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Off Topic => Off Topic => Topic aperto da: ilmarmocchio - Ottobre 23, 2017, 06:55:13 am

Titolo: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: ilmarmocchio - Ottobre 23, 2017, 06:55:13 am
a mio avviso, questa discussione è viziata da un errore :
considerare l'est Europa come un blocco omogeneo.
La Russia ,per es , è una nazione che non è neanche completamente europea , sia per estensione territoriale, sia per storia : ha avuto  4 secoli di dominazione mongola. Di religione ortodossa, ha sempre avuto aspetti conflittuali con l' Europa , anche culturalmente (v. Dostojevski e Tolstoj con il loro panslavismo ) . Ha avuto e ha una tendenza imperialistica che altri paesi ,quali la Polonia, Romania, ecc , conoscono bene.
Ecco perchè tra la cattolica Polonia e la Russia non può correre buon sangue (v. patto Molotov  von Ribbentrop ).
Per l' Ungheria , vale lo stesso , anche se Orban ora è filorusso : però , proprio su Orban, che per molte cose mi piace , c'è un aspetto che invece è molto discutibile : vuole fare come vuole però usufruendo dei fondi europei . Inoltre , anche lui è sempre a cercare pretesti di litigio nella Transilvania romena , vantando presunti diritti basati sulla cessione di quella regione durante la 2 guerra mondiale in base a un accordo tra Hitler e Stalin.
La neolatina Romania ha fatto la fame grazie a Ceausescu e al comunismo e , pur di garantirsi da una invasione russa tutt' altro che escludibile al 100%, visto che la Russia da sempre punta al Mediterraneo, si allea con gli USA, vista la nullità militare e la scarsa affidabilità della UE.
In Ucraina molti ricordano l' holomodor e , se Hitler non li avesse trattati da schiavi, si sarebbero alleati a lui e l' URSS sarebbe stata sconfitta.
La ex Cecoslovacchia era ed è una nazione mittel europea e non stupisce che stia andando  bene : ovvio che come l' Austria, col suo grande passato e florido presente, non vogliano finire nel calderone globalista .
Diciamolo forte e chiaro : i casini in Africa, e non solo, li hanno fatti inglesi e francesi e , per la verità, ne hanno combinate di tutti i colori.
Adesso, li risolvano loro
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Ottobre 23, 2017, 07:30:10 am
a mio avviso, questa discussione è viziata da un errore :
considerare l'est Europa come un blocco omogeneo.

ilmarmocchio, so bene che l'Europa dell'est non è un blocco omogeneo.
Del resto neppure l'Europa dell'ovest lo è, come non  lo è l'Occidente in generale.
Ad esempio: pure il Brasile, il Cile, la Colombia, il Perù, l'Honduras, ecc, sono Occidente.


Citazione
Per l' Ungheria , vale lo stesso , anche se Orban ora è filorusso : però , proprio su Orban, che per molte cose mi piace , c'è un aspetto che invece è molto discutibile : vuole fare come vuole però usufruendo dei fondi europei .


E' quello che penso anch'io.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: ilmarmocchio - Ottobre 23, 2017, 07:49:44 am
@Frank : lo so che lo sai :D
A corollario di quanto detto sopra , c'è da rilevare che tutte le società in sviluppo vedono un acuirsi delle disparità che, fintanto che non superano certi limiti, esprimono semplicemente le diverse attitudini degli individui che compongono tale società.
E' da notarsi che il femminismo , che avvelena l' occidente, è a braccetto del politicamente corretto, del gender, ecc :
anzi, è evidente come il femminismo e l'egualitarismo vadano insieme.
Egualitarismo orwelliano, ovviamente :
gregge e pastori, più eguali degli altri.
Laddove c'è l' iniziativa maschile, non può esserci egualitarismo : le diverse capacità individuali emergono chiare e ineluttabili :
La scienza, la cultura e lo sport persino, si basano sul confronto.
Laddove c'è egualitarismo c'à stasi e politicamente corretto, tra cui il femminismo che, senza l'egualitarismo forzato non potrebbe esistere.
Ecco che in polizia possono andare le donnette da 1,50 cm, che le atlete sono più forti degli atleti, le Asie Argento diventano vestali abusate dall' orco e via vaneggiando.
Nel mondo occidentale, quali sono le nazioni più femministe ?
Quelle dell'  egualitarismo castrato e antimaschile scandinavo
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Ottobre 23, 2017, 08:21:39 am
Una cosa i Paesi dell'Est in comune ce l'hanno, e l'ha magistralmente espressa John Le Carré (cito): "La Russia è come gli USA, ma senza tutte quelle st**nzate". Che in Occidente ci tocca sentire dalla mattina alla sera, specialmente dalle donne.
Quale italiana (o spagnola, o svedese fate voi) avrebbe la lucidità di dire quel che ho sentito da un'ungherese: "Gli uomini di oggi sono le donne".
Inoltre: c'è più cultura, se nomini Dostoevskij non ti ridono in faccia. Soprattutto, sono sopravvissuti al crollo del comunismo perché il tessuto sociale era sano, ci si aiutava l'un l'altro, mentre l'Occidente con la sua litigiosità non reggerebbe un minuto a una crisi economica.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Ottobre 23, 2017, 19:13:43 pm
Quale italiana (o spagnola, o svedese fate voi) avrebbe la lucidità di dire quel che ho sentito da un'ungherese: "Gli uomini di oggi sono le donne".
Inoltre: c'è più cultura, se nomini Dostoevskij non ti ridono in faccia.

Vicus, affermazioni del tipo :
"Gli uomini di oggi sono le donne",
le ascolto da quando iniziai ad occuparmi della QM una decina di anni fa.
Personalmente, e nonostante capisca bene cosa intendono le tipe in questione, la reputo una scemenza assoluta, perché come ho avuto modo di scrivere più volte, le donne di oggi fanno semplicemente... le femmine e non gli uomini.


Citazione
Inoltre: c'è più cultura, se nomini Dostoevskij non ti ridono in faccia.

Dipende: se ti riferisci agli ungheresi o ai russi è in gran parte vero, ma se si va a parare verso i rumeni, i moldavi o gli albanesi non lo è affatto, perché quest'ultimi son decisamente più ignoranti degli italiani.


Citazione
Soprattutto, sono sopravvissuti al crollo del comunismo perché il tessuto sociale era sano, ci si aiutava l'un l'altro, mentre l'Occidente con la sua litigiosità non reggerebbe un minuto a una crisi economica.

L'Occidente di oggi no, non reggerebbe ad una reale crisi economica, ma solo perché decenni di relativo benessere rammoliscono le persone.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Sardus_Pater - Ottobre 23, 2017, 21:03:32 pm
Citazione
Dipende: se ti riferisci agli ungheresi o ai russi è in gran parte vero, ma se si va a parare verso i rumeni, i moldavi o gli albanesi non lo è affatto, perché quest'ultimi son decisamente più ignoranti degli italiani.

A proposito di rumeni, tanto per capire il loro spessore sociale: online c'è la scannerizzazione dell'elenco telefonico del judet di Bucarest del 1937, all'epoca del Regno di Romania: i cognomi ebraici presenti arrivano in certi casi a totalizzare un'intera pagina di elenco. Possono essere cognomi yiddish, originari dell'est o di ebrei romeni, ma il rapporto con quelli "gentili" è impressionante, i romeni purosangue dovevano essere in media ad un livello più basso, considerando l'ovvio fatto che nel 1937 il telefono non l'avevano tutti.

(non è un discorso contro gli ebrei, ovviamente... ma contro i rumeni :shifty: )

Ecco il link: http://lcweb2.loc.gov/service/gdc/scd0001/2007/20078205001ab/20078205001ab.pdf
L'elenco alfabetico è dopo il categorico e comincia a p. 151. Scorrete e ammirate.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Ottobre 23, 2017, 21:56:27 pm
Vicus, affermazioni del tipo :
"Gli uomini di oggi sono le donne",
le ascolto da quando iniziai ad occuparmi della QM una decina di anni fa.
Personalmente, e nonostante capisca bene cosa intendono le tipe in questione, la reputo una scemenza assoluta, perché come ho avuto modo di scrivere più volte, le donne di oggi fanno semplicemente... le femmine e non gli uomini.


Dipende: se ti riferisci agli ungheresi o ai russi è in gran parte vero, ma se si va a parare verso i rumeni, i moldavi o gli albanesi non lo è affatto, perché quest'ultimi son decisamente più ignoranti degli italiani.


L'Occidente di oggi no, non reggerebbe ad una reale crisi economica, ma solo perché decenni di relativo benessere rammoliscono le persone.
L'ungherese intendeva semplicemente dire che le donne giocano a fare gli uomini. Non è una gran scoperta, ma ad oggi non so di occidentali che ci siano arrivate.
Non tutti quelli dell'Est ascoltano Brahms, ma almeno non ci infliggono lo stupidario (specie femminile) imparato a pappagallo dai media e dalla scuola.
E' vero che l'Occidente è rammollito, ma non è l'unica spiegazione.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Novembre 04, 2017, 16:13:48 pm
Dice l'italiano medio:
"Certe cose accadono solo in Italia, bla bla bla, etc etc".
Sì, infatti.

http://www.eastjournal.net/archives/86807
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CROAZIA: Lo scandalo Agrokor, cartina tornasole dell’economia nazionale

Pierluca Merola 2 giorni fa   

Ivica Todorić, ex presidente e tuttora proprietario di maggioranza del colosso agroalimentare croato Agrokor è accusato di falso in bilancio e appropriazione indebita. Todorić e i suoi due figli maschi, anch’essi indagati, si trovano però al momento all’estero. La procura di stato croata ha quindi emesso un mandato di cattura europeo nei confronti della persona di Ivica Todorić. Questi, al momento latitante, comunica solo attraverso un blog personale dal quale denuncia una congiura organizzata dal governo croato e istituti finanziari stranieri per privarlo della sua compagnia.

