Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 67945 volte)

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Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #345 il: Dicembre 19, 2019, 00:14:27 am »
Mi autocito perche' ho trovato un grafico che dimostra in modo esemplare che i cechi, in generale, non c'entrano niente con il resto dell'Europa dell'Est (e d'altronde Praga e' piu' a ovest di Vienna, per dire).

Il grafico indica la percentuale di giovani fino ai 34 anni che si oppone ai matrimoni gay:

A spanne queste percentuali riflettono esattamente la programmazione dei media (v. specialmente Russia e Spagna).
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

Offline Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #346 il: Dicembre 19, 2019, 19:02:42 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Georgia/Georgia-le-regole-del-gioco-198588

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Georgia: le regole del gioco

È crisi in Georgia, dal giugno scorso le proteste di piazza si scagliano contro il governo a guida Sogno Georgiano, reo secondo i manifestanti di alterare le regole del gioco democratico

19/12/2019 -  Marilisa Lorusso
Una catena quasi ininterrotta di proteste anti-governative: Sogno Georgiano, partito guidato da Bidzina Ivanishvili, è sempre più esposto e sfrangiato davanti alle critiche di quella società civile che due legislature fa lo aveva scelto in massa. Le manifestazioni contro delle scelte – grottesche, contraddittorie, pericolose, sempre e comunque potenzialmente molto impopolari – proseguono da giugno. E alcune riguardano misure atte a cambiare le regole del gioco.

Da una piazza all’altra
A giugno ha dato il via alle danze l’affare Gavrilov, i cui strascichi pesano ancora sulle tasche dei georgiani. La crisi aperta allora non si è più sanata. Non sono più stati ripristinati i voli diretti con la Russia. A novembre le compagnie aeree russe hanno reso noto che le loro perdite dovute al divieto di voli diretti tra Russia e Georgia ammonterebbero a circa 3,2 miliardi di RUB /45,2 milioni di euro. Il 13 dicembre Koba Gvenetadze, governatore della Banca nazionale della Georgia, ha dichiarato che il bilancio del paese ha subito perdite per circa 300 milioni di dollari per la stessa causa. Le tensioni nei rapporti con Mosca - con la sospensione dei voli nel luglio 2019 e le informazioni su altre possibili sanzioni economiche contro la Georgia - avrebbero anche contribuito al deprezzamento della valuta  della Georgia, il lari (GEL).

Ancora si doveva chiudere questo scenario, che già lo stesso Ivanishvili creava il casus belli per altre due proteste, una legata ad un nome, l’altra alle regole del gioco con la mancata riforma della legge elettorale.

A settembre è stato nominato nuovo Primo ministro Giorgi Gakharia, ministro degli Interni uscente e assai contestato per la gestione delle proteste durante l’affare Gavrilov.

Ma se questa è stata una protesta legata a una persona, il primo ministro, la questione della legge elettorale scava nella fiducia del processo democratico. È dal 2007 che la fiamma di una legge elettorale percepita come troppo distorsiva incendia le piazze georgiane. Il tarlo nella fiducia è per molti l’assegnazione di seggi con la quota maggioritaria. Il sistema del “più votato che si prende tutto”, metodo maggioritario secondo il quale chi ha il 50%+1 dei voti viene eletto, ha il pregio di ridurre la frammentazione del quadro politico, ma il difetto di ignorare il 50%-1 delle preferenze, che rimangono quindi non rappresentate. Vice versa per il proporzionale, che rende il rapporto votati/votanti più fedele alle preferenze espresse, ma che spesso ha come effetto collaterale la frammentazione del quadro politico.

Attualmente in Georgia il sistema elettorale è misto, ma sulla quota maggioritaria grava discredito e i sondaggi dicono  che l’elettorato è a favore del passaggio al proporzionale pieno. Ivanishvili per venire incontro alle richieste della piazza in estate aveva promesso la riforma della legge elettorale.

A novembre quindi, quando finalmente la promessa si sarebbe dovuta concretizzare, il forfait di alcuni parlamentari del Sogno che non ha fatto passare la legge promessa ha scatenato la piazza.

Il 26 novembre sui manifestanti sono stati usati gli idranti e poi, per impedire l’occupazione dello spazio adiacente al parlamento è stata eretta una barriera.

A far dialogare le parti, e a cercare di raggiungere un compromesso accettabile, è intervenuta la comunità internazionale. Il 30 novembre a un tavolo si sono riuniti gli ambasciatori di diversi paesi con lo scopo di facilitare una soluzione. L’8 dicembre ne è avvenuto un secondo, un terzo il 15 dicembre. Tutti conclusi con un nulla di fatto  .

La Corte Suprema
L’ultima crisi in ordine cronologico è quella causata dalla nomina dei giudici della Corte Suprema. Il 12 dicembre scorso il parlamento, boicottato dalle opposizioni e in una sessione assai concitata con proteste e arresti fuori, ne ha nominati 14.

La questione è spinosa. Dopo la riforma costituzionale, secondo l’Articolo 61.2 la Corte Suprema deve essere composta da 28 giudici. Da luglio ne sono rimasti in servizio solo 8. La procedura per la nomina dei giudici della Corte Suprema si è rivelata difficile. L’Alto Consiglio di Giustizia ha presentato un primo elenco che doveva essere votato dal Parlamento ma che è stato poi ritirato a causa di controversie e critiche da parte della popolazione, della società civile e da alcuni membri dell'Alto Consiglio di Giustizia stesso. Le critiche sono mosse dal fatto che la procedura di selezione manca di criteri chiari e obiettivi, nonché di trasparenza. A questo proposito, le ONG hanno affermato che il processo di nomina è controllato da una rete politica di giudici influenti, che non godono della migliore reputazione a causa di decisioni passate.

Dopo la riforma costituzionale  i giudici avranno un incarico a vita, e un numero così incidente di nomine in contemporanea, 20 su 28, consegna di fatto la Corte Suprema all’attuale governo per decadi. E la Corte Suprema ha un ruolo fondamentale: si pensi che il recente intricato e combattuto caso sulla proprietà di Rustavi 2, rete da sempre schierata non a favore del Sogno Georgiano [Partito di governo], è stato alla fine deciso dalla Corte Suprema. Il potere della Corte come ago della bilancia politico è grande, e la sua imparzialità è un principio cardine della divisione dei poteri, pilastro di una democrazia funzionante.

Sale la tensione
In questa protratta fase di polarizzazione politica Transparency International, come tra l'altro anche alcune Ong georgiane, hanno registrato episodi allarmanti. Affiliati al Sogno georgiano, anche con incarichi pubblici, si sono resi protagonisti di una serie di interventi anche violenti contro membri e sedi dell’opposizione in varie città del paese. La polizia si è dimostrata incapace o non interessata a impedire gli scontri fisici, che hanno portato anche a ricoveri. Gli episodi non stanno avendo un seguito legale come dovrebbero, nonostante la presenza di pubblici ufficiali del ministero degli Interni. Transparency denuncia il rischio di una escalation  di violenza estrema a fronte della continua mobilitazione del proprio elettorato da parte del Sogno e dell’inattività preventiva degli organi di sicurezza.

Nel suo discorso di conclusione di mandato davanti al Parlamento Europeo, Federica Mogherini, alta rappresentante per la politica estera Ue,  ha unito la sua voce  a quanti lamentano un’involuzione della democrazia in Georgia, fatta non solo di episodi singoli, ma di misure che alterano le regole del gioco.
«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #347 il: Dicembre 19, 2019, 19:04:43 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/101497

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REP.CECA: Dopo la strage di Ostrava, tempo per una riflessione sulle armi?
Andrea Zambelli 1 giorno fa

Lo scorso 10 dicembre un uomo ha ucciso 6 persone prima di suicidarsi presso l’ospedale universitario di Ostrava, nell’est della Repubblica Ceca. Il serial killer, un operaio 42nne, era convinto di essere malato e di non essere preso sul serio dal personale medico. Una strage che mette l’accento sulla libertà di procurarsi armi nel paese centroeuropeo.

La strage di Ostrava è la peggiore in Repubblica Ceca dal 2015, quando Zdeněk Kovář uccise otto persone in un ristorante di Uhersky Brod. L’assassino, nonostante i disturbi mentali, aveva una regolare licenza per detenere armi.

Come ricorda Giorgio Beretta di Rete Disarmo, la Repubblica Ceca è uno dei paesi UE dove vige una sorta di “diritto a detenere armi” come negli Stati Uniti, e dove è più facile procurarsi un’arma. Da cui, le stragi.

Eppure, proprio il governo di Praga l’anno scorso si era opposto alla Direttiva UE che pone limiti sul possesso di armi: “Lede i diritti dei cittadini cechi” disse il Ministro degli Interni Milan Chovanec, evocando la “libera circolazione” delle armi. La Corte UE aveva poi respinto il ricorso ceco. La direttiva, modificata dopo gli attentati di Parigi e Copenhagen, non viola la libera circolazione delle merci, secondo i giudici di Lussemburgo, perché la pubblica sicurezza prevede anche misure di natura eccezionale.

