palazzoni in cemento, pochi soldi, neonazisti e ragazze madri.

Per anni Cindy è comparsa in televisione e nei teatri di tutto il paese, raccogliendo milioni di estimatori e detrattori. Le sue battute sono sempre state quelle di una specie di “casalinga disperata” del white trash: sussidio, televisione, diete impossibili, fidanzati poco raffinati, ancora sussidio e ancora televisione.

Poi, nel giugno 2016, Ilka Bessin, l’attrice che Cindy l’ha inventata e portata in vita, ha annunciato di voler appendere la tuta rosa al chiodo. Bessin, la cui esistenza prima del grande successo non era stata molto diversa da quella del suo personaggio, ha abbandonato dicendo che la compenetrazione tra Ilka e Cindy era diventata insostenibile. “Un giorno, durante una serata”, ha raccontato Bessin in un’intervista, “ho detto che proprio noi tedeschi dell’est dovremmo sapere quanto sia importante accogliere i rifugiati. In sala ha applaudito una sola persona”.

Tre mesi dopo il ritiro dalle scene di Cindy, si sono svolte le elezioni nella Città stato di Berlino. Il partito della destra populista e anti-immigrati Alternative für Deutschland (AfD), che si presentava per la prima volta, ha raccolto il 14,2% dei voti. A Marzahn-Hellersdorf, la patria metropolitana di Cindy, la percentuale è stata la più alta della città: il 23,6 %. In diversi seggi del quartiere i populisti hanno ampiamente sfondato il muro del 30%.

Berlino è così diventata una delle clamorose affermazioni di AfD. Due settimane prima i populisti avevano già raccolto il 20,8% nel Mecklenburg-Vorpommern, mentre a marzo avevano conquistato il 24,3 % nel Sachsen-Anhalt, due dei cinque grandi Länder dell’ex Germania comunista.

In poco tempo, quei risultati hanno spalancato le porte a una specifica lettura della realtà da parte di chi ha voluto difendere senza se e senza ma l’impostazione tollerante e anti-razzista delle istituzioni tedesche. La specifica lettura è quella dei tedeschi dell’ex DDR, un po’ spregiativamente chiamati “ossis”, come una delle forze maggiori della nuova xenofobia in Germania.
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© Emmanuele Contini.

La periferia della periferia
Una delle battute che ricordo meglio di Cindy da Marzahn è: “In Germania ci sono cinque milioni di disoccupati: due milioni vivono nel mio quartiere”. Non si tratta nemmeno di una battuta, ma di un’analisi sociologica.

Il quartiere di cui parlava Cindy, però, è qualcosa di molto più eterogeneo e complesso. Una parte di Marzahn, oggi, è un’area semplice ma sostanzialmente piacevole: parchi, centri commerciali, casette ordinate e una funivia panoramica. Anche il famoso Plattenbau, il grande insediamento in cemento “made in DDR” anni ’70-’80, è vivibile, pur nella sua essenzialità. Niente finestre rotte, niente discariche sul ciglio della strada, niente no-go zones. Certo, gli appartamente a Marzahn costano molto meno ed è là che continuano a emigrare i berlinesi che non possono più permettersi di vivere nel centro colonizzato dalla nuova borghesia cosmopolita europea.

Per trovare la Marzahn delle Cindy, però, bisogna andare ai bordi del quartiere, nella periferia della periferia. Bisogna andare, ad esempio, a Marzahn Nord. Anche se da venti anni la zona è interessata da speciali programmi di sostegno sociale, qua non ci sono giardini, non c’è una funivia, non ci sono locali sempre pieni di persone. A ben guardare, a Marzahn Nord non c’è quasi niente.

    Secondo il sociologo Shulteis: “C’è qualcosa che non possiamo negare: il modello di successo della Germania poggia le proprie spalle su una ampia fascia di poveri”.

Per arrivare nell’area è sufficiente sedersi su un tram o su un treno metropolitano berlinese, puntare a nord-est e aspettare di raggiungere il capolinea. Una di queste stazioni finali è Ahrensfelde, al cui nome i trasporti pubblici aggiungono “Stadtgrenze”, “frontiera della città”: qualche metro più in là inizia la campagna del Brandeburgo. Nemmeno Marzahn Nord è una banlieu, ma qualcosa di diverso. Le strade sono pulite, ma tanto pulite da sembrare svuotate, ed è tutto in ordine, ma tanto in ordine da apparire immobile. Tutto quanto sembra adagiato sotto una coperta fredda di silenzioso controllo. Il disagio lo si vede sui volti e sui corpi di diverse persone: i vestiti di scarsa qualità, le facce invecchiate dal fumo, i denti poco curati, l’obesità di chi non vive accanto a un vegan-bar che venda frullati bio-chic.

L’amministrazione locale suddivide talvolta le abitazioni del quartiere in tre livelli: buono, medio e semplice. Il 100% delle abitazioni di Marzahn Nord rientra nella terza categoria.
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© Emmanuele Contini.

Il popolo del sussidio
La prima volta che arrivo a Marzahn Nord scendo a pochi metri dal seggio 103 Marzahn-Hellersdorf, dove AfD ha superato il 35%. È un seggio piccolo, ma anche quelli vicini hanno visto risultati simili, spesso spodestando dalla maggioranza relativa la Linke, che è la sinistra radicale che per anni aveva raccolto i voti dei nostalgici della DDR.

Nella Linke locale milita Janine, 23 anni, che vuole raccontarmi qualcosa sulla vita delle venticinquemila persone che vivono in questa parte del quartiere. Per incontrarla percorro uno stradone desolato ma non degradato, dove tutto è povero in una maniera algida, organizzata, sedata: irrimediabilmente tedesca.

Janine mi aspetta in un piccolo caffè-birreria e capisco fin da subito che ci tiene molto ad assicurarsi che io non sia venuto a scrivere solo degli ossis nazi-comunisti e xenofobi. “Tanti cittadini possono farsi coinvolgere dalla propaganda”, mi spiega, “ma qui ci sono soprattutto persone che lavorano e che, quando non lo fanno, cercano solo di andare avanti”. Poi Janine mi mostra un dato ufficiale, tratto da uno degli ultimi studi svolti dal Municipio del quartiere: il 36,5% degli abitanti di Marzahn Nord tra 0 e 65 anni vive con il sussidio Alg II, più comunemente noto come Hartz IV. Si tratta di più di una persona su tre. L’Hartz IV è un sussidio di disoccupazione contro la povertà, garantito in nome del diritto costituzionale alla sussistenza. Chi è povero, chi non ha niente in banca, chi non possiede niente a proprio nome, riceve l’Hartz IV. Al momento, se si contano anche i minori, in Germania ci sono quasi sei milioni di persone che vivono grazie a questo sussidio. Di questi, circa quattro milioni e mezzo sono cittadini tedeschi, uno e mezzo sono stranieri che vivono in Germania.

Janine mi dice che, per capire il quartiere, devo guardare i dati sui bambini: il 58,2 % di tutti gli under 15 di Marzahn Nord vive in una famiglia che riceve il sussidio e la percentuale arriva al 61,2 % per i bambini sotto i sei anni. “Questa tendenza è importante”, mi dice Janine, “perché troppo spesso quella di dipendere dal welfare diventa una questione quasi ereditaria all’interno alle famiglie, in cui l’isolamento sociale o la disillusione dei genitori non stimola i ragazzi ad emanciparsi”. Chiedo a Janine perché, però, il dato della disoccupazione in quanto tale sia più basso, solo l’11,6%: il doppio della media tedesca, ma pur sempre poco. Janine, allora, mi spiega quello che sanno in tanti: la conta degli occupati in Germania è un po’ dopata; per essere contato come occupato è sufficiente che un disoccupato partecipi a un’iniziativa di inserimento professionale o sia brevemente impiegato. Il risultato è che una parte dei cosiddetti occupati tedeschi continuano a percepire il sussidio di disoccupazione Alg II e a fare la fila davanti ai Jobcenter, gli uffici dell’Agenzia del Lavoro che gestisce l’assegnazione dei sussidi.
« Ultima modifica: Gennaio 05, 2018, 01:48:24 am da Frank »
«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #16 il: Gennaio 05, 2018, 01:36:55 am »
Citazione
Hartz IV è in realtà il nome di una fase dell’epocale ristrutturazione del welfare, portata avanti nello spirito dell’Agenda 2010, l’enorme riforma del sistema sociale tedesco del 2005. Il sussidio prevede una cifra mensile di circa 800 euro per una persona singola, la metà dei quali è da utilizzare per pagare un’abitazione a basso costo. L’Hartz IV ha avuto un tale impatto sulla società tedesca che il vocabolario Duden ha inserito ufficialmente il termine “hartzer” per indicare chi riceve il sussidio, solitamente per un periodo prolungato. A Marzahn Nord, quasi il 90% lo riceve da più di due anni.
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© Emmanuele Contini.

Un popolo per i populisti?
Il sostegno per la destra identitaria tra chi è disoccupato o ha redditi bassi è un singolo aspetto di un processo molto più eterogeneo. Concentrarsi su di esso, come decido di fare io, è una scelta consapevolmente arbitraria, a Marzahn Nord come nel resto della Germania. L’AfD tedesca è stata fino a oggi votata da poveri e ricchi, da meno colti e più istruiti, ed è il risultato di un cortocircuito nel rapporto dei tedeschi con i propri tabù storici.

Resta il fatto, però, che in molte regioni AfD sia effettivamente il partito più votato tra operai e disoccupati. Non solo, secondo il sondaggio pubblicato dal quotidiano nazionale Die Welt subito dopo le elezioni di Berlino, l’AfD è stato il partito in assoluto più votato tra chi non ha lavoro. I disoccupati o i beneficiari di sussidi sono anche una delle categorie che, solitamente, votano di meno e, anche in questo caso, sembra che ne abbiano approfittato i populisti, che sono riusciti a riportare al voto un esercito di ex astenuti.

La vera domanda, a questo punto, è come mai tante persone in situazione di disagio si affidano a un partito che ha un programma economico in cui si prevedono tagli del welfare e un’ulteriore privatizzazione della sanità? La risposta è soprattutto una ed è ormai nota: l’etnicizzazione delle rivendicazioni sociali. In occasione della crisi dei rifugiati del 2015-2016, una parte dei tedeschi ha accolto le suggestioni di una campagna identitaria contro la Willkommenspolitik, la politica di accoglienza dei rifugiati di Angela Merkel. Una campagna che ha assunto velocemente i contorni di una protesta anti-establishment, di una riscossa sociale per chi sente di contare di meno.

All’inizio del 2016 Marzahn era tra le aree con il maggior numero di centri di accoglienza attivi o pianificati: terreno fertile per le estreme destre, incluse quelle apertamente eversive. Hanno fatto il giro della Germania le immagini dei naziskin della NPD che partecipavano alle manifestazioni contro i centri di accoglienza a Marzahn.
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© Emmanuele Contini.