Un passo indietro: il collasso di Agrokor e il commissariamento

Agrokor è la più grande società per azioni dell’Europa sud-orientale e l’undicesima più grande negli stati post-comunisti dell’Unione Europea per fatturato nel 2015. La compagnia è principalmente attiva nella produzione agroalimentare e nella vendita al dettaglio, è presente con le sue controllate in Croazia, Bosnia Erzegovina, Montenegro, Ungheria, Slovenia e Serbia, dove impiega più di 130.000 persone. Con un fatturato di 6,5 miliardi di euro, l’azienda di Todoric rappresenta da sola il 15% del PIL della Croazia e influenza ampi settori dell’economia della regione.

Nel corso della sua espansione spericolata, Agrokor ha accumulato un ingente debito. Le stime più recenti lo conteggiano in 7,4 miliardi di euro. Il 6 aprile scorso, con una legge ad hoc, il governo è venuto in soccorso della compagnia a rischio fallimento. La legge ha previsto la nomina di un commissario straordinario da parte del governo e un periodo di 15 mesi in cui sono state vietate le procedure giudiziarie per il rientro dei crediti nei confronti della compagnia. A capo di Agrokor è stato quindi nominato Ante Ramljak che, in questi sei mesi, ha avviato delle indagini interne e commissionato a una società esterna una revisione totale della situazione finanziaria.

La revisione della situazione finanziaria di Agrokor

La revisione della situazione finanziaria 2015-2016 ha svelato diverse falsificazioni nei libri contabili, con l’obiettivo di mascherare la situazione drammatica delle finanze aziendali. Al netto delle diverse malversazioni, risulterebbe l’intento di nascondere la perdita di 1,9 miliardi di euro nel biennio 2015-2016. Il valore capitale delle controllate dell’azienda sarebbe stato inoltre gonfiato di 1,2 miliardi di euro. Ne conseguirebbe un valore totale di Agrokor di 2,9 miliardi di euro minore rispetto a quanto precedentemente dichiarato. Da tutto ciò risulterebbe che il debito reale dell’Agrokor, pari a 7,4 miliardi di euro, fosse già a inizio 2017 di 1,9 miliardi di euro superiore al suo capitale totale, pari a 5,5 miliardi di euro (precedentemente gonfiato fino a 8,4 miliardi). A inizio 2017, il conglomerato agroalimentare croato Agrokor non era a rischio fallimento. Era già insolvente.

Infine, risulterebbe che in questo periodo 133 milioni di euro della compagnia siano stati spesi per il lussuoso stile di vita della famiglia Todorić. Ma a questo punto, castelli, yacht e elicotteri rappresentano solo il contorno della vicenda, buono per il gossip.

Le accuse nei confronti di Todorić

Il 9 ottobre, Ramljak ha quindi sporto denuncia per falso in bilancio contro la vecchia gestione. Pochi giorni dopo, la polizia ha arrestato dodici ex-dirigenti per interrogarli, mentre ha perquisito il castello dei Todorić alla ricerca dei verbali mancanti dei consigli d’amministrazione. Tra i dirigenti chiamati a comparire, mancano all’appello Ivica Todorić e i suoi figli Ivan e Ante che si ritiene si trovino tra Londra e la Svizzera. Per la persona di Ivica Todorić è stato emanato un mandato di cattura europeo e richiesta la misura cautelare onde limitarne i contatti con possibili testimoni. Attraverso un suo blog personale, Todorić ha dichiarato che tornerà in Croazia solo quando avrà raccolto prove sufficienti per dimostrare l’esistenza di una congiura organizzata dal governo croato e da alcuni partner americani per privarlo di Agrokor.

Recentemente, il quotidiano Jutarnji List ha rivelato l’esistenza di un contratto stipulato a luglio tra il commissario straordinario e due partner americani, notizia poi confermata da Ramljak stesso. Secondo l’accordo, il fondo d’investimento Knighthead Capital Management ha comprato il 56% delle obbligazioni Agrokor divenendone il creditore di maggioranza (superando i crediti detenuti dalla banca russa Sberbank), in cambio la società di consulenza in salvataggio d’impresa Alix Partner è stata associata alla gestione della compagnia.

In parlamento invece l’Unione democratica croata (Hdz) e l’opposizione guidata dal Partito social-democratico hanno raggiunto un accordo per l’istituzione di una commissione d’inchiesta sul caso Agrokor. Va qui ricordato che i due maggiori partiti politici hanno alternativamente sostenuto l’espansione di Agrokor. Se questa cresce negli anni ’90 e 2000 grazie al sostegno accordategli dall’Hdz, l’operazione più spericolata – l’acquisto della concorrente slovena Mercator – è stata avallata nel 2014 dal governo social-democratico di Zoran Milanović.

Agrokor e Croazia, una transizione sbagliata

La presente situazione rivela il fallimento del sistema economico croato originatesi dalla transizione, caratterizzato da nepotismo, corruzione ed eccessive compenetrazioni tra potere politico, potere economico e istituzioni dello stato. Nel lontano 1971, in Jugoslavia, Ante Todorić, padre di Ivica e manager di una compagnia di proprietà sociale, finì in carcere per aver sostenuto con il denaro della compagnia il futuro primo presidente della Croazia indipendente Franjo Tuđman. Cinque anni di prigione che garantirono ai Todorić un posto nella futura nomenklatura tuđmaniana, e da lì fu una scalata continua.


Il collasso di Agrokor è ora visto come uno spartiacque per il sistema economico croato. Alcuni vi vedono una sorta di crisi creativa che liberalizzerà il sistema economico croato. Altri, invece, guardano alla fine dell’unica azienda croata in grado di rivaleggiare con la concorrenza europea e lamentano la totale sottomissione al capitale straniero. Altri ancora, memori dei processi all’ex-premier Ivo Sanader, sottolineano come in Croazia si faccia sempre un gran chiasso quando cadono i giganti, col rischio che i rumori di fondo rimangano inascoltati.

Foto: Cropix
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Novembre 21, 2017, 20:29:37 pm
http://www.eastjournal.net/archives/57002

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La corruzione nell'Europa dell'Est? Soprattutto nella sanità

Giuseppe Di Matteo 31 marzo 2015   

L’allarme arriva dall’Europa dell’est. In quasi tutti i Paesi dell’ex cortina di ferro la corruzione è una piaga sociale. Un’idra dalle sette teste che divora non solo la politica ma anche un settore molto delicato come quello della sanità. Un sistema che si regge soprattutto sulle mazzette e i pagamenti in nero, ma non disdegna nemmeno gli “additional payment”, i regali da offrire per ottenere un favore o un trattamento privilegiato. E che si alimenta anche nella crisi. In una congiuntura economica sfavorevole, e in tempo di bassi salari, molti medici sottopagati accettano o sono costretti a far parte del gioco.

La corruzione nel mondo della sanità è un problema diffuso anche in Occidente, ma secondo i dati dell’European Commission survey 2013 – pubblicato nel 2014 e riportato anche dal settimanale britannico The Economist – i Paesi ex comunisti sono quelli che se la passano peggio. Dando un’occhiata ai numeri, in Romania il 28% degli intervistati dichiara di aver effettuato pagamenti non in regola, mentre in Lituania la percentuale si attesta intorno al 21%. Un’enormità se paragonata alla media europea del 5%. Seguono Grecia (11%), Ungheria (10%), Slovacchia (9%), Germania e Bulgaria (8%) e Lettonia (7%). Non va meglio nemmeno in Polonia, la locomotiva economica dell’Europa orientale. Stando ai dati dell’Economist, il 15% del campione dichiara di aver pagato mazzette. Fino a casi emblematici come quello estone, dove un direttore di ospedale è stato licenziato per aver chiesto ad un paziente una bottiglia di Cognac e 4000 corone (360 dollari) in cambio del prolungamento della degenza. E che dire del medico slovacco William Fischer, uno dei cardiologi più rinomati in patria (nel 1998 fu autore del primo trapianto di cuore nel suo Paese) denunciato per aver accettato 3000 dollari (oltre che una certa quantità di pollame) per fare un’operazione? Una vicenda incredibile, soprattutto se si pensa che era arrivato addirittura candidarsi per la presidenza.

A ben vedere, quello della corruzione è un problema anche di tipo culturale. Dal rapporto si evince che il 73% degli europei ritiene che comportamenti di tipo corruttivo e disporre di determinate conoscenze siano elementi indispensabili per destreggiarsi nel settore pubblico. Un modus vivendi che tocca punte esponenziali in Grecia (93%), Cipro (92%), Slovacchia e Croazia (89%). In Occidente risalta invece il primato dell’Italia (88%). Un’isola latina in un mare slavo se si considera che la percentuale è la stessa anche in Lituania, Repubblica Ceca e Slovenia. E non sembra nemmeno un caso che in tutti questi Paesi, inclusa la Spagna, la corruzione sia percepita come una piaga che coinvolge le istituzioni. Tutt’altra storia quella dei Paesi scandinavi, da sempre modelli virtuosi, nei quali la percentuale oscilla tra il 35 e 40%.