I cittadini cechi hanno il diritto di portare un’arma, incluse semi-automatiche, purché abbiano la fedina penale pulita, siano considerati di “carattere affidabile”, in buona salute, e abbiano passato un test teorico e pratico. La legge permette inoltre ai 240.000 detentori di armi di portarle con sè, purché nascoste e a scopo difesivo.

Nel 2017, su impulso del ministro Chovanec, la Repubblica Ceca ha incluso nella sua costituzione il diritto per i detentori d’armi di farne uso in caso di attacco terroristico.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #348 il: Dicembre 24, 2019, 18:37:28 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/101645

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ALBANIA: Approvate leggi-bavaglio contro i media
Tommaso Meo 2 giorni fa

Per combattere le notizie false e la diffamazione, il 19 novembre il parlamento di Tirana ha approvato una controversa serie di norme che dovrebbero regolamentare soprattutto le notizie pubblicate dai siti online e contrastare fake news e accuse infondate.

Il pacchetto di leggi, chiamato «anti-diffamazione», è stato voluto dal premier socialista Edi Rama e prevede la creazione di un’inedita Autorità dei media audiovisivi (Ama) i cui membri dovranno giudicare le notizie prodotte dagli organi di informazione albanesi. La decisione su una presunta notizia diffamatoria sarà presa in tempi molto brevi, entro 72 ore. L’autorità potrà anche comminare multe a giornalisti e testate ritenuti colpevoli, fino a 4.000 euro. Le norme contenute nel pacchetto danno all’Ama la possibilità di imporre rimozioni forzate dei contenuti ai provider, fino al blocco dell’accesso a Internet nei casi di gravi violazioni da parte dei media, come aver favorito il terrorismo, la pedopornografia o minato la sicurezza nazionale.

I media temono però che questa riforma sia solamente un modo per la classe politica di mettere il bavaglio a giornalisti e testate scomode. L’Ama è di fatto un organo i cui rappresentanti vengono nominati in maggioranza dai partiti politici e le sanzioni economiche che può disporre peserebbero sulle aziende editoriali, costringendo i giornalisti all’auto-censura. Questi ultimi potrebbero portare i loro casi davanti a un tribunale, ma solo dopo avere pagato le multe.

Per questi motivi il «pacchetto anti-diffamazione» è stato duramente criticato, oltre che da associazioni di categorie e da gruppi in difesa dei diritti umani, anche da diversi attori internazionali, tra cui l’Unione europea, l’Osce, il Consiglio d’Europa e il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite. In particolare, un gruppo di 15 associazioni albanesi per i diritti hanno sottolineato come il reato di diffamazione a mezzo stampa debba essere giudicato solo da una corte.

Le norme per riformare i media erano state annunciate da Rama lo scorso ottobre e presentate in un’altra versione a luglio. Mercoledì scorso, infine, il pacchetto è passato con 82 voti favorevoli, 13 contrari e 5 astenuti. L’unico membro del partito di Rama ad astenersi è stato Ditmir Bushati, che guida la delegazione albanese all’assemblea Osce.

Il pacchetto di leggi contribuisce a surriscaldare ulteriormente il clima politico albanese, ormai da mesi contrassegnato da un violento scontro tra la maggioranza di Rama e l’opposizione di centrodestra.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #349 il: Dicembre 24, 2019, 18:38:51 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/101627

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La Rivoluzione romena, patata o testicolo? Dopo trent’anni restano solo i morti senza motivo
Francesco Magno 1 minuto fa

La patata (o il testicolo?) della Rivoluzione

Piazza della Rivoluzione si trova al centro di Bucarest. Chi scrive l’ha attraversata quotidianamente mesi e mesi, per recarsi alla francesizzante biblioteca universitaria dedicata a Carlo I, il primo sovrano di questo disgraziato, ma meraviglioso, paese. Nel centro della piazza si erge un insolito monumento, che severamente troneggia sugli skaters che si dilettano a saltare sulle panchine circostanti; una sorta di obelisco trafigge una non meglio identificato oggetto ovale, per alcuni un’oliva, per altri una patata. Dal peculiare ovaloide, una vernice rossastra sgorga sul bordo dell’obelisco. I goliardici abitanti della capitale hanno apostrofato l’opera nei modi più pittoreschi: la patata impalata, il tubo e il testicolo, l’oliva nello stuzzicadenti, circoncisione fallita, la patata della rivoluzione, un cervello su un bastone.

Il monumento tanto sbeffeggiato, in realtà, commemora l’evento più drammatico della storia romena recente, la rivoluzione del 1989. Non a caso, è stato posto proprio di fronte all’ex sede del comitato centrale del partito comunista (oggi il ministero degli interni), proprio dove scoppiarono i disordini che portarono alla fuga dei coniugi Ceausescu e, successivamente, alla loro condanna a morte.

Possibile che un momento così drammatico e, da un certo punto di vista, epico, debba essere ricordato da un tubo e da un testicolo? Possibile che in trent’anni nessuno sia stato in grado di produrre qualcosa migliore della “patata impalata”?

Il monumento, tuttavia, rappresenta al meglio quella che è oggi la Rivoluzione nella memoria dei romeni: un’entità amorfa, interpretabile, sulla quale ognuno può dire la sua, per alcuni una patata, per altri un testicolo.

La grande domanda è sempre la stessa, ancora oggi, la stessa che ha dato il titolo ad un film dal discreto successo anche ad ovest: c’è stata o non c’è stata una rivoluzione (a fost sau n-a fost)? Fu una rivolta popolare, o fu un colpo di stato?

Fu una Rivoluzione o un colpo di Stato?

Chi scrive queste righe ha cercato in anni di frequentazioni della Romania e dei romeni di dare una risposta a questa domanda; grandi eroi rivoluzionari si sono rivelati agenti della Securitate, insospettabili democratici nascondevano scheletri nel loro personale armadio della vergogna. In Romania, niente è come sembra, nessuno è quel che sembra. Le inchieste si sono susseguite, molte sono ancora in corso, ma quelle giornate di dicembre restano nebulose, ambigue. Chi ha dato ordine di continuare a sparare sulla folla dopo la fuga di Ceausescu? Chi ha davvero ordinato la sua esecuzione? Quanti sovietici arrivarono a Bucarest prima che la situazione degenerasse?

Fiumi e fiumi di inchiostro sono stati scritti su quel dicembre 1989; storie, analisi, congetture. Ion Iliescu, nel 1989 eroe rivoluzionario, è oggi accusato di crimini contro l’umanità per i fatti di quelle giornate: da patata a testicolo, come il monumento.

Secondo la procura militare che sta indagando sugli avvenimenti, Iliescu e le alte gerarchie militari avrebbero messo in atto una spaventosa opera di diversione e inganno, inventando la presenza di fedelissimi del vecchio Conducator, i famigerati “terroristi”, pronti a riportare lo status quo e a catturare i rivoluzionari. Con il pretesto di neutralizzare i terroristi, si continuò a sparare per le strade, in modo indiscriminato, uccidendo giovani innocenti che erano scesi in piazza per invocare un futuro migliore.

In realtà, i terroristi non esistevano, e quando ancora a Bucarest si sparava nel mucchio, Ceausescu e sua moglie erano già nelle mani dell’esercito, abbandonati sia dai militari, sia dalla Securitate. A Bucarest si sparava per difendersi da un dittatore ormai in arresto e da suoi inesistenti difensori. Ma il caos e le morti erano quello che serviva a Iliescu per ottenere la patente di rivoluzionario, di eroe, di dissidente finalmente vittorioso, per non passare alla storia come semplice golpista, per ottenere futuro credito politico.

Una Rivoluzione al condizionale

Nessuna condanna definitiva è stata ancora pronunciata, e pertanto ogni ricostruzione deve essere accompagnata dal condizionale. In Romania c’è ancora chi crede fermamente nell’esistenza dei terroristi fedeli a Ceausescu, e fino a una sentenza contraria, la loro idea vale quanto quella di chi sostiene la colpevolezza di Iliescu.

Solo un dato è avulso dalle opposte dialettiche: le migliaia di morti innocenti. E allora, forse, è nel ricordo di quei visi, di quei giovani corpi, che va cercato il monumento della rivoluzione, quello che Pierre Nora definirebbe “il luogo della memoria”.