“Puoi restare. Sei italiano, mica arabo”
Incontro Thomas qualche chilometro a sud di dove ho incontrato Janine, in un parchetto circondato da alcuni caseggiati alti e ordinati. Thomas ha militato per anni proprio nella NPD, il partito neonazista tedesco, arrivando anche a ricoprire un ruolo di dirigente a livello locale. Ora Thomas però ne è fuori e dice: “Quello che la NPD dice pubblicamente non ha niente a che vedere con quello che vuole davvero. Loro sognano proprio il ritorno del Terzo Reich, cose come il rimpatrio forzato di qualunque straniero e la sterilizzazione degli handicappati“.

Adesso Thomas si occupa, insieme con altri abitanti del suo caseggiato, di mandare avanti una casettina in legno che funge da centro ricreativo. “Facciamo un lavoro importante. C’è un baretto a prezzi molto bassi. Mentre qui abbiamo dei giocattoli. D’inverno ci sono i giochi in scatola, mentre oggi che è una bella giornata i bambini possono giocare nel parco giochi. Molti genitori non hanno voglia o il tempo di portare i figli a giocare, ma grazie a questo posto, a noi che controlliamo, possono farlo. Così i bambini non stanno tutto il giorno davanti alla televisione”.

Mentre i bambini giocano un gruppo di donne e uomini si gode caffè, sigarette e patatine fritte con maionese e ketchup. Mi siedo a parlarci, anche se nei primi minuti non sono l’ospite più desiderato. “Chi sei? Scrivi per un giornale? Lascia perdere, dite tutti stronzate.” “Magari tu no, ma poi non te lo pubblicano, non te lo pubblicano se non scrivi stronzate” “Cosa? Italiano? E che ci fai qui? Ti sei perso?” “A me non sembri italiano, parli un po’ come un cecoslovacco. O sei polacco?” “Vabbè, dai, comunque italiano va bene, puoi restare” “Magari possiamo cucinare qualcosa di buono, che dici?” “Come non sai cucinare? Allora lo vedi che non sei italiano”. Ridono. Rido anche io.

Ci vuole poco per iniziare a parlare di stranieri. Perché parlare di stranieri significa parlare anche delle rivendicazioni dei locali. I due argomenti sono così intrecciati da fare impressione. È sufficiente non rispondere con uno sguardo severo alle prime parole del proprio interlocutore per sentire opinioni che, fino a poco tempo fa, sarebbero rimaste sepolte sotto l’intricato sistema di tabù che vige nel Paese.

    Ci vuole poco per iniziare a parlare di stranieri. Perché parlare di stranieri significa parlare anche delle rivendicazioni dei locali. I due argomenti sono così intrecciati da fare impressione.

Il gruppo parla con me, ma inizia anche a discutere internamente, con fare sentito, come se in tanti non aspettassero altro. “Tu mi devi dire perché i soldi che non c’erano due anni fa per noi ci sono ora per questi rifugiati, perché? Non è mica razzista come domanda, no?” “Io ogni tanto lavoro nella sicurezza, ho fatto la sicurezza dove danno i soldi ai profughi del centro: vederli là in fila che prendevano soldi senza nessun problema è difficile, non è giusto, non è corretto” “In televisione, dovunque guardi: profughi, profughi, profughi, tutti i giorni, sempre” “Ma come? Come non ci sono state le violenze? Certo, hanno provato a stuprare due ragazze, a Pankow. Non hai letto su Facebook? C’era scritto, sì, sì! Era scritto su Facebook, proprio ieri”.

Dopo un bel po’ di conversazione provo a domandare se qualcuno ha votato AfD. A quanto pare, però, nessuno va a votare. Nicko, un uomo molto robusto con la rasatura decisamente alta che all’inizio mi guardava in cagnesco, però mi dice: “I politici fanno tutti schifo, sono tutti uguali, tutti, anche quelli dell’AfD. Ma almeno se viene l’AfD manda via tutti questi mollucken”. I “mollucken” non sono gli abitanti delle Molucche, ma gli stranieri in generale, intesi come selvaggi. Si tratta di una versione ancora più dispregiativa di “kanaken”, un termine con cui da tempo ci si riferisce agli immigrati turchi, italiani, spagnoli. Nicko ha trent’anni e fa l’autotrasportatore, mi spiega che secondo lui un problema sono i polacchi che gli fanno concorrenza sconfinando in Germania e lavorando a prezzi stracciati. Ma, alla fine, mi dice, il vero guaio restano i musulmani, sia quelli che ci sono da tempo sia quelli appena arrivati. “Non è mica razzismo. Metti i vietnamiti. I vietnamiti sono qui da anni, non danno fastidio a nessuno e infatti nessuno ce l’ha con i vietnamiti”. Di musulmani, invece, non dovrebbero più arrivarne in Germania, lo dicono anche gli altri. “Tu sei italiano, puoi stare, se eri arabo ti cacciavo via”, mi ripete Nicko, ridendo. Una signora più anziana, che fino a quel momento non aveva detto nulla, mi dice, a bassa voce: “Gli immigrati ricevono gli stessi soldi del mio sussidio, anche di più. Senza fare niente. Io da anni devo compilare i miei fogli e se sbaglio a mettere una crocetta o a dichiarare dieci euro che mi ha dato mia sorella mi trattano come una ladra… A volte penso che farei meglio a mettermi un velo da araba e andare vestita così al Jobcenter, magari mi trattano meglio”.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #17 il: Gennaio 05, 2018, 01:38:25 am »
Citazione
Torno a parlare con Thomas, perché voglio chiedere anche a lui cosa pensi della vampata dell’AfD a Marzahn Nord. Lui mi dice quello che mi diranno quasi tutti da queste parti: si tratta di un voto di forte protesta. Al momento in cui gli parlo, marzo 2017, l’AfD è lacerata internamente e sta scendendo nei sondaggi. Ma io chiedo ugualmente a Thomas cosa accadrebbe se questa protesta dovesse arrivare, un giorno anche lontano, alla maggioranza dei voti. Thomas ci pensa un attimo, come se non avesse mai considerato l’opzione. Poi risponde: “Beh, allora avremmo un nuovo NSDAP in Germania”. NSDAP è il nome ufficiale del fu partito nazionalsocialista hitleriano. ”Cioè un partito nazista al governo in Germania?”, gli chiedo. “Sì. Perché l’AfD comunque è quella cosa lì…”.
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I perdenti della nuova Germania
Vado a vedere i dati sulle forme di sussidio a rifugiati e immigrati in Germania. La situazione è eterogenea, intricata. In generale, chi vive in un centro di accoglienza o si sta inserendo nella società riceve somme (in denaro o servizi) uguali o inferiori al sussidio per i cittadini tedeschi (o per gli stranieri che vivono in Germania da anni). Quella che c’è – evidente – è però la paura di dover spartire con i nuovi arrivati il diritto al welfare o l’accesso ai mestieri senza particolare qualifica professionale. E non stupisce neppure che questo timore della competizione straniera sia più radicato nelle zone deboli del Paese, perlopiù nell’ex Germania dell’Est.

Nel 2005 è stata pubblicata una delle ricerche più complete sulla povertà in Germania e su come lo stato sociale tedesco abbia garantito un benessere generale e, al tempo stesso, istituzionalizzato un sistema di povertà. La ricerca è stata effettuata da un ampio team di sociologi, guidati dai professori Franz Schultheis e Kristina Schulz, che hanno voluto realizzare un lavoro à la Pierre Bourdieu, trasportando nella società tedesca la tecnica e lo stile de La misère du monde. Il titolo del libro, Gesellschaft mit begrenzter Haftung (“Società a responsabilità limitata”), giocava con il nome delle Srl tedesche (GmbH) e, sul solco di questa suggestione, raccontava anche il processo di liberalizzazione della Germania orientale, inclusa una de-industrializzazione arginata con la massiccia distribuzione territoriale del welfare.

Contatto il Professor Schultheis, che oggi insegna all’Università di Ginevra, perché voglio chiedergli cosa pensi del soggetto della sua ricerca dodici anni dopo. “Le cose sono cambiate da un punto di vista culturale”, mi spiega, “ai tempi avevamo a che fare con una generazione ancora direttamente collegata all’esperienza della DDR, mentre oggi c’è una generazione di giovani che sono culturalmente integrati nella cultura dell’Ovest, che conoscono l’euro e hanno confidenza con lo stato sociale.” Questo non significa, però, che i Länder dell’est abbiano raggiunto una parità: “Oggi l’ex DDR è divisa in due, tra chi è riuscito a diventare parte della nuova Germania e chi, invece, si sente a tutti gli effetti un cittadino di serie b.”

Una sconfitta che si riassume in condizioni sociali o di lavoro precarie e meno retribuite rispetto alle regioni occidentali, malgrado, o forse a causa delle grandi riforme di inizio millennio. Come mi ricorda Schultheis: “L’Agenda 2010 ha sicuramente abbassato il livello di disoccupazione, ma ha lasciato sul tavolo diversi problemi strutturali. C’è qualcosa che non possiamo negare: il modello di successo della Germania poggia le proprie spalle su una ampia fascia di poveri. Proprio ora stiamo aggiornando la nostra ricerca, per pubblicare una traduzione in greco e raccontare anche in Grecia che esiste un’altra Germania”.
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© Emmanuele Contini.

“Es ist zum kotzen!”
Il Jobcenter di Marzahn Hellersdorf si trova in un palazzone di Allee der Kosmonauten, la via che la DDR dedicò agli “eroi del socialismo” che andarono nello spazio. Là, a seconda della giornata, la fila è lunga, molto lunga o lunghissima.

Di fronte all’ingresso le persone attendono in silenzio, ognuna di loro ha una cartellina in mano. Dentro alle cartelline ci sono i documenti da presentare agli esigenti impiegati dell’Agenzia del Lavoro. Il sussidio in Germania si basa su una trasparenza assoluta, quasi fondamentalista. Va dichiarato ogni centesimo del proprio status finanziario e, soprattutto, bisogna rispettare il principio di “sostegno a patto di impegno”. In tutte quelle cartelline, quindi, ognuna delle persone attorno a me ha documenti che dimostrano i propri sforzi per uscire dalla disoccupazione, mandando ogni mese un numero preciso di candidature in cerca di lavoro o partecipando alle formazioni professionali assegnate dal Jobcenter. Quando sono quasi arrivato al bancone dell’accettazione, lascio il posto a un uomo sulla cinquantina con in mano una cartellina di Spiderman che salta da un grattacielo. Mi ringrazia con un sorriso. Prima di uscire completamente dalla fila, noto una donna giovane, molto magra, con i capelli biondo platino e dei leggings multicolore. La ragazza sta discutendo con l’impiegato di uno dei banchi della preselezione. Non riesco a capire cosa dicano: lui, soprattutto, parla piano, scuotendo leggermente la testa. Dopo qualche secondo la donna se ne va con il viso rosso dalla rabbia, urlando  “Es ist zum kotzen, es ist zum kotzen!”, che significa che “c’è da vomitare”, anche se vomitare non è la parola più adatta, kotzen è più volgare. 