Ma al di là dei numeri, e anche se il problema rimane, non tutto è perduto. Dando un’occhiata ai dati del Corruption Perceptions Index elaborato da Transparency International nel 2014, I paesi dell’ex blocco sovietico, Romania e Bulgaria a parte, confermano una lenta ma costante risalita verso le prime posizioni, spesso appannaggio dei Paesi scandinavi e dalla Nuova Zelanda. Un passo in avanti che fa ben sperare, ma c’è ancora molto da fare. Soprattutto nella sanità.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: ilmarmocchio - Novembre 22, 2017, 08:41:49 am
bisognerebbe spiegare al Di Matteo che in USA ci sono certe manovrine sanitarie che in confronto quelle dell' est Europa fanno ridere.
La corruzione c'è ovunque
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 09, 2017, 17:49:30 pm
bisognerebbe spiegare al Di Matteo che in USA ci sono certe manovrine sanitarie che in confronto quelle dell' est Europa fanno ridere.
La corruzione c'è ovunque

Sì, ilmarmocchio, questo è chiaro; del resto io stesso l'ho scritto in numerose occasioni e in riferimento a tutti quegli italiani convinti che l'Italia sia "il Paese più corrotto del mondo".
Ma questa discussione è dedicata all'Europa dell'est e consequenzialmente alle magagne di quei paesi, alle quali nessun quemmista - passato e presente - fa mai cenno.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 09, 2017, 18:17:34 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-ricchi-e-poveri-184506

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Romania: ricchi e poveri

Una crescita del Pil dell'8,6%: è quella registrata in Romania negli ultimi mesi. Dietro a questo dato – il migliore nell'Ue – si nasconde però un paese con gravi problemi strutturali e dove il rischio povertà colpisce larghe fette della popolazione
07/12/2017 -  Mihaela Iordache   

La Romania è il paese con la più alta crescita economica dell’Unione europea e tra i primi nel mondo. L’Istituto Nazionale di Statistica rumeno ha reso nota a novembre la crescita record nel terzo trimestre 2017: +8,6% del Pil. Di conseguenza anche la Commissione europea ha migliorato le previsioni di crescita economica per il 2017 passando dal 4,3% fornito in primavera al 5,7% attuale (per il 2018 ci si aspetta una crescita del 4,4%).

Davanti a questi dati l’AFP non ha tardato a definire l’ex paese socialista ”la nuova tigre dell’UE”. Gli economisti rumeni hanno sottolineato come il dato del terzo trimestre sia dovuto in particolare all'aumento degli stipendi e di conseguenza del consumo. Lo stipendio medio ha raggiunto infatti il valore record degli ultimi 10 anni, attestandosi sui 533 euro al mese. Si guadagna meglio nella capitale Bucarest, seguita da Cluj, in Transilvania.

Che il lato della domanda sia sempre più rilevante lo hanno capito anche molte multinazionali: sono decine i centri commerciali moderni (da far concorrenza ai mall americani) sorti a Bucarest. Ai supermercati non mancano clienti ed i prezzi in alcuni casi sono più alti che in Occidente.
Bucarest vs. resto della Romania

Tutto questo è vero soprattutto per Bucarest, metropoli di circa 2 milioni di abitanti che ha conosciuto negli ultimi anni un notevole sviluppo: si sono colorati molti dei palazzi grigi costruiti da Ceaușescu; il suo centro storico, Lipscani, è ormai un luogo ricercato par le sue terrazze, bar e in genere per la vita notturna. Nella capitale si organizza poi ogni anno con orgoglio il festival internazionale di musica classica dedicato a George Enescu e poi diversi festival di teatro e mostre, nei suoi 30 musei. E poi vi sono le più grandi e moderne terme d’Europa e i grandi parchi.

Grandi investimenti privati hanno anche portato alla nascita di tante cliniche private che però non sono alla portata di tutti, nemmeno nella capitale: Bucarest alterna infatti a quartieri nuovi e lussuosi quartieri poveri dove domina il degrado, come ad esempio quello di Ferentari.


In Romania si vive meglio e si consuma molto nelle principali città del paese, che comprendono naturalmente la capitale e poi quelle delle contee di Cluj, Timis, Prahova, Costanza, Brasov o Sibiu. Ma nelle restanti regioni - la Romania ha 41 contee - domina spesso la povertà. Quelle di Vaslui, Botosani e Teleorman sono talmente povere che sono in molti a vivere di sussidi sociali. Qui scarseggiano inoltre sia gli investimenti pubblici che privati.
Corruzione e stipendio minimo


Non è un caso che la serie televisiva più seguita del paese è “Las Fierbinti” - trasmessa da PROtv - nella quale un sindaco corrotto utilizza per scopi personali fondi destinati per le riparazioni della scuola del paese mentre il prefetto della contea aspetta ogni mese “la sua parte” in denaro, spiegando al sindaco che anche a lui tocca dare le mazzette più in alto: al partito, ai ministri, ai parlamentari.

Un telefilm che si ispira alla cronaca quotidiana che vede quasi 1.300 funzionari rinviati a giudizio lo scorso anno in Romania per reati di corruzione che avrebbero arrecato un danno di 260 milioni di euro alle casse del paese. Tra questi anche casi di alto livello: 3 ministri, 17 parlamentari, 16 magistrati e 20 dirigenti di aziende statali.

A giugno, alla fine della sua missione come direttore della Banca Mondiale in Romania, Elisabetta Capannelli aveva spiegato per Wall-street.ro che dal punto di vista economico la Romania sta bene, ma vi sono tuttavia molte debolezze generate dal fatto che gli ultimi anni  sono stati dominati da misure pro-consumo mentre poca attenzione è stata data ad iniziative a favore degli investimenti oppure dell’assorbimento dei fondi europei. Dinamiche sembra confermate anche per il 2018: il governo social-democratico del premier Mihai Tudose ha annunciato di voler aumentare a partire da gennaio 2018 lo stipendio minimo lordo a 1900 lei (a circa 413 euro), il che significherebbe secondo quando hanno messo in rilievo gli analisti sui media rumeni superare Lettonia e Lituania (circa 380 euro) e raggiungere l’Ungheria.


La Romania ha registrato comunque il più alto indice di crescita dello stipendio minimo nell’UE nel periodo 1 gennaio 2016-febbraio 2017: circa il 38% di crescita. Valentin Lazea, economista della Banca Nazionale della Romania (BNR), ritiene che uno stipendio minimo netto di circa 300 euro potrebbe essere sostenibile per l’economia rumena e contribuirebbe a ridurre il divario tra ricchi e poveri. La crescita dello stipendio minimo "è stata utile e necessaria in passato”, ha spiegato Lazea per AGERPRES ma, per il momento, sulla questione si dovrebbe rallentare. Lazea ha poi sottolineato che la Romania ha ora un potere d’acquisto del 59% della media UE. Nel frattempo è però aumentato anche il debito pubblico, del 38% negli ultimi 25 anni.
Povertà

La Romania ha di certo ancora molta strada e strade (il paese ha solo 750 km di autostrade) da fare: sviluppare le sue infrastrutture, modernizzare scuole ed ospedali, dotarli  di materiali medici e di medicine, sviluppare le zone rurali dove mancano anche le fognature. Bucarest dovrebbe inoltre investire di più sull'infanzia, in un paese dove - secondo i dati Eurostat - quasi la metà dei bambini (0-17 anni) sono a rischio povertà.  Dati confermati anche da quelli resi pubblici di recente dal Collegio Nazionale degli Assistenti sociali secondo cui ogni sera in Romania 200.000 bambini vanno a dormire senza mangiare. Ed è anche per questo che quattro milioni di romeni sono stati costretti ad emigrare per poter assicurare una vita migliore alle loro famiglie. Secondo le più recenti statistiche dell’Eurostat, aggiornate ad ottobre 2017, il 38,8% dalla popolazione romena è a rischio povertà ed esclusione sociale.

Del resto la Romania, assieme al primato di crescita economica in Europa, ha paradossalmente anche quello, in negativo, di equità sociale nell'Ue: è infatti su questo tra i paesi europei con i risultati peggiori.


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Citazione
Ed è anche per questo che quattro milioni di romeni sono stati costretti ad emigrare per poter assicurare una vita migliore alle loro famiglie. Secondo le più recenti statistiche dell’Eurostat, aggiornate ad ottobre 2017, il 38,8% dalla popolazione romena è a rischio povertà ed esclusione sociale.

Circa venti giorni fa, un mio ex operaio (un muratore italiano specializzato 47enne; uno dei migliori che abbia mai conosciuto, sia dal punto di vista lavorativo che umano), che attualmente lavora in un'altra ditta, ha "stoppato" e minacciato di botte un muratore rumeno 37enne che, tanto per cambiare, * se ne era uscito fuori con una frase che tanti stranieri di merda son soliti ripetere, cioè questa:
"Italia di merda".
Allorché, Paolo (il muratore italiano) al rumeno in questione ha fatto notare che oltre ad essere un imbecille, è un ospite e che non è obbligatorio vivere in Italia; pertanto è libero di tornare immediatamente nella sua Romania di merda (sue testuali parole), oppure di trasferirsi nuovamente in Inghilterra, dove il rumeno dice di esser stato meglio che in Italia.
Il tutto "condito" dalla minaccia di massacrarlo di botte se lo avesse nuovamente sentito pronunciare certe parole sull'Italia.
Beh, che dire... non sono solo.  :cool2:
Qualche italiano in grado di sturare le orecchie a questi stronzi ingrati, ancora esiste.