La memoria dei morti senza motivo

Il cuore pulsante del ricordo rivoluzionario non è nella patata impalata; lo si trova lontano dal centro di Bucarest, dalle luci sfavillanti e dalle targhe. Esso giace nel piccolo cimitero dedicato ai “martiri della rivoluzione”, il vero grande monumento commemorativo del dicembre ’89. Lì, tra i sepolcri marmorei e anziane signore che sostituiscono fiori freschi a quelli appassiti, si coglie il dramma dell’evento, la tragedia di giovani morti senza un apparente motivo. Ragazzi come Mihai Gîtlan, ucciso da un proiettile che gli ha trafitto il petto, trascinato morente per i capelli e abbandonato sotto un albero nel centro di Bucarest. Oggi quell’albero non esiste più. O Alexandra Diana Donea, uccisa il 21 dicembre a piazza dell’Università, vittima degli spari incrociati. Il padre ha ritrovato il cadavere una settimana dopo. Alexandra e Mihai, e come loro tanti altri, vittime di un carnefice ignoto, gioventù perduta di una Romania rivoluzionaria e, forse, democratica.

A trent’anni da quei giorni, la commemorazione è dedicata a loro.

Questo articolo è frutto della collaborazione tra East Journal e Osservatorio Balcani e Caucaso
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #350 il: Dicembre 24, 2019, 18:40:15 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/101585

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CAUCASO: Le mani dei governi sulla magistratura in Armenia e Georgia
Eleonora Febbe 22 ore fa

La democrazia è in declino nel Caucaso? La “rivoluzione di velluto” dell’anno scorso in Armenia, che aveva portato alle dimissioni del Primo ministro ed ex presidente Serzh Sargsyan e all’elezione del leader delle proteste Nikol Pashinyan, era stata salutata come un successo della società civile e della democrazia. Un anno dopo, però, iniziano a intravedersi le prime crepe. Un po’ come sta succedendo nella vicina Georgia, da quest’estate in tumulto per proteste contro il governo del Sogno Georgiano. In entrambi i paesi, i governi sembrano voler minare il sistema democratico, un obiettivo che si riflette in particolare nelle riforme dei sistemi giudiziari dei due Paesi del Caucaso.

Armenia: pensione anticipata per i giudici scomodi

La settimana scorsa, il parlamento armeno ha approvato una legge che introduce la possibilità per i giudici della Corte Costituzionale di pensionarsi in anticipo. Una manovra aspramente criticata dai partiti di opposizione Armenia Prospera e Armenia Luminosa, che la considerano non soltanto uno spreco di soldi pubblici, ma soprattutto una manovra per costringere al pensionamento anticipato i giudici più vicini alla precedente amministrazione in modo da nominarne di nuovi favorevoli al governo.

In particolare, Il mio passo, il partito di Pashinyan, vorrebbe le dimissioni del presidente della Corte Costituzionale Hrayr Tovmasyan, vicino a Sargsyan e all’ex presidente Robert Kocharyan. I tre sono tutti indagati, con motivazioni che i loro sostenitori ritengono politicamente motivate. Tovmasyan è accusato di appropriazione indebita di fondi pubblici; il parlamento ha già votato per rimuoverlo dall’incarico, ma la decisione finale spetta agli altri membri della Corte Costituzionale entro fine anno. Stessa accusa anche per Sargsyan, mentre Kocharyan è sotto processo per aver autorizzato la repressione violenta di proteste nel marzo 2008, che causò 10 vittime. In seguito alle proteste, Pashinyan, allora leader dei manifestanti, aveva trascorso due anni in prigione.

Quando Kocharyan è stato scarcerato su cauzione nel maggio scorso, Pashinyan aveva invitato i cittadini armeni a bloccare gli ingressi dei tribunali del paese, un primo segno delle ingerenze dell’esecutivo nel sistema giudiziario. Da allora Kocharyan è stato nuovamente arrestato, anche se la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’arresto incostituzionale, mentre Pashinyan continua a sostenere che una riforma radicale del sistema giudiziario sia la “seconda fase della rivoluzione” armena, dopo le manifestazioni del 2018.

Georgia: il Sogno Georgiano rinnova la Corte Suprema

Anche nella vicina Georgia la questione dell’indipendenza del giudiziario dall’esecutivo è  alquanto spinosa: il 12 dicembre il Parlamento ha approvato la controversa lista di nomine per la Corte Suprema proposta dal governo, in una seduta turbolenta durante la quale si è persino assistito al lancio di una bomba puzzolente nel parlamento, apparentemente un’azione di protesta del gruppo antigovernativo Per la libertà.

La riforma costituzionale del 2017 ha aumentato il numero di giudici della Corte Suprema georgiana, lasciando al partito di governo, il Sogno Georgiano, il compito di nominare 20 giudici in carica a vita. Un solo governo avrebbe così l’opportunità di influenzare l’organo giudiziario principale del paese per decenni, situazione criticata non solo dall’OSCE e dal Consiglio d’Europa, ma anche da membri del Parlamento e dell’Alto Consiglio della Giustizia georgiani. L’approvazione della lista dopo mesi di polemiche è quindi l’ennesima indicazione della volontà del Sogno Georgiano di concentrare il potere nelle proprie mani, senza curarsi dell’opinione pubblica, come del resto era già successo con la decisione di bloccare il passaggio a un sistema elettorale proporzionale.

Per ora sia Georgia che Armenia sono ben lontane dall’essere regimi autocratici come il vicino Azerbaigian; tuttavia, la lenta erosione delle istituzioni democratiche è un processo da monitorare prima che diventi irreversibile. I governi post-transizione nei due paesi continuano a voler accaparrarsi tutte le istituzioni, secondo uno schema di autoritarismo competitivo da cui sembra difficile trovare una via d’uscita.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #351 il: Dicembre 24, 2019, 18:43:07 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bulgaria/Bulgaria-la-partita-per-la-gola-di-Kresna-198485

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Bulgaria: la partita per la gola di Kresna

La battaglia ventennale sul tracciato dell'autostrada Sofia - Salonicco, che taglia la più importante area protetta della Bulgaria volge alle battute conclusive nel segno delle contraddizioni dell'UE che condanna la devastazione ambientale, ma finanzia generosamente i lavori. Entro gennaio si dovrà decidere

24/12/2019 -  Marco Ranocchiari
Nelle ultime settimane le istituzioni europee sono tornate a discutere della gola di Kresna, nel sud-ovest della Bulgaria. Sono ormai vent'anni, da ben prima che il paese balcanico diventasse effettivamente membro dell'Unione, che il tracciato dell'autostrada infiamma il dibattito tra ambientalisti e governo, mettendo in imbarazzo le istituzioni europee. La gola infatti, oltre a essere il più facile punto di passaggio tra Sofia e Salonicco, è un importantissimo sito naturalistico, rifugio di un gran numero di specie protette (soprattutto rettili e anfibi, ma anche farfalle, lupi, orsi, e oltre cinquanta grifoni) e per questo tutelato proprio dalle leggi europee.

L'Europa ha già contribuito al finanziamento dei tratti a monte e a valle di Kresna, senza fermarsi neppure davanti a siti archeologici come l'antica città di Skaptopara. Resta solo il tratto decisivo, quello all'interno della gola. Il governo bulgaro ha presentato richiesta di cofinanziamento lo scorso 9 agosto.

L'ultimatum dell'Europa
Il 15 ottobre 2019 Erich Unterwurzacher, della Direzione generale della Politica regionale e urbana della Commissione europea, risponde al governo di Sofia con una lettera durissima. Nel documento, inizialmente riservato, ma diventato presto di dominio pubblico, la Commissione Europea dichiara "ingiustificato" il contributo europeo alla realizzazione dell'autostrada.

La Valutazione di Impatto Ambientale che autorizza i lavori all'interno della gola, si legge nella lettera, non tiene conto degli standard europei in materia di ambiente. In particolare, la Bulgaria non avrebbe raggiunto gli obiettivi di conservazione dei siti di importanza comunitaria (SIC), come Kresna, imposti dalla Direttiva Habitat. Le misure di mitigazione degli impatti proposte da Sofia, prosegue la lettera, sono vaghe, incomplete e in ogni caso saranno operative soltanto nel 2023, quando per le specie minacciate dall'infrastruttura potrebbe essere troppo tardi.

Non si prendono poi in considerazione, inoltre, gli effetti cumulativi di altre opere impattanti nella zona, spesso collegate alla stessa autostrada. Il progetto è stato inoltre modificato pesantemente da quando fu presentato ufficialmente in sede europea, e non ci sono garanzie su alcuni aspetti della sicurezza stradale. Dulcis in fundo, i tempi di consegna (fissati entro il 2023) non saranno sicuramente rispettati.

La Commissione detta tempi strettissimi: due mesi, prorogabili fino a tre. In altre parole, la Bulgaria ha tempo solo fino al 15 gennaio per rispondere delle numerose inadempienze. Altrimenti, potrebbe dire addio al contributo europeo (277 milioni sui 676 necessari per questo tratto) bloccando di fatto i lavori.