Qualche istante dopo, ritrovo la ragazza fuori dall’edificio, mentre armeggia con il suo telefono. Mi avvicino e le chiedo cosa sia successo. “Questa è la volta buona che spacco tutto, non resta più niente là dentro.” Il problema della ragazza è che non si è presentata a una convocazione del Jobcenter. Non è la prima volta e, ora, le verranno tolti dei soldi dal sussidio, si tratta di una sanzione. Oggi la giovane voleva salire dall’impiegata che si occupa di lei, per spiegare le proprie ragioni, ma non le è stato permesso. “Va a finire che mi danno i buoni per fare la spesa. Una volta me li avevano già dati, qualche anno fa. Sai quanto ti vergogni quando stai alla Lidl e devi pagare con i buoni pasto?”. I buoni sono dei voucher del Jobcenter per comprare il cibo, vengono utilizzati in modo che sia garantita la sussistenza ma resti la sanzione in denaro.

    Il principio del “sostegno a patto d’impegno” su cui è strutturato il welfare tedesco può evolvere in una forma di giudizio totale sulla vita del cittadino, soprattutto quando il sussidio diventa una condizione prolungata.

Quello del rapporto tra chi riceve il sussidio e gli impiegati del Jobcenter è un tema delicato. Sebbene la regola preveda che ciascun impiegato non si occupi più di tre mesi di un singolo cittadino, ci sono delle eccezioni, soprattutto quando il sussidio si incrocia con altri servizi sociali. Gli impiegati del Jobcenter sono sottoposti a forme di stress strutturale, sia perché l’Agentur giudica costantemente la loro capacità di far evolvere ogni “cliente” (li chiamano proprio così), sia perché le discussioni con i “clienti” possono diventare molto aspre. Ci sono sempre nuovi casi di aggressione verbale o addirittura fisica a danno degli impiegati. Volente o nolente, l’impiegato si trova spesso a dover effettuare decisive scelte individuali in merito a ciascun caso, continuando allo stesso tempo a incarnare una personificazione dello stato sociale e del principio “sostegno a patto d’impegno” su cui è strutturato. Un principio che può evolvere in una forma di giudizio totale sulla vita del cittadino, soprattutto quando il sussidio diventa una condizione prolungata. Più passa il tempo, più lo Stato interroga il cittadino sulle sue abitudini, sulla sua saluta fisica e mentale, sulla sua visione della società, fino a deviare verso vere e proprie forme di medicalizzazione del disagio sociale.
«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #18 il: Gennaio 05, 2018, 01:42:16 am »
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Scham – la vergogna
Quando si parla con gli abitanti di Marzahn Nord, la parola che ritorna più spesso è “vergogna”. Questo non vale certo per chi ha un lavoro soddisfacente e riesce a vivere più che dignitosamente la propria esistenza, ad esempio le tantissime persone che non ricevono un sussidio e si sentono parte di un simbolico ceto medio-alto della zona, pur vivendo lontane dal centro cosmopolita di Berlino. La vergogna vale però per tanti altri, per chi sente di aver fallito in una società che, nominalmente, offrirebbe tutte le possibilità.

Schamland, “Il Paese della vergogna” è il titolo del libro del sociologo Stefan Selke. Quando gli chiedo perché abbia scelto proprio la categoria di “vergogna” per il suo libro, lui mi spiega: “Stiamo parlando di essere poveri in un paese ricco. Di chi, come dicono alcuni, è ‘troppo ricco per morire e troppo povero per vivere’. Cosa significa povertà? È facile definirla da un punto di vista economico o normativo. C’è però un piano più pratico, che è quello del potersi o non potersi permettere lo standard di vita della società in cui si vive. Il punto decisivo, che non consideriamo mai abbastanza, è il lato simbolico della povertà. In Germania questa simbologia è già chiara nel linguaggio, ad esempio con la stigmatizzazione del termine ‘hartzer’, che è la verbalizzazione di un processo di emarginazione di una parte dei cittadini. Questa dimensione simbolica, ovviamente, non la risolviamo dando cinque euro in più alle persone, perché è soprattutto il frutto di una precisa ideologia”.

Un’ideologia che, secondo il Professor Selke, non è accidentale nell’organizzazione sociale tedesca. “Esiste un concetto che è quello della punizione tramite la vergogna. Può diventare un sistema di disciplinamento sociale che funziona quasi senza soldi, in cui le persone sono portate a forme di auto-governo tramite l’interiorizzazione di una retorica della colpa. In questi anni è in corso una mutazione: è di nuovo normale puntare il dito contro le persone perché sono ‘pigre’ o perché ‘non meritano niente’… La verità, però, è che questo è un modo per non vedere la realtà del mondo in cui viviamo oggi, dove una caduta esistenziale può avvenire per chiunque, da un momento a un altro. La verità è che preferiamo dire che ognuno è la sola causa dei propri mali, piuttosto di ammettere che camminiamo tutti su una lastra di ghiaccio molto sottile”.
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© Emmanuele Contini.

“L’importante è muovere il culo”
Al Quartiersmanagement di Marzahn Nord conosco Victoria, un’impiegata comunale estremamente gentile che mi mostra una mappa di tutte le iniziative e strutture sociali nel quartiere. Mentre guardo la cartina mi convinco sempre di più che a Marzahn Nord vivano tre tipologie di tedeschi. I primi sono quelli non particolarmente toccati dai vari disagi sociali, pur avendo, talvolta, un certo rancore simbolico verso la Repubblica Federale di Germania. Il secondo tipo di tedeschi, invece, con la Repubblica ha un rapporto costante, viscerale, corporeo, visto che da questa riceve i soldi per mangiare e per vivere. La terza tipologia di tedeschi di Marzahn Nord, invece, è costituita da un piccolo esercito di lavoratori sociali: i funzionari volenterosi della stessa Repubblica, che ne mettono in atto le potenzialità ma, anche, ne propagano più o meno consapevolmente le ideologie portanti. Quanto quest’ultima tipologia di tedeschi saprà ancora comunicare e interagire con le prime due è, di fatto, la vera domanda sul futuro di quartieri come Marzahn Nord e del rapporto tra istituzioni e la parte più scontenta ed emarginata della cittadinanza.

La comunicazione e l’interazione, da quello che vedo, sembrano funzionare molto bene in alcuni centri giovanili. Quando arrivo al centro per giovani Betonia di Marzahn Nord, è già pieno di ragazzi. Alcuni ascoltano la musica, altri giocano a ping-pong, altri preparano dei panini. Christopher, uno degli educatori, mi mostra il centro, che è gestito da un’associazione privata tramite fondi statali e cittadini: “Per i ragazzi è molto importante poter venire qua. Tanti in casa non ci voglio stare e, se non venissero qui, non riuscirei a immaginarmi molti altri posti dove possano passare il pomeriggio, almeno qui nel quartiere.”

    Al di là delle opposte retoriche, al di là dei rancori neo-nazistoidi, al di là delle facili utopie post-terzomondiste, non si sa come proseguirà l’incontro tra il proletariato bianco tedesco e quello migrante.

In una grande sala parlo con alcuni ragazzi, mentre dalle casse dello stereo viene sparato a tutto volume del rap tedesco. I sogni dei bambini del centro sono gli stessi ovunque: c’è chi vuole fare il calciatore e chi la pasticcera, chi vuole fare il bandito e chi il poliziotto. C’è la ragazzina che vuole fare la cantante e il ragazzino che non ha la più pallida idea di cosa farà domani mattina. Alcuni adolescenti rispondono scherzando, dicendo che da grandi vogliono prendere l’Hartz IV. Gli chiedo cosa sia l’Hartz IV, secondo loro. Due ragazzine che si stanno mettendo lo smalto sulle unghie mi rispondono quello che mi direbbe qualunque tedesco medio: “L’Hartz IV ce l’hanno quei bambini che hanno i genitori troppo pigri per lavorare”. “Esatto!” esclama un altro bambino. Mi guardo intorno. Se le statistiche su Marzahn Nord non sono sbagliate, quasi due bambini su tre vivono in una famiglia con il sussidio. Qualcuno di loro deve trovarsi anche qui, in questo stesso momento.

Poco dopo, conosco Paul e Max, 23 e 24 anni. Vengono al Betonia da quando sono piccoli e continuano a frequentarlo, ancora adesso. “Per me è stato molto importante venire qui, c’è sempre qualcuno con cui puoi parlare quando hai un problema” spiega Paul, “ancora adesso invece di starmene a casa quando non lavoro, vengo qua. Questo posto mi ha aiutato a muovere il culo, in questo quartiere la cosa importante è muovere il culo. A un certo punto c’è chi resta col culo per terra e chi lo muove. Io ho già fatto tanti lavori. Ora lavoro come guardia armata all’aeroporto”. Paul parla in modo molto sicuro, scandendo bene le parole. “Chi viene da fuori ha un po’ di pregiudizi su Marzahn. Ma anche io ho i miei pregiudizi, ad esempio su Neukölln. Là ci sono sempre disordini, a Capodanno hanno bruciato una macchina per festeggiare. Se succedesse qui, sarebbe sulle prima pagine di tutti i giornali.”

Quando spiego che anche io sono arrivato a Marzahn Nord sulle tracce dei pregiudizi, inclusi quelli politici, l’altro ragazzo, Max, ha voglia di parlarne: “Il centro rifugiati qui dietro non è mica bruciato. Non è mai successo niente. Certo, anche qui ci sono degli estremisti di destra, magari perché da ragazzini si sono presi qualche pugno di troppo da qualche straniero.” Malgrado la fermezza delle sue parole, Max parla con un tono molto gentile, sorridendo. Gli domando cosa pensa del successo dell’AfD? “Non significa a tutti i costi che la gente sia di estrema destra, anzi, guarda, non c’entra proprio niente. Nel senso, cosa dovrebbero votare? Cosa? Frau Merkel? Qua nessuno la vuole più vedere, scordatelo, scordatelo proprio. Spd? Mah, anche per loro non so proprio che senso abbia. La gente è frustrata, CDU e SPD sono al governo da venti anni. Tante persone da queste parti sono stufe di guadagnare poco mentre tutto diventa più caro. C’è chi vota la sinistra estrema, ma altri la Linke non la vogliono votare nemmeno per scherzo, perché la Linke significa anche SED, il vecchio governo della DDR, quindi lasciamo stare.”
Germania-9
© Emmanuele Contini.

Calze di lana
Qualche giorno dopo, a inizio aprile, sono di nuovo sul tram 16. Mentre aspetto di arrivare all’ultima fermata, leggo l’ennesimo articolo sulla campagna elettorale del socialdemocratico Martin Schulz, l’ex Presidente del Parlamento Europeo che vuole ora spodestare Angela Merkel. Anche lui deve aver fatto qualche giro in posti simili a Marzahn Nord visto che, d’un tratto, i suoi temi preferiti sono diventati l’uguaglianza, la difesa dei diritti sociali e la protezione dei meno abbienti. Schulz è arrivato a promettere un improbabile smantellamento dell’Agenda 2010, una riforma che fu opera dell’ultimo Cancelliere socialdemocratico, Gerard Schröder, e che, piaccia o meno, è stata una delle pietre angolari del rilancio dell’economia tedesca.