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* Certi pensieri e parole sono frequenti nella stragrande maggioranza degli stranieri dell'Europa dell'est (ma anche del Nord Africa) residenti in Italia, ovvero gente soventemente ingrata e culturalmente inferiore (albanesi e rumeni per primi).
Gente che scambia spesso la gentilezza e le buone maniere per coglioneria e debolezza.
Gente convinta che gli italiani siano tutti dei poveri imbecilli.
Loro, che fino pochi lustri fa vivevano sotto una dittatura comunista e che ora fanno finta di non ricordare in quale merda nuotavano e cercavano di non affogare.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 23, 2017, 20:39:21 pm
Bene, a quanto pare anche l'Albania è oramai impegnata a seguire le orme dei paesi occidentali.

https://albaniainvestimenti.com/2017/08/27/albania-premier-rama-presenta-nuovo-governo/

Citazione
Albania: premier Rama presenta nuovo governo
Tirana, 27 ago 14:05

Riconfermato alla guida del paese per un secondo mandato dopo la vittoria alle elezioni politiche dello scorso 25 giugno, il premier socialista Edi Rama ha presentato oggi il suo nuovo esecutivo. Numerose le novità, a partire dal numeri dei ministeri, ridotti da 16 a 11. Nominati inoltre due segretari di Stato, uno per la Diaspora e l’altro per le Relazioni con le imprese. Il 50 per cento degli incarichi di governo saranno ricoperti da donne, mentre sono quattro i nuovi nomi che entrano a far parte dell’esecutivo per la prima volta, tra cui il vicepremier Senida Mesi e il ministro della Giustizia, Etilda Gjonaj. Riconfermato invece il ministro degli Esteri Ditmir Bushati, al quale è stato affidata anche la delega per il processo d’integrazione europea, finora affidata a un apposito dicastero. Alla guida del ministero dell’Interno torna invece Fatmir Xhafa, mentre alla Difesa al posto di Mimi Kodheli è stata nominata un’altra donna, Olta Xhacka, che in passato ha ricoperto l’incarico di ministro del Welfare. Ad Arben Ahmetaj è stato affidato nuovamente il ministero delle Finanze, al quale viene accorpata anche l’Economia. Riconfermata anche Lindita Nikolli al dicastero dell’Istruzione, Sport e Gioventù, mentre a Damian Gjiknuri – che per 4 anni ha guidato il ministero dell’Energia – è stato affidato l’incarico alle Infrastrutture. L’ex vicepremier Niko Peleshi passa invece al ministero dell’Agricoltura, mentre ministro del Turismo e dell’Ambiente è stato nominato Blendi Klosi, ex ministro del Welfare. Alla Cultura rimane l’attuale ministro Mirela Kumbaro, mentre alla Sanità ritorna un’altra donna, Ogerta Manastirliu. Segretario di Stato per la Diaspora sarà Pandeli Majko, ex premier all’inizio degli anni 2000, mentre segretario di Stato per le Relazioni con le imprese sarà Sonila Qato.

Vice Primo Ministro – Senida Mesi

Ministero dello Stato per la Diaspora – Pandeli Majko

Ministero dello Stato per gli Imprenditori – Sonila Qato

Ministero degli Esteri – Ditmir Bushati

Ministero degli Interni – Fatmir Xhafaj

Ministero della Difesa – Olta Xhaçka

Ministero della Giustizia- Etilda Gjonaj

Ministero della Cultura – Mirela Kumbaro

Ministero delle Finanze, Economia e Lavoro – Arben Ahmetaj

Ministero dell’Istruzione, Sport e Gioventù – Lindita Nikolla

Ministero della Salute – Ogerta Manastirliu

Ministero dell’Energia – Damian Gjiknuri

Ministero dell’Agricoltura e Sviluppo Rurale – Niko Peleshi

Ministero del Turismo e Ambiente – Blendi Klosi.

Per informazioni e consulenze su investimenti, internazionalizzazione e delocalizzazione in Albania:

albaniainvestimenti@gmail.com

info@italian-network.net

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Citazione
mentre alla Difesa al posto di Mimi Kodheli è stata nominata un’altra donna, Olta Xhacka

Mimi Kodheli
(Soldati albanesi con i capelli corti; soldatesse albanesi con i capelli lunghi.)
https://3.bp.blogspot.com/-GjuW5qDB8rA/WEQSZkgsHRI/AAAAAAAAMCA/9ov9ydEmUiE5egN9WRdiM8X8Z1iRkofsQCPcB/s1600/wtewt.jpg

Olta Xhacka
http://gazeta-shqip.com/lajme/wp-content/uploads/2016/05/Olta-Xhacka.jpg

Mah...
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 23, 2017, 21:06:20 pm
Anche il nuovo Procuratore generale della Repubblica albanese è una donna.

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Albania-nomine-e-fumogeni-in-Parlamento-184943

Citazione
Albania: nomine e fumogeni in Parlamento
Arta Marku giura in Parlamento tra i fumogeni

I socialisti di Edi Rama scelgono a maggioranza il nuovo Procuratore generale della Repubblica, e in aula si scatena il caos. Una rassegna
21/12/2017 -  Gjergji Kajana   


Il 18 dicembre il Parlamento albanese ha votato la nomina di Arta Marku a nuovo Procuratore generale provvisorio. I voti a favore sono stati 69 (del Partito Socialista del premier Edi Rama), quelli contrari 2.
Il momento del voto e il giuramento di Marku si sono svolti in un clima di estremo ostruzionismo da parte dell’opposizione, i cui deputati hanno tentato di interrompere la seduta con tentativi di occupare lo scranno degli oratori, hanno tentato di sottrarre le schede di voto ai loro colleghi socialisti e hanno lanciato fumogeni verso i banchi del governo e della presidenza del Parlamento. Particolarmente aggressiva la leader del Movimento Socialista per l’Integrazione (LSI) nonché moglie del Capo dello Stato Iliri Meta Monika Kryemadhi, scagliatasi fisicamente contro Rama durante il caos. Fuori dall’aula i sostenitori di LSI e del Partito Democratico (PD), chiamati in protesta a “difesa della democrazia”, si scontravano con la polizia.

Marku, che va a sostituire Adriatik Llalla, lavorava da 15 anni come procuratore presso la procura distrettuale di Scutari, dove si era trasferita dopo una breve esperienza a Fier. Al momento della presentazione della sua candidatura presso la commissione parlamentare aveva dichiarato di sentirsi pronta a dare una scossa al sistema investigativo albanese e di essere abbastanza forte caratterialmente da non cedere a indebite pressioni politiche. Così come accaduto durante il voto di nomina, l’opposizione PD-LSI aveva boicottato le audizioni dei candidati presso la commissione, bollando tutto il processo come incostituzionale.
Da dove origina il caos


Nel sistema giuridico albanese la Procura generale , branca del sistema giudiziario, è l’organo costituzionale abilitato all'azione penale e a rappresentare l’accusa in nome dello stato. Secondo l’articolo 148/a della Costituzione il Procuratore generale è eletto dal Parlamento con i voti dei 3/5 dei suoi membri tra una terna di nomi proposta dall’Alto Consiglio della Procura (ACP) . Il suo mandato è di 7 anni e non è previsto un secondo incarico. Questo articolo della Costituzione rientra tra quelli modificati all'unanimità nel luglio del 2016, il problema è che prevede come proponente dei candidati un'istituzione non ancora istituita come l’Alto Consiglio della Procura.

Essendo inapplicabile alla lettera il dettato costituzionale (a causa della mancata costituzione dell’ACP) ed essendo Llalla a fine mandato da due settimane (la sua durata in carica era di 5 anni a partire dal dicembre 2012), il Partito Socialista, forte della maggioranza parlamentare e dell’opinione favorevole delle delegazioni di USA e UE nel paese, ha optato per applicare alla nomina di Marku le disposizioni della legge ordinaria 97/2016 . La legge ha per oggetto l’organizzazione e il funzionamento della Procura generale. L’articolo 109.2 della legge afferma testualmente: “Nel caso in cui il mandato del Procuratore generale finisca prima del termine, prima della costituzione dell’ACP, le funzioni del Procuratore generale, su decisione del Parlamento, sono provvisoriamente delegate a uno dei procuratori con più esperienza in seno agli altri procuratori e che adempie alle condizioni e criteri elencati da questa legge”. Secondo la versione della maggioranza socialista, la costituzione dell’ACP dovrebbe ultimarsi entro i primi mesi del 2018, dando luce verde al voto parlamentare sul successore di Marku. La riforma della giustizia rende la Procura generale meno verticale di quanto lo era prima delle modifiche costituzionali, togliendo di fatto poteri discrezionali al Procuratore generale. Questi non potrà più togliere la competenza delle indagini ai procuratori distrettuali e verrà affiancato da un vice, che avrà un mandato di due anni e lo sostituirà provvisoriamente in caso di necessità.
Cosa sostiene l'opposizione

Per PD e LSI la nomina di Marku è “un colpo di stato costituzionale” che consegna lo stato albanese nelle mani del premier Rama. I due partiti miravano al prolungamento del mandato di Llalla fino alla costituzione dell’ACP. Hanno però rinunciato a contestare la nomina di Marku di fronte alla Corte Costituzionale, ritenendo la Corte non-operativa. Per loro il nuovo “procuratore politico” potrebbe tentare di ostruire le indagini sul caso Tahiri, l’ex-ministro degli Interni del primo governo Rama, da due mesi indagato con l’accusa di appartenere a una organizzazione criminale.

Nei confronti di 10 deputati dell’opposizione la polizia ha chiesto il procedimento penale per disturbo alla quiete pubblica e resistenza a pubblico ufficiale. Al termine della seduta l’ex-premier Berisha, deputato del PD, ha caldeggiato a titolo personale la consegna del mandato parlamentare dai deputati dell’opposizione, idea contrastata da Monika Kryemadhi, leader del partito d'opposizione LSI. I due principali partiti di opposizione si sono però accordati per organizzare a partire da gennaio continue proteste di piazza per chiedere le dimissioni di Rama.
Cosa sostiene il governo Rama

Dal canto suo, il primo ministro ha definito le violenze dell’opposizione un tentativo per far deragliare la riforma della giustizia e l’apertura dei negoziati con l’UE. In qualità di promoter della riforma della giustizia, anche USA e UE hanno condannato le violenze del 18 dicembre. Particolarmente pungente nella sua dichiarazione l’ambasciata di Washington, che – sicuramente memore di alcune frizioni - ha definito Llalla “il Procuratore generale che si rifiutava di perseguire penalmente i politici”, alludendo al contempo alla paura dei politici albanesi dinanzi ai nuovi organi previsti dalla riforma della giustizia, votata, va ricordato , sempre sotto forti pressioni degli internazionali. Questi nuovi organi sono l’Ufficio del Procuratore Speciale (SPAK) e il Bureau Nazionale delle Investigazioni (BKH), braccio operativo delle indagini sui reati contestati agli alti funzionari dello stato, modellati secondo l’esperienza croata e rumena.