Stallo a Berna e Bruxelles
Lo scorso 2 dicembre, a Bruxelles, il biologo Dimitar Vasilev, uno dei volti più noti dell'ambientalismo del paese balcanico, ha invitato i parlamentari europei a recarsi in Bulgaria per osservare di persona gli impatti che l'autostrada avrebbe sia sull'ecosistema che sulla comunità. Sono prevedibili le ricadute su turismo sostenibile, rafting ed escursionismo (la gola sorge tra l'altro a ridosso dei Monti Pirin, patrimonio Unesco dal 1983). Anche la viabilità locale sarebbe compromessa: la strada attuale sarà trasformata in una delle corsie dell'autostrada (una decisione, questa, che è una delle ironiche conseguenze delle infinite trattative sul percorso dell'autostrada) e fare spostamenti di pochi chilometri risulterebbe quasi impossibile.

Due giorni dopo, il 4 dicembre, anche il Comitato Permanente della Convenzione di Berna (che promuove la conservazione degli habitat naturali nel continente europeo) ha discusso di Kresna.

Al termine di una riunione travagliata, in cui sembravano aver prevalso le ragioni degli ambientalisti (a difesa del governo bulgaro si sono pronunciati solo la Grecia, diretta interessata, Armenia e Azerbaijan), il comitato ha deciso per un compromesso. Il caso, su cui la Convenzione si era già pronunciata nel 2002, non è stato riaperto. È stata però raccomandata al più presto una valutazione in loco della situazione - una verifica che del resto la Bulgaria, al momento, ha dichiarato di non essere nelle condizioni di accettare.

Il governo bulgaro ha poche settimane per elaborare una risposta convincente alle richieste dell'Europa. Se la Commissione rifiutasse il finanziamento, però, si troverebbe in una situazione imbarazzante, dopo che ha debitamente autorizzato e finanziato gli altri tratti dell'opera. Un pasticcio che gli ambientalisti avevano denunciato da tempo, e che adesso risulta evidente.

In queste fasi finali la partita si fa più accesa che mai, e il risultato non è per nulla scontato.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #352 il: Dicembre 31, 2019, 00:08:43 am »
https://www.eastjournal.net/archives/99351

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No, l’Est non è brutto, sporco e cattivo
Francesco Magno 16 Settembre 2019

L’ormai proverbiale connubio tra est-europeo e degrado, inciviltà, brutalità, nazionalismo sembra non riuscire a estinguersi. Se la fine delle guerre nell’ex Jugoslavia e il processo di integrazione europea sembravano poter aprire la strada a un ripensamento della tradizionale immagine dell’altra Europa, ci hanno pensato i governi autoritari e nazionalisti a ricacciare l’oriente nella spazzatura del discorso mediatico. Gli attacchi alle libertà fondamentali e, soprattutto, il rifiuto perenne alla ripartizione dei migranti, hanno irrimediabilmente etichettato i paesi dell’ex blocco comunista come xenofobi, iper-nazionalisti, moralmente sottosviluppati rispetto al progredito ovest. Pochi hanno cercato di capire il perché di tutto questo. Sebbene un’analisi attenta e di ampio respiro non possa comunque giustificare certe politiche, essa può forse aiutare a comprenderle.

Le transizioni post-comuniste: un successo parziale

Il primo errore che l’occidente compie è quello di interpretare la storia post-comunista degli stati dell’Europa orientale come una lunga cavalcata di successi. La transizione ad un’economia di mercato e ad un regime politico liberal-democratico, coronata con l’ingresso di molti paesi dell’area nella NATO e nell’UE, viene vista come una vera e propria glory road che ha portato paesi prima poverissimi verso standard di vita sempre più simili a quelli dell’Europa occidentale. Si tratta di un’interpretazione superficiale e, talvolta, fuorviante. Sebbene sia innegabile il livello di sviluppo economico raggiunto negli ultimi anni da paesi come Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Romania, esso nasconde una realtà ben più frastagliata. Dietro i fantasmagorici numeri sulla crescita del PIL e sull’esiguo tasso di disoccupazione, si staglia un sottobosco fatto di rampante povertà. Molti ancora soffrono delle privatizzazioni selvagge degli anni ’90, che hanno causato la perdita di numerosi posti di lavoro e un generale aumento del costo della vita. Non tutti hanno beneficiato del cambiamento del sistema, e chi prima riusciva a vivere grazie agli aiuti forniti dallo stato assistenziale comunista, si è ritrovato disperso in una giungla economica nella quale ha fatto fatica ad orientarsi. Questo ha causato in alcuni paesi una massiccia migrazione verso ovest. Il caso di Romania e Bulgaria è emblematico; addirittura Sofia ha perso 2 milioni d’abitanti tra il 1989 e il 2009, passando da 9 a 7 milioni. Chi invece, come l’Ungheria, aveva goduto di un’economia relativamente stabile negli ultimi decenni di comunismo, ha costruito su fragili basi il suo boom degli anni ’90, e si è ritrovata a dover mettere in atto pesanti misure d’austerità specialmente dopo lo scoppio della crisi economica mondiale. Tra le varie cause dell’exploit di Orban del 2010 vanno ascritti i malumori di buona parte della popolazione ungherese per le riforme economiche “lacrime e sangue” portate avanti dal governo del suo predecessore Gordon Bajnai. Non è quindi un caso che molti, disorientati da un’economia imprevedibile, da un futuro incerto, dall’emigrazione abbiano cercato rifugio in chi prometteva  di rimettere le persone comuni al centro della politica nazionale. Non basta tuttavia l’economia a spiegare il successo dei conservatori nazionalisti: la Polonia registra da anni una crescita impetuosa, grazie soprattutto al sostegno dell’UE. Il governo di Piattaforma Civica ha garantito al paese ottimi risultati economici, che non sono tuttavia bastati ad evitare la clamorosa sconfitta alle elezioni del 2015. Il politologo francese Jacques Rupnik ha spiegato così il risultato: “Piattaforma Civica ha perso perché si era esaurito il progetto liberale basato sulla concorrenza sovranazionale e sull’invito ad arricchirsi. PiS di Kaczynski invece ha vinto poiché ha sostenuto un progetto collettivo basato sul patriottismo e i valori cristiani” (J. Rupnik, Senza il muro. Le due Europe dopo il crollo del comunismo, Donzelli, 2019). Il richiamo all’identità e al patriottismo si è rivelato un’arma politica letale proprio mentre l’Europa occidentale combatteva con l’annosa questione migratoria.

Perché nell’Europa orientale non vogliono i migranti?

Anche dietro il rifiuto all’accoglienza si nascondono problematiche profonde che non possono esaurirsi in una semplice indole xenofobica e intollerante. Niente più dell’apertura dei confini ha simboleggiato la fine del comunismo e l’apertura all’Occidente; ancora oggi la libertà di viaggio è uno degli aspetti più apprezzati dell’integrazione europea in buona parte dell’Europa orientale. Vi è, tuttavia, un’altra faccia del libero movimento: l’emigrazione massiccia. Oltre al già citato caso bulgaro, vanno citati i 3,5 milioni di romeni che hanno lasciato il loro paese dopo il 2007, per non parlare del totale spopolamento di molte aree della Germania orientale dopo il crollo del muro di Berlino. A contribuire al sensibile calo demografico intervengono poi il progressivo invecchiamento e i bassi indici di natalità: paesi economicamente solidi come Lettonia e Lituania hanno perso negli ultimi anni rispettivamente il 27 e il 22.5 % della popolazione. Se a ciò si aggiunge l’immagine disastrosa del fenomeno migratorio che ormai viene propagata da buona parte dei media occidentali e condivisa da larghi settori dell’opinione pubblica, l’atteggiamento del blocco orientale risulta meno sorprendente. In paesi che stanno vivendo una vera e propria rivoluzione demografica, è che registrano milioni di partenze annuali, anche soltanto paventare l’idea di accogliere persone con un background culturale diverso diventa terrificante. I più vogliono che i governi si impegnino nel far tornare a casa chi è partito, piuttosto che ad accogliere migranti. Vi sono poi delle motivazioni storiche da non sottovalutare. Per cinquant’anni il comunismo ha educato le masse della regione all’internazionalismo proletario: si trattava, tuttavia, di un internazionalismo fantoccio, dietro il quale si mascherava un intimo sospetto verso il vicino. Erano gli stessi leader comunisti a parlare apertamente di fratellanza socialista, pur tenendo sempre desta l’attenzione sulle manovre degli alleati. E’ naturale che chi è cresciuto in questo clima di finto e ambiguo cosmopolitismo non possa poi farsi portavoce delle grandi istanze di accoglienza propugnata dagli intellettuali dell’Europa occidentale.

Cosa vogliono veramente ad Est?

