Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 69316 volte)

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #120 il: Maggio 11, 2018, 20:10:10 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Slovenia/Sfruttamento-e-precariato-lavoratori-serbi-in-Slovenia-187301

Citazione
Sfruttamento e precariato: lavoratori serbi in Slovenia

La Slovenia ha bisogno di manodopera e Lubiana sta firmando accordi bilaterali con i paesi della regione che però rischiano di ridurre ancora i diritti dei lavoratori immigrati
11/05/2018 -  András Juhász   

(Pubblicato originariamente da Mašina, selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans e OBCT)

Centinaia di migliaia di serbi lavorano all'estero e prendere in considerazione o decidere di lasciare il proprio paese fa parte del quotidiano della gente di qui, come di tutti i Balcani. Ma ciò che la gente conosce sulle condizioni di lavoro all'estero si riduce spesso ai soli racconti dei conoscenti e dei familiari emigrati. Vi sono poche informazioni sulla legislazione in materia di lavoro negli altri paesi, su come funzionano le agenzie interinali o su accordi bilaterali inerenti ai diritti dei lavoratori all'estero.

È in questo contesto che il primo febbraio 2018 Belgrado e Lubiana hanno sottoscritto un accordo sul distaccamento di lavoratori serbi in Slovenia. Pochi media ne hanno parlato e hanno affrontato i contenuti dell'accordo. Secondo Zoran Đorđević, ministro serbo del Lavoro, l'accordo garantirà ai lavoratori serbi gli stessi diritti di quelli sloveni. A due mesi dalla firma però il testo dell'accordo non è ancora a disposizione sul sito del ministero. Alla nostra richiesta di vederne copia ci è stato risposto che il documento era ancora in corso di ratifica e che sarebbe poi stato pubblicato sul Gazzettino ufficiale della Repubblica di Serbia.
Ue e lavoratori all'estero

Uniformare la disciplina europea sul distacco dei lavoratori è un tema cruciale per un equo mercato interno del lavoro. Le esigenze – almeno in parte contrapposte – sono quelle di garantire la libera circolazione dei servizi e quella di combattere il dumping sociale, soprattutto negli ambiti a maggior intensità di manodopera. Nel 1996 la direttiva n° 71 cominciò a circoscrivere la materia prevedendo tre categorie per distinguere il lavoratore distaccato da quello che lavori stabilmente in uno stato diverso dal proprio. La direttiva prevede che, in ogni caso, le condizioni del lavoratore distaccato devono essere conformi a quelle dello Stato in cui svolge la sua prestazione. Questa previsione è stata nei fatti difficile da applicare, soprattutto per mancanza di coordinamento tra gli organi di controllo. Di conseguenza, nel corso degli anni si è verificato uno squilibrio tra i principi che si intendevano tutelare a favore delle libertà del mercato, conducendo a un abuso di pratiche sleali nei confronti dei lavoratori. Nel 2016 la Commissione europea ha proposto una revisione sulla normativa, per coprire le zone d’ombra e assicurarne maggiore efficacia. La commissione Occupazione e Affari sociali (EMPL) del Parlamento europeo ha esaminato la materia e ha presentato un rapporto, che ha poi intrapreso l’iter decisionale. Il voto sull’esito del negoziato è previsto il 25 aprile.

La versione slovena del documento, a disposizione, è stata analizzata da Delavska Svetovalnica, un'organizzazione che si occupa di diritti dei lavoratori e lavoratrici immigrate in Slovenia. I suoi collaboratori ci hanno spiegato cosa si dovranno aspettare i lavoratori serbi in Slovenia nel caso il testo del documento venga effettivamente ratificato dal parlamento. Il nostro interlocutore, Goran Zrnić, ha cominciato a lavorare in Slovenia 10 anni fa, in alcuni cantieri edili. Ha poi subito un infortunio sul lavoro con una lesione alla colonna vertebrale che ne ha causato l'invalidità. Da quel momento ha avviato una lotta lunga e ardua contro la burocrazia per far valere i suoi diritti. Da sei anni lavora come consulente per i lavoratori immigrati in Slovenia.

“Attualmente i lavoratori serbi hanno il diritto di dare le dimissioni e di cambiare datore di lavoro quando desiderano”, sottolinea Goran Zrnić. “Con il nuovo accordo non avranno più questo diritto durante il primo anno di lavoro in Slovenia. Questo sarebbe l'avere uguali diritti ai lavoratori sloveni? Mi piacerebbe che qualcuno me lo spiegasse!”.

Il diritto a cambiare datore di lavoro nel corso del primo anno viene soppresso dall'articolo 10 dell'accordo. Come spiegato dai membri di Delavska Svetovalnica, questa clausola non sarebbe altro che un copia incolla di un accordo già in vigore con la Bosnia Erzegovina che permette lo sfruttamento dei lavoratori immigrati.

“Un lavoratore che nel proprio paese era più o meno libero non può concepire di dover passare un anno intero con un datore di lavoro che, a quel punto, lo sfrutterà dicendogli che se non è contento può benissimo dare le dimissioni e rientrare nel proprio paese. Se uno dà le dimissioni, questo significa che torna alla casella di partenza e deve ricominciare da zero... E questo accade spesso”, continua Goran Zrnić.

Secondo i membri di Delavska Svetovalnica, quest'impossibilità di fatto di cambiare datore di lavoro nel corso del primo anno ha come conseguenza ore in più richieste e non pagate, contributi sociali non versati e a volte anche salari non corrisposti.

Anche se, formalmente, il lavoratore immigrato potrebbe ricorrere a una procedura di dimissioni eccezionali in base al diritto del lavoro sloveno, in pratica accade raramente, essendo i lavoratori poco informati e la procedura complessa. “Immaginatevi una persona da qualche parte in Slovenia, i cui genitori gli hanno raccontato che questa repubblica era tra quelle che stavano meglio nell'ex Jugoslavia: buoni salari, buone leggi... Arrivato pieno di sogni si risveglia in un ingranaggio che lo schiaccia. Senza contare il fatto che spesso i lavoratori immigrati pagano per arrivare sino a qui. Si sono indebitati e poi lavorano 250-300 ore al mese. Il datore di lavoro versa loro un salario di non più di 600 euro dicendo loro che 'contributi e congedi malattia da lui non esistono'”.

Il salario medio in Slovenia è di 1077 euro e il salario minimo di 638. Da sole, le spese di alloggio, rivelano il vero valore del salario degli immigrati. “In generale per un posto letto in una camera da quattro si spendono 120-140 euro. E affittare un monolocale a Lubiana costa tra i 250 e i 300 euro, spese non incluse ovviamente. Gli affitti degli appartamenti fuori Lubiana sono di un 10-30% in meno. Ma in quel caso aumentano i costi di trasferimento verso il posto di lavoro”.

Secondo Goran Zrnić se l'accordo sottoscritto in febbraio sarà ratificato, i lavoratori serbi in Slovenia saranno destinati a condividere la misera esperienza dei lavoratori provenienti dalla Bosnia Erzegovina. A suo dire, vista la mancanza di manodopera in Slovenia, la Serbia potrebbe negoziare condizioni migliori per i propri lavoratori. “In questo momento la Slovenia sta tranquillamente aspettando che la Serbia cada nella stessa trappola della Bosnia Erzegovina. A mio avviso Belgrado ha più pedine a suo vantaggio rispetto a Lubiana e potrebbe ottenere condizioni migliori per i propri cittadini. Ma se le giocherà o meno è una domanda da un milione di dollari. Servirebbe che i lavoratori serbi si mobilitassero, meglio se insieme a noi, è ovvio che occorre lavorare assieme”.

«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
Augusto, 18 a.C.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #121 il: Maggio 20, 2018, 19:32:41 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/L-Albania-di-oggi-al-di-la-dei-falsi-miti-187967

Citazione
L’Albania di oggi, al di là dei falsi miti
Albania - Ivo Danchev

Un'intervista rilasciata al portale Pangea dal nostro collaboratore Nicola Pedrazzi. Un ampio, appassionato e disincantato sguardo sull'Albania
18/05/2018 -  Pangea   

(Pubblicata originariamente da Pangea News il 15 maggio 2018)

Ci sono date da ricordare e miti da sfatare. 8 agosto 1991. Ricordate. La nave si chiamava ‘Vlora’, era stata costruita ad Ancona, varata a Genova, venduta a una società marittima di Durazzo. Quel giorno arriva al porto di Bari. Sbarcarono in 20mila. Albanesi. L’evento ebbe la natura assoluta di un simbolo, e diventò un docufilm, La nave dolce, diretto nel 2012 da Daniele Vicari.

La popolazione albanese in Italia conta, ad oggi, poco meno di mezzo milione di unità (stando al “Rapporto annuale sulla presenza dei migranti” del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali): sostanzialmente, non possiamo non conoscere un albanese. Il successo pubblico di Ermal Meta narra, a essere ottimisti, di una integrazione riuscita; dal punto di vista culturale, invece, tolti alcuni, rari nomi (Ismail Kadare, Ornela Vorpsi), la conoscenza italiana del patrimonio letterario albanese è ancora sporadica (citiamo il decisivo numero di In forma di parole dedicato ai Poeti della terra d’Albania, del 2002, e Il funerale senza fine, opera poematica di Visar Zhiti, edita lo scorso anno da Rubbettino).

In realtà, di Albania sappiamo quasi nulla. Ne sappiamo, per lo più, tramite claim promozionali, per così dire. Ci viene detto, ad esempio, di un ‘miracolo economico’ albanese, e di un primo ministro, Edi Rama, confermato al secondo mandato nel 2017, con il vizio d’artista – ha esposto alla Biennale di Venezia – e il carisma da capopopolo, che piace a tutti, soprattutto ora che l’Albania è in ‘odore d’Europa’. Dal vero, però, le condizioni di vita in Albania sono molto difficili, i giovani continuano a lasciare il loro paese, gli stipendi medi oscillano tra i 200 e i 300 euro, i libri hanno prezzi inaccessibili ai più e la corruzione – che ha come contraltare l’indifferenza civica verso i fatti politici – è ancora dominante.