In attesa degli sviluppi, agli osservatori della politica albanese è chiaro che dell’accordo pre-elettorale tra Rama e Basha (leader del PD) – che certamente dava più “garanzie” al PD, ma che è stato superato dal successo elettorale del PS e dalla nascita di un governo monocolore - non rimangono nemmeno le ceneri. Sarà dunque tutto a carico dell’esecutivo il tentativo di convincere Bruxelles ad aprire i negoziati di adesione all'Ue entro il 2018.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 26, 2017, 15:33:36 pm
http://www.eastjournal.net/archives/87376

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UCRAINA: La porta si sta chiudendo, di nuovo
Oleksiy Bondarenko 12 giorni fa   

E’ difficile credere che, quattro anni dopo il sanguinoso epilogo di Maidan, la situazione in Ucraina possa essere tornata più o meno al punto di partenza. No, non si tratta dell’imminenza di una nuova ‘rivoluzione’ – per quella non c’è la forza e la società rimane divisa – ma delle dinamiche politiche che continuano a soffocare il paese. L’Ucraina non cambia mai e continua sempre a stupire i pessimisti e a deludere gli ottimisti, quelli che nei fatti del 2013 – 2014 avevano visto il definitivo addio al passato fatto di oligarchia e corruzione.

Ovviamente per trasformare un sistema come quello dell’Ucraina post-sovietica non possono bastare quattro anni. Quattro anni in cui, tra l’altro, il paese è stato depredato di una fetta del proprio territorio e ha visto scoppiare una guerra intestina gestita da curatori esterni. Il sistema oligarchico e cleptocratico che continua ad affondare i propri denti nelle viscere del paese ha radici profonde, eredità del passato sovietico e dei difficilissimi anni di transizione. Anni in cui, complice una privatizzazione selvaggia, sono nati i vari clan di oligarchi che, come nella vicina Russia di El’cin, oltre al sistema economico hanno iniziato a spartirsi e contendersi anche quello politico. Kučma è stato il primo vero padre del sistema oligarchico ucraino, rappresentando per due mandati presidenziali l’anello di congiunzione tra clan e politica. Il resto è storia più recente. Due ‘rivoluzioni’ in 10 anni, la guerra nel Donbass e la terribile sensazione che i clan continuano ancora a spartirsi l’economia e, soprattutto, la vita politica del paese.

È una provocazione, ma guardando agli avvenimenti delle ultime settimane, il dubbio viene quasi spontaneo. È per caso tornato Yanukovich e nessuno se n’è accorto? Cos’è cambiato, oltre al regime visa free e a un ideologico, che negli ultimi giorni suona ancora più retorico, avvicinamento alla grande famiglia europea?

Il problema qui non è nelle singole personalità. Poco importa, infatti, se Poroshenko in fondo non è altro che un oligarca, sostenuto da altri oligarchi. Quello che più preoccupa è la mentalità, la cultura politica e la radicata convinzione che le trame sotterranee siano il miglior modo per mantenere il potere. L’accentramento del potere, che piaccia o no ai sostenitori internazionali dell’Ucraina post-Maidan, è stato infatti il principale risultato ottenuto dal presidente. Il lento ma progressivo smantellamento dello stato di diritto ne è la principale conseguenza. Certo, ci sono state riforme positive e passi avanti, ma i tre principali poteri dello Stato rimangono, come ai tempi di Yanukovich, sotto fermo controllo del presidente. Dopo un primo periodo d’instabilità, il parlamento è stato praticamente addomesticato con l’ascesa al posto di Primo Ministro di Volodymyr Groysman – uomo fidato di Poroshenko – e con la cooptazione di forze politiche in teoria all’opposizione ma che in parlamento votano esclusivamente insieme alla maggioranza (come il Blocco d’opposizione, erede del Partito delle Regioni di Yanukovich). La guida dei Servizi di Sicurezza (SBU) dopo una lunga diatriba politica è stata affidata a Vasyl Hrytsak ex-capo della scorta personale di Poroshenko (2010 – 2014). Nel settore giudiziario, invece, la nomina a procuratore generale di Yuri Lutsenko, uomo senza nessun tipo di esperienza nel settore (fattore che aveva richiesto modifiche alla legislazione) e capo della fazione parlamentare del partito presidenziale, ha segnato la definitiva centralizzazione del potere e, non sorprendentemente, il lento sgretolamento degli istituti impegnati nella lotta alla corruzione nati sull’onda di Maidan.

Gli attriti di lunga data tra la Procura ed i Servizi di Sicurezza da una parte e il NABU (National Anti-Corruption Bureau of Ukraine), organo teoricamente indipendente e sostenuto da finanziamenti occidentali, dall’altra, hanno portato ad un epilogo tragicomico. Anche chi aveva minimizzato l’entità delle pressioni dell’amministrazione presidenziale sull’organismo anti-corruzione negli ultimi mesi, riesce difficilmente a tenere gli occhi chiusi dopo che la Procura Generale ha deliberatamente sabotato una complessa indagine del NABU (in cooperazione con l’FBI) sulla corruzione nei Servizi di Migrazione. Il colpo finale, però, è arrivato con il voto del Parlamento che ha deciso di sollevare dall’incarico, Yegor Soboliev, il capo del Comitato Anti-Corruzione, organo parlamentare che coordina le attività proprio con il NABU. A nulla possono servire le note di preoccupazione provenienti da Bruxelles o da Washington. La strada è ormai tracciata.

Il campanello d’allarme suona ormai da alcuni anni anche per quanto riguarda la libertà dei media. Una prima percezione la si può avere guardando, ad esempio, a quanto poco spazio è stato dedicato dai principali canali televisivi alle nuove rivelazione legate ai conti off-shore del presidente. Ma è solo la superficie. Nelle ultime settimane, mentre alcuni ‘attivisti’ bloccavano l’accesso al canale televisivo News One e il suo proprietario veniva accusato di separatismo per aver definito la ‘rivoluzione di Maidan’ un colpo di stato, non possono non tornare alla mente l’incendio nella sede del tele canale Inter, le perquisizione di Radio Vesti e del quotidiano Strana o le storie di giornalisti detenuti con accuse di separatismo. Poroshenko, intanto, dalle tribune internazionali che ancora lo accolgono come un riformatore progressista, continua a parlare dei progressi nella libertà di espressione in Ucraina. Sarebbe solo comico se non si considerasse il fatto che c’è ancora qualcuno che ci crede (o semplicemente finge di farlo), nelle illuminate cancellerie europee.

Il teatrino di Saakashvili, così, non arriva come un fulmine a ciel sereno, ma rappresenta probabilmente solo l’ennesimo atto nella lotta politica intestina e la cartina di tornasole di un sistema che sembra aver definitivamente perso ogni contatto con la realtà. E anche se si fatica ancora ad ammettere, la storia in Ucraina sembra ripetersi, ancora una volta. La porta che si era aperta nel febbraio 2014 si sta inesorabilmente chiudendo. No, Yanukovich non è tornato, è semplicemente Poroshenko che sta consolidando il proprio regime. A meno che non si voglia credere che sia sempre e solo colpa di Mosca.


Citazione
Chi è Oleksiy Bondarenko
Nato a Kiev nel 1987. Laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l'Università di Bologna (sede di Forlì), si interessa di Russia, Asia Centrale e dello spazio post-sovietico. E’ Research Fellow per l’area Russia e Asia Centrale presso OPI - Osservatorio di Politica Internazionale. Per East Journal si occupa di Ucraina.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 05, 2018, 01:35:27 am
E' un articolo che ha a che fare con la parte povera della Germania, un tempo denominata DDR, per cui lo posto qui.

http://www.iltascabile.com/societa/poveri-bianchi-tedeschi/

Citazione
Società
Lorenzo Monfregola / Immagine: Emmanuele Contini
27.4.2017
Poveri, bianchi, tedeschi
Il lato meno raccontato della locomotiva economica d’Europa.
Lorenzo Monfregola è un giornalista freelance. Si occupa principalmente di Germania, politica e geopolitica. È italo-tedesco e risiede a Berlino.
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Cindy da Marzahn è una donna decisamente sovrappeso. Capelli scompigliati tinti di biondo, trucco pesante e tuta rosa shocking. Cindy ha un tipico nome da starlette americana, perché viene dalla periferia est di Berlino. Pare che da quelle parti vadano di moda i nomi americanizzati, ispirati dalla cultura di massa. Almeno, questo è quello che il tedesco medio pensa di un quartiere come Marzahn: troppa tv, palazzoni in cemento, pochi soldi, neonazisti e ragazze madri.

Per anni Cindy è comparsa in televisione e nei teatri di tutto il paese, raccogliendo milioni di estimatori e detrattori. Le sue battute sono sempre state quelle di una specie di “casalinga disperata” del white trash: sussidio, televisione, diete impossibili, fidanzati poco raffinati, ancora sussidio e ancora televisione.

Poi, nel giugno 2016, Ilka Bessin, l’attrice che Cindy l’ha inventata e portata in vita, ha annunciato di voler appendere la tuta rosa al chiodo. Bessin, la cui esistenza prima del grande successo non era stata molto diversa da quella del suo personaggio, ha abbandonato dicendo che la compenetrazione tra Ilka e Cindy era diventata insostenibile. “Un giorno, durante una serata”, ha raccontato Bessin in un’intervista, “ho detto che proprio noi tedeschi dell’est dovremmo sapere quanto sia importante accogliere i rifugiati. In sala ha applaudito una sola persona”.

Tre mesi dopo il ritiro dalle scene di Cindy, si sono svolte le elezioni nella Città stato di Berlino. Il partito della destra populista e anti-immigrati Alternative für Deutschland (AfD), che si presentava per la prima volta, ha raccolto il 14,2% dei voti. A Marzahn-Hellersdorf, la patria metropolitana di Cindy, la percentuale è stata la più alta della città: il 23,6 %. In diversi seggi del quartiere i populisti hanno ampiamente sfondato il muro del 30%.