Ancora oggi la gente dell’Europa orientale si aspetta prima di ogni altra cosa progresso economico, e una sincronizzazione rapida con gli standard occidentali. L’occidente, tuttavia, spesso chiede all’oriente quello che non potrà mai ricevere, quantomeno nel breve termine. Spesso lo iato economico esistente tra le due parti del continente si trasforma in uno iato comunicativo, ma basterebbe cambiare prospettiva per capire che l’atteggiamento dei paesi dell’Europa orientale non deriva soltanto da un presunto sottosviluppo culturale e politico, ma da condizioni storiche sedimentatesi nel tempo e difficili da modificare. Si guardi alla questione ambientale: mentre nelle grandi capitali dell’ovest dalla scorsa primavera si manifesta in difesa del pianeta, e in Italia da anni ormai si discute dell’annosa questione della TAV, nella Moldova romena si susseguono da mesi le dimostrazioni di abitanti esasperati dal cronico ritardo del governo nella costruzione di autostrade. Come ci si può aspettare una svolta green e una coscienza ambientale da paesi che ancora sperano di poter godere dei vantaggi di un’autostrada, da persone che per andare a far la spesa devono salire su un carro di legno trainato da un mulo? In politica vale lo stesso principio: come ci si può aspettare accoglienza e cosmopolitismo da persone cresciute nella cultura del sospetto che vedono partire milioni di connazionali, spesso per sempre? Se a Bruxelles vogliono veramente sconfiggere gli Orban, i Kaczynsky, i Babis, i Borissov, forse farebbero bene a rispondere a queste domande
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #353 il: Gennaio 14, 2020, 18:43:55 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Grecia/Grecia-campi-profughi-affollati-e-isolati-198714

Citazione
Grecia: campi profughi affollati e isolati

Benché se ne parli meno, oltre centomila migranti e rifugiati sono ancora presenti in Grecia. Molti di loro vivono per lunghi periodi in centri di prima accoglienza, che però si trovano in aree remote e scarsamente servite

14/01/2020 -  Eleni Stamatoukou Salonicco
“L’Europa non sta vivendo più la crisi migratoria del 2015, ma i problemi strutturali persistono”, ha dichiarato  lo scorso marzo Frans Timmermans, allora vicepresidente esecutivo della Commissione europea. Stando all’Ue quindi, la crisi migratoria sarebbe passata. Il numero dei richiedenti asilo in Europa è crollato e le nuove politiche dell’Unione europea hanno arrestato gli spostamenti di migranti privi di documenti. Per ribadire le proprie posizioni, la Commissione europea ha stilato un documento  per smascherare miti e leggende legate al fenomeno migratorio.

Certo, la crisi dei migranti non fa più parlare così tanto di sé come nel 2015 e nel 2016, ma ciò non significa che tutto sia stato risolto. Il problema persiste nelle periferie italiane o greche, dove migliaia di persone sono bloccate nei centri di prima accoglienza.

Vivere nei campi profughi in Grecia
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) sostiene  che nell’ultimo anno l’afflusso di richiedenti asilo in Grecia (il principale punto di ingresso nell’Unione europea) è aumentato rispetto all'anno precedente. I numeri non possono essere comparati con il picco registrato nel 2015, ma è certo che le isole dell’Egeo orientale sono sopraffatte dall’emergenza. Per ormai diversi anni la Grecia non è stata in grado di gestire in maniera efficiente la crisi migratoria. "Lo dirò in maniera chiara: solleverò la questione delle sanzioni per quelle nazioni europee che si rifiutano di partecipare a un’equa redistribuzione dei rifugiati", ha detto il neo primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis.

Sempre stando all’UNHCR, in Grecia ci sono circa 109mila tra rifugiati e migranti. 70.200 di loro vivono nel continente in campi profughi, appartamenti e hotel, mentre 38.800 si trovano sulle isole, in condizioni precarie. OBC Transeuropa ha raccolto e analizzato i dati sui migranti e rifugiati che vivono nei campi greci ed è entrato in contatto con il governo locale, organizzazioni internazionali, Ong e con la Commissione europea. 

Prima di passare alle analisi è però importante capire cos’è un campo profughi: secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, “un campo per rifugiati è una sistemazione provvisoria per le persone che sono state costrette a lasciare le proprie abitazioni a causa di violenze o persecuzioni. Questi campi vengono costruiti nel corso di una crisi che colpisce esseri umani in fuga per salvare la propria vita. Si tratta di insediamenti costruiti in tutta fretta per garantire sicurezza e protezione immediata”. I primi campi profughi in Grecia sono stati messi in piedi nel 2015, benché il paese avesse già altri centri di accoglienza. Nel corso degli anni diversi campi sono stati chiusi e poi riaperti.

Secondo uno studio dello scorso novembre rilasciato dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM), allo stato attuale in Grecia i campi di prima accoglienza operativi sono trenta. Uno di questi (nei pressi di Corinto) funziona da centro di transito. In totale in questi campi sono ospitati 23.248 tra migranti e rifugiati (includendo quelli ufficialmente registrati, i non registrati e i visitatori). Più nello specifico, ci sono 5.012 unità di accoglienza con una capacità di 25.333 posti. In totale, l’area coperta è di 1.287.991 metri quadrati e la maggior parte delle persone vive nella regione dell'Attica (7.308), della Macedonia centrale (6.486) e della Grecia centrale (2.710).

Centri di accoglienza di lunga durata?
La maggior parte dei campi greci sono costituiti da unità abitative minime (costituite da container), mentre altri sono stati ricavati in edifici. Dopo il boom della crisi migratoria del 2015, i container hanno gradualmente rimpiazzato le tende. “Ovviamente queste sistemazioni non sono ideali per il clima, anche se per fortuna viviamo in un paese dove le condizioni meteorologiche non sono così male. Nonostante ciò, abbiamo sempre ribadito che questi centri sono temporanei e quindi anche l’ospitalità deve essere temporanea”, ci ha detto Manos Logothetis (segretario aggiunto per la prima accoglienza al ministero per la Protezione dei cittadini) criticando l’operato del precedente governo.

Nel 2018, un rapporto pubblicato dall’UNHCR assieme ad altre organizzazioni aveva fornito informazioni dettagliate sulle strutture nate per identificare e registrare i migranti (Open Reception Facilities e Reception & Identification Centers, altrimenti conosciuti come hotspots). A quel tempo, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati le riteneva strutture pensate per assicurare accoglienza temporanea a rifugiati e migranti. Nel luglio 2019, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM) descriveva però quelle strutture come campi di accoglienza per lunghi periodi.

IOM Grecia, in collaborazione con la Commissione europea e altri partner come il Danish Refugee Council, l’Arbeiter Samariter Bund e l’UNICEF, assicura servizi di supporto e di gestione dei centri. Abbiamo chiesto a IOM Grecia se questi siti, nelle condizioni in cui si trovano, con container ubicati a svariati chilometri da ospedali e servizi pubblici, potrebbero davvero diventare delle strutture di accoglienza a lungo termine.  L’organizzazione ha preferito non dare una risposta, dicendo che il loro compito è solo di supporto e che la domanda andrebbe rivolta al ministero per la Protezione dei cittadini.

Il segretario aggiunto Manos Logothetis ci ha risposto sostenendo che l’espressione “lungo termine” non si riferisce al tempo di accoglienza di un singolo individuo, ma a quanto un sito può essere mantenuto operativo in maniera funzionale. Stando a quanto ha affermato, il termine è stato usato per la prima volta dal governo precedente in occasione dell’implementazione di un nuovo programma di integrazione per migranti e profughi (HELIOS, Integration Support for Beneficiaries of International Protection). “Il nostro Paese non può assicurare una rete di permanenza per centomila persone, come succede ora. Bisognerebbe pensare a un sistema di accoglienza per numeri minori, ma con strutture migliori”, ha sottolineato l'esponente del governo.

Abbiamo poi chiesto alla Commissione europea un’opinione sulla situazione dei campi greci e sul loro carattere di lungo periodo. Uno dei portavoce ci ha risposto dicendo che la Commissione di Bruxelles sta ancora analizzando le misure prese dal nuovo governo di Atene.

Il problema della distanza
Molti campi si trovano in aree remote, come in vecchie zone industriali o ex basi militari distanti molti chilometri dai centri urbani. Altri sono invece ubicati in prossimità di città o paesi. Dei trenta campi esistenti, 23 hanno accesso al trasporto pubblico (treni e bus), mentre i sette restanti sono tagliati fuori (nello specifico, i siti di Volos, Andravida, Grevena, Oinofyta, Ritsona, Serres e Thiva). Abbiamo chiesto all’IOM se e quanto frequente è il servizio di bus per questi ultimi campi; il portavoce ci ha risposto dicendo che varia da sito a sito.

L’Organizzazione internazionale per le migrazioni però assicura che in caso di emergenza i trasporti verso strutture mediche o altri servizi sono assicurati dallo staff del centro. Oltre a ciò, in ogni campo sono disponibili informazioni di prima necessità tradotte in tutte le lingue parlate nella struttura e gli ospiti ricevono sessioni di formazione in cui vengono istruiti su come agire in caso di necessità. Allo stesso tempo, negli alloggi per i minori è presente staff specializzato 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana.