Per capire l’identità dell’Albania oggi, una terra storicamente legata all’Italia – ma adesso i legami preferenziali sono con Stati Uniti e Turchia, e la Cina continua a fare affari – dove si sta costruendo la moschea più grande dei Balcani, abbiamo parlato con Nicola Pedrazzi, che collabora con l’Osservatorio Balcani e Caucaso da Tirana, e conosce il territorio albanese come le sue tasche (l’anno scorso, tra l’altro, ha firmato il libro L’Italia che sognava Enver. Partigiani, comunisti, marxisti-leninisti: gli amici italiani dell’Albania Popolare. 1943-1976). Sarà Nicola a toglierci l’utopia dalla testa e la réclame dagli occhi.

Dunque: Albania in Europa. I negoziati sono ufficialmente aperti. Come vive questa possibilità la società civile? Con disinteresse, con orgoglio, come una nuova possibilità di sviluppo?

I negoziati per l’adesione all’Ue, in realtà, non sono ufficialmente aperti. Nell’ultimo progress report la Commissione ha raccomandato al Consiglio europeo l’apertura dei negoziati, elogiando i progressi del paese; come sempre, spetta ora ai capi di stato e di governo decidere all’unanimità, il che significa che qualora anche solo un governo Ue non fosse d’accordo, l’apertura dei negoziati verrebbe rimandata. È quanto accade alla Macedonia per la questione del veto greco sul nome, nonostante sia candidata dal 2005; non è dunque detto che i negoziati con l’Albania verranno aperti quest’anno (d’altronde lo stesso balletto si è già visto per la concessione dello status di ‘paese candidato’, due volte raccomandato dalla Commissione, due volte negato dal Consiglio, fino all’estate del 2014). Sul tema, il Consiglio europeo dovrebbe riunirsi quest’estate.


Anche in Albania vige grande confusione sulle istituzioni e sul funzionamento dell’Ue. Un fatto che non aiuta la comprensione di dove si stia andando, e in quali tempi. Ciò premesso, tutte le forze politiche del paese e la schiacciante maggioranza dei cittadini albanesi sono convintamente ‘europeisti’: il che non stupisce, perché solamente tra Grecia e Italia vive più di un milione di cittadini albanesi. Non c’è un solo albanese di Albania che non abbia almeno un parente o un amico in Ue. Conseguentemente, il benessere e i vantaggi dell’Europa unita sono ben noti, e l’Europa è vista come la via maestra per lo sviluppo, come prima porta per una vita migliore. E qui viene la frustrazione: se l’Europa è un desiderio forte, gli albanesi lo soddisfano a livello personale, con la migrazione. La fiducia sul fatto che la politica albanese sia in grado di guidare il paese in Europa è bassa, così come è basso l’interesse per la politica, che in Albania come in altri paesi della regione è sinonimo di potere.



A tal proposito, è bene precisarlo: in Albania ancor più che in altri paesi balcanici è molto difficile parlare di ‘società civile’. Se, con riferimento a nuovi, embrionali, fermenti sociali, si sceglie di adottare quell’espressione, lo si deve fare sapendo che la ‘società civile albanese’ non è ancora assimilabile a una società civile ‘europea’. Infine, orgoglio e disinteresse/disillusione, citati nella sua domanda, sono in effetti due sentimenti che gli albanesi conoscono molto bene: il primo in relazione alla propria appartenenza nazionale, il secondo in relazione alle istituzioni del proprio Stato. Diciamo che questa mentalità diffusa mal si concilia con il progetto di integrazione politica avviato a ovest nel dopoguerra. Un processo, quello della ‘federazione’ degli stati e degli interessi europei, che ha conosciuto innumerevoli battute d’arresto, ma che ancora oggi è reso credibile proprio dalla pulsione al superamento dei nazionalismi deflagrati per l’ultima volta nel secondo conflitto mondiale. Un processo (e un racconto) cui i Balcani occidentali approdano solamente nei primi anni Duemila, non dobbiamo dimenticarlo.


Edi Rama rieletto lo scorso anno. Chi lo sostiene? Come è riuscito a consolidare la crescita dell’Albania? Ha davvero lavorato bene?

Domande difficili. Come prima cosa va detto che in Albania Edi Rama non gode della fama scintillante di cui dispone all’estero e tra gli albanesi della diaspora. Questo gli osservatori stranieri tendono a trascurarlo, soprattutto in Italia, dove negli ultimi anni la stampa ha largamente contribuito all’elaborazione del mito dello sviluppo albanese. Una narrazione giornalistica che non è politicamente innocua, perché la politica albanese utilizza (e talvolta sponsorizza direttamente) recensioni estere per legittimarsi (il 60% degli albanesi conosce e legge l’italiano, e qualora si concedesse il voto agli albanesi all’estero il consenso elettorale di Rama aumenterebbe ancora).



Al contempo, è un fatto che alle ultime elezioni il Partito Socialista di cui Rama è segretario è andato oltre le più rosee previsioni: avendo ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi il governo è monocolore, e non ha il problema del ricatto di forze minori in maggioranza (come LSI) che aveva nella scorsa legislatura. Dall’altra parte, il Partito Democratico (che Sali Berisha ha lasciato all’incolore Lulzim Basha) è in grave crisi. Buona parte dell’ascesa di Rama si spiega dunque anche con la mancanza di concorrenza politica, perché dopo il crollo del “sistema Berisha” nel 2013 la destra albanese è rimasta senza leader e organizzazione. Va poi detto che alle ultime elezioni, nel giugno scorso, ha votato solamente il 46% degli aventi diritto: il primo partito è dunque quello degli astenuti, perché, come dicevo sopra, verso il sistema politico in Albania vige il disincanto, indipendentemente da chi governa. Perché anche se di elezione in elezione migliora, il sistema di consenso rimane ampiamente clientelare.

Fatte tutte queste premesse, Rama è innegabilmente un leader capace e di grande carisma; ed è indubbio che nel corso dell’ultimo suo governo tante cose si siano ottenute: dalla candidatura all’Ue alla riforma universitaria, fino alla riforma della giustizia per ottenere un potere giudiziario finalmente indipendente dalla politica; una riforma votata due estati fa grazie alle pressioni internazionali, ma che è lungi dall’implementazione. In generale, in paesi così piccoli e in fase di accesso il cammino delle riforme è disegnato dalle delegazioni internazionali e dalla Commissione europea. Al contempo, il paradigma dello ‘sviluppo’ albanese non è sostanzialmente cambiato dall’era Berisha: apertura alle delocalizzazioni e attrazione degli investimenti esteri grazie al basso costo del lavoro e alla bassa tassazione, il tutto per riassorbire una disoccupazione che rimane alta. C’è stata senza dubbio una stretta su alcune disfunzioni croniche dello stato (segnali banali dal quotidiano: le bollette della luce ora le pagano tutti, a Tirana i parcheggi cominciano a essere a pagamento, si pensa all’inserimento di caselli autostradali…) ma la grande domanda degli albanesi a questo punto è: come faccio a pagare tutte queste nuove ‘tasse’, come faccio a rispettare le leggi e vivere nella “legalità europea” se il mio salario medio rimane di 200/300 euro al mese? In questo dilemma c’è il cortocircuito politico che potrebbe cominciare a intaccare lo strapotere del primo ministro artista (nonché l’‘europeismo’ degli albanesi).

Un argine alla creativa solitudine del premier sarebbe anche auspicabile, visto che ormai il paese si sta trasformando in una galleria d’arte all’aria aperta, a immagine e somiglianza del leader. Cosa che da vedere è inquietante, soprattutto conoscendo il recente passato del paese, e considerando l’area in cui si trova l’Albania e il peso dell’ ‘esempio’ turco (che oggi, di fatto, si pone come concorrente all’Ue). Sullo sfondo, gigante, rimane il problema della commistione tra potere politico e criminalità. Un dato su tutti: il ministro degli Interni del primo governo Rama (Saimir Tahiri) è risultato coinvolto in indagini avviate dalla Guardia di Finanza italiana sul narcotraffico tra i due paesi. Prima delle scorse elezioni Rama ha esiliato il suo imbarazzante ministro, ma di fatto poi in parlamento i socialisti hanno difeso il proprio affiliato con l’immunità parlamentare. Quindi anche l’immagine di Rama come campione della legalità, forgiatore di una statualità finalmente europea, è ampiamente propagandistica, e non corrisponde nemmeno alla sua storia politica, perché già negli anni in cui era sindaco di Tirana, Rama permise una speculazione edilizia di cui la caotica capitale, cresciuta senza criteri che non fossero dettati dal crudo denaro, è testimone vivente. Insomma, stiamo parlando innanzitutto di un personaggio complesso e controverso, anche se poi espone le sue opere alla biennale di Venezia e la Rai gli dedica servizi appiattiti sulla retorica del cambiamento arcobaleno, con la leggerezza e la compiacenza che in genere si dedica alla cronaca rosa, non a governanti in carica.

Esiste, immagino, una classe intellettuale albanese, case editrici, un sistema dell’informazione. La libertà di espressione intellettuale è reale? Ricordo di aver intervistato il poeta Visar Zhiti, ora ambasciatore albanese a Washington DC, che sotto il governo di Hoxha, 35 anni fa, ha patito la prigione per il solo fatto di essere poeta. Ora, ovviamente, la situazione è cambiata, ma, i giornali sono davvero liberi? I libri hanno un prezzo compatibile per tutti?

Se pensiamo al regime di Enver Hoxha è evidente che è cambiato tutto: pluralismo politico, libere elezioni, libertà di parola sono novità recenti, cui gli albanesi che hanno vissuto metà della vita ‘in un altro mondo’ devono ancora abituarsi. Se la situazione è completamente, positivamente, cambiata dai tempi del confino politico e delle brutalità di cui Zhiti e tanti altri testimoni conservano memoria preziosa (una memoria che in Albania fatica ancora a divenire pubblica, perché alla ricerca storica si preferisce il mito), nel paese la libertà d’espressione non è ancora garantita a tutto tondo. Il sistema mediatico nel suo complesso è sostanzialmente al servizio della politica – come detto, nella sua dimensione clanica e clientelare più che ideologica – e le voci veramente indipendenti rimangono poche, per il semplice fatto che la libertà ha un prezzo che chi vive nel paese non può sempre permettersi di pagare.