Berlino è così diventata una delle clamorose affermazioni di AfD. Due settimane prima i populisti avevano già raccolto il 20,8% nel Mecklenburg-Vorpommern, mentre a marzo avevano conquistato il 24,3 % nel Sachsen-Anhalt, due dei cinque grandi Länder dell’ex Germania comunista.

In poco tempo, quei risultati hanno spalancato le porte a una specifica lettura della realtà da parte di chi ha voluto difendere senza se e senza ma l’impostazione tollerante e anti-razzista delle istituzioni tedesche. La specifica lettura è quella dei tedeschi dell’ex DDR, un po’ spregiativamente chiamati “ossis”, come una delle forze maggiori della nuova xenofobia in Germania.
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© Emmanuele Contini.

La periferia della periferia
Una delle battute che ricordo meglio di Cindy da Marzahn è: “In Germania ci sono cinque milioni di disoccupati: due milioni vivono nel mio quartiere”. Non si tratta nemmeno di una battuta, ma di un’analisi sociologica.

Il quartiere di cui parlava Cindy, però, è qualcosa di molto più eterogeneo e complesso. Una parte di Marzahn, oggi, è un’area semplice ma sostanzialmente piacevole: parchi, centri commerciali, casette ordinate e una funivia panoramica. Anche il famoso Plattenbau, il grande insediamento in cemento “made in DDR” anni ’70-’80, è vivibile, pur nella sua essenzialità. Niente finestre rotte, niente discariche sul ciglio della strada, niente no-go zones. Certo, gli appartamente a Marzahn costano molto meno ed è là che continuano a emigrare i berlinesi che non possono più permettersi di vivere nel centro colonizzato dalla nuova borghesia cosmopolita europea.

Per trovare la Marzahn delle Cindy, però, bisogna andare ai bordi del quartiere, nella periferia della periferia. Bisogna andare, ad esempio, a Marzahn Nord. Anche se da venti anni la zona è interessata da speciali programmi di sostegno sociale, qua non ci sono giardini, non c’è una funivia, non ci sono locali sempre pieni di persone. A ben guardare, a Marzahn Nord non c’è quasi niente.

    Secondo il sociologo Shulteis: “C’è qualcosa che non possiamo negare: il modello di successo della Germania poggia le proprie spalle su una ampia fascia di poveri”.

Per arrivare nell’area è sufficiente sedersi su un tram o su un treno metropolitano berlinese, puntare a nord-est e aspettare di raggiungere il capolinea. Una di queste stazioni finali è Ahrensfelde, al cui nome i trasporti pubblici aggiungono “Stadtgrenze”, “frontiera della città”: qualche metro più in là inizia la campagna del Brandeburgo. Nemmeno Marzahn Nord è una banlieu, ma qualcosa di diverso. Le strade sono pulite, ma tanto pulite da sembrare svuotate, ed è tutto in ordine, ma tanto in ordine da apparire immobile. Tutto quanto sembra adagiato sotto una coperta fredda di silenzioso controllo. Il disagio lo si vede sui volti e sui corpi di diverse persone: i vestiti di scarsa qualità, le facce invecchiate dal fumo, i denti poco curati, l’obesità di chi non vive accanto a un vegan-bar che venda frullati bio-chic.

L’amministrazione locale suddivide talvolta le abitazioni del quartiere in tre livelli: buono, medio e semplice. Il 100% delle abitazioni di Marzahn Nord rientra nella terza categoria.
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© Emmanuele Contini.

Il popolo del sussidio
La prima volta che arrivo a Marzahn Nord scendo a pochi metri dal seggio 103 Marzahn-Hellersdorf, dove AfD ha superato il 35%. È un seggio piccolo, ma anche quelli vicini hanno visto risultati simili, spesso spodestando dalla maggioranza relativa la Linke, che è la sinistra radicale che per anni aveva raccolto i voti dei nostalgici della DDR.

Nella Linke locale milita Janine, 23 anni, che vuole raccontarmi qualcosa sulla vita delle venticinquemila persone che vivono in questa parte del quartiere. Per incontrarla percorro uno stradone desolato ma non degradato, dove tutto è povero in una maniera algida, organizzata, sedata: irrimediabilmente tedesca.

Janine mi aspetta in un piccolo caffè-birreria e capisco fin da subito che ci tiene molto ad assicurarsi che io non sia venuto a scrivere solo degli ossis nazi-comunisti e xenofobi. “Tanti cittadini possono farsi coinvolgere dalla propaganda”, mi spiega, “ma qui ci sono soprattutto persone che lavorano e che, quando non lo fanno, cercano solo di andare avanti”. Poi Janine mi mostra un dato ufficiale, tratto da uno degli ultimi studi svolti dal Municipio del quartiere: il 36,5% degli abitanti di Marzahn Nord tra 0 e 65 anni vive con il sussidio Alg II, più comunemente noto come Hartz IV. Si tratta di più di una persona su tre. L’Hartz IV è un sussidio di disoccupazione contro la povertà, garantito in nome del diritto costituzionale alla sussistenza. Chi è povero, chi non ha niente in banca, chi non possiede niente a proprio nome, riceve l’Hartz IV. Al momento, se si contano anche i minori, in Germania ci sono quasi sei milioni di persone che vivono grazie a questo sussidio. Di questi, circa quattro milioni e mezzo sono cittadini tedeschi, uno e mezzo sono stranieri che vivono in Germania.

Janine mi dice che, per capire il quartiere, devo guardare i dati sui bambini: il 58,2 % di tutti gli under 15 di Marzahn Nord vive in una famiglia che riceve il sussidio e la percentuale arriva al 61,2 % per i bambini sotto i sei anni. “Questa tendenza è importante”, mi dice Janine, “perché troppo spesso quella di dipendere dal welfare diventa una questione quasi ereditaria all’interno alle famiglie, in cui l’isolamento sociale o la disillusione dei genitori non stimola i ragazzi ad emanciparsi”. Chiedo a Janine perché, però, il dato della disoccupazione in quanto tale sia più basso, solo l’11,6%: il doppio della media tedesca, ma pur sempre poco. Janine, allora, mi spiega quello che sanno in tanti: la conta degli occupati in Germania è un po’ dopata; per essere contato come occupato è sufficiente che un disoccupato partecipi a un’iniziativa di inserimento professionale o sia brevemente impiegato. Il risultato è che una parte dei cosiddetti occupati tedeschi continuano a percepire il sussidio di disoccupazione Alg II e a fare la fila davanti ai Jobcenter, gli uffici dell’Agenzia del Lavoro che gestisce l’assegnazione dei sussidi.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 05, 2018, 01:36:55 am
Citazione
Hartz IV è in realtà il nome di una fase dell’epocale ristrutturazione del welfare, portata avanti nello spirito dell’Agenda 2010, l’enorme riforma del sistema sociale tedesco del 2005. Il sussidio prevede una cifra mensile di circa 800 euro per una persona singola, la metà dei quali è da utilizzare per pagare un’abitazione a basso costo. L’Hartz IV ha avuto un tale impatto sulla società tedesca che il vocabolario Duden ha inserito ufficialmente il termine “hartzer” per indicare chi riceve il sussidio, solitamente per un periodo prolungato. A Marzahn Nord, quasi il 90% lo riceve da più di due anni.
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© Emmanuele Contini.

Un popolo per i populisti?
Il sostegno per la destra identitaria tra chi è disoccupato o ha redditi bassi è un singolo aspetto di un processo molto più eterogeneo. Concentrarsi su di esso, come decido di fare io, è una scelta consapevolmente arbitraria, a Marzahn Nord come nel resto della Germania. L’AfD tedesca è stata fino a oggi votata da poveri e ricchi, da meno colti e più istruiti, ed è il risultato di un cortocircuito nel rapporto dei tedeschi con i propri tabù storici.

Resta il fatto, però, che in molte regioni AfD sia effettivamente il partito più votato tra operai e disoccupati. Non solo, secondo il sondaggio pubblicato dal quotidiano nazionale Die Welt subito dopo le elezioni di Berlino, l’AfD è stato il partito in assoluto più votato tra chi non ha lavoro. I disoccupati o i beneficiari di sussidi sono anche una delle categorie che, solitamente, votano di meno e, anche in questo caso, sembra che ne abbiano approfittato i populisti, che sono riusciti a riportare al voto un esercito di ex astenuti.

La vera domanda, a questo punto, è come mai tante persone in situazione di disagio si affidano a un partito che ha un programma economico in cui si prevedono tagli del welfare e un’ulteriore privatizzazione della sanità? La risposta è soprattutto una ed è ormai nota: l’etnicizzazione delle rivendicazioni sociali. In occasione della crisi dei rifugiati del 2015-2016, una parte dei tedeschi ha accolto le suggestioni di una campagna identitaria contro la Willkommenspolitik, la politica di accoglienza dei rifugiati di Angela Merkel. Una campagna che ha assunto velocemente i contorni di una protesta anti-establishment, di una riscossa sociale per chi sente di contare di meno.

All’inizio del 2016 Marzahn era tra le aree con il maggior numero di centri di accoglienza attivi o pianificati: terreno fertile per le estreme destre, incluse quelle apertamente eversive. Hanno fatto il giro della Germania le immagini dei naziskin della NPD che partecipavano alle manifestazioni contro i centri di accoglienza a Marzahn.
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© Emmanuele Contini.

“Puoi restare. Sei italiano, mica arabo”
Incontro Thomas qualche chilometro a sud di dove ho incontrato Janine, in un parchetto circondato da alcuni caseggiati alti e ordinati. Thomas ha militato per anni proprio nella NPD, il partito neonazista tedesco, arrivando anche a ricoprire un ruolo di dirigente a livello locale. Ora Thomas però ne è fuori e dice: “Quello che la NPD dice pubblicamente non ha niente a che vedere con quello che vuole davvero. Loro sognano proprio il ritorno del Terzo Reich, cose come il rimpatrio forzato di qualunque straniero e la sterilizzazione degli handicappati“.