Non si sa se questa riscoperta della questione sociale da parte dell’establishment politico riuscirà, sul lungo periodo, a contrastare l’etnicizzazione delle rivendicazioni dei più scontenti. Magari funzionerà per le prossime elezioni, ma i problemi potrebbero cominciare proprio dopo. Ora, oltre un milione di nuovi arrivati è in Germania e andrà ad aggiungersi a comunità immigrate la cui integrazione nel paese è tutt’altro che realizzata (o, secondo alcuni, tutt’altro che realizzabile). Al di là delle opposte retoriche, al di là dei rancori neo-nazistoidi, al di là delle facili utopie post-terzomondiste, non si sa come proseguirà l’incontro tra il proletariato bianco tedesco e quello migrante.

Una risposta convinta su come debba avvenire questo incontro, però, è certo di averla Matthias, un uomo corpulento sulla cinquantina, che a Marzahn Nord ho incontrato più volte. Matthias gestisce da anni la Spielplatzinitiative Marzahn, un’associazione che cura due terreni attrezzati su cui vengono organizzate numerose attività per i più piccoli e, molto spesso, si creano occasioni d’incontro tra i bambini locali e quelli dei centri di accoglienza.

Matthias mi ha invitato a una delle giornate ricreative che organizza. Tutto si svolge su uno dei due terreni, dove c’è un piccolo laghetto artificiale, un bivacco con il fuoco, una bella casetta circolare con la cucina e un forno in mattoni. Quando arrivo, il prato brulica di bambini: alcuni giocano a pallavolo, altri cavalcano due pony arrivati là non so come, altri ancora saltano su un grande elastico. Delle ragazze del posto e delle giovani ragazze curde hanno cucinato alcune pizze. “Sai quanti genitori all’inizio non vogliono far venire i bambini? Tanti. Poi dopo le prime volte capiscono che i rifugiati sono persone come loro e tutto diventa più facile”, mi spiega Matthias.

I bambini giocano in gruppi, non sono completamente mischiati, si riconoscono ancora bene i gruppetti dei ragazzini medio-orientali e quelli dei piccoli tedeschi. L’atmosfera è gioiosa. Matthias mi parla dei prossimi progetti, in maniera instancabile: mi spiega delle difficoltà oggettive, delle soddisfazioni, dei contrasti nel quartiere. Infine mi racconta un episodio: “Lo scorso inverno, una volta, siamo riusciti a far venire a un’iniziativa diverse madri rifugiate con i loro figli e, anche, un gruppo di madri che vivono in una serie di caseggiati qua dietro, persone molto ostili contro i migranti. Sono caseggiati dove vivono molti rappresentanti della comunità russo-tedesca, un sottogruppo etnico che prova un particolare astio per i musulmani, non c’è niente da fare. Tante di quelle mamme o dei loro mariti erano stati fisicamente in prima fila nelle proteste contro l’apertura dei centri di accoglienza. “Quando, però, si sono incontrate qua con le mamme siriane, afgane o irakene hanno parlato tutte insieme ed è venuto fuori che nel centro di accoglienza i pavimenti dei prefabbricati erano molto freddi e i bambini avevano sempre i piedi gelati. È andata a finire che le persone del posto hanno regalato svariate paia di calze di lana ai bambini rifugiati. Quando ho rivisto alcune di quelle persone gli ho chiesto se hanno cambiato almeno un po’ idea su chi sta nel centro di accoglienza. Loro mi hanno risposto che non si tratta di cambiare idea. Si tratta dei bambini.”
«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #19 il: Gennaio 05, 2018, 01:45:24 am »
Alcuni giorni fa un italiano residente a Berlino mi ha precisato ciò:

Citazione
Giusto quasi tutto, fino agli immigrati, chi va al Jobcenter, per legge ha gli stessi diritti e doveri del tedesco, i soldi pero li danno a chi ha lavorato un anno minimo in regola, non come una volta che ti bastava solo il permesso di soggiorno....... Ai migranti che vengono da Libia Siria etc. danno c.ca un 150€ in meno di uno che prende Hartz4 regolare ( 410€ c.ca)....e si chiamano asylant di solito.
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Offline Sardus_Pater

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #20 il: Gennaio 09, 2018, 12:32:38 pm »
Arme Deutschland.
Il femminismo è l'oppio delle donne.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #21 il: Gennaio 11, 2018, 19:42:22 pm »
https://www.ilfattoquotidiano.it/2015/08/28/laquila-e-la-piovra-il-racconto-di-un-poliziotto-italiano-in-albania-fra-trafficanti-e-politici-corrotti/1991057/

Citazione
“L’Aquila e la Piovra”, il racconto di un poliziotto italiano in Albania fra trafficanti e politici corrotti
di Mario Portanova   

PAGINE NERE - Libri su crimini veri italiani e no/ Il diario in presa diretta di Gianni Palagonia - nome finto di un investigatore vero - in servizio negli anni 2000 nell'ufficio di collegamento di Tirana. Le ragazze inghiottite nella tratta, il trafficante in visita a una grande discarica italiana, il ministro che viaggia su una Mercedes rubata in Germania. Ritratto criminale (e sentimentale) di un Paese molto vicino a noi
di Mario Portanova | 28 agosto 2015

Più informazioni su: Albania, Narcotraffico, Polizia, Traffico di Rifiuti, Traffico Esseri Umani

Le tragedie dell’immigrazione riportano all’attualità la questione delle mafie straniere, cresciute intorno ai nostri confini, terrestri e marittimi, soprattutto grazie al traffico di esseri umani e di droga. In “L’aquila e la piovra – Un poliziotto italiano in missione in Albania” (Edizioni CentoAutori, 319 pagine, 16,50 euro), Gianni Palagonia svela il dietro le quinte delle attività delle nostre forze dell’ordine in Paesi caldi. Palagonia è il “nome falso di un poliziotto vero” che ha già all’attivo due romanzi, in realtà esperienze di vita vissuta in cui nomi e circostanze sono alterate quanto basta per garantire la necessaria riservatezza. Senza concedere nulla a preziosismi stilistici Palagonia, siciliano, investigatore protagonista nella realtà di delicate inchieste antimafia e antiterrorismo, offre un racconto in presa diretta della sua esperienza nell’ufficio di collegamento tra polizia albanese e italiana a Tirana negli anni 2000. Leit motiv del libro è il classico dilemma dello sbirro tra rispetto delle regole e necessità di portare a casa risultati. O, più semplicemente, di evitare un omicidio annunciato, con gli scarsi margini di manovra sanciti dai protocolli bilaterali e dal divieto di portare armi in un Paese dove negli anni Novanta sono state saccheggiate le caserme e non sono pochi quelli che conservano in casa un Kalashnikov.

Naturalmente Palagonia si imbatte in tragiche storie di emigrazione, viste con gli occhi degli altri. Come le croci bianche intorno alla chiesa di Blinshit – tra le montagne del Nord, la parte più povera dell’Albania – dedicate alle “ragazze smarrite di Zadrima”. Cioè le ragazze rapite dai trafficanti per essere avviate alla prostituzione in Italia, di cui i familiari non hanno saputo più nulla. Il che ci ricorda dolorosamente che a volte i temuti barconi dell'”invasione” sono trainati più dalla domanda che dall’offerta. Ma non è questo l’unico business criminale tra le due sponde dell’Adriatico. Il poliziotto-scrittore racconta una rocambolesca indagine su uno dei più importanti trafficanti di droga albanesi, in contatto con la ‘ndrangheta, agganciato in palestra dalla squadretta di investigatori italiani e inzeppato di “cimici” in occasione di un suo viaggio in Italia. Anche qui i nomi sono finti, tranne uno, quello di Borgo Montello. A sopresa, questa piccola frazione del Comune di Latina è l’unica meta del viaggio del trafficante, oltre alla visita a una società che si occupa, guarda un po’, di impianti eolici. Borgo Montello è la sede della seconda discarica di rifiuti del Lazio, intrisa di veleni e misteri. Poi ci sono i criminali disorganizzati, ma pericolosi lo stesso. Come l’albanese residente in italia che via sms annuncia a un amico di essere tornato in patria a uccidere “quella puttana” della sue ex, colpevole di essersi trovata un altro un po’ troppo presto, dando adito al sospetto di corna pregresse. La ragazza in questione ringrazierà le intercettazioni telefoniche.

E’ la dura legge del Kanun, il codice d’onore tradizionale che regola in modo drastico le questioni d’onore e le vendette di sangue e priva le donne di qualunque diritto (eredità compresa). Palagonia racconta un’Albania dove il Kanun offre la griglia di “valori” alle organizzazioni criminali, la corruzione è capillare – la mazzetta è necessaria anche per ottenere le minime cure in ospedale -, politici e mafiosi vanno a braccetto, i poliziotti integri finiscono disoccupati, per chi ha le amicizie giuste la legge è un optional e la maggioranza degli onesti fa sforzi eroici per resistere e sopravvivere. E ‘ citato anche un ministro che viaggia su una “Mercedes rubata in Germania” con due mafiosi come guardaspalle, ma il “protocollo” in casi come questi non prevede interventi da parte dei nostri agenti. Di fronte a questa Albania il poliziotto italiano si stupisce. Ma fino a un certo punto.


LA FRASE. “Il controllo non lo vuole nessuno perché sarebbe una perdita enorme di denaro che serve comunque a muovere l’economia di un’intera nazione e a fare arricchire i soliti noti”.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #22 il: Gennaio 11, 2018, 19:49:55 pm »
http://www.repubblica.it/esteri/2017/02/19/news/albania_paura_furti-158678977/

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Albania, allarme rapine dopo l'ultimo colpo grosso all'aeroporto: pronte misure d'emergenza

Presa una banda armata dopo una spettacolare caccia all'uomo. Sarebbe la stessa che lo scorso giugno fece irruzione indisturbata nel settore partenze, bottino oltre 3 milioni. Bruxelles ammonisce che per un’adesione futura del paese all’Unione europea - obiettivo strategico del premier Rama – è necessaria una vittoria definitiva contro malavita e corruzione
di ANDREA TARQUINI

19 febbraio 2017

Allarme rapine in Albania, il governo annuncia misure d’emergenza. L’ultima vicenda evoca quasi i film con cui Hollywood narrò del crimine a Chicago e altrove in Usa ai tempi di Al Capone. Dopo una spettacolare caccia all’uomo durata in tutto dieci giorni, la polizia albanese ha arrestato i sei membri della banda che il 9 febbraio scorso aveva assaltato un furgone blindato portavalori non lontano dall’aeroporto della capitale Tirana, dunque in una delle zone del paese dove dovrebbe essere garantito il massimo livello di sicurezza.