Dal punto di vista della classe intellettuale, pesa ancora il deserto lasciato dal regime comunista, che in mezzo secolo ha ucciso e perseguitato chiunque esercitasse una minima libertà di pensiero e di giudizio, uniformando il lessico e la didattica delle scuole e delle università (libri e dipartimenti universitari ne portano ancora i segni, visitarli per credere…). Esistono nuove case editrici, soprattutto dedite alla traduzione in albanese di volumi stranieri, ma il prezzo di un libro rimane proibitivo per la grande maggioranza delle famiglie albanesi, che non possono ancora concedersi beni che non siano di primissima necessità. La Fiera del Libro di Tirana che si tiene ogni autunno è molto partecipata e affollata, senza dubbio il trend è positivo. Ma il paese non è Tirana, nelle periferie la tivù rimane l’unica finestra sul mondo e i giovani albanesi che desiderano una formazione di qualità se ne vanno in Europa subito dopo il liceo, se non prima.

In Italia, lo sappiamo, da oltre vent’anni c’è una nutrita presenza di albanesi. Che rapporti ci sono tra gli albanesi d’Albania e quelli italiani?

Domanda molto interessante, alla quale non sono in grado di rispondere in maniera esaustiva. In generale, ho notato che la diaspora italiana (che come noto sta assumendo un suo profilo ‘storico’) mitizza volentieri il proprio paese d’origine, nel quale sa che non tornerà a vivere. Gli albanesi che in Albania ci vanno una volta all’anno, magari d’estate in vacanza, e commentano entusiasti i cambiamenti del loro paese d’origine, suscitano spesso e volentieri risposte infastidite negli albanesi d’Albania, che nel paese ci vivono e che di questo ‘miracolo economico’ sopportano le contraddizioni. Al contempo, gli albanesi integrati in Italia, e che magari nel frattempo sono divenuti cittadini italiani, continuano a fornire un appoggio per nuove migrazioni (il caso classico è quello delle matricole, che si fanno ospitare da parenti o amici per studiare in qualche ateneo italiano…).

Per collegarmi al discorso di prima, senza dubbio un premier con il carisma e i contatti internazionali di Edi Rama ha cambiato l’immagine della diaspora albanese, soprattutto in Italia. È come se agli stereotipi negativi degli anni Novanta si fossero sostituiti nuovi stereotipi positivi (che però rimangono stereotipi!). Rama tiene in grande considerazione gli albanesi all’estero, soprattutto quelli di successo, non è un caso che nel suo governo sia stato istituito un ministero apposito per le relazioni con la diaspora, che nel novembre del 2016 ha organizzato a Tirana il primo Summit degli albanesi nel mondo. Insomma questa relazione è senza dubbio cruciale da diversi punti di vista, bisognerebbe studiarla meglio.


Come si vive in Albania, oggi? Intendo: che tenore di vita c’è, che possibilità economiche e di sviluppo culturale? I giovani albanesi restano in Albania o emigrano?

Dipende. Con un passaporto europeo e uno stipendio in euro può essere un paradiso, tanti imprenditori stranieri si innamorano sinceramente del paese e non tornerebbero indietro. Ma per chi vive dentro l’economia nazionale può essere durissima. Il tenore di vita è in crescita, ma rimane basso e tale rimarrà se la politica non si pone il problema dei salari e del lavoro. Fuori Tirana per un giovane (e soprattutto per una giovane) le possibilità di sviluppo culturale rimangono estremamente basse. Istruzione e sanità pubbliche hanno standard non europei e rimangono due forti motivazioni alla migrazione, lungi dall’essersi arrestata (nel 2017 in Francia la prima comunità di asilanti è stata quella albanese, mentre i servizi sociali italiani continuano a denunciare il fenomeno dei minori non accompagnati abbandonati nel nostro paese).

In generale: si sta incomparabilmente meglio rispetto ai difficilissimi anni della caduta del regime, ma si sa che ci vorrà tanto tempo perché l’Albania possa offrire quello che offrono vicini paesi europei. ‘Meglio non aspettare e andare via subito’, è il ragionamento che fanno tanti giovani. A mio giudizio, la tragedia numero uno dell’Albania odierna è che continua a perdere le sue giovani forze. Da questo punto di vista poco è cambiato dagli anni Novanta, anche se ora la migrazione avviene in aereo.

Con quali Stati l’Albania ha il legame economico più forte? Che rapporti persistono con l’Italia?

Certamente con i paesi Ue, Italia in testa. Nei primi anni Novanta l’Italia è stata un paese importantissimo per l’Albania, non solo per la migrazione, ma per le missioni militari, gli aiuti, la penetrazione linguistica e culturale, gli scambi commerciali. In parte questo rimane valido ancora oggi (l’interscambio commerciale ci vede attori di prima importanza), ma va detto che nell’Albania appena uscita dal comunismo l’Italia godeva di un credito di fiducia e che non ha paragoni storici: un patrimonio su cui a mio giudizio non siamo stati assolutamente in grado di costruire una sana egemonia culturale, e che oggi, complice la concorrenza di altri paesi e l’apertura del paese verso altre aree, si sta progressivamente esaurendo.

Com’è noto, nella cerniera balcanica la partita geopolitica rimane aperta: a Tirana pesano come ovvio gli Stati Uniti, ma comincia ad assumere un ruolo rilevante anche la Cina (che in Albania in realtà investe dagli anni Settanta, ma quella è un’altra storia…) e ovviamente la Turchia. Per cinque secoli, fino al 1912, l’Albania è stata una provincia dell’Impero ottomano, il paese e la capitale sono a maggioranza musulmana: è evidente che la Turchia di Erdoğan anche in Albania fa egemonia culturale, specialmente dopo la svolta autoritaria. Di fianco al parlamento albanese, nel pieno centro di Tirana, soldi pubblici turchi stanno costruendo quella che diventerà la prima moschea di tutti i Balcani. Forse non è un caso che nel 2014 il primo viaggio europeo di papa Francesco fu proprio a Tirana. Senza scadere nelle dietrologie, è evidente che in un paese misto, dove convivono musulmani, cattolici e ortodossi (parimenti perseguitati durante l’ateismo di stato) anche l’identità religiosa assume una sua valenza politica. Un fattore su cui un paese come la Turchia gioca senza farne mistero la sua strategia di penetrazione.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #122 il: Giugno 03, 2018, 12:19:17 pm »
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ROMANIA: L’assist della Corte Costituzionale a Liviu Dragnea

Francesco Magno 2 giorni fa   

Nella giornata di mercoledì la Corte Costituzionale romena ha emesso una sentenza che, di fatto, obbliga il presidente della Repubblica Klaus Iohannis a firmare il decreto di rimozione di Laura Codruta Kovesi dal ruolo di procuratore capo della Divisione Nazionale Anticorruzione (DNA). La decisione dei giudici ha sorpreso l’opinione pubblica del paese: proteste si sono registrate a Bucarest e a Sibiu

I fatti

A febbraio il ministro della Giustizia Tudorel Toader aveva avviato la procedura di rimozione della Kovesi dalla carica di procuratore capo, a causa di presunti abusi da parte della DNA nello svolgimento delle sue indagini. Iohannis ha bloccato l’iter, rifiutando di firmare il decreto. Di fronte allo scontro istituzionale creatosi è intervenuta la Corte, che ha dato ragione al ministro. Le motivazioni della sentenza verranno pubblicate ufficialmente entro un mese, ma un comunicato stampa dei giudici costituzionali ha già reso note le ragioni della decisione. Secondo i togati, il presidente non avrebbe potuto ostacolare un atto che rispettava la formalità e la procedura legale. In altre parole, i giudici rimproverano a Iohannis il fatto di essersi opposto per ragioni di opportunità politica ad un’azione, quella intrapresa dal ministro, che rispettava tutte le formalità giuridiche. Quando le motivazioni della sentenza verranno pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale, la decisione diventerà immediatamente esecutiva.

Iohannis all’angolo

Il verdetto della Corte ha scatenato la reazione dei settori dell’opinione pubblica romena più ostili al partito social-democratico (PSD). Non vi è dubbio che, nell’imperitura battaglia tra PSD e presidente della Repubblica, i giudici costituzionali hanno fornito un assist al bacio a Liviu Dragnea il quale, consapevole della situazione di vantaggio acquisita, ha evitato dichiarazioni incendiarie. Stessa linea seguita dall’altro grande vincitore della vicenda, Toader. Cosa farà Iohannis adesso? Il presidente è con le spalle al muro: opporsi alla sentenza dei giudici porterebbe ad una crisi istituzionale e ad uno scontro tra poteri dello Stato che la Romania attualmente non può permettersi. I tassi di crescita economica del paese sono tra i più elevati dell’UE, e una crisi di sistema potrebbe vanificare quanto di buono sin qui fatto. Anche da un punto di vista propagandistico, scagliarsi contro i giudici dopo averne difeso per anni l’indipendenza dalle ingerenze del potere politico, potrebbe essere controproducente. Difficilmente tra un mese vedremo la Kovesi seduta sul suo scranno. La DNA ha reagito alla sentenza con un comunicato ufficiale, in cui i procuratori si dichiarano: “preoccupati per l’attacco alla loro indipendenza, garanzia essenziale per un’efficace lotta alla corruzione”.

Futuro incerto

La decisione della Corte, volontariamente o no, ha posto i giudici sotto il pieno controllo del ministro della Giustizia. A Iohannis rimane comunque un’arma: resta a lui il potere di nomina del nuovo procuratore capo della DNA, sempre su proposta del ministro. Tuttavia, di fronte a un nuovo conflitto istituzionale tra ministro e presidente, bisogna chiedersi quanta incidenza avrà la sentenza dello scorso mercoledì, che ha chiaramente rafforzato la posizione del governo a scapito di quella di Iohannis. L’autorevole commentatore Cristian Tudor Popescu ha addirittura paragonato la posizione di Iohannis a quella del re Michele nel 1947; un capo di stato impossibilitato a svolgere delle sue funzioni a causa di un governo dispotico che, contando sul sostegno di una magistratura compiacente, ha imbrigliato l’intero sistema costituzionale. In questo marasma istituzionale, bisogna chiedersi quale sarà il ruolo della piazza: buona parte dell’opinione pubblica è apertamente a favore della Kovesi e dei suoi metodi duri di lotta alla corruzione, e la sua rimozione potrebbe scatenare nuove grosse ondate di proteste.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #123 il: Giugno 03, 2018, 12:21:00 pm »
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ALBANIA: Droga e intercettazioni, è scontro tra il governo Rama e l’opposizione

Riccardo Celeghini 3 giorni fa   

Due scandali legati al traffico di droga hanno investito i livelli più alti della politica albanese. Proprio mentre l’ex-ministro dell’Interno finisce agli arresti domiciliari, il suo successore è nell’occhio del ciclone per un caso giudiziario che riguarda il fratello. Le vicende, che coinvolgono due figure chiave del Partito socialista (PS), hanno scatenato l’attacco dell’opposizione, guidata dal Partito democratico (PD), che è scesa in piazza per chiedere le dimissioni del premier Edi Rama. Le dinamiche giudiziarie, politiche e mediatiche intorno ai due casi sono tutt’altro che limpide, ma quel che certo è che il riemergere di pericolosi intrecci tra la politica e la criminalità, nonché di un clima di tensione tra le forze politiche, getta un’ombra sul paese proprio nelle settimane decisive per ottenere il via libera all’apertura dei negoziati di adesione all’Unione europea.

Il caso Xhafaj

Nelle ultime settimane, l’attuale ministro dell’Interno, Fatmir Xhafaj, artefice di importanti riforme della giustizia, è finito al centro di uno scandalo. Ad inizio maggio, il Partito democratico ha reso pubblica una sentenza di un tribunale italiano risalente al 2002 in cui il fratello del ministro veniva condannato a 7 anni di carcere per “associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti”, un verdetto confermato dalla Corte suprema di cassazione nel 2012. Pochi giorni dopo, lo stesso PD ha diffuso delle intercettazioni, dalle quali sembrerebbe emergere che il fratello del ministro, rimasto in Albania per scampare alla condanna in Italia, sarebbe ancora impegnato in traffici illeciti e rapporti criminali. L’opposizione accusa inoltre il ministro di aver protetto il fratello, arrivando a far modificare una legge sull’estradizione per favorire la sua permanenza in Albania. Le accuse sono state rispedite al mittente dal ministro e dal Partito socialista: secondo il premier Rama, l’intercettazione sarebbe un falso costruito per danneggiare il governo e l’immagine esterna dell’Albania.

La campagna intrapresa dall’opposizione è però molto decisa. Il 24 maggio il leader del PD, Lulzim Basha, ha occupato il podio del parlamento per lanciare le sue invettive, prima che tutti i deputati dell’opposizione lasciassero l’aula, rifiutando di votare una mozione di sostegno all’adesione europea del paese. Pochi giorni dopo ha fatto seguito una manifestazione di piazza per chiedere le dimissioni di Xhafaj e di Rama. Si tratta di fatto della continuazione di quella strategia di muro contro muro portata avanti dal PD negli ultimi anni, sotto la regia del vecchio leader del partito, premier e presidente dell’Albania per buona parte degli anni ’90 e 2000, Sali Berisha.

La questione è particolarmente scottante e sono attesi nuovi colpi di scena. Non sono pochi gli analisti che parlano di una campagna creata ad arte per far saltare la poltrona del ministro, autore di riforme coraggiose. Dubbi riguardano inoltre la tempistica della campagna dell’opposizione: perché proprio ora vengono messi in giro audio e documenti su fatti di molti anni fa?

Il caso Tahiri

Il caso Xhafaj avviene negli stessi giorni in cui il suo predecessore al ministero, Saimir Tahiri, è agli arresti domiciliari per traffico di droga e corruzione. Tahiri è stato ministro dell’Interno del primo governo Rama dal 2013, protagonista di importanti riforme nel settore della polizia e dello smantellamento del villaggio di Lazarat, considerato il centro della produzione di cannabis diretta in tutta Europa. In quella fase, molti vedevano in lui un possibile successore di Rama. Dopo esser stato rimosso dall’incarico nel corso del rimpasto di governo avvenuto a marzo 2017, nel pieno della crisi politica tra maggioranza e opposizione che ha segnato i mesi prima del voto di giugno, è stato rieletto come deputato.

Il caso Tahiri è scoppiato lo scorso ottobre, a seguito dell’arresto in Italia di un gruppo criminale italo-albanese responsabile del traffico di circa 3.5 tonnellate di marijuana. Dalle conversazioni di due degli arrestati, membri della famiglia Habilaj, già nota alle cronache giudiziarie, emerge il nome di Tahiri, che avrebbe coperto gli illeciti e finanziato la sua campagna con i soldi del traffico della droga. I due, si è poi scoperto, sarebbero due lontani cugini del deputato socialista. In realtà, già durante il suo incarico di ministro Tahiri era finito più volte sotto accusa da parte dell’opposizione, soprattutto a causa dell’aumento delle coltivazioni di marijuana nel paese e di controverse vicende giudiziarie.

A seguito dell’indagine, la procura albanese ha richiesto l’arresto del deputato, una richiesta respinta in parlamento dalla maggioranza socialista. Da allora, però, gli attacchi dell’opposizione contro Tahiri sono continuati, fino alla decisione di inizio maggio, quando Tahiri ha annunciato le dimissioni da parlamentare per affrontare la giustizia senza alcuna immunità. Pochi giorni dopo, è stato arrestato e si trova ora ai domiciliari, in attesa del processo.

L’obiettivo europeo di Rama

L’intreccio di queste complesse vicende giudiziarie ha fortemente colpito il governo Rama, anche perché esplose nel momento meno opportuno. L’Albania è difatti in attesa della decisione del Consiglio europeo di giugno, quando gli Stati membri dovranno decidere se accettare o meno la richiesta della Commissione europea di aprire i negoziati di adesione. A tal fine, Rama è impegnato in un tour delle cancellerie europee per vincere le resistenze. In particolare l’Olanda, la Francia e la Germania hanno mostrato una certa reticenza ad appoggiare la richiesta della Commissione, facendo leva proprio sull’eccessivo peso nel paese di corruzione e criminalità organizzata. Senza l’unanimità tra gli Stati membri, l’apertura dei negoziati verrebbe nuovamente rimandata. La piaga della diffusa criminalità nel paese e l’aspra battaglia politica interna, dunque, rischiano di avere pesanti ripercussioni sul futuro europeo dell’Albania.
«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #124 il: Giugno 09, 2018, 17:40:36 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/90765

Citazione
La desertificazione demografica dei Balcani
Vittorio Filippi 2 giorni fa   

“Sconvolgimento demografico in Europa” titola Le Monde diplomatique di giugno. Nel 1900 in Europa risiedeva un abitante della terra su quattro, oggi uno su dieci, nel 2050 saremo a malapena il 7% del mondo. Un’Europa che non cresce demograficamente dal 1993, pur con velocità differenti. C’è infatti un’Europa del nord-ovest vitale sia come saldo naturale che come saldo migratorio. C’è poi un’Europa tedesca e meridionale in cui il saldo naturale insufficiente è compensato da quello migratorio. C’è infine l’Europa centrale ed orientale (Russia esclusa) in cui giocano gli effetti perversi di denatalità ed emigrazioni.

I Balcani sono l’epicentro di questa desertificazione demografica (ed umana in senso antropologico) europea che già negli anni settanta Pierre Chaunu aveva predetto chiamandola “peste blanche”. Della ex Jugoslavia da questa “peste” si salva per ora solo la Slovenia, anche se le ultime elezioni, com’è noto, hanno premiato gli anti-immigrati. Per il resto è un disastro condensabile in quel 20% (cioè un quinto della popolazione!) di abitanti perduto dalla Bosnia negli ultimi trent’anni.

E’ vero che già nella Jugoslavia socialista l’emigrazione era una realtà rilevante ed il gastarbajter era sinonimo di emigrato. Poi le guerre degli anni novanta, le pulizie etniche e lo sfacelo dell’economia hanno accelerato denatalità ed esodi (i due fenomeni sono notoriamente connessi). Anche in Croazia, eccetto la capitale e la zona costiera baciata dal turismo, la desertificazione demografica corre ed investe aree come la Slavonia in cui la presenza di piccole imprese austriache, italiane ed ungheresi non riesce comunque a trattenere i giovani. Dall’indipendenza del 1991 la Croazia ha perso 627 mila abitanti, cioè il 13% della popolazione dell’epoca. Va messo in conto anche l’esodo forzato di 200 mila serbi durante l’operazione “Tempesta” del 1995, per cui – se le tendenze denatalistiche e migratorie dovessero continuare – il paese potrebbe veder sparire un quarto della sua popolazione in un decennio. E lo stesso avviene dall’altra parte del confine, in quella Posavina bosniaca in cui i salari da 200 euro ed una flessibilità che rende del tutto teorici i diritti lavorativi risultano ben poco attrattivi nei confronti della domanda di lavoro delle imprese tedesche o scandinave.

I flussi migratori balcanici seguono rotte tortuose, in cui – specie per le professioni sanitarie, edili, alberghiere e dei servizi – bosniaci, macedoni e serbi vanno a lavorare in Croazia ed in Slovenia mentre croati e sloveni prendono la strada per la vicina Germania. Naturalmente l’emorragia dei giovani qualificati non solo mette in difficoltà le economie locali, ma affossa ulteriormente la natalità.

Solo nell’inverno 2014-2015 centomila persone – cioè il 7% del paese – hanno lasciato il Kosovo dirigendosi verso la Vojvodina serba da cui entrare poi illegalmente in Ungheria e da qui in Germania; addirittura il 7 settembre dello scorso anno le autorità kosovare bloccarono la stazione delle corriere di Pristina per “eccesso” di emigranti in fuga. Gli stessi movimenti migratori investono anche il nord depresso del Montenegro ed il sud-est povero della Serbia; da questa repubblica 160 mila persone se ne sono andate tra i censimenti del 2002 e del 2011.

Per ora le uniche politiche demografiche messe in cantiere da Croazia e Serbia per combattere spopolamento ed invecchiamento si limitano ad accorati e patetici inviti pro-life antiabortisti, mentre le delocalizzazioni industriali presenti (spesso all’insegna del dumping sociale) non appaiono in grado di correggere il disastro demografico dei Balcani. Un quarto di secolo dopo gli esodi violenti degli anni novanta, un’altro esodo – silenzioso e non cruento – sembra voler mantenere i Balcani in un perenne destino di Europa sempre marginale, di eterna “altra Europa”.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #125 il: Giugno 14, 2018, 19:57:37 pm »
I commenti sono in rumeno mai i video provengono dall' Ucraina.

https://www.facebook.com/toateamestecate/videos/1954562934809529/?hc_ref=ARSeOO7ILjM64dFBmIRKU46eUM_f0MFAXnPx7aCLqrj8FkPF-IGT5JYALktCG9w2FKE

Scrive una rumena:
Citazione
Consuela Siea N-ai sa vezi așa ceva in România !! Populația este prea ipocrita sa facă așa ceva!! Ei nu sunt uniți ... celor cu bani ,celor care au cu ce își plăti dările nu le pasa de cei care dorm pe strada și celor ce duc grija zilei de maine !!!

In sostanza dice che non si vedrà mai una cosa del genere in Romania, perché la popolazione è troppo ipocrita per fare una cosa del genere; ed inoltre i rumeni non sono uniti.

... mi sembra di sentire un italiano.
« Ultima modifica: Giugno 14, 2018, 20:13:07 pm da Frank »
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #126 il: Giugno 18, 2018, 20:44:45 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Bosnia-Erzegovina-il-kolo-e-il-prezzo-della-benzina-188532

Citazione
Bosnia Erzegovina: il kolo e il prezzo della benzina

Come in Serbia anche in Bosnia Erzegovina i cittadini hanno protestato per l’aumento del prezzo del carburante, bloccando il traffico sulle principali strade del paese. Anche in BiH però le proteste non sono riuscite ad incidere sulla leadership al potere

15/06/2018 -  Ahmed Burić Sarajevo
Il barlume di speranza che le proteste contro l’aumento del prezzo della benzina organizzate in diverse città della Bosnia Erzegovina potessero scuotere le autorità, ed eventualmente risvegliare il senso di responsabilità dei politici in vista delle elezioni parlamentari previste per il prossimo ottobre, è svanito non appena i media hanno riportato la notizia che alcuni manifestanti mentre bloccavano il traffico si erano messi a ballare il kolo. Il kolo è una danza popolare diffusa in molti paesi dei Balcani che assomiglia più al su ballu tundu sardo (ballo tondo) che alla tarantella, e di solito si balla in occasione delle feste.

Così i bosniaco-erzegovesi, la cui ingenuità è proverbiale, ancora una volta si sono liberati delle loro preoccupazioni ballando ed hanno perso un’altra occasione per costringere la leadership politica a riflettere sulle proprie mosse, una leadership che ormai sembra divenuta inamovibile.

Clima di tensione
Due mesi fa, intervenendo davanti al Congresso americano, Kurt Bassuener, già consigliere dell’ex Alto rappresentante della comunità internazionale in Bosnia Erzegovina Paddy Ashdown e membro del Democratisation Policy Council, aveva detto tutto quello che c’è da dire sulla Bosnia Erzegovina di oggi. “La criminalità organizzata fa parte del DNA di questo paese. Devo dire che l’élite politica bosniaco-erzegovese funge da punto di connessione tra politica, business, criminalità organizzata e media. Non mi riferisco qui a nessun gruppo etnico in particolare, vale per i politici di tutti e tre i gruppi etnici. Il loro obiettivo principale è di tenere per sé tutto quello che rubano e di rimanere al potere per poter continuare a rubare e sottrarsi ad ogni responsabilità, sia politica che giuridica. Il sistema che vige nel paese glielo permette. Per loro, nulla di quello che l’Ue potrebbe offrire al paese è meglio della situazione attuale. Perciò è comprensibile perché la metà degli elettori non vada più a votare, perché le elezioni non cambiano nulla”, ha dichiarato.

Per poi concludere: “Il principale punto di forza delle odierne élite politiche bosniaco-erzegovesi consiste nella capacità di creare un clima di paura e di comprare la pace sociale per poter continuare a disporre delle risorse finanziarie, che permettono loro di proseguire con i loro piani. L’unica salvezza per la Bosnia Erzegovina è che gli Stati Uniti e l’Ue pongano fine a questa tendenza”.

Parole chiare e concise. Ci sono voluti ventidue anni – tanti quanti ne sono passati dalla fine della guerra – affinché un analista statunitense dicesse quello che era chiaro già nei primi anni dopo la guerra: organizzazione tribale dei partiti, corruzione, clientelismo e diverse forme di associazione criminale hanno determinato lo sviluppo di un paese che sta crollando sotto il peso di un accordo di pace imposto. Quattro livelli di governo, un apparato statale assurdamente grande, partiti politici che si assicurano il consenso piazzando i loro sostenitori nelle istituzioni statali, mentre al contempo si battono per l’aumento della pressione fiscale sulle imprese private… Tutto questo ha avuto come conseguenza una profonda depressione sociale, alto tasso di disoccupazione e la fuga di molte persone dal paese, soprattutto dei giovani.

L’incapacità della comunità internazionale di assicurare che la magistratura rimanga indipendente dal potere politico ha portato all’attuale status quo. O meglio, alla creazione di un clima di paura in cui ogni minaccia alla pace, persino meramente retorica, e ogni tintinnio delle armi diventano un ostacolo alla costruzione di un futuro comune e alla promozione dei valori democratici.

Potere e denaro
Dal momento che il prezzo del petrolio sui mercati internazionali è stabile o in lieve calo, non vi è alcuna spiegazione ragionevole del perché le autorità bosniache abbiano recentemente deciso di aumentare i prezzi del carburante, fissando il prezzo di un litro di benzina a 1,20 euro, un prezzo vicino a quelli vigenti in Ungheria, Romania e Macedonia.

Dopo lo scoppio delle proteste in molte città della Bosnia Erzegovina contro l’ennesimo aumento del prezzo della benzina, il Partito dell’azione democratica (SDA), principale promotore della Legge sulle accise – che avrebbe dovuto rendere possibile la realizzazione di nuovi progetti infrastrutturali – , ha chiesto che i prezzi della benzina venissero ridotti. Ovviamente lo ha fatto sotto la pressione dell’opinione pubblica e dei propri avversari politici. Il Partito socialdemocratico (SDP) ha accusato l’SDA di aver fatto false promesse, sostenendo che le entrate derivanti dalle accise sui carburanti non saranno - come annunciato - destinate alla costruzione di strade.

Non è difficile supporre dove finiranno questi soldi.

Ecco un esempio emblematico del fatto che in Bosnia Erzegovina chi sta al potere ha le mani libere per fare qualsiasi cosa: nel 2008, quando il prezzo di un barile di petrolio era di 145,2 dollari, in Bosnia Erzegovina un litro di benzina costava 2,4 marchi convertibili (circa 1,2 euro). Oggi un barile di greggio costa 75 dollari, e in Bosnia il prezzo della benzina è pari a 2,3 marchi. È chiaro quindi che l’intera questione delle accise è solo un pretesto per derubare il popolo e prolungare l’agonia del paese alla quale, secondo Kurt Bassuener, gli Stati Uniti e l’Ue dovrebbero porre fine.

Ma sappiamo che questo non accadrà. Al contrario, la società bosniaco-erzegovese continuerà a sprofondare sempre più nell’abisso. Il presidente della Republika Srpska Milorad Dodik ha definito i manifestanti come “hooligan”, dicendo che gli organi competenti sapranno come trattarli. Anche in Serbia, dove in questi giorni i cittadini hanno protestato contro l’aumento del prezzo della benzina, le autorità si sono comportate in modo simile, accusando l’opposizione di aver organizzato le proteste.

Così il prezzo della benzina è diventato un tema dell’agenda pre-elettorale. In un paese come la Bosnia Erzegovina, dove letteralmente tutto è manipolabile, il dibattito sulle accise e sul prezzo dei carburanti non è che un’altra goccia in un mare di menzogne e false promesse. Nel frattempo continuano a mancare strade decenti e, visto come stanno andando le cose, a breve non ci sarà più nessuno a percorrere quelle esistenti.

Le elezioni di ottobre dimostreranno, in modo inequivocabile, qual è lo stato reale delle cose.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #127 il: Giugno 18, 2018, 20:47:42 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-a-tutto-blocco-188483

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Serbia: a tutto blocco

Centinaia di cittadini hanno deciso di bloccare la strade della Serbia per protestare contro l’aumento del prezzo del carburante. Il governo accusa l’opposizione di aver strumentalizzato i cittadini, in realtà è il malcontento il vero motore delle proteste

14/06/2018 -  Dragan Janjić   Belgrado
All’inizio di questa settimana, le autorità serbe hanno iniziato a intraprendere azioni per porre fine ai blocchi stradali organizzati in diverse città del paese in segno di protesta contro il prezzo troppo elevato della benzina. La polizia ha cominciato a sanzionare i proprietari dei veicoli che bloccavano il traffico, mentre i più alti funzionari statali, compreso il presidente serbo Aleksandar Vučić, hanno condannato duramente le proteste, annunciando il proseguimento degli interventi di polizia. Nel frattempo i media filogovernativi hanno avviato una campagna denigratoria contro i partecipanti alla protesta, accusandoli di bloccare la Serbia per ragioni politiche e di voler rovesciare il governo.

I blocchi stradali sono iniziati venerdì 8 giugno, quando molti cittadini hanno raccolto l’invito alla mobilitazione lanciato sui social network, e si sono conclusi martedì 12 giugno dopo i primi interventi delle forze di polizia. Gli esponenti del governo continuano a sostenere che dietro alle proteste vi sia l’opposizione, senza tuttavia fornire alcuna prova a sostegno di tale ipotesi, limitandosi a citare i tweet con cui alcuni leader dell’opposizione hanno espresso il loro appoggio ai manifestanti. Accusando l’opposizione, il governo sta cercando di dare all’intera vicenda una connotazione politica e di convincere l’opinione pubblica che la protesta non è motivata dal malcontento popolare bensì da intenzioni malevole degli oppositori al governo che agiscono contro gli interessi della Serbia.

Martedì 12 giugno il presidente Vučić ha dichiarato che le proteste non sarebbero durate ancora a lungo e che “la violenza non sarà tollerata”, aggiungendo che la responsabilità della situazione creatasi grava anche su di lui perché ha chiesto al governo serbo di non ostacolare lo svolgimento delle proteste. “Chi vi credete di essere per limitare la libertà di movimento?”, ha affermato il presidente Vučić, avvertendo che le competenti autorità statali avrebbero intrapreso tutte le misure previste dalla legge.

Oltre a non essere sostenute da alcuna prova concreta, le affermazioni secondo cui dietro alle proteste ci sarebbe l’opposizione non trovano riscontro negli attuali rapporti di forza sulla scena politica serba. Se l’opposizione fosse davvero capace di organizzare il blocco delle principali strade del paese, l’egemonia della coalizione di governo sarebbe seriamente minacciata. La verità è che la maggior parte dei partiti d’opposizione faticano a superare la soglia di sbarramento del 5%, non hanno accesso ai media mainstream, non dispongono di sufficienti risorse finanziarie per promuovere i loro programmi, e non hanno né la volontà politica né la capacità di dare vita a un’alleanza che sarebbe in grado di sfidare la leadership al potere.

L’opposizione serba non è sufficientemente forte né influente per poter difendere il diritto dei cittadini a manifestare il proprio dissenso, figuriamoci per organizzare proteste di massa. Se le cose stessero diversamente, ovvero se le recenti proteste fossero davvero organizzate da una forza politica seria, non si sarebbero esaurite in pochi giorni. Sarebbe una vera sorpresa se i blocchi stradali, di cui si parla ancora sui social network, guadagnassero nuovo slancio. E anche se ciò dovesse accadere, di certo non accadrà per volontà dell’opposizione bensì come conseguenza di un crescente malcontento dei cittadini.

Malcontento popolare
Lo slancio che ha caratterizzato la fase iniziale delle proteste dimostra che tra la popolazione, e soprattutto tra i membri della classe media, è diffuso un latente malcontento che può essere facilmente mobilitato. La polizia è riuscita a fermare le proteste, sanzionando i conducenti di veicoli che bloccavano la circolazione stradale, ma ciò non significa che il malcontento sia sparito. È emerso ancora una volta che le questioni sociali ed economiche sono il principale punto di debolezza dell’attuale governo, tenendo conto anche del fatto che la stabilità economica della Serbia dipende soprattutto dalle relazioni commerciali con l’Unione europea e con i paesi della regione.

La principale minaccia per la coalizione al governo non è quindi l’opposizione, bensì l’attuale situazione economica e sociale del paese. Essendone consapevoli, Vučić e i suoi più stretti collaboratori continuano ad annunciare l’aumento di stipendi e pensioni, parlando costantemente di crescita economica, bassa inflazione, grandi investimenti, tasso di disoccupazione ai minimi storici… Ciononostante, a volte capita che l’aumento dei prezzi susciti, del tutto inaspettatamente, forti reazioni tra i cittadini, come successo nel caso dell’aumento della benzina.

Negli ultimi anni alcuni movimenti civici, dimostratisi capaci di guidare e canalizzare il malcontento popolare, hanno organizzato numerose proteste di massa a Belgrado e in altre città della Serbia a cui hanno partecipato diverse migliaia di persone, ma non sono riusciti a contrastare seriamente il potere. Le iniziative civiche, come “Ne davimo Beograd” (“Non affondiamo Belgrado”), non sono riuscite a trasformarsi in organizzazioni serie, con obiettivi politici chiari e ben definiti. Essendo nati dalle rivolte spontanee dei cittadini, profondamente delusi dal comportamento dei partiti politici, questi movimenti non hanno cercato di unirsi in un unico fronte con l’opposizione, già debole e costantemente demonizzata dai media, perdendo col tempo l’energia e l’entusiasmo iniziale.

È chiaro, quindi, che la compagine di governo per ora non ha ragione di temere l’opposizione, che è ormai da anni demonizzata nel discorso pubblico e che, come si è visto, può essere facilmente screditata agli occhi dell’opinione pubblica. È altrettanto chiaro che i movimenti civici non sono ancora sufficientemente maturi da poter sfidare la leadership al potere. Tuttavia, il governo ha buoni motivi per temere che il malcontento popolare possa portare alla nascita di una nuova forza politica in grado di danneggiare seriamente la coalizione al governo, o che alcuni partiti dell’opposizione possano rivitalizzarsi e rafforzarsi.

Accise sui carburanti
In Serbia i prezzi della benzina sono tra i più alti della regione e le accise e altre tasse gravano notevolmente sul costo finale. Il segretario generale dell’Associazione delle compagnie petrolifere della Serbia Tomislav Mićović spiega che diverse imposte incidono per oltre il 54% sul costo della benzina e che negli ultimi due anni il governo non ha voluto prendere in considerazione la riduzione delle accise. La Serbia si colloca al sesto posto tra i paesi della regione per il prezzo al consumo della benzina, dopo Grecia, Croazia, Albania, Montenegro e Slovenia.

In Serbia, dallo scorso 3 gennaio, il prezzo della benzina al dettaglio è aumentato del 6.1% e quello del diesel del 7.5%.

All'inizio del mese di giugno un litro di benzina costava 1,240 euro e il diesel 1,316 euro.

Il presidente Vučić ha accusato i governi precedenti di aver introdotto troppe imposte sui carburanti, tuttavia i dati dimostrano che l’incremento delle accise ha subito un’accelerazione a partire dal 2016.

Stando alle parole di Mićović, la Serbia si colloca al secondo posto tra i paesi della regione per l’incidenza delle imposte sul prezzo della benzina, dopo la Croazia dove l’incidenza delle imposte si attesta al 56,55%, mentre ad esempio in Macedonia è pari al 46,14%. La Serbia è invece al primo posto per l’incidenza delle tasse sul prezzo al consumo del gasolio, attestata al 53,49% (in Macedonia l’incidenza è del 39,31%), e sul prezzo medio del GPL, pari al 49,10%, seguita dall’Ungheria (il 36,29%) e dalla Croazia (il 21,13%).

Tenendo conto di questi dati, c’è da aspettarsi che il governo serbo decida di ridurre le accise sui carburanti, almeno per una percentuale simbolica. Questa riduzione potrebbe innanzitutto riguardare il gasolio e altri carburanti agricoli, il cui costo incide sui prezzi dei prodotti alimentari. Riducendo i prezzi dei carburanti usati in agricoltura il governo eviterebbe il rischio che gli agricoltori comincino a protestare bloccando le strade. Un’eventuale riduzione delle accise potrebbe avvenire solo dopo la conclusione definitiva delle attuali proteste, perché il governo non vuole che le sue decisioni vengano interpretate come un cedimento alle pressioni. La riduzione probabilmente sarà irrisoria, ma basterà per placare temporaneamente il malcontento sociale.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #128 il: Giugno 23, 2018, 12:59:57 pm »
https://www.facebook.com/myrecorder/videos/1667931089989427/?hc_ref=ARSreecvrvqBHcNWDHOh8yVDs61VAy32MQTHMsYg2ONacgjRzh6NlYJyWamv4xwpbDM

Citazione
Baricadați în instituțiile de stat, demnitarii sunt tot mai puțin dispuși să asculte vocea protestatarilor. În stradă, furia crește cu fiecare amendament adoptat și cu fiecare gest de aroganță din partea celor care ar trebui să reprezinte poporul. La mijloc sunt jandarmii, bine înzestrați din bugetul public și hotărâți să nu mai tolereze nicio abatere. Ieri a fost o zi cu care România nu are niciun motiv să se mândrească și în care nicio tabără nu și-a mai păstrat luciditatea. Nu doar jandarmii au fost violenți, ci și protestatarii care au îmbrâncit un parlamentar în timp ce se îndrepta spre metrou.


@@

https://www.facebook.com/OriundeAmFiSuntemRomani/videos/218205335463769/?hc_ref=ARQF4aTJrOtg-n6V27QlESFEbfvwQB5LEuNpmH6FIMOcOwNXF6BxPy1cIX8evHQZH1k

Citazione
Mafia patronata de Liviu Dragnea!

Suntem romani oriunde am fi

Mafia patronata de Liviu Dragnea!
Urmariti cu atentie acest clip despre mafia patronata de Liviu Dragnea!
Dati share, se merita!

Parole di una mia conoscenza rumena, scritte altrove.

Citazione
I mafiosi sono diventati delle guardie del corpo nel parlamento! In che mondo viviamo?

Il solito italiano medio, affetto e afflitto da esterofilia cronica, ora risponderebbe:
<<Non è possibile, perché certe cose accadono solo in Italia>>

Sì, infatti.
...
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #129 il: Giugno 23, 2018, 13:37:40 pm »
Quindi parli rumeno :)
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

Offline Frank

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« Risposta #130 il: Giugno 24, 2018, 11:19:09 am »
Mi arrangio.
In particolar modo lo capisco.
Sai, le mie frequentazioni (femminili) passate.
E aggiungiamo pure gli operai rumeni con i quali ho avuto, ed ho a che fare, ormai da lustri.
« Ultima modifica: Giugno 24, 2018, 11:31:33 am da Frank »
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #131 il: Luglio 22, 2018, 16:28:04 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Croazia-calcio-e-politica-189152

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Croazia: calcio e politica

Un paese in trance, con i prelievi bancomat saliti in pochi giorni del 30%: è così che la Croazia ha seguito l'avventura della sua nazionale ai mondiali in Russia. Tra birre e i politici a sgomitare per arrampicarsi sul carro dei vincitori, dove però è salito il cantante ultranazionalista Thompson

20/07/2018 -  Giovanni Vale
Più di mezzo milione di persone sono scese in strada a Zagabria, lunedì 16 luglio, per festeggiare il ritorno della nazionale di calcio. I «Vatreni», gli undici ardenti con la maglietta a scacchi, hanno conquistato a Mosca una medaglia d’argento, il miglior risultato mai raggiunto dalla Croazia in una Coppa del Mondo. Sono tornati a casa da eroi, accolti dalla popolazione e celebrati dalla stampa, malgrado la sconfitta in finale contro la Francia (4–2). Una sconfitta prevista dai bookmakers ma che ha definitivamente spento il sogno di una rivincita dopo la semifinale persa nel 1998, sempre contro i francesi.

Un paese in trance
«Siete il nostro oro», «Avete perso una partita, ma avete conquistato il mondo». Sono questi i titoli con cui i quotidiani croati hanno presentato il rientro dalla Russia della nazionale di calcio. Durante tutta la coppa del Mondo, man mano che la Croazia incassava una vittoria dopo l’altra, uno stato di euforia ha invaso il paese, contagiando tutti, dai cittadini alle istituzioni e occupando gli spazi pubblici. Il centro di Zagabria ha visto più di 10mila persone riunirsi ogni sera sulla piazza Ban Jelačić per seguire in diretta le partite della nazionale, mentre le bandiere sporgevano dalle finestre e sventolavano dai finestrini delle auto.

Attorno ai maxi-schermo installati in tutte le corti interne, le viuzze e i parchi di Zagabria, si è sviluppata inoltre per giorni una fiorente economia, che ha fatto dimenticare ai croati i problemi della quotidianità. La banca austriaca Erste Bank ha registrato un aumento del 30% dei prelievi ai bancomat, il salumificio “Pik Vrnovec” ha venduto più di 9 milioni di ćevapčići, mentre fiumi di birra si sono riversati nei bar della capitale. Non era raro, poi, incontrare dei bambini con un taglio di capelli “a scacchiera”. Per 25 kune (3,50€ circa), infatti, i parrucchieri hanno colorato a quadratini bianchi e rossi i capelli dei giovani tifosi più convinti.

Quest’euforia è esplosa dopo ogni partita. Al fischio finale di Croazia-Inghilterra, Zagabria è stata scossa da ore di festeggiamenti. La stessa cosa, in misura maggiore, è successa al termine della finale con la Francia. Fumogeni, petardi, fuochi d’artificio, caroselli di auto in giro per il centro… i tifosi si sono abbandonati ai gesti più insoliti, salendo sui lampioni della luce e gettandosi nelle fontane. Veljko, uno zagabrese, ha persino modificato la sua macchina per infilarci all’interno due enormi spiedi ed uno strato di carboni ardenti: in pieno centro, ha cotto un maialino ed un agnello che ha distribuito a fine partita ai passanti.

La politica sul treno dei vincitori
Quest’entusiasmo generalizzato non ha lasciato indifferenti i politici. Fin dalle prime partite, la presidente Kolinda Grabar-Kitarović è volata in Russia per seguire le avventure della nazionale. La si è vista entrare negli spogliatoi subito dopo gli incontri, salutare ed abbracciare i giocatori. Si è presentata sempre con la maglietta della nazionale, anche quando sedeva a fianco dei suoi omologhi internazionali. L’esecutivo non è stato da meno. Se, inizialmente, il Primo ministro Andrej Plenković ha mantenuto un profilo più basso, dopo la vittoria con l’Inghilterra si è lasciato andare.

Il consiglio dei ministri, premier compreso, si è riunito con addosso la divisa della nazionale. Sull’onda dell’euforia, Plenković ha inoltre promesso maggiori investimenti nello sport e persino la costruzione di un nuovo stadio, capace di ospitare eventi di portata internazionale e che oggi manca in Croazia. Il suo comportamento, così come quello della capo di Stato, ha suscitato reazioni opposte sia nell’opinione pubblica che tra gli organi di stampa. I politici croati hanno approfittato dei successi della nazionale per guadagnarsi un po’ di popolarità o si è trattato di un sincero amor di patria?

In un momento in cui i sondaggi indicano  che in Croazia il politico più popolare è “nessuno”, appare evidente che sia la presidente che il premier hanno un problema di relazioni col pubblico. E non si tratta solo di una questione di immagine. Il prossimo anno, si terranno le elezioni presidenziali e Kolinda Grabar-Kitarović non è ancora stata confermata dal suo partito, l’Hdz, come futura candidata. Il Primo ministro, invece, è sostenuto da una maggioranza risicata in aula, ha recentemente dovuto sacrificare la sua vice-premier e ministra dell’Economia e deve costantemente tenere a bada l’ala più conservatrice del suo partito. Insomma, un po’ di popolarità non guasta.

Il ruolo del nazionalismo popolare
Sarebbe un errore, tuttavia, sostenere che gli unici aspetti politici da considerarsi, in relazione alla partecipazione della Croazia ai mondiali, siano quelli legati al comportamento del premier e della presidente. Ciò che ha fatto più di discutere in Croazia, infatti, è stata una scelta che non è dipesa né da Grabar-Kitarović, né da Plenković. Al ritorno dei calciatori da Mosca, il cantante ultra-nazionalista Marko Perković “Thompson” è stato invitato a salire sul bus dei giocatori, a sfilare con loro per ore nel centro cittadino e, infine, a cantare in una piazza Ban Jelačić gremitissima di gente.

Si capisce l’inopportunità del gesto solo se si considera brevemente il percorso e il profilo di Thompson. Il cantante, che deve il suo soprannome ad un tipo di mitra, si è visto vietare molti dei suoi concerti in Europa (in Olanda, Svizzera, Austria, Slovenia…) per il contenuto nazionalista delle sue canzoni. Basti pensare che una delle sue hit, “Bojna Čavoglave” (dedicata ad una battaglia durante la guerra d’indipendenza croata nel villaggio di origine di Thompson, Čavoglave), inizia con il saluto ustascia “Za dom spremni!”, usato dal regime di Ante Pavelić durante la Seconda guerra mondiale.

Perché allora associare in modo così marcato la squadra di calcio croata ad un cantante tanto controverso e nazionalista? Gli undici Vatreni non rappresentano forse tutta la Croazia? Oppure Thompson è così popolare da renderlo un simbolo del paese intero, al pari di Modrić, Mandžukić e Perišić? Una consultazione online realizzata dalla televisione regionale N1 rende difficile rispondere a questa domanda. “E’ stato giusto coinvolgere Thompson nelle celebrazioni dei Vatreni?”, chiede la tv, partner della CNN, ai suoi ascoltatori. Il pubblico si spacca letteralmente a metà. Alla mezzanotte di mercoledì sera, il 53% degli oltre 12mila votanti dice “sì, lui è un grande patriota e i Vatreni lo amano”.
«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
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Offline Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #132 il: Luglio 28, 2018, 16:20:20 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/91424

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ARMENIA: Il rapporto tra donne e politica nell’era Pashinyan
Emanuele Cassano  5 giorni fa

L’avvocato Diana Gasparyan è stata recentemente nominata sindaco di Echmiadzin, cittadina situata nella provincia di Armavir, alle porte di Yerevan, nota soprattutto per essere il centro spirituale della Chiesa apostolica armena, in quanto sede del quartier generale del Catholicos e della cattedrale più antica del paese, fatta costruire da Gregorio l’Illuminatore nel IV secolo.

L’ex funzionaria del Ministero della Giustizia ha preso il posto di Karen Grigoryan, dimessosi lo scorso giugno dopo che il padre Manvel, deputato in parlamento tra le fila del Partito Repubblicano ed ex vice-ministro della Difesa, è stato arrestato dai Servizi di Sicurezza Nazionali per possesso illegale di armi da fuoco. Il nuovo sindaco guiderà Echmiadzin per i prossimi tre mesi, dopodiché si terranno nuove elezioni.

La nomina di Gasparyan costituisce un primato per la giovane repubblica: si tratta infatti del primo sindaco donna della storia dell’Armenia; paese dove fino ad ora alle donne era sempre stata preclusa la possibilità di ambire a ruoli di vertice in politicanti, in quanto figlie di una società fortemente stereotipizzata che le vedrebbe inadatte a ricoprire incarichi di comando. Eppure, negli ultimi anni il numero delle donne che scelgono di dedicarsi alla vita politica o alle questioni sociali appare in continua crescita, come testimonia il progressivo aumento dell’attivismo femminile a livello nazionale.

Tali attiviste hanno salutato con entusiasmo la recente salita al potere di Nikol Pashinyan, leader delle proteste di piazza che lo scorso aprile hanno portato alle dimissioni del primo ministro ed ex presidente Serzh Sargsyan, nelle quali proprio le donne hanno avuto un ruolo attivo, mosse da quella stessa voglia di cambiamento tanto cara al leader di Yelk.

Cambiamento che per le donne armene significa soprattutto modifica dei ruoli di genere e acquisizione di maggiori diritti, così come di una maggiore tutela e considerazione a livello sociale; obiettivi la cui realizzazione dovrà passare anche dall’ottenimento di una più larga rappresentanza a livello politico.

Abbiamo discusso di questi temi con Mary Matosyan, direttrice esecutiva del Centro di Supporto per le Donne di Yerevan:

Cosa rappresenta per un paese come l’Armenia, dove politica e società sono fortemente dominate dagli uomini, la nomina del primo sindaco donna? È stato dato un segnale di cambiamento?

Nelle ultime settimane sempre più donne sono state scelte per ricoprire incarichi governativi e non solo. Per esempio molti dei vice-ministri recentemente nominati sono donne; il nuovo Comandante dell’Aviazione è una donna, così come un certo numero di consiglieri. Inoltre la stessa first lady ha appena rilasciato dichiarazioni molto positive, promettendo di lavorare per la promozione dei diritti delle donne e per il loro empowerment. Ultimamente si sta parlando anche della nomina di una donna come sindaco di Yerevan. Tutti questi cambiamenti sono importanti poiché inviano il messaggio giusto alle donne armene, contribuendo a creare nuovi ruoli di genere e aprire un nuovo dibattito nel paese.

Qual è stato il ruolo delle donne nel movimento di protesta che ha recentemente portato il leader di Yelk Nikol Pashinyan dalla piazza alla guida del paese?

Il ruolo delle donne è stato abbastanza importante, sia prima che durante la rivoluzione. In Armenia, le donne sono sempre state in prima linea nei movimenti sociali. Su questo argomento sono stati scritti diversi articoli, ed è stato proprio grazie alla loro presenza e alla loro pressione se ora abbiamo sempre più nomine femminili per i ruoli di governo.

All’interno del nuovo governo Pashinyan su un totale di diciassette ministeri solo due sono guidati da donne; percentuale che riflette la composizione dell’attuale Parlamento, eletto, tuttavia, quando il “vecchio ordine” era ancora al potere. Vi aspettavate di più, in questo senso, dalla cosiddetta “Rivoluzione di Velluto”?

Sì, per noi è stata un’enorme delusione, tanto che sui social media Pashinyan ha ricevuto fin da subito severe critiche per questa decisione. Credo che sia stata proprio questa grande rabbia e reazione da parte della comunità femminile ad aver spinto la nuova leadership a decidere di assegnare alle donne un maggior numero di posizioni governative.

Cosa dobbiamo aspettarci dal prossimo futuro? Saremo in grado di vedere delle donne raggiungere ruoli di primo piano all’interno della politica e della società armena?

In questo momento il governo sta discutendo il Codice elettorale, e noi attiviste stiamo facendo forti pressioni per introdurre nuove quote rosa superiori al 25%. Stiamo incontrando molta resistenza, ma continuiamo a insistere, sperando in seguito alle prossime elezioni di vedere più donne in parlamento; e ci aspettiamo non solo maggiori nomine, ma anche nuove leggi e misure governative in favore dei diritti delle donne.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #133 il: Agosto 07, 2018, 01:19:30 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Macedonia/Invisibili-le-donne-albanesi-nella-politica-macedone-188811

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Invisibili: le donne albanesi nella politica macedone
aree   Macedonia ita

Nessuna donna è mai stata a capo di nessun partito albanese in Macedonia e non è andato meglio per le colleghe della comunità macedone, sono infatti solo due i casi in cui una donna ha guidato un partito

05/07/2018 -  Lumi Bekiri
(Originariamente pubblicato da Kosovo 2.0  )

Sin dalla sua indipendenza dalla Jugoslavia, 27 anni fa, in Macedonia vi sono stati 12 governi e solo 18 donne ministro. Solo due di queste erano albanesi: Merie Rushani, del Partito democratico degli albanesi (DPA) come ministro per la Scienza (1998-2002) e Teuta Arifi dell'Unione democratica per l'integrazione (DUI), che è stata vice-primo ministro per gli Affari europei (2011-13).

Attualmente, nel parlamento macedone, che ha 120 poltrone, solo cinque sono occupate da donne albanesi, due del DUI e rispettivamente una a testa dei socialdemocratici (SDSM), del movimento Besa e del DPA.

Una situazione simile la troviamo a livello locale dove delle 80 municipalità macedoni solo sei sono governate da sindaci donna, due albanesi: la sindaca di Tetovo, Teuta Arifi e la sindaca di Aracinovo, Milikije Halimi.

Ciononostante, l'11,5% dell'intera popolazione della Macedonia è composto da donne albanesi.

Anche quando sono al potere le donne albanesi tendono a rimanere in secondo piano nei processi di decisione politica per evitare di entrare in rotta di collisione con i propri partiti politici di appartenenza, anche quando si discute di tematiche che riguardano in particolare le donne.

Uno di questi casi riguarda la Legge sull'aborto del 2013, una legge che restringe la libertà di scelta delle donne e votata senza alcuna discussione dalle donne albanesi che erano in parlamento in rappresentanza del DUI.

Machocrazia nei Balcani
Dal 2012 la Macedonia ha una nuova legge su “Pari opportunità per donne e uomini” che garantisce un'equa partecipazione di donne e uomini nella sfera pubblica e politica. La legge prevede anche una percentuale del 40% garantita a candidate donne per le elezioni locali e parlamentari.

La legge dovrebbe assicurare pari opportunità nel partecipare al processo elettorale. Ma nella realtà non funziona così.

La maggior parte delle candidate viene messa in fondo alle liste elettorali e questo abbassa la possibilità che loro vengano elette in parlamento o nei consigli comunali. Questa è una pratica diffusa in particolare tra i partiti politici che rappresentano la comunità albanese.

Karolina Ristova-Aasterud è professoressa presso la Facoltà di Legge Iustinianus Primus presso l'Università Ss. Cirillo e Metodio di Skopje ed è una teorica del femminismo. Ritiene che i partiti albanesi in Macedonia siano uno degli esempi più estremi di quello che lei chiama la “machocrazia dei Balcani”.

“Dei veri campioni, ve lo assicuro” dice “non hanno di fatto alcuna politica sui diritti individuali e collettivi delle donne o politiche che riguardino gli interessi o i problemi delle donne in generale, e nemmeno nello specifico delle donne albanesi”.

Aggiunge che le donne albanesi in Macedonia hanno parte della responsabilità per questa situazione, standosene in silenzio senza opporre alcuna resistenza quando si tratta di questioni che le riguardano. “Questo va mano nella mano con l'ancora esiguo numero di donne attive nei partiti politici, e quindi parte del problema è proprio lì. Devono lottare per loro stesse in modo più aggressivo e più apertamente, in modo che la loro voce critica e il voto che raccolgono cambi le cose”.

Democratizzare i partiti
Anita Latifi, è una manager del marketing del Teatro albanese di Skopje ed è un'attivista per i diritti umani. Ritiene che le donne albanesi, in Macedonia, non abbiano le stesse opportunità in politica dei propri colleghi maschi aggiungendo che a suo avviso i partiti politici non hanno alcuna intenzione di intaccare quest'ineguaglianza.

“Una vera ed adeguata inclusione delle donne può avvenire solamente attraverso una piena democratizzazione dei soggetti politici. Sino a quando questo non avviene, le donne continueranno ad essere il 'male necessario' o solo un numero con cui adempiere alla normativa”, afferma Latifi.

La situazione non è molto migliore per quanto riguarda le donne in generale e la politica macedone, anche se rappresentano circa la metà della popolazione. Non vi è mai stata una donna ad occupare le principali tre cariche del paese: presidente, primo ministro o presidente del parlamento.

L'unica donna che ha osato tentare la corsa alla presidenza del paese è stata l'intellettuale albanese Mirushe Hoxha, che si è presentata per il DPA alle elezioni del 2009. È finita al settimo posto.

Nessuna donna è mai stata a capo di nessun partito albanese nel paese e non è andato meglio per le colleghe della comunità macedone. Lì è accaduto due volte: Radmila Sekerinska è stata a capo dell'SDSM tra il 2006 e il 2008 e Liljana Popovska, attualmente leader del partito di matrice verde Rinnovamento democratico.

Vlora Rechica, scienziata politica e attivista femminista sottolinea che la società albanese in Macedonia è conservatrice e non molto aperta: “La luce in fondo al tunnel è rappresentata dal fatto che non ci si impegna in politica solo attraverso i partiti politici e che le donne albanesi cercano altri modi per essere socialmente attive e trovano altri metodi per prendere parte al miglioramento dei problemi sociali”.

Albanesi e macedoni
Ristova-Aasterud chiarisce che sia le donne della comunità albanese che di quella macedone sono nella stessa posizione per quanto riguarda la loro posizione sociale, nella matrice del patriarcato balcanico ma che, comunque, vi sono anche delle differenze significative.

“Il processo d'emancipazione femminile all'interno della comunità etnica albanese è ancora molto lento, in parte anche perché lo stato macedone non l'ha affrontato da un lungo periodo, non avendo il coraggio o l'interesse – o entrambi - di affrontarlo”, spiega.

Ma, argomenta la Ristova-Aasterud, vi sono fardelli molto rilevanti da ritrovarsi sotto l'ombrello della cultura, della moralità, della religione e un gran numero di donne albanesi sono sotto il loro peso.

“Sono fattori che andrebbero affrontati in modo onesto e coraggioso e dovrebbero essere riformati all'interno della stesa comunità albanese, se vogliamo vedere progressi che siano genuini”, afferma la Ristova-Aasterud. “Non riguarda solo l'educazione, l'occupazione o l'emancipazione economica di queste donne. Ma riguarda anche il loro ruolo nelle relazioni, nel matrimonio, nella famiglia, riguarda anche la sessualità maschio-femmina e l'idea stessa di femminilità”.

Kristina Lelovac, attrice e attivista di Tiiiit! Inc  , un'organizzazione femminista della Macedonia, crede che le più grandi regressioni in termini di diritti delle donne in Macedonia siano avvenute negli scorsi 11 anni mentre Nikola Gruevski e il suo partito, VMRO-DPME governavano il paese. Lelovac dice che durante questo periodo le donne erano viste esclusivamente come casalinghe e madri. Non vede dei grandi cambiamenti rispetto al governo presente.

“Il governo della destra conservatrice precedente è la principale causa del degrado dell'immagine della donna in Macedonia”, dice Lelovac. “Tutti i benefici riguardanti l'uguaglianza di genere che abbiamo ereditato dal socialismo, sono stati rimossi dalla sfera pubblica. La più grande sfida per le donne albanesi che vogliono partecipare direttamente alla vita politica, consiste nel vincere la loro partecipazione politica 'decorativa'. I numeri sono importanti per garantire la partecipazione, ma la partecipazione sostanziale è ciò che conta davvero”.

Una società veramente conservatrice
L'attivista Latifi crede che la Macedonia sia una società veramente conservatrice e che le donne albanesi abbiano a che fare con stereotipi che vedono la donna ancora legata alla sfera privata, alla cura della casa e dei bambini, non può avere un ruolo nella vita pubblica né nelle decisioni riguardanti gli interessi di tutta la nazione, cosa che è compito degli uomini.

“Puoi notare facilmente che quando una donna parla, le persone tendono sempre a non essere d'accordo con quello che dice. Non si parla delle sue opinioni ma di lei”, racconta Latifi. “Le critiche alla vita pubblica variano moltissimo a seconda che si tratti di critiche rivolte a uomini o a donne”. Ristova-Aasterud crede che si tratti di una mancanza di forza d'animo e di coraggio intellettuale che impedisce di gestire o anche solo di parlare di questi temi. Questa è la principale ragione per cui le politiche albanesi rimangono in silenzio.

“Si può anche parlare di una sindrome per cui le donne sarebbero anche fiere del loro status di 'persone speciali' in un campo di gioco dominato completamente da uomini”, continua Ristova, aggiungendo che parlare di donne albanesi continua a sembrare un tabù.

“Credo che i media debbano fare la loro parte nel cambiare questo approccio”. Nel paese in cui Ibe Palikuca, una partigiana antifascista albanese che ha sacrificato la sua vita a soli 17 anni nel nome degli ideali in cui credeva, le donne albanesi adesso rimangono in silenzio. Il cambiamento è possibile. Karolina Ristova-Aasterud sostiene che ci siano stati grandi sviluppi a partire dal 2000 in termini legislativi e politici, il passo successivo dovrà essere l'implementazione.

“Il processo è ormai iniziato e voglio credere che le generazioni più giovani approfitteranno di questo vantaggio. Molte delle mie alunne sono donne albanesi forti ed eccezionali, ti mangerebbero viva. Spero che questo possa dire molto a proposito del loro futuro”, conclude la professoressa.
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Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #134 il: Agosto 07, 2018, 02:22:55 am »
A quel che ne so le albanesi sono piuttosto cozze* quindi non abbiamo alcuna ragione di avere a che fare con loro.

* Sempre meglio le montenegrine comunque.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.