L’Organizzazione non governativa greca SolidarityNow lavora in 14 campi profughi nel nord e nel centro del paese. Offre servizi psico-sociali, assistenza legale, servizi ricreativi per bambini, donne e famiglie. “Costruire un campo profughi in aree remote, lontane dai centri cittadini, senza accesso ai servizi è problematico. È direttamente collegato alla logica del ‘lontano dal mio cortile’, adottata dalle autorità. Ovviamente, questi campi dovrebbero essere vicini al tessuto urbano, per garantire agli ospiti accesso ai vari servizi sociali, come le scuole, gli ospedali, i centri amministrativi”, ha detto a OBC Transeuropa Lefteris Papagiannakis, responsabile per l'advocacy, le policy e la ricerca di SolidarityNow. Le principali preoccupazioni dell’organizzazione riguardano la carenza dei servizi di base nei campi, la distanza dai centri urbani e la mancanza di trasporti pubblici.

Non è ideale tenere queste persone lontane dai centri urbani per lunghi periodi in aree in precarie condizioni, sottolinea UNCHR Grecia. Costretti a limitate attività, i rifugiati sono esposti a maggiore stress, che a sua volta causa maggiori difficoltà nella capacità di integrazione e della creazione di autostima. A livello globale un campo profughi, secondo le politiche dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, dovrebbe essere un centro di accoglienza temporaneo ed eccezionale pensato per chi è stato costretto ad abbandonare la propria casa. “Queste strutture dovrebbero facilitare l’identificazione dei bisogni specifici delle persone ospitate e assicurare che questi bisogni vengano soddisfatti. Tuttavia, i campi risultano un compromesso e pongono dei limiti ai diritti e alle libertà dei rifugiati e alle loro possibilità di prendere decisioni importanti per le loro vite”, ribadisce l’UNHCR.

OBC Transeuropa ha calcolato i chilometri e le ore necessarie per i trasferimenti dai campi profughi verso le città e i villaggi nei dintorni. In particolare, è stata misurata la distanza tra ciascun centro e la città più vicina con almeno un ospedale. Dall’analisi risulta che sedici campi distano oltre dieci chilometri dall'ospedale più vicino, mentre solo cinque distano meno di cinque chilometri. Altri centri urbani offrono assistenza sanitaria, ma si tratta di strutture con servizi limitati e sprovvisti di specifiche attrezzature mediche.

Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network   ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #354 il: Gennaio 16, 2020, 12:21:43 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/83444

Citazione
RUSSIA: L’enorme disuguaglianza economica tra classi sociali
Maria Baldovin 22 Maggio 2017

Recentemente il Guardian ha riportato alcuni dati della Banca Mondiale, dai quali si evince come la Russia sia uno dei Paesi dove si registra una maggiore disuguaglianza economica. Quest’ultima è solitamente misurata con il coefficiente di Gini, ideato dall’omonimo statistico italiano e indicatore della disuguaglianza nella distribuzione del reddito o della ricchezza. In Russia, oggigiorno, la forbice si fa sempre più ampia e il 10% delle persone possiede più dell’80% della ricchezza. Questo non rappresenta affatto una novità, dato che da anni il Paese è indicato come il meno equo tra le maggiori economie mondiali. Tuttavia, non è da escludere che una crescente consapevolezza della disuguaglianza economica, insieme agli scandali riguardo alla corruzione dilagante ai vertici, possano rappresentare una miscela esplosiva per lo scoppio di nuove proteste.

Alle origini della disuguaglianza

La disuguaglianza economica è un fenomeno sviluppatosi in Russia soprattutto a partire dalle riforme di transizione degli anni ’90. Sebbene, infatti, anche nella società sovietica ci fosse una classe privilegiata – la cosiddetta nomenklatura – avente accesso a beni e servizi migliori, le differenze salariali erano piuttosto esigue. Fu solo con l’avvento dell’economia di mercato, dunque, che cominciò a crearsi una classe di super-ricchi, mentre la maggioranza della popolazione finiva sul lastrico. L’arricchimento di una speciale classe di persone avvenne soprattutto grazie all’ancor debole legislazione in materia di privatizzazione; in questo modo si arricchirono coloro che riuscirono, spesso in modi ambigui, ad accaparrarsi le ricchezze del Paese, andando a creare la classe degli “oligarchi”.
Questi ultimi vennero presi di mira fin da subito durante il primo mandato di Vladimir Putin, il quale si impegnò fortemente a diminuire la loro influenza nella vita politica russa, riportando apparentemente ordine sulla scena. In realtà è noto come sotto il governo Putin sia stata creata una nuova struttura, che lega ex-agenti del KGB, politici e vertici delle più importanti compagnie energetiche in una rete dalle maglie molto fitte. La lotta di quegli anni contro gli oligarchi non portò alla distruzione di una classe di super ricchi: il numero dei russi che vivevano sotto la soglia di povertà calò negli anni 2000, ma il coefficiente di Gini è sempre rimasto elevato, a riprova che l’aumento del PIL pro-capite non aveva diminuito la forbice.

Nuova presa di coscienza?

Oggigiorno, la crisi economica, la svalutazione del rublo, le ingenti spese militari e gli scandali sulla corruzione potrebbero far accendere i riflettori su quei 20 milioni di russi che ancora vivono sotto la soglia della povertà. Tuttavia, l’argomento non sembra trovare il giusto spazio nel dibattito pubblico, come sottolinea in un’intervista Aleksandr Zamjatin, tra i fondatori dell’associazione Zerkalo (“Specchio”): “Qualunque stima si guardi, si evince che in Russia c’è un elevato indice di disuguaglianza sociale, ma, guardando il panorama mediatico nel paese, si potrebbe pensare che il problema non esista affatto”. L’obiettivo di Zerkalo è proprio sopperire a questa mancanza e dare spazio a ordinarie storie di povertà e ingiustizia sociale.
E’ tuttavia difficile prevedere se una rinnovata consapevolezza del problema porterà a una reazione da parte del popolo russo e a nuove proteste di piazza. In molti, come il sopracitato Zamjatin, credono che questi temi siano poco importanti per la destra liberale, l’unica fazione politica che in questo momento riesce a portare grandi numeri in piazza. Tuttavia, esponente di quella destra liberale è Aleksej Naval’nyj, leader delle significative proteste anti-corruzione risalenti al 26 marzo; queste ultime, in un certo senso, rientrano in questo contesto, almeno stando alle parole dell’organizzatore, convinto che la gente sia stanca di vivere di stenti e vedere una classe di milionari e corrotti. Se Naval’nyj riuscirà a capitalizzare su questo tema, rendendolo un aggregatore del malcontento di molti, forse aumenterà le sue possibilità di insidiare Putin alle presidenziali del prossimo anno.

Questo articolo è frutto della collaborazione con MAiA Mirees Alumni International Association. Le analisi dell’autrice sono pubblicate anche su PECOB, Università di Bologna
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #355 il: Gennaio 18, 2020, 15:57:56 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Belgrado-soffoca-198922

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Belgrado soffoca

La capitale serba è, non per la prima volta, tra le città più inquinate al mondo. La situazione è egualmente catastrofica a Niš ed in altre città del paese. La società civile si mobilita e denuncia l'immobilismo delle autorità

17/01/2020 -  Nevena Bogdanović
(Pubblicato originariamente da Radio Slobodna Evropa  , selezionato e tradotto da Courrier des Balkans  e Obct)

Belgrado è attualmente una delle città più inquinate al mondo. Lo rileva l'applicazione AirVisual che misura la qualità dell'aria ma anche i dati dell'Agenzia per la protezione dell'ambiente in Serbia. Il ministro dell'Ambiente Goran Trivan, ha reagito alle numerose denunce e mobilitazioni dei cittadini spiegando che nessuna soluzione può, nel breve periodo, risolvere il problema.

“Dobbiamo migliorare i sistemi attuali di monitoraggio della qualità dell'aria. La soluzione è avere mezzi di trasporto che inquinano meno, industrie meno inquinanti e l'utilizzo di combustibili di alta qualità nonché adottare sistemi di riscaldamento per le case che siano sostenibili”, si è limitato a rispondere.

Dossier

Le città dei Balcani sono tra quelle dove si respira l'aria più inquinata d'Europa. Un problema aggravato dalla lentezza con cui le istituzioni stanno prendendo coscienza della gravità della situazione. Un dossier del 2019 a cura di OBCT

Mentre il Parlamento serbo sta per dare semaforo verde al Capitolo 27 delle negoziazioni con l'Ue, relativo all'ambiente e al clima, Mirko Popović, dell'Istituto per le fonti rinnovabili e la protezione dell'ambiente, si indigna per la passività delle istituzioni. “L'inquinamento dell'aria è percepibile ad occhio nudo. Ed anche il fatto che le istituzioni non facciano nulla!”, afferma. “Lo stato ha adottato un piano nazionale per la riduzione delle emissioni delle centrali termiche, per ridurre ogni anno le emissioni di anidride solforosa, ossidi di azoto e polveri sottili. Si sarebbe dovuto applicare il piano a partire del primo gennaio 2018. È stato elaborato, adottato, ma mai applicato”.

Dal canto suo il presidente Vučić ha dichiarato che l'inquinamento atmosferico è “conseguenza della crescita economica della Serbia”. Mercoledì il governo serbo si è riunito per un incontro d'urgenza sulla questione senza però adottare alcun provvedimento. La premier Ana Brnabić ha annunciato la creazione di una commissione di lavoro sottolineando che “non c'è motivo per lasciare spazio al panico”.

Ne da(vi)mo Beograd si mobilita
L’iniziativa civica Ne da(vi)mo Beograd  , che ha più volte avvertito le autorità di questo problema, ha promosso una petizione sottoscritta già da 10.000 cittadini. “Nel breve periodo occorre proteggere la popolazione e tenerla informata. Nel lungo termine occorre ovviamente adottare dei provvedimenti per intervenire sulle cause dell'inquinamento. Purtroppo le istituzioni continuano a fare orecchie da mercante alle iniziative dei cittadini”. Denuncia Vladimir Radojčić di Ne da(vi)mo Beograd.

Secondo un rapporto della rete internazionale di ong Bankwatch, presentato lo scorso 10 dicembre al Parlamento europeo, le centrali termiche in Serbia emettono anidride solforosa in quantità sei volte maggiore di quanto permesso dal Piano nazionale. In questo momento anche altre città serbe come Bor, Valjevo, Niš o Smederevo devono affrontare un livello di inquinamento molto elevato. La situazione è grave anche nelle altre capitali della regione, da Sarajevo a Skopje.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #356 il: Gennaio 18, 2020, 15:59:54 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Macedonia-del-Nord/Skopje-la-capitale-piu-inquinata-d-Europa-191702

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Skopje, la capitale più inquinata d'Europa

La capitale della Macedonia è stata dichiarata la più inquinata in Europa: un record negativo causato da cattive politiche e una cronica mancanza di visione a lungo termine

28/12/2018 -  Ilcho Cvetanoski Skopje
Oltre alle ben note sfide su corruzione, libertà di espressione, stato di diritto, responsabilità politica, tendenze autoritarie ecc., i paesi balcanici – indipendentemente dallo status UE – sono afflitti da un'altra questione poco affrontata. Skopje, Sofia, Pristina e Sarajevo sono infatti nella lista delle città più inquinate d'Europa.

Skopje, insieme alla vicina Tetovo, detiene il poco lusinghiero record. In un recente articolo pubblicato sul suo sito web, il Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente ha dichiarato Skopje "la capitale più inquinata d'Europa". Secondo i media locali, il 38% dei decessi a Tetovo e il 22% a livello statale sono il risultato diretto dell'inquinamento atmosferico.

Tuttavia, il problema è trascurato per la maggior parte dell'anno. Solo quando arriva l'inverno e un denso smog soffoca la città e i suoi abitanti, viene rispolverato da media e opposizione. Quindi, oggi la VMRO-DPMNE sta incolpando l'avversario SDSM per la cattiva qualità dell'aria, come se non avesse governato il paese per 10 anni fino al 2017.

Strumentalizzazione e cronico deficit di visione e soluzioni a lungo termine, insieme alla mancanza di responsabilità e proattività dei cittadini, hanno portato Skopje a diventare la "capitale più inquinata d'Europa".

Il bilancio delle vittime
La scarsa qualità dell'aria nella Repubblica di Macedonia è principalmente dovuta alle minuscole particelle di combustione chiamate PM10 (10 micrometri o meno di diametro) e PM2,5 (2,5 micrometri o meno di diametro). Queste possono facilmente penetrare in profondità nel corpo, causando non solo problemi respiratori, ma anche altri pericolosi problemi di salute. Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), ogni anno in Macedonia muoiono prematuramente 2.574 persone in diretta conseguenza dell'inquinamento atmosferico.

I dati di dicembre 2018 dell'iniziativa Breathe Life, una Coalizione per il clima e l'aria pulita guidata dall'OMS e dal programma per l'ambiente delle Nazioni Unite, mostrano la gravità della situazione. La concentrazione delle particelle di PM2,5 a Skopje è 4,5 volte superiore al livello raccomandato di 10 microgrammi per metro cubo. Secondo la stessa fonte, la situazione è ancora peggiore a Tetovo, dove la concentrazione di particelle di PM2,5 è 8,1 volte superiore al livello raccomandato.

I media locali, citando uno studio dell'OMS, sottolineano anche che nel 2010 i paesi dei Balcani occidentali hanno perso, oltre a circa 36.000 su 23 milioni di cittadini, 55 miliardi di dollari come risultato diretto dell'inquinamento atmosferico.

Predisposizione naturale o negligenza umana?
Situate a valle e circondate da montagne, Skopje e Tetovo sono predestinate alla nebbia. La situazione è complicata dall'inversione di temperatura, un fenomeno naturale che fa sì che l'aria calda rimanga sopra l'aria fredda, intrappolando così in basso la nebbia. In circostanze normali, la temperatura dell'aria dovrebbe diminuire all'aumentare dell'altitudine, sostenendo la fluttuazione giornaliera dell'aria (l'aria calda sale e l'aria fredda si abbassa). Tuttavia, con l'inversione, l'aria fredda rimane sotto l'aria calda bloccando la fluttuazione, e la nebbia rimane intrappolata nelle valli per giorni, a volte per settimane.

Questa condizione ambientale non può essere modificata, ma l'aumento dell'inquinamento è il prodotto delle attività umane: rapida crescita del traffico, combustione incompleta dei rifiuti, industria, urbanizzazione rapida, scarsa cura dell'ambiente, ecc.

Pertanto, le politiche statali dovrebbero affrontare lo smog come unica variabile prodotta dall'uomo in questo scenario. Invece, negli ultimi anni, hanno peggiorato la situazione con scelte populiste.

Politiche populistiche e inquinamento
Le statistiche ambientali 2017 dell'Ufficio statistico di Stato mostrano che la principale fonte di inquinanti atmosferici (circa il 77%) sono i processi di combustione, seguiti dai trasporti (circa il 14%) e dai processi di produzione (circa il 6,5%). Consumi domestici e automobili sono quindi le principali fonti di inquinamento, seguiti dalle industrie.

Nelle sue recenti dichiarazioni pubbliche, il sindaco di Skopje Petre Shilegov ha sottolineato che circa 60mila famiglie usano legna e carbone di bassa qualità per il riscaldamento. Il precedente governo VMRO-DPMNE, in una frenesia populista, aveva permesso l'importazione di vecchie auto con standard ecologici obsoleti dall'UE. Di conseguenza, in meno di cinque anni, il numero di veicoli registrati è passato da 350mila a 475mila: la maggior parte a diesel, quindi con maggiore emissione di particelle rispetto alla benzina.

Altro fattore aggravante è la selvaggia urbanizzazione delle città. Invece di parchi verdi, nuovi edifici spuntano come funghi dopo la pioggia. Oltre al parco principale della città, a Skopje non c'è un solo spazio verde che non si sia ristretto negli ultimi 10-15 anni. La situazione è ancora peggiore a Tetovo e in altre città. Il disboscamento illegale è endemico attorno alle città e nelle zone montane limitrofe, peggiorando ulteriormente l'ecosistema.

Invece di affrontare il problema, i politici lo hanno sfruttato a fini elettorali. Durante l'era VMRO-DPMNE nel 2006-2017, l'SDSM ha costantemente attaccato il governo per le sue sconsiderate politiche ecologiche, promettendo un approccio più rispettoso dell'ambiente. Ora, al potere sia a livello locale che nazionale, continua però a portare avanti politiche incoerenti e di breve respiro.

Skopje ha bisogno di un'azione radicale
Con notevole ironia involontaria, il sindaco Petre Shilegov ha annunciato che Skopje, insieme ad altre nove città di sette paesi in Europa, è ufficialmente in lizza per il titolo di Capitale Europea dell'Ambiente 2021, aggiungendo che l'UE ha riconosciuto i risultati e gli sforzi della Macedonia per migliorare l'ambiente e la qualità della vita.

Kiril Sotirovski, rettore della facoltà di Silvicoltura a Skopje, ha dichiarato ai media locali di essere estremamente sorpreso dalla candidatura, sottolineando che Skopje ha mostrato progressi misurabili in uno solo dei 12 criteri, l'efficienza energetica. "Per tutti gli altri 11 criteri, la situazione è tragica", ha affermato Sotirovski.

L'iniziativa Breathe Life evidenzia sei aree da affrontare al fine di ridurre l'inquinamento atmosferico: trasporti, gestione dei rifiuti, inquinamento domestico, approvvigionamento energetico, industria, cibo e agricoltura. Finora, nessun cambiamento importante è stato annunciato in nessuna di queste aree. Un recente rapporto delle Nazioni Unite dalla conferenza ministeriale regionale a Belgrado incoraggia i paesi a non attendere l'adesione all'UE, ma a stanziare più risorse per affrontare l'inquinamento nel futuro prossimo o a medio termine.

Invece di modificare le dinamiche di consumo attraverso l'efficienza energetica degli edifici e il minore utilizzo del riscaldamento, migliori standard tecnici per i veicoli e limiti al loro uso nelle aree urbane, e miglioramento dei trasporti pubblici, Skopje sta affrontando l'inquinamento atmosferico urbano candidandosi a Capitale verde europea 2021.
«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
Augusto, 18 a.C.

Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #357 il: Gennaio 18, 2020, 16:31:25 pm »
Chissà cosa direbbe un albanese se leggesse questo topic
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

Offline Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #358 il: Gennaio 18, 2020, 17:46:19 pm »
Chissà cosa direbbe un albanese se leggesse questo topic

Ben poco... perché poi, se si iscrivesse, avrebbe a che fare con me, che con gli albanesi ho trascorso i migliori anni della mia vita lavorativa.
Perciò tante puttanate non potrebbe raccontarle.
«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
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Offline Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #359 il: Gennaio 24, 2020, 18:53:41 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/I-polmoni-di-Sarajevo-pieni-di-PM-2-5-199212

Citazione
I polmoni di Sarajevo pieni di PM 2,5

La capitale bosniaca figura in cima alla lista della classifica delle città più inquinate al mondo. Un recente rapporto della Banca mondiale stima oltre 3000 morti all'anno per inquinamento. Dal riscaldamento domestico alle centrali, le cause sono varie. Anche qui come altrove la politica locale sembra ignorarle

24/01/2020 -  Ahmed Burić Sarajevo
Nel corso dell’ultimo mese Sarajevo ha occupato quasi sempre il primo posto nella classifica delle città più inquinate al mondo. Accanto a megalopoli come Pechino e Nuova Deli, e altre città dove è tradizionalmente dominante l’industria pesante, soprattutto quella metalmeccanica, nelle ultime settimane la capitale bosniaca ha registrato alti livelli di inquinamento, nocivi per la salute umana. Volendo dare qualche numero, i valori dell’Indice di qualità dell’aria  (IQA) superiori a 300 sono considerati pericolosi per la salute, e a Sarajevo da metà dicembre fino ad oggi il valore di IQA oscillava tra 392 e 700. La Banca mondiale, in un suo recente rapporto intitolato “Gestione della qualità dell’aria in Bosnia Erzegovina  ”, ha cercato di spiegare cosa implicano questi valori.

Nel rapporto si afferma che ogni anno in Bosnia Erzegovina muoiono prematuramente circa 3.300 persone a causa delle conseguenze dell’inquinamento atmosferico. In altre parole, circa il 9% del totale dei decessi è correlato all’inquinamento atmosferico. L’alta concentrazione di polveri fini nell’aria è dovuta soprattutto all’utilizzo diffuso degli impianti individuali di riscaldamento (di cui la maggior parte a carbone e a olio combustibile), nonché all’uso massiccio di veicoli a motore, con un’età media di 17 anni. Si stima che circa il 70% di automobili vecchie sia alimentato a diesel e che più della metà del parco circolante sia di categoria inferiore a Euro 3.

Come già avvenuto molte volte in passato, l’importanza dei dati esposti nel rapporto è stata sminuita nelle sue conclusioni: il rapporto della Banca mondiale suggerisce che l’attuale situazione dell’inquinamento atmosferico in Bosnia Erzegovina sia “dovuta alla mancanza di politiche finalizzate a ridurre le emissioni inquinanti e al massiccio consumo di combustibili fossili per riscaldare le case e per cucinare”, concludendo che “le caldaie a legna e a carbone sono molto più diffuse nei paesi del sud-est Europa e dei Balcani rispetto al resto del continente”. Volendo essere un po’ sarcastici, si potrebbe dire che la “logica” adottata dalla Banca mondiale riecheggia quella famosa frase attribuita, a quanto pare senza fondamento, a Maria Antonietta, che recita: “Se non hanno più pane, che mangino brioche”.

Ma il vero problema è un altro. Le condizioni di vita e l’inerzia mentale dei cittadini bosniaci, e diversi giochi politici, rischiano di soffocare sul nascere ogni possibile mobilitazione civile. Come altrimenti spiegare il fatto che alle manifestazioni organizzate nei giorni scorsi davanti alla sede del governo del cantone di Sarajevo per protestare contro l’inquinamento atmosferico e per chiedere che venga risolta la grave situazione ambientale in cui versa il paese, abbia partecipato solo una cinquantina di persone, a cui si sono aggiunti circa venticinque giornalisti e qualche passante occasionale? Uno spettacolo sconfortante che ha dimostrato quanto pochi siano i cittadini sarajevesi disposti a lottare per l’aria pulita.

Nella marea di interpretazioni dei risultati del monitoraggio della qualità dell’aria e di proposte per risolvere il problema dell’inquinamento atmosferico in Bosnia Erzegovina spicca l’ipotesi secondo cui i principali responsabili dell’inquinamento atmosferico sarebbero le centrali termoelettriche. A differenza dei paesi dell’Europa occidentale, che stanno pian piano chiudendo le centrali termoelettriche (o almeno si sono impegnati a ridurre l’uso del carbone per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile), nei Balcani e nel sud-est Europa le centrali termiche sono ancora molto diffuse. 7 delle 10 centrali termoelettriche più inquinanti d’Europa si trovano nei Balcani.

Allora come evitare, in un ambiente simile, l’esposizione alle polveri sottili PM 2,5 che sono estremamente dannose per la salute perché possono penetrare profondamente nei polmoni e nel flusso sanguigno, causando diverse malattie, e persino la morte? Per cominciare, bisogna capire che i politici al potere devono assumersi le proprie responsabilità. A dire il vero, il premier del governo del cantone di Sarajevo Edin Forto si è rivolto ai presenti alla summenzionata “manifestazione” di protesta, ricorrendo perlopiù a frasi fatte. Ne è uscito un discorso blando, impregnato di retorica tipica del marketing.

Il problema è chiaro, e lo ha spiegato molto bene il professore Azrudin Husika, esperto di problematiche legate all’inquinamento e alle energie rinnovabili. In un’intervista rilasciata alla Radiotelevisione della Bosnia Erzegovina (RTBH), Husika ha dichiarato che la Bosnia Erzegovina ha allineato, in parte, la normativa nazionale in materia ambientale a quella dell’UE, aggiungendo però che mancano sia la consapevolezza che i presupposti economici necessari per avviare una vera lotta all’inquinamento. Si tratta di un processo che richiede tempo, ma nessun governo né partito politico sembra essere disposto a dire la verità agli elettori. E la verità è che la lotta contro l’inquinamento durerà anni e il problema non può risolversi da solo.

In parole povere, si avvicinano le elezioni locali e nessuno vuole assumersi la responsabilità dell’attuale situazione ambientale a Sarajevo. Nel frattempo, i cittadini sono costretti a respirare l’aria inquinata che può causare gravi problemi di salute, tra cui le infezioni del tratto respiratorio inferiore; il tumore alla gola, ai bronchi e ai polmoni, l’ischemia cardiaca, l’ictus, la broncopneumopatia cronica ostruttiva. Oltre a causare dolori e sofferenza, le malattie legate all’inquinamento atmosferico incidono fortemente sulla spesa sanitaria e riducono la produttività sul lavoro.

In Bosnia Erzegovina il numero di morti per l’inquinamento atmosferico è il doppio di quello in Macedonia del Nord (dove ogni anno muoiono 1600 persone a causa dell’inquinamento) ed è ben 4 volte superiore a quello in Kosovo (760 morti all’anno). I più esposti ai rischi legati all’inquinamento atmosferico sono gli adulti di età superiore ai 50 anni.

Tutti questi dati evidentemente non bastano per spingere le autorità a reagire. Per risolvere il problema dell’inquinamento atmosferico in Bosnia Erzegovina bisogna intraprendere interventi politici e legislativi, e investire in diversi settori, compreso il settore edilizio e quello dei trasporti. Nel frattempo, i cittadini continueranno ad ammalarsi e a morire, i partiti politici continueranno ad accusarsi e a incolparsi a vicenda, e la comunità internazionale continuerà a credere che il suo lavoro consista solo nel pubblicare rapporti e garantire il regolare svolgimento di elezioni. Resta però da vedere quanti cittadini bosniaci si recheranno alle urne.
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