La metamorfosi borghese del femminismo

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Sembra ormai evidente che il femminismo, almeno nella sua versione vetero-sessantottina, non susciti più neppure l’interesse della gente; non è anzi raro sentire prese di distanza del tipo: “Non sono femminista”.
Il messaggio femminista però, oggi rifiutato a livello razionale come folclore di un’ex-modernità che non vuol passare, sceglie altre vie dove il senso critico è meno vigile: l’uomo, il maschio, è una figura simbolica (laddove la femmina è in primis biologica), in altre parole il maschio può sussistere ed è credibile solo come essere radicato in un sacrum, in una metafisica.
Il ruolo femminile è ancorato al dato biologico, mentre quello maschile a quello cosmologico, alle leggi, ai riti, alla trasmissione di una tradizione―vale a dire di un’intelligibilità del mondo―e all’agire in esso.
Se si annulla questo fattore in nome di un malinteso razionalismo o materialismo, e si cerca di promuovere valori maschili a partire dal dato biologico si fa, lo si sappia o no, del femminismo en cachette: la femmina è biologicamente “superiore” al maschio, il cui legame con essa infatti, da un punto di vista strettamente biologico è effimero.
Non sorprende quindi che nell’assenza di un sacrum, di una visione del mondo condivisa sulla quale radicare il matrimonio, questa istituzione tenda a scomparire: si rafforza il legame più forte, quello di madre e figlio, a scapito del legame più debole, la paternità – che è il legame che crea la civiltà.
Il materialismo crasso, il consumismo, non possono che essere anti-maschili, perché portano necessariamente con sé un elemento femmineo che però, essendo imposto in chiave non-naturale e non-umana, non ammette complementarietà.
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Il femminile è legato all’emotivo, allo ctonio, al mutevole; le immagini fugaci della pubblicità che fanno leva sulle emozioni, e negano la necessità e il piacere di capire, ne sono la moderna celebrazione in chiave tecnologica.
Il maschio rappresenta un problema ‘in quanto uomo’ perché portatore di valori simbolici in contrasto con la cultura consumista dell’effimero. Anche una semplice famiglia con un padre è ritenuta sempre meno accettabile.
La cultura mediatica, lungi dall’integrare il maschile col femminile, che abbisogna di un fattore che gli dia ‘forma’, che lo regoli rendendolo ‘fecondo’, portatore di vita e non di caos, lo bandisce: e chi può negare che l’edonismo infantile mediatico non sia improntato alla sterilità? Il maschile è visto come fattore razionale di disturbo, essendo antidoto a tutto ciò che è balordamente emotivo, passeggero―l’obsolescenza pianificata di uomini e cose―e pura sensazione.
L’uomo si trova così a muoversi in un vacuum antropologico, ignorando quale sia la causa della sua mancanza d’identità sociale, della sua obliterazione come essere umano maschio, e magari cercando di promuovere il maschile in chiave materialista e politicamente corretta, contribuendo così ad alimentare il vuoto che lo circonda.
Il femminismo nasce come prologo al materialismo consumista (del sesso, dei legami affettivi…) che ne è il logico compimento. Le istanze femministe, all’insaputa delle attiviste stesse, non potevano che portare al risultato di oggi: abolita la famiglia e il ruolo paterno, che ha sempre avuto un riferimento a valori non materiali, la società è divenuta un immenso asilo d’infanzia, dedito ad attività ludiche e a giocattoli tecnologici. Se non sposarsi può essere una necessità, il ruolo e la dignità maschili non si ristabiliscono con uno stile di vita da celibi festaioli, centrato unicamente sul tempo libero senza impegni concreti per migliorare la comunità.
L’identità e il ruolo maschile non sono possibili che a partire da una visione del mondo simbolico-metafisica, condivisa dalla società. Il femminismo non può che attaccarla più o meno consapevolmente, ed essere incline ad un materialismo almeno di fatto.
È questa la vera dinamica del femminismo, che plasma le nostre coscienze.


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