Adesso Thomas si occupa, insieme con altri abitanti del suo caseggiato, di mandare avanti una casettina in legno che funge da centro ricreativo. “Facciamo un lavoro importante. C’è un baretto a prezzi molto bassi. Mentre qui abbiamo dei giocattoli. D’inverno ci sono i giochi in scatola, mentre oggi che è una bella giornata i bambini possono giocare nel parco giochi. Molti genitori non hanno voglia o il tempo di portare i figli a giocare, ma grazie a questo posto, a noi che controlliamo, possono farlo. Così i bambini non stanno tutto il giorno davanti alla televisione”.

Mentre i bambini giocano un gruppo di donne e uomini si gode caffè, sigarette e patatine fritte con maionese e ketchup. Mi siedo a parlarci, anche se nei primi minuti non sono l’ospite più desiderato. “Chi sei? Scrivi per un giornale? Lascia perdere, dite tutti stronzate.” “Magari tu no, ma poi non te lo pubblicano, non te lo pubblicano se non scrivi stronzate” “Cosa? Italiano? E che ci fai qui? Ti sei perso?” “A me non sembri italiano, parli un po’ come un cecoslovacco. O sei polacco?” “Vabbè, dai, comunque italiano va bene, puoi restare” “Magari possiamo cucinare qualcosa di buono, che dici?” “Come non sai cucinare? Allora lo vedi che non sei italiano”. Ridono. Rido anche io.

Ci vuole poco per iniziare a parlare di stranieri. Perché parlare di stranieri significa parlare anche delle rivendicazioni dei locali. I due argomenti sono così intrecciati da fare impressione. È sufficiente non rispondere con uno sguardo severo alle prime parole del proprio interlocutore per sentire opinioni che, fino a poco tempo fa, sarebbero rimaste sepolte sotto l’intricato sistema di tabù che vige nel Paese.

    Ci vuole poco per iniziare a parlare di stranieri. Perché parlare di stranieri significa parlare anche delle rivendicazioni dei locali. I due argomenti sono così intrecciati da fare impressione.

Il gruppo parla con me, ma inizia anche a discutere internamente, con fare sentito, come se in tanti non aspettassero altro. “Tu mi devi dire perché i soldi che non c’erano due anni fa per noi ci sono ora per questi rifugiati, perché? Non è mica razzista come domanda, no?” “Io ogni tanto lavoro nella sicurezza, ho fatto la sicurezza dove danno i soldi ai profughi del centro: vederli là in fila che prendevano soldi senza nessun problema è difficile, non è giusto, non è corretto” “In televisione, dovunque guardi: profughi, profughi, profughi, tutti i giorni, sempre” “Ma come? Come non ci sono state le violenze? Certo, hanno provato a stuprare due ragazze, a Pankow. Non hai letto su Facebook? C’era scritto, sì, sì! Era scritto su Facebook, proprio ieri”.

Dopo un bel po’ di conversazione provo a domandare se qualcuno ha votato AfD. A quanto pare, però, nessuno va a votare. Nicko, un uomo molto robusto con la rasatura decisamente alta che all’inizio mi guardava in cagnesco, però mi dice: “I politici fanno tutti schifo, sono tutti uguali, tutti, anche quelli dell’AfD. Ma almeno se viene l’AfD manda via tutti questi mollucken”. I “mollucken” non sono gli abitanti delle Molucche, ma gli stranieri in generale, intesi come selvaggi. Si tratta di una versione ancora più dispregiativa di “kanaken”, un termine con cui da tempo ci si riferisce agli immigrati turchi, italiani, spagnoli. Nicko ha trent’anni e fa l’autotrasportatore, mi spiega che secondo lui un problema sono i polacchi che gli fanno concorrenza sconfinando in Germania e lavorando a prezzi stracciati. Ma, alla fine, mi dice, il vero guaio restano i musulmani, sia quelli che ci sono da tempo sia quelli appena arrivati. “Non è mica razzismo. Metti i vietnamiti. I vietnamiti sono qui da anni, non danno fastidio a nessuno e infatti nessuno ce l’ha con i vietnamiti”. Di musulmani, invece, non dovrebbero più arrivarne in Germania, lo dicono anche gli altri. “Tu sei italiano, puoi stare, se eri arabo ti cacciavo via”, mi ripete Nicko, ridendo. Una signora più anziana, che fino a quel momento non aveva detto nulla, mi dice, a bassa voce: “Gli immigrati ricevono gli stessi soldi del mio sussidio, anche di più. Senza fare niente. Io da anni devo compilare i miei fogli e se sbaglio a mettere una crocetta o a dichiarare dieci euro che mi ha dato mia sorella mi trattano come una ladra… A volte penso che farei meglio a mettermi un velo da araba e andare vestita così al Jobcenter, magari mi trattano meglio”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 05, 2018, 01:38:25 am
Citazione
Torno a parlare con Thomas, perché voglio chiedere anche a lui cosa pensi della vampata dell’AfD a Marzahn Nord. Lui mi dice quello che mi diranno quasi tutti da queste parti: si tratta di un voto di forte protesta. Al momento in cui gli parlo, marzo 2017, l’AfD è lacerata internamente e sta scendendo nei sondaggi. Ma io chiedo ugualmente a Thomas cosa accadrebbe se questa protesta dovesse arrivare, un giorno anche lontano, alla maggioranza dei voti. Thomas ci pensa un attimo, come se non avesse mai considerato l’opzione. Poi risponde: “Beh, allora avremmo un nuovo NSDAP in Germania”. NSDAP è il nome ufficiale del fu partito nazionalsocialista hitleriano. ”Cioè un partito nazista al governo in Germania?”, gli chiedo. “Sì. Perché l’AfD comunque è quella cosa lì…”.
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I perdenti della nuova Germania
Vado a vedere i dati sulle forme di sussidio a rifugiati e immigrati in Germania. La situazione è eterogenea, intricata. In generale, chi vive in un centro di accoglienza o si sta inserendo nella società riceve somme (in denaro o servizi) uguali o inferiori al sussidio per i cittadini tedeschi (o per gli stranieri che vivono in Germania da anni). Quella che c’è – evidente – è però la paura di dover spartire con i nuovi arrivati il diritto al welfare o l’accesso ai mestieri senza particolare qualifica professionale. E non stupisce neppure che questo timore della competizione straniera sia più radicato nelle zone deboli del Paese, perlopiù nell’ex Germania dell’Est.

Nel 2005 è stata pubblicata una delle ricerche più complete sulla povertà in Germania e su come lo stato sociale tedesco abbia garantito un benessere generale e, al tempo stesso, istituzionalizzato un sistema di povertà. La ricerca è stata effettuata da un ampio team di sociologi, guidati dai professori Franz Schultheis e Kristina Schulz, che hanno voluto realizzare un lavoro à la Pierre Bourdieu, trasportando nella società tedesca la tecnica e lo stile de La misère du monde. Il titolo del libro, Gesellschaft mit begrenzter Haftung (“Società a responsabilità limitata”), giocava con il nome delle Srl tedesche (GmbH) e, sul solco di questa suggestione, raccontava anche il processo di liberalizzazione della Germania orientale, inclusa una de-industrializzazione arginata con la massiccia distribuzione territoriale del welfare.

Contatto il Professor Schultheis, che oggi insegna all’Università di Ginevra, perché voglio chiedergli cosa pensi del soggetto della sua ricerca dodici anni dopo. “Le cose sono cambiate da un punto di vista culturale”, mi spiega, “ai tempi avevamo a che fare con una generazione ancora direttamente collegata all’esperienza della DDR, mentre oggi c’è una generazione di giovani che sono culturalmente integrati nella cultura dell’Ovest, che conoscono l’euro e hanno confidenza con lo stato sociale.” Questo non significa, però, che i Länder dell’est abbiano raggiunto una parità: “Oggi l’ex DDR è divisa in due, tra chi è riuscito a diventare parte della nuova Germania e chi, invece, si sente a tutti gli effetti un cittadino di serie b.”

Una sconfitta che si riassume in condizioni sociali o di lavoro precarie e meno retribuite rispetto alle regioni occidentali, malgrado, o forse a causa delle grandi riforme di inizio millennio. Come mi ricorda Schultheis: “L’Agenda 2010 ha sicuramente abbassato il livello di disoccupazione, ma ha lasciato sul tavolo diversi problemi strutturali. C’è qualcosa che non possiamo negare: il modello di successo della Germania poggia le proprie spalle su una ampia fascia di poveri. Proprio ora stiamo aggiornando la nostra ricerca, per pubblicare una traduzione in greco e raccontare anche in Grecia che esiste un’altra Germania”.
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© Emmanuele Contini.

“Es ist zum kotzen!”
Il Jobcenter di Marzahn Hellersdorf si trova in un palazzone di Allee der Kosmonauten, la via che la DDR dedicò agli “eroi del socialismo” che andarono nello spazio. Là, a seconda della giornata, la fila è lunga, molto lunga o lunghissima.