I sei arrestati, secondo il capo della polizia, Ervin Hodaj, erano gli stessi che in dicembre avevano assaltato a mano armata e svaligiato un altro camioncino portavalori, sempre nei pressi dell’aeroporto. E nel giugno dell’anno scorso, alcuni gangster erano addirittura riusciti a entrare, armi in pugno, nella zona di sicurezza del lato partenze dello scalo rubando circa 3 milioni di euro. Mentre a ottobre un’altra banda – forse la stessa del colpo del 9 scorso contro il furgone - aveva svaligiato una gioielleria in pieno centro, facendo saltare un muro dell’edificio con una potente carica esplosiva.
       
L’ultima rapina è stata il caso più clamoroso, dicono le autorità citate dalla Reuters e dall’agenzia di stampa cinese Xinhua. Il 9 febbraio appunto i sei, armati fino ai denti, avevano bloccato il furgone portavalori della ditta privata ‘Jaguar security’, e senza alcun problema avevano rubato un totale di 3,2 milioni di euro in varie valute. Lo hanno assaltato speronandolo con due potenti auto, poi sparando coi mitra gli hanno messo fuori uso tutti i 4 pneumatici. Hanno agito con calma, per dieci lunghi minuti.

Gravi sospetti pesano sulle guardie a bordo del furgone, che a quanto pare non hanno tentato di opporre resistenza, e probabilmente anche su altri componenti dei corpi privati di vigilantes portavalori: "Sono pagati poco e male, non possono essere eroi", ha detto il ministro dell’Interno, Saimir Tahiri. La dinamica della rapina è sconcertante: durante l’assalto, le guardie private non avevano acceso il sistema Gps che ovunque, di solito, consente alla centrale di ogni ditta portavalori, in collegamento con la polizia, di localizzare i furgoni carichi di denaro e quindi di scoprire in tempo una rapina. Il dispositivo Gps, addirittura, era stato spostato: non si trovava vicino ai sacchi colmi di banconote, ma sotto uno dei sedili della cabina di guida.

E le telecamere di sicurezza a bordo del furgone erano spente. Tutte tranne una che ha filmato i dieci minuti della rapina, mostrando i gangster che con tutta calma caricavano sulle loro auto una decina di enormi sacchi pieni di valuta. Poi sono fuggiti, e in un villaggio poco lontano, per ironia in una strada chiamata ‘Via dei ladri’,  hanno dato le loro vetture alle fiamme continuando il loro viaggio con altri veicoli.

La ‘Jaguar security’ si è vista subito ritirare la licenza. E governo e alti gradi della polizia studiano con la Banca centrale e gli istituti di credito misure per migliorare le garanzie di sicurezza. Un’ipotesi operativa è di affidare il trasporto di valuta ad agenti delle forze dell’ordine o dei corpi speciali, evidentemente ritenuti più affidabili delle guardie private.
       
La caccia all’uomo è durata fino a stamane quando, afferma la Xinhua, la polizia ha arrestato Admir Murataj, il capobanda. Gli altri cinque erano caduti nella rete degli agenti martedì scorso. Uno di loro aveva lavorato per la compagnia portavalori, altri due erano ex commandos dell’esercito albanese con alto addestramento militare: avevano prestato servizio nel piccolo contingente inviato dal paese in Afghanistan nell’ambito delle operazioni Nato. L’associazione delle banche albanesi esprime allarme: proprio la strada che dalla capitale conduce all’aeroporto internazionale “Madre Teresa” dovrebbe essere una delle più sicure, perché spessissimo vi transitano furgoni portavalori.
       
La rapina all’interno dell’aeroporto era avvenuta, scrive la Xinhua, il 30 giugno scorso. Tre gangster armati erano riusciti a entrare nell’area di sicurezza del settore partenze, senza che nessuno tentasse di fermarli, e da banche e negozi avevano rapinato circa 3 milioni di euro. La rapina con l’esplosivo condotta contro la gioielleria era avvenuta in ottobre, ed era fruttata mezzo milione di euro. La polizia sospetta che i suoi autori siano gli stessi del colpo contro il furgone condotto appunto il 9 febbraio scorso nei pressi dell’aeroporto.
       
Dopo mezzo secolo di spietata dittatura stalinista guidata da Enver Hoxha, che fu brutale e isolata dal mondo un po’come la Corea del Nord, l’Albania ha fatto dapprima lenti passi avanti verso una normalizzazione. Da quando Edi Rama, prima popolare sindaco-rinnovatore di Tirana, è diventato premier, riforme, modernizzazione e sviluppo economico hanno compiuto grandi progressi. Ma per un’adesione futura all’Unione europea – obiettivo strategico di Rama – è necessaria, come ammonisce Bruxelles, una vittoria definitiva contro malavita e corruzione.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #23 il: Gennaio 20, 2018, 19:04:32 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/87934

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ROMANIA: Prima donna premier. Ma c’è poco da festeggiare
Francesco Magno 2 giorni fa   

Il presidente della Repubblica Klaus Iohannis ha accettato la proposta socialista: Viorica Dăncilă sarà il nuovo primo ministro del paese. La Dăncilă, 54 anni, è attualmente europarlamentare del partito social-democratico (PSD). E’ nata a Videle, nella provincia di Teleorman; stessa città di cui è originaria Carmen Dan, il ministro degli Interni che l’ex premier Tudose voleva a tutti i costi allontanare dal suo governo. Teleorman è poi la provincia di Liviu Dragnea, il territorio che il padre padrone del partito governa indisturbato da vent’anni e da cui ha iniziato la sua scalata verso i palazzi del potere di Bucarest.


Leggendo la stampa occidentale, spesso tristemente offuscata dalla sindrome del politically correct, il sesso del nuovo primo ministro sembra offuscare il suo background politico. La Dăncilă non vanta infatti grandi realizzazioni; presidente dell’associazione femminile del PSD e due volte europarlamentare, essa non possiede alcun tipo di esperienza nell’amministrazione del paese. Il suo curriculum non riporta la conoscenza di lingue straniere, sebbene Dragnea sostenga la sua piena padronanza dell’inglese e del francese. Molti commentatori sostengono che la scelta sarebbe caduta su di lei dopo i rifiuti di altri più autorevoli membri del partito, tra cui spiccano il premier a interim Mihai Fifor e, soprattutto, il sindaco di Bucarest Gabriela Firea, da molti accreditata come una delle possibili sfidanti di Klaus Iohannis alle elezioni presidenziali del 2019.

La Dăncilă non ha mai nascosto la vicinanza al suo conterraneo Dragnea. Quest’ultimo, dopo due primi ministri “troppo indipendenti” ha optato per una persona fedele e ligia alle direttive del partito. E’ difficile credere che il nuovo premier arriverà allo scontro frontale con il presidente del PSD così come hanno fatto Grindeanu prima e Tudose poi. Nel febbraio 2017, quando Bucarest divenne teatro delle grandi proteste di piazza, la Dăncilă difese strenuamente a Bruxelles la modifica delle leggi sulla giustizia promossa dal suo partito, rispondendo piccata ad altri europarlamentari che dubitavano della bontà di suddette normative. Non sarebbe sorprendente pertanto vedere un nuovo tentativo di modifica della legislazione anti-corruzione, favorito questa volta dalla presenza di un primo ministro accondiscendente.

Perché Iohannis ha accettato la proposta di Dragnea? Il presidente ha agito pensando prima di tutto al suo tornaconto politico. Diventare adesso l’arbitro della vita politica romena, nominando un governo di unità nazionale o trascinando il paese verso le elezioni anticipate, lo avrebbe posto troppo sotto i riflettori. Un rischio molto grosso, a un anno dalle elezioni presidenziali. Iohannis ha scommesso sull’autodistruzione del PSD, falcidiato dalle lotte interne, il che gli garantirebbe una facile rielezione nel 2019. Senza contare il fatto che l’instabilità provocata dall’assenza di un governo forte potrebbe avere effetti gravissimi sull’economia romena.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #24 il: Gennaio 20, 2018, 19:09:44 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/87892

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KOSOVO: Ucciso Oliver Ivanovic, uno dei maggiori leader della comunità serba
Riccardo Celeghini 4 giorni fa   

Oliver Ivanović, uno dei maggiori leader politici dei serbi del Kosovo, è stato ucciso questa mattina a Nord Mitrovica. L’omicidio è avvenuto di fronte alla sede del suo partito, Građanska inicijativa “Srbija demokratija pravda”, dove Ivanović è stato raggiunto da cinque colpi di pistola. Alla notizia, il governo serbo ha annullato il previsto incontro di oggi a Bruxelles con la delegazione kosovara – parte del dialogo tra Kosovo e Serbia sotto la tutela dell’Unione Europea. Il capo dell’Ufficio per il Kosovo e Metohija del governo serbo, Marko Đurić, ha definito l’omicidio un atto criminale e terroristico, nonché un attacco a tutto il popolo serbo. Il governo kosovaro ha condannato con fermezza l’omicidio.

Di ritorno da Bruxelles, il presidente della repubblica Aleksandar Vučić, ha convocato per mezzogiorno una sessione straordinaria del Consiglio di Sicurezza Nazionale, alla quale è seguita la conferenza per i giornalisti alle 13. Alla conferenza, Vučić ha confermato che si tratta di un attentato terroristico contro tutto il paese e che i responsabili verranno consegnati alla giustizia.
Il presidente ha poi approfittato della presenza dei media per condannare le speculazioni pubblicate sui social poco dopo la conferma della morte di Ivanović, e per affermare che queste provengono da coloro che vorrebbero che “lo stivale albanese calpesti il nord del Kosovo”. Inoltre, Vučić ha fatto riferimenti diretti ai suoi oppositori politici, tra cui Saša Janković e Dragan Đilas, per difendersi dalle accuse di tradimento della questione kosovara.

Ivanović è stata una delle figure preminenti della comunità serba in Kosovo negli ultimi venti anni. La sua carriera politica inizia negli anni della guerra, quando diventa presidente del Consiglio Nazionale Serbo per il Nord Kosovo e Metohija. Da allora è emerso come uno dei leader più dialoganti del nord Kosovo, spendendosi come interlocutore sia con le organizzazioni internazionali che con le istituzioni di Pristina, divenendo deputato nel parlamento kosovaro. La sua carriera subisce una svolta nel 2014, quando viene arrestato, tra le proteste della Serbia, con l’accusa di crimini di guerra commessi a danno di albanesi durante il conflitto. Nel 2016 Ivanović viene condannato a 9 anni di detenzione, ma un anno dopo il verdetto viene annullato dalla Corte di Pristina, che ordina un nuovo processo. Durante la detenzione, Ivanović concorre alla carica di sindaco di Mitrovica Nord nelle elezioni locali del 2014, dove viene sconfitto da Goran Rakić, candidato della Lista Serba, il partito sostenuto dal governo di Belgrado. La sfida si ripete alle elezioni locali del 2017, quando Ivanović viene nuovamente sconfitto da Rakić al primo turno.

Proprio la decisione di opporsi al partito controllato dal governo di Belgrado è costata ad Ivanović un progressivo isolamento all’interno del panorama politico della comunità serba in Kosovo. Durante l’ultima campagna elettorale, Ivanović ha denunciato un clima di intimidazioni e minacce contro di lui e contro il suo partito da parte della Lista Serba. Nei mesi che hanno preceduto le elezioni quattro candidati di Iniziativa si sono ritirati in circostanze poco chiare e lo stesso Ivanović ha trovato molte difficoltà nell’accedere ai media serbi in Kosovo.

Questa situazione lascia presupporre che dietro all’omicidio ci possano essere regolamenti di conti all’interno della leadership politica serba del Kosovo, che da sempre è contrassegnata da violenze, aggressioni e minacce di diversa natura. D’altro canto, anche l’opzione di un omicidio interetnico non può essere scartata. Le accuse che pesavano su Ivanović erano particolarmente pesanti, tra cui l’aver orchestrato un’operazione di espulsione ed uccisione della popolazione albanese che viveva nel lato nord di Mitrovica, in qualità di leader di un’unità paramilitare in azione durante il bombardamento della Nato sulla Serbia di Slobodan Milosević. Nonostante si sia dichiarato sempre innocente, dunque, i nemici nel campo albanese non mancano.

Quel che è certo è che l’uccisione di un politico di tale livello rischia di avere delle ripercussioni pesanti nell’equilibrio inter-etnico e politico del Kosovo. In un momento di crescente tensione, dovuta all’attesa dei primi rinvii a giudizio della Corte Speciale per i crimini commessi dall’UÇK, l’Esercito di Liberazione del Kosovo, l’omicidio di Ivanović getta nuove ombre sul futuro del Kosovo.
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Offline Hector Hammond

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #25 il: Gennaio 27, 2018, 16:49:18 pm »
Non esistono paradisi sulla Terra, ma Paesi in declino e Paesi in ascesa (o in recupero). Nel lungo periodo meglio vivere nei secondi.
L'Europa il declino se l'è imposto, pure tramite il femminismo  :sick:  :cry: .

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #26 il: Febbraio 05, 2018, 19:32:10 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/87653

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ARMENIA: Non è un paese per bambine. Il dramma degli aborti selettivi

Emanuele Cassano 6 giorni fa   

L’Armenia è il secondo paese al mondo per tasso di aborti selettivi, a causa dell’ossessiva ricerca di figli maschi. Un approfondimento

Mariam, 31 anni, è madre di due bambine ed è originaria della regione di Armavir, Armenia occidentale. Anche dopo la nascita della seconda figlia, ha continuato a inseguire il suo sogno, avere un maschio, affidandosi ad un calcolo di probabilità. Ma non appena saputo di essere rimasta incinta e che si sarebbe trattato di un’altra femmina ha scelto di ricorrere all’aborto. “Mi sento colpevole di aver preso questa decisione, ma continuo a sperare di avere un figlio maschio un giorno. Non voglio scoprire ancora una volta che si tratta di una femmina e abortire di nuovo, non posso… Continuo a ripetermi che la prossima volta sarà quella buona”.

Spesso, in Armenia, molte donne come Mariam ricorrono alla pratica dell’aborto selettivo – spesso spinte in questo dal marito o dalla famiglia – per assicurarsi figli maschi, mettendo però a serio rischio la loro salute e lo stesso equilibrio demografico del paese.

Tra i primi al mondo per tasso di aborti selettivi

Secondo il 2016 Global Gender Gap Report, l’Armenia è il secondo paese al mondo per tasso di aborti selettivi, dietro solo alla Cina. Come ricorda Garik Hayrapetyan, rappresentante di UNFPA Armenia – agenzia Onu che si occupa di politiche famigliari – il sesso del feto è alla base del 10% di tutti gli aborti indotti effettuati nel paese caucasico, dove ogni anno circa 1.400 nascite femminili vengono interrotte. Il problema degli aborti selettivi è emerso in seguito all’indipendenza del paese, negli anni Novanta, sebbene in Armenia l’aborto venisse largamente praticato come metodo contraccettivo fin dall’epoca dell’Unione Sovietica (il primo paese a legalizzare l’aborto, nel 1920).

Questo problema non riguarda solo l’Armenia, ma è comune a tutto il Caucaso, come conferma la presenza nelle prime dieci posizioni della classifica dei paesi con il più alto tasso di aborti selettivi dell’Azerbaijan (al 5° posto) e della Georgia (all’8°).

Secondo un rapporto di UNFPA Armenia del 2013, il paese ha inoltre il terzo più alto livello di mascolinità alla nascita osservato nel mondo, e una sex ratio tale per cui per ogni 114-115 maschi nascono solo 100 femmine (la media mondiale è di 105 maschi per 100 femmine). Questa stessa ricerca dimostra come il divario aumenti progressivamente a seconda dell’ordine di nascita: mentre il rapporto tra sessi è relativamente equilibrato per la prima nascita, esso aumenta a 173 maschi per 100 femmine al terzo figlio.

Quali sono le cause di questo fenomeno?

Per Ani Jilozian, attivista presso il Women’s Support Center di Yerevan, questo squilibrio è dovuto principalmente a tre fattori tra loro correlati. Il primo è la preferenza verso i figli maschi, che deriva da una struttura familiare in cui le ragazze e le donne hanno un ruolo sociale, economico e simbolico marginale, e di conseguenza godono di meno diritti. I figli maschi garantiscono inoltre una sicurezza per ogni famiglia, in quanto hanno il compito di prendersi cura dei propri genitori e assisterli nel corso della loro vecchiaia, poiché le donne, una volta sposate, vanno solitamente a vivere presso la famiglia del marito. Un secondo fattore è lo sviluppo tecnologico applicato alla diagnostica prenatale, che ha permesso ai genitori di conoscere il sesso del bambino ancor prima della nascita. L’ultimo fattore è la bassa fertilità (in media ogni donna armena partorisce 1,7 figli), che riduce la probabilità di avere un figlio maschio nelle famiglie più piccole aumentando di conseguenza la necessità di selezionare il sesso.

Sebbene una statistica di UNFPA Armenia (2012) stabilisca che nel 70% dei casi siano le donne a scegliere di abortire, non sempre esse sono messe in condizione di prendere questa decisione in piena autonomia. Secondo uno studio qualitativo condotto da Ani Jilozian, basato su una serie di interviste realizzate con alcune donne che hanno fatto ricorso all’aborto selettivo, la maggioranza delle intervistate, pur rivendicando inizialmente la decisione di abortire, ha successivamente ammesso che la scelta è stata di fatto indotta dalla forte volontà del marito o della sua famiglia di avere un figlio maschio. Talvolta sono gli stessi mariti a prendere la decisione per la moglie, ricorrendo in molti casi anche a pressioni psicologiche.

Una legislazione inefficace

Secondo la legge armena una donna può effettuare un aborto fino alla 12ma settimana di gravidanza, periodo nel quale il sesso del feto non può ancora essere determinato, il che dimostra come la maggior parte degli aborti selettivi siano illegali e rischiosi. Solo il 57% delle donne è però al corrente dell’illegalità di questo processo e dei rischi che esso comporta.

Recentemente il governo armeno ha introdotto una nuova legge per combattere il fenomeno degli aborti selettivi. Secondo la nuova norma, prima di poter effettuare un aborto, una donna deve partecipare a una sessione di consulenza con il proprio medico, e successivamente aspettare tre giorni prima di ricevere l’autorizzazione per l’intervento. Secondo il governo armeno questa legge dovrebbe aiutare a sensibilizzare le donne sui rischi che comporta l’aborto e a metterle nella condizione di riflettere meglio.

Come spiega però Ani Jilozian, questa legge è inadeguata, in quanto limita la libertà riproduttiva della donna e ne mette a rischio la stessa salute. Dichiarare illegali gli aborti selettivi non è una soluzione che può combattere efficacemente il problema, in quanto non elimina le cause principali di questa preferenza sessuale, le quali sono profondamente radicate nella società patriarcale armena. Il tentativo di limitare l’accesso all’aborto senza affrontare le principali cause della preferenza del sesso potrebbe quindi finire per provocare una maggiore domanda di aborti illegali o non sicuri, in particolare per le donne provenienti dalle comunità più emarginate.

Inoltre, seppure negli ultimi anni in Armenia il numero di aborti selettivi sia in leggera diminuzione, secondo alcune proiezioni, se nel lungo periodo questo fenomeno non verrà adeguatamente contrastato, entro il 2060 in un paese di soli tre milioni di abitanti verranno a mancare circa 93.000 donne, ovvero il 3% dell’attuale popolazione totale. Questo causerebbe un conseguente processo di emigrazione di una parte della popolazione maschile, destinata ad andare in cerca di una partner al di fuori del paese, mettendone a rischio l’equilibrio demografico.
«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #27 il: Febbraio 05, 2018, 19:35:30 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/88036

Citazione
POLONIA: Le donne tornano in piazza per il diritto d’aborto

Paola Di Marzo 7 giorni fa   

Dopo poco più di un anno dalle imponenti manifestazioni note come Czarny Protest, “protesta in nero“, contro la criminalizzazione e il divieto totale d’aborto proposto dal partito di governo Diritto e Giustizia (PiS), le donne polacche sono tornate in piazza sfilando nelle principali città del paese col sostegno del piccolo “Podemos polacco”, il movimento Partia Razem.

Il tentativo di liberalizzare l’aborto

Stavolta, però, a scatenare la rabbia dei manifestanti è stata proprio l’opposizione in Parlamento per non aver assicurato sufficienti voti alla proposta di liberalizzare la legge sull’aborto, alla Camera per una prima lettura il 10 gennaio. Infatti, 29 deputati di Piattaforma Civica (PO), il principale partito d’opposizione, si sono astenuti e tre hanno votato contro incorrendo nell’espulsione dal partito come capitato a altri tre parlamentari del liberale Nowoczesna. Ha sorpreso, invece, il voto a favore di 58 deputati di PiS. L’oggetto della disputa è stata la proposta chiamata “Salviamo le donne” che prevedeva tra altre ipotesi per così dire “minori” (introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole, vendita della pillola del giorno dopo senza prescrizione medica) il diritto d’aborto senza restrizioni fino alla 12° settimana. Secondo quanto stabilito da una legge in vigore dal 1993, questa pratica ad oggi è esercitata solo nei casi in cui la vita della madre sia a rischio, la gravidanza sia frutto di stupro o incesto, oppure il feto sia gravemente malformato.

L’opposizione in parlamento lascia sole le donne

“L’opposizione ci ha abbandonato e ha perso fiducia e credibilità ai nostri occhi” ha dichiarato a East Journal Zofia Marcinek, studentessa di Varsavia e attivista su questo fronte dal 2016. “Mentre Razem condivide le nostre battaglie e ci ha sempre sostenuto nonostante gli sforzi siano limitati in quanto forza extra-parlamentare, il comportamento di PO e Nowoczesna è indicativo della distanza tra i partiti e i cittadini. Una volta eletti, i politici, abituati alla deferenza e a critiche blande, non si sentono più responsabili delle loro azioni e alcuni non ne prevedono nemmeno le conseguenze visto che conserveranno sempre la poltrona, almeno per questa legislatura. Nowoczesna, però, sta tentando di correre ai ripari promuovendo una proposta di legge simile alla nostra. Non è perfetta ma è già qualcosa. Non ci ha stupito invece il comportamento di PiS. Già in campagna avevano promesso che non avrebbero mai rigettato un’iniziativa cittadina al primo colpo e così è stato. Inoltre, anche se il loro obiettivo è un divieto totale, sanno che molti polacchi non sono d’accordo. A metà mandato assumersi un rischio del genere non sarebbe saggio. Anche in passato hanno fatto così: quando le elezioni si avvicinano, le loro misure si fanno meno drastiche e cambiano alcune personalità chiave, mentre altre si defilano”.

Ulteriori restrizioni in arrivo?

Nella stessa seduta del 10 gennaio, mentre la proposta “Save the Women” veniva rigettata, è avvenuta la prima lettura del progetto “Stop Abortion”, presentato dalla Fondazione “Vita e Famiglia” e approvato per un ulteriore riesame. Il disegno prevede la proibizione dell’aborto in caso di malformazioni fetali. I medici che non rispetteranno il divieto incorreranno in sanzioni penali.

Secondo le statistiche ufficiali del governo, nel 2016 sono stati effettuati 1088 aborti legali in Polonia, di cui 1042 dovuti a insufficienza irreversibile o malattia fetale incurabile. Ciò significa che alla luce dei cambiamenti che potrebbero arrivare, circa il 95% di queste donne lo farebbe illegalmente, e i medici che hanno eseguito questa procedura sarebbero esposti a accuse penali. “Già oggi le restrizioni all’aborto sono più severe che sulla carta” ci dice Zofia. “Molti dottori sono obiettori, altri pensano che praticandolo si farebbero brutta pubblicità. Così, in molti Voivodati diventa veramente impossibile esercitarlo. Alcune donne non vengono nemmeno informate sulle patologie fetali per evitare che ricorrano all’aborto”

In base alle le stime di varie organizzazioni non governative, il numero di aborti clandestini è compreso tra gli 80 e i 190 mila l’anno. Se la legge venisse approvata, questi numeri non farebbero che aumentare. Secondo un reportage del The Guardian, in Polonia l’aborto illegale costa quasi 895 dollari e per questa ragione sono molte le donne che decidono di recarsi all’estero, specie in Slovacchia dove la cifra media si aggira attorno ai 380 euro.

Il governo cambia il pelo ma non il vizio

Nonostante il rimpasto governativo delle scorse settimane e la messa in piedi di un esecutivo più moderato, non dovrebbero esserci passi in avanti al riguardo. Il nuovo ministro della Salute, Lukas Szumowski, è tra i 4000 dottori polacchi che hanno firmato una dichiarazione di fede impegnandosi a non partecipare “all’aborto, eutanasia, contraccezione, inseminazione artificiale, e fecondazione in vitro” per non violare i dieci comandamenti. Da quando al governo, il partito di Diritto e Giustizia ha messo fine ai finanziamenti per la fecondazione in vitro e sottoposto la pillola del giorno dopo a prescrizione medica, diversamente da quanto avveniva in passato. A ottobre dello scorso anno, alcune ONG polacche, attive nella protezione dei diritti delle donne e nel sostegno alle vittime di violenza domestica, hanno subito un raid della polizia che ha sequestrato documenti, hard disk, e computer. L’incursione avrebbe fatto parte di un’indagine sui finanziamenti stanziati dal Ministero della Giustizia nella precedente legislatura, ma le organizzazioni oggetto non hanno concordato sui modi, affermando che si sarebbe trattato di velate minacce per il mancato rispetto della linea di governo.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #28 il: Febbraio 07, 2018, 20:29:18 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Italiani-in-Albania-diamo-i-numeri-185892

Citazione
Italiani in Albania: diamo i numeri

Da anni i media italiani ripetono che 19.000 italiani vivono e lavorano in Albania. Ma secondo il ministero degli Interni albanese sono meno di 2.000. Come si spiega una differenza simile?
06/02/2018 -  Nicola Pedrazzi   

19.000. Che sia in articoli , in trasmissioni televisive o in semplici esternazioni social , quando si parla della migrazione italiana in Albania quella è la cifra che ci siamo abituati a riportare.

Ma dove e quando nasce questo numero? E soprattutto: chi l’ha mai verificato? Se l’affascinante narrazione dell’”inversione dei flussi” si è da tempo affermata nel giornalismo italiano, il primo articolo che si è azzardato a quantificare il fenomeno risale all’ottobre 2014: venne pubblicato online, con virale riscontro, dal Corriere della Sera. La fonte, che l’articolista riporta accuratamente tra virgolette, è albanese: si tratta di Erion Veliaj, al tempo ministro del Welfare, oggi sindaco di Tirana. Questo il passaggio: “’Nel nostro paese vivono e lavorano 19 mila italiani’, calcola Erion Veliaj, ministro albanese del benessere sociale e della gioventù nel governo socialista guidato da Edi Rama. Numeri che, al netto degli imprenditori, dei rappresentanti diplomatici e degli studenti iscritti ai corsi di medicina all’Università Cattolica Nostra Signora del Buon Consiglio, indicano in 15-16 mila quelli che hanno un contratto di lavoro dipendente”.

Ora, come ricorda lo stesso articolo del “Corriere”, similmente a quanto accade in Italia per tutti i cittadini provenienti da paesi extra Schengen, anche in Albania gli stranieri che vogliano rimanere nel paese per più di tre mesi consecutivi sono obbligati a richiedere il permesso di soggiorno: per motivi di lavoro, di studio o di ricongiungimento famigliare. Detto altrimenti, eccezion fatta per i diplomatici, un italiano che lavori o studi stabilmente in Albania ha il dovere di presentarsi presso la questura albanese e di dimostrare di essere in possesso dei requisiti previsti dalla legge. Ne sanno qualcosa i pensionati italiani che sognano un economico (e detassato) riposo oltre Adriatico, e il cui progetto spesso si scontra con lo stato albanese , che alla pari di altri stati del mondo non considera un reddito da pensione un criterio sufficiente alla concessione del diritto di risiedere sul proprio territorio.
I dati ufficiali del ministero degli Interni albanese

Stiamo dunque alla legge albanese: se è vero che 19.000 cittadini italiani “vivono e lavorano” in Albania, 19.000 cittadini italiani devono aver richiesto e ottenuto un permesso di soggiorno dalle autorità. È qui che casca l’asino, perché stando all’ultimo rapporto pubblicato congiuntamente dal ministero degli Interni e dal ministero del Welfare albanese (il dicastero che fu di Veliaj), nel 2016 i cittadini stranieri con permesso di soggiorno erano 8692, tra cui solamente 1694 italiani. Sempre secondo il rapporto, al 1° gennaio 2017 si contavano sul suolo albanese 12.519 cittadini stranieri, pari allo 0,4% della popolazione. Tra questi 1854 italiani, ovvero qualche centinaio in più dei detentori di permesso di soggiorno annuale, ma meno di un decimo di quelli celebrati sui nostri giornali. Insomma, la “carica dei 19.000” descritta dal “Corriere” nel 2014 non si raggiunge nemmeno sommando agli italiani tutte le nazionalità straniere presenti in Albania nel 2017: 3954 turchi, 719 kosovari, 331 cinesi, 184 siriani….

In conclusione e a scanso di equivoci: che i cittadini italiani attualmente presenti in Albania siano di più dei permessi di soggiorno rilasciati dalla questura è probabile e presumibile. I casi sono molteplici: ci sarà, ad esempio, chi pendola tra i due paesi, o chi semplicemente il permesso non l’ha richiesto. A voler essere completi, in Albania vivono anche "albanesi di ritorno" provvisti di cittadinanza italiana. Vogliamo contare anche loro? Il problema è che qualunque criterio si scelga per approssimare per eccesso, quel 19.000 rimane incompatibile con l'ordine di grandezza indicato dai dati ufficiali.
Una “fake news” a fin di bene?

Se non siamo disposti a credere che il ministero degli Interni albanese pubblichi dati falsi, e se non siamo disposti a credere che in Albania risiedano illegalmente, senza permesso di soggiorno, più di 17.000 italiani, una sola conclusione rimane a nostra disposizione: nel 2014 Erion Veliaj ha diramato numeri esagerati, cui importanti testate italiane hanno fornito per anni una grancassa di pregio, senza mai verificarli. Perché?

Le motivazioni di Veliaj sono comprensibili: nel maggio 2014, quando per la prima volta ha dato in pasto all’ANSA il fatidico “19.000”, era a Roma per incontrare l’omologo ministro Poletti. Il suo obiettivo era quello di avviare i negoziati per un accordo sul mutuo riconoscimento delle pensioni, un problema “storico” delle relazioni italo-albanesi, perché se un cittadino albanese lascia l’Italia prima di avere maturato la pensione perde tutti i contributi che ha versato (ad oggi l’accordo tra i governi continua a mancare). Alla luce del saldo migratorio albanese, Veliaj aveva dunque tutto l’interesse a gonfiare i dati sugli italiani in Albania, al fine di crearsi un appiglio negoziale: riconoscete i contributi versati dagli albanesi, noi riconosceremo i contributi versati dagli italiani. Se la “bugia a fin di bene” nasce in quel contesto, la sua resistenza nel tempo si deve però a una ragione più profonda. L’idea di un’Albania nuova, ambita e desiderata proprio da chi, per decenni, ha associato l’Albania ai gommoni, è un guizzo di marketing in linea con la propaganda dei governi Rama: una strategia mirata al rinnovamento dell’immagine internazionale del paese e indirizzata tanto agli imprenditori stranieri quanto agli albanesi della diaspora, che grazie a questa politica godono finalmente di uno stereotipo positivo – e che un giorno, forse, potranno sdebitarsi votando dall’estero, proprio come propone la maggioranza socialista.
Gli albanesi e il voto estero

A fronte di 2.9 milioni di residenti nel paese (maggiorenni e minorenni insieme) risultano iscritti nelle liste elettorali albanesi 3.5 milioni di aventi diritto. Data la consistenza della diaspora albanese e considerando che alle scorse elezioni ha votato solamente 1 milione e mezzo degli aventi diritto, è evidente che la concessione del voto estero non è una questione tecnica ma politica. Nel momento in cui venisse concesso, e soprattutto nel caso in cui non si optasse per un meccanismo “all’italiana” (riservando ai residenti all’estero un numero limitato di seggi), il consenso del mezzo milione di albanesi residenti in Italia acquisirebbe un peso notevole sulla competizione elettorale in patria. Ecco perché i politici albanesi curano la loro immagine estera ed ecco perché già oggi le attenzioni che la stampa italiana dedica ai politici albanesi non sono politicamente innocue (si consideri poi che in Albania l’italiano è una lingua ancora molto diffusa).

Più difficile da comprendere sono le cause della credulità italiana. Con l’eccezione del portale EXIT – che pubblica anche in italiano , ma che è registrato a Tirana – al di qua del mare nessuna voce ha criticato le cifre provenienti dalla politica albanese, sebbene i dati dell’AIRE fossero di per sé già molto eloquenti: come ricordato dall’ambasciatore d’Italia Alberto Cutillo , gli italiani che al 1° gennaio 2017 hanno dichiarato di risiedere in Albania sono 1385 . Evitando di tirare in ballo il deterioramento della nostra politica e del nostro giornalismo – un problema più ampio del singolo episodio – l'incredibile leggerezza con cui in Italia abbiamo dato credito a un numero senza riscontri poggia nel caso specifico su due difetti tipici della relazione italo-albanese: lo spensierato disinteresse di parte italiana nei confronti dell’“Albania reale” (un paese di cui ci siamo sempre occupati tanto, ma a partire da noi stessi e dalle nostre emozioni, senza porci il problema di comprenderlo, né al tempo del fascismo, né al tempo del comunismo, né al tempo della democrazia); e per converso l’inamovibile importanza simbolica che l’”Albania dei migranti” ricopre nell’immaginario collettivo italiano. Ecco perché, per raccontare la nostra crisi (e non i progressi albanesi) siamo ricorsi volentieri alla barzelletta de “gli albanesi ora siamo noi ”. Un parallelo che non conosce il rispetto per la storia che evoca e che uno scaltro politico albanese, a quanto pare esperto conoscitore della mentalità dei suoi vicini, è stato lieto di suggerire, nella certezza che l’avremmo bevuto.
Un’amicizia retorica

Sia chiaro: l’immigrazione italiana in Albania rimane una novità degna di nota. È vero che la nostra imprenditoria frequenta assiduamente il paese, è vero che aerei per Tirana decollano tutti i giorni dai principali aeroporti italiani, è vero che ogni anno decine (centinaia? Qualcuno conosce le cifre esatte?) di studenti che non superano il test nazionale di medicina si iscrivono alla Buon Consiglio, è vero che il turismo italiano è in aumento esponenziale, è vero che dopo il terremoto un ristoratore de L’Aquila si è rifatto una vita a Tirana; insomma è vero che l’Adriatico di oggi è un confine poroso, soprattutto se pensiamo ai tempi della cortina di ferro e del regime enveriano. È tutto vero, e se si vuole dare a questa novità un giudizio di valore, ben venga: è tutto “positivo”! Tuttavia, nessun dato ufficiale ci consente di affermare che 19.000 italiani “vivono e lavorano” stabilmente in Albania. Continuare a ripeterlo è umiliante nei confronti della nostra professione, mentre sul piano politico non migliora le relazioni tra i due paesi, non contribuisce alla conoscenza dell’Albania in Italia, non abbatte gli stereotipi, non fa onore agli albanesi e non li aiuta a stare meglio dopo decenni di difficoltà – per la cronaca, il disagio e la migrazione albanese non sono finiti, basta dare uno sguardo alle richieste d’asilo in Europa.

È triste ammetterlo, ma questa retorica amicizia italo-albanese, vuota e improvvisata come le cifre con cui la raccontiamo, serve più che altro a dare un po’ di ossigeno mediatico ai governanti dell’altra sponda: politici in difficoltà nonostante la bella immagine che vendono agli albanesi che in Albania non ci vivono più, “amici” che in questa fase cruciale del cammino europeo avrebbero tanto bisogno di un serio partner adriatico, ma cui negli ultimi tempi l’Italia riserva soltanto selfie e falsi entusiasmi . Viene il serio dubbio che ciò accada anche perché non abbiamo molto di meglio da offrire.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #29 il: Febbraio 07, 2018, 20:37:05 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Quanti-albanesi-in-Italia-Sembra-facile-dirlo-eppure-181428

Citazione
Quanti albanesi in Italia? Sembra facile dirlo, eppure...

Più che letti e citati, i numeri andrebbero interpretati. Anche quelli riguardanti gli albanesi in Italia, una delle più "antiche" comunità immigrate del nostro paese. Un commento-glossario utile a fare un po' di chiarezza
25/08/2017 -  Rando Devole   

Nell'epoca digitale, quando le statistiche sembrano a portata di click, quando i numeri vengono sbattuti in prima pagina come mostri, quando le percentuali si inseguono come cani arrabbiati dalle proprie code, quando le diapositive ballano con la coreografia del PowerPoint, rispondere ad una domanda su quanti siano gli albanesi in Italia, sembra un gioco da ragazzi.

Allora, quanti sono gli albanesi in Italia? In risposta a questa domanda si ascoltano le risposte più strampalate. D'altronde, stando alla rappresentazione mediatica si direbbe che gli immigrati in Italia siano il doppio degli italiani. Il problema sta nella domanda. Quanti sono chi? Albanesi? Ma quali albanesi? I cittadini albanesi? Ecco, qui cominciano i guai...
Cittadinanza e nazionalità

Quando diciamo “albanesi”, intendiamo i cittadini albanesi o di nazionalità albanese? Perché la cittadinanza è un concetto giuridico. È uno "specifico vincolo giuridico tra un individuo e il suo stato di appartenenza, acquisito per nascita o naturalizzazione, tramite dichiarazione, per scelta, matrimonio o altre modalità, a seconda della legislazione nazionale", spiega il glossario della Commissione europea. Lo stesso glossario che ci ricorda una distinzione vecchia, ossia tra la cittadinanza e la nazionalità, sebbene i due termini vengano spesso usati come sinonimi. In verità, il mondo è pieno di paesi multietnici, con dentro diverse provenienze.

Ma perché ci offrono statistiche diverse? Per esempio, secondo l'Istat, al 1° gennaio 2016, in base ai dati forniti dal ministero dell’Interno, in Italia erano regolarmente soggiornanti 482.959 albanesi. Perfetto, tutto chiaro. Ma allora come mai, lo stesso Istituto scriveva poco prima che alla stessa data risiedevano 467.687 albanesi? Perché sono di meno? Qual è il numero giusto? Dove sono spariti gli altri albanesi? Che facciamo, diamo i numeri così, a caso?

In realtà, serve solo un po’ di attenzione e il rebus statistico si risolve da sé. Il fatto è che sono tutti cittadini albanesi, ma qualcuno ha la residenza, e quindi rientra nella categoria dei “residenti”, qualcun altro è soggiornante, in quanto semplicemente titolare di permesso di soggiorno. Anche le fonti dei dati sono diverse. Certamente, vivono tutti in Italia, ma non vanno sommati se no raddoppiano!

Chi volesse approfondire ulteriormente, potrà divertirsi con la definizione dell'Istat secondo cui "i cittadini non comunitari regolarmente soggiornanti sono tutti gli stranieri non comunitari in possesso di valido documento di soggiorno (permesso di soggiorno con scadenza o carta di lungo periodo) e gli iscritti sul permesso di un familiare". Ma fermiamoci qui, tralasciando anche la differenza tra permesso di soggiorno e carta di lungo periodo, per evitare di perderci.

Ritorniamo invece alla domanda iniziale: quanti albanesi vivono in Italia? L'ultimo numero disponibile è: 448.407 albanesi regolarmente residenti.
Regolarmente soggiornanti, regolarmente residenti e… clandestini?

Ma i distinguo non sono finiti. Gli esperti non aggiungono inutilmente la parola "regolarmente" di fianco a “soggiornanti” e “residenti”. Esistono infatti anche albanesi soggiornanti senza permesso di soggiorno. Di conseguenza, gli albanesi che vivono in Italia sono di più di quelli individuati dalle statistiche. Quanti di più? Ci sono cose che non si possono conoscere, se non ex post, dopo una regolarizzazione, o “sanatoria” per i nostalgici. Altrimenti bisogna affidarsi alle stime, che sono sempre, inevitabilmente, approssimative.

Ora, non si esclude che a qualcuno, quando ha letto le parole "senza permesso di soggiorno", sia venuto in mente il termine "clandestino". Non per incasinarci la vita, ma il termine è sostanzialmente fuorviante, nonché semanticamente antipatico, per le connotazioni acquisite nel tempo. Ma, oltre all'amore, chi è clandestino? Colui che non ha documenti? Allora chi ha il passaporto, magari con il visto d'ingresso, cos'è? E poi, un permesso di soggiorno scaduto ti rende “irregolare” o “clandestino”? La verità è che ci sono albanesi di tutti i tipi, anche nella storia recente della migrazione. Ci sono stati albanesi profughi, richiedenti asilo, albanesi rifugiati, albanesi migranti economici... Qui il lessico diventa più complesso e i riferimenti all'attualità davvero non mancano.
Passaporto e identità

Infine, ci sono anche gli albanesi che nel frattempo sono diventati italiani. O no? Il dubbio esiste, in quanto , ne abbiamo già parlato, chi acquisisce la cittadinanza italiana sparisce dalle statistiche sugli albanesi. Negli ultimi anni più di 100.000 albanesi hanno ottenuto la cittadinanza italiana. Ma il passaporto cambia anche l'identità? Cioè, quando uno consegna il permesso di soggiorno dà automaticamente le dimissioni dall'essere e sentirsi albanese? Ecco, qui le domande cambiano piano, e cominciano a diventare molto complesse.

Ad esempio esistono albanesi che hanno acquisito la cittadinanza italiana e sono partiti per il Nord Europa, dove si sono registrati come cittadini italiani. Sicuramente l'avrà fatto anche chi ha solo il permesso di soggiorno. E poi si trova sempre qualche giovane, nato e cresciuto in Italia, con la cittadinanza italiana, che ti confessa che si sente albanese, oppure "anche" albanese. Va conteggiato anche lui tra “gli albanesi in Italia”, oppure no?

Tra moglie e marito non mettere il dito, dice il proverbio. Che vale soprattutto nel caso dei matrimoni misti. E sono tantissimi, tra donne albanesi e uomini italiani, e viceversa. Ma quanti figli nati da questi matrimoni si sentono albanesi? Inoltre, quanti albanesi hanno perso l'identità e non si sentono tali? Alcuni non conoscono più la lingua, la balbettano, non la parlano. Difficile trovarli sulle tabelle statistiche. Diciamo pure impossibile.

Allora, che facciamo, ci arrendiamo? Per nulla. Bisognerebbe interpretarli i numeri, insieme alla realtà sociale, e soprattutto prenderla con filosofia. Anche quando incontriamo un tifoso che sfoggia orgoglioso la bandiera albanese, quella rossa con l'aquila bicipite in mezzo, dobbiamo sapere che questo non ci dice nulla del suo passaporto, che potrebbe essere di un altro paese europeo, o addirittura di un altro paese balcanico…. Ecco, appena si parla dei Balcani le cose si complicano ulteriormente. I numeri sembrano facili, eppure...

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