Di fronte all’ingresso le persone attendono in silenzio, ognuna di loro ha una cartellina in mano. Dentro alle cartelline ci sono i documenti da presentare agli esigenti impiegati dell’Agenzia del Lavoro. Il sussidio in Germania si basa su una trasparenza assoluta, quasi fondamentalista. Va dichiarato ogni centesimo del proprio status finanziario e, soprattutto, bisogna rispettare il principio di “sostegno a patto di impegno”. In tutte quelle cartelline, quindi, ognuna delle persone attorno a me ha documenti che dimostrano i propri sforzi per uscire dalla disoccupazione, mandando ogni mese un numero preciso di candidature in cerca di lavoro o partecipando alle formazioni professionali assegnate dal Jobcenter. Quando sono quasi arrivato al bancone dell’accettazione, lascio il posto a un uomo sulla cinquantina con in mano una cartellina di Spiderman che salta da un grattacielo. Mi ringrazia con un sorriso. Prima di uscire completamente dalla fila, noto una donna giovane, molto magra, con i capelli biondo platino e dei leggings multicolore. La ragazza sta discutendo con l’impiegato di uno dei banchi della preselezione. Non riesco a capire cosa dicano: lui, soprattutto, parla piano, scuotendo leggermente la testa. Dopo qualche secondo la donna se ne va con il viso rosso dalla rabbia, urlando  “Es ist zum kotzen, es ist zum kotzen!”, che significa che “c’è da vomitare”, anche se vomitare non è la parola più adatta, kotzen è più volgare. 

Qualche istante dopo, ritrovo la ragazza fuori dall’edificio, mentre armeggia con il suo telefono. Mi avvicino e le chiedo cosa sia successo. “Questa è la volta buona che spacco tutto, non resta più niente là dentro.” Il problema della ragazza è che non si è presentata a una convocazione del Jobcenter. Non è la prima volta e, ora, le verranno tolti dei soldi dal sussidio, si tratta di una sanzione. Oggi la giovane voleva salire dall’impiegata che si occupa di lei, per spiegare le proprie ragioni, ma non le è stato permesso. “Va a finire che mi danno i buoni per fare la spesa. Una volta me li avevano già dati, qualche anno fa. Sai quanto ti vergogni quando stai alla Lidl e devi pagare con i buoni pasto?”. I buoni sono dei voucher del Jobcenter per comprare il cibo, vengono utilizzati in modo che sia garantita la sussistenza ma resti la sanzione in denaro.

    Il principio del “sostegno a patto d’impegno” su cui è strutturato il welfare tedesco può evolvere in una forma di giudizio totale sulla vita del cittadino, soprattutto quando il sussidio diventa una condizione prolungata.

Quello del rapporto tra chi riceve il sussidio e gli impiegati del Jobcenter è un tema delicato. Sebbene la regola preveda che ciascun impiegato non si occupi più di tre mesi di un singolo cittadino, ci sono delle eccezioni, soprattutto quando il sussidio si incrocia con altri servizi sociali. Gli impiegati del Jobcenter sono sottoposti a forme di stress strutturale, sia perché l’Agentur giudica costantemente la loro capacità di far evolvere ogni “cliente” (li chiamano proprio così), sia perché le discussioni con i “clienti” possono diventare molto aspre. Ci sono sempre nuovi casi di aggressione verbale o addirittura fisica a danno degli impiegati. Volente o nolente, l’impiegato si trova spesso a dover effettuare decisive scelte individuali in merito a ciascun caso, continuando allo stesso tempo a incarnare una personificazione dello stato sociale e del principio “sostegno a patto d’impegno” su cui è strutturato. Un principio che può evolvere in una forma di giudizio totale sulla vita del cittadino, soprattutto quando il sussidio diventa una condizione prolungata. Più passa il tempo, più lo Stato interroga il cittadino sulle sue abitudini, sulla sua saluta fisica e mentale, sulla sua visione della società, fino a deviare verso vere e proprie forme di medicalizzazione del disagio sociale.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 05, 2018, 01:42:16 am
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Scham – la vergogna
Quando si parla con gli abitanti di Marzahn Nord, la parola che ritorna più spesso è “vergogna”. Questo non vale certo per chi ha un lavoro soddisfacente e riesce a vivere più che dignitosamente la propria esistenza, ad esempio le tantissime persone che non ricevono un sussidio e si sentono parte di un simbolico ceto medio-alto della zona, pur vivendo lontane dal centro cosmopolita di Berlino. La vergogna vale però per tanti altri, per chi sente di aver fallito in una società che, nominalmente, offrirebbe tutte le possibilità.

Schamland, “Il Paese della vergogna” è il titolo del libro del sociologo Stefan Selke. Quando gli chiedo perché abbia scelto proprio la categoria di “vergogna” per il suo libro, lui mi spiega: “Stiamo parlando di essere poveri in un paese ricco. Di chi, come dicono alcuni, è ‘troppo ricco per morire e troppo povero per vivere’. Cosa significa povertà? È facile definirla da un punto di vista economico o normativo. C’è però un piano più pratico, che è quello del potersi o non potersi permettere lo standard di vita della società in cui si vive. Il punto decisivo, che non consideriamo mai abbastanza, è il lato simbolico della povertà. In Germania questa simbologia è già chiara nel linguaggio, ad esempio con la stigmatizzazione del termine ‘hartzer’, che è la verbalizzazione di un processo di emarginazione di una parte dei cittadini. Questa dimensione simbolica, ovviamente, non la risolviamo dando cinque euro in più alle persone, perché è soprattutto il frutto di una precisa ideologia”.

Un’ideologia che, secondo il Professor Selke, non è accidentale nell’organizzazione sociale tedesca. “Esiste un concetto che è quello della punizione tramite la vergogna. Può diventare un sistema di disciplinamento sociale che funziona quasi senza soldi, in cui le persone sono portate a forme di auto-governo tramite l’interiorizzazione di una retorica della colpa. In questi anni è in corso una mutazione: è di nuovo normale puntare il dito contro le persone perché sono ‘pigre’ o perché ‘non meritano niente’… La verità, però, è che questo è un modo per non vedere la realtà del mondo in cui viviamo oggi, dove una caduta esistenziale può avvenire per chiunque, da un momento a un altro. La verità è che preferiamo dire che ognuno è la sola causa dei propri mali, piuttosto di ammettere che camminiamo tutti su una lastra di ghiaccio molto sottile”.
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© Emmanuele Contini.

“L’importante è muovere il culo”
Al Quartiersmanagement di Marzahn Nord conosco Victoria, un’impiegata comunale estremamente gentile che mi mostra una mappa di tutte le iniziative e strutture sociali nel quartiere. Mentre guardo la cartina mi convinco sempre di più che a Marzahn Nord vivano tre tipologie di tedeschi. I primi sono quelli non particolarmente toccati dai vari disagi sociali, pur avendo, talvolta, un certo rancore simbolico verso la Repubblica Federale di Germania. Il secondo tipo di tedeschi, invece, con la Repubblica ha un rapporto costante, viscerale, corporeo, visto che da questa riceve i soldi per mangiare e per vivere. La terza tipologia di tedeschi di Marzahn Nord, invece, è costituita da un piccolo esercito di lavoratori sociali: i funzionari volenterosi della stessa Repubblica, che ne mettono in atto le potenzialità ma, anche, ne propagano più o meno consapevolmente le ideologie portanti. Quanto quest’ultima tipologia di tedeschi saprà ancora comunicare e interagire con le prime due è, di fatto, la vera domanda sul futuro di quartieri come Marzahn Nord e del rapporto tra istituzioni e la parte più scontenta ed emarginata della cittadinanza.

La comunicazione e l’interazione, da quello che vedo, sembrano funzionare molto bene in alcuni centri giovanili. Quando arrivo al centro per giovani Betonia di Marzahn Nord, è già pieno di ragazzi. Alcuni ascoltano la musica, altri giocano a ping-pong, altri preparano dei panini. Christopher, uno degli educatori, mi mostra il centro, che è gestito da un’associazione privata tramite fondi statali e cittadini: “Per i ragazzi è molto importante poter venire qua. Tanti in casa non ci voglio stare e, se non venissero qui, non riuscirei a immaginarmi molti altri posti dove possano passare il pomeriggio, almeno qui nel quartiere.”

    Al di là delle opposte retoriche, al di là dei rancori neo-nazistoidi, al di là delle facili utopie post-terzomondiste, non si sa come proseguirà l’incontro tra il proletariato bianco tedesco e quello migrante.

In una grande sala parlo con alcuni ragazzi, mentre dalle casse dello stereo viene sparato a tutto volume del rap tedesco. I sogni dei bambini del centro sono gli stessi ovunque: c’è chi vuole fare il calciatore e chi la pasticcera, chi vuole fare il bandito e chi il poliziotto. C’è la ragazzina che vuole fare la cantante e il ragazzino che non ha la più pallida idea di cosa farà domani mattina. Alcuni adolescenti rispondono scherzando, dicendo che da grandi vogliono prendere l’Hartz IV. Gli chiedo cosa sia l’Hartz IV, secondo loro. Due ragazzine che si stanno mettendo lo smalto sulle unghie mi rispondono quello che mi direbbe qualunque tedesco medio: “L’Hartz IV ce l’hanno quei bambini che hanno i genitori troppo pigri per lavorare”. “Esatto!” esclama un altro bambino. Mi guardo intorno. Se le statistiche su Marzahn Nord non sono sbagliate, quasi due bambini su tre vivono in una famiglia con il sussidio. Qualcuno di loro deve trovarsi anche qui, in questo stesso momento.

Poco dopo, conosco Paul e Max, 23 e 24 anni. Vengono al Betonia da quando sono piccoli e continuano a frequentarlo, ancora adesso. “Per me è stato molto importante venire qui, c’è sempre qualcuno con cui puoi parlare quando hai un problema” spiega Paul, “ancora adesso invece di starmene a casa quando non lavoro, vengo qua. Questo posto mi ha aiutato a muovere il culo, in questo quartiere la cosa importante è muovere il culo. A un certo punto c’è chi resta col culo per terra e chi lo muove. Io ho già fatto tanti lavori. Ora lavoro come guardia armata all’aeroporto”. Paul parla in modo molto sicuro, scandendo bene le parole. “Chi viene da fuori ha un po’ di pregiudizi su Marzahn. Ma anche io ho i miei pregiudizi, ad esempio su Neukölln. Là ci sono sempre disordini, a Capodanno hanno bruciato una macchina per festeggiare. Se succedesse qui, sarebbe sulle prima pagine di tutti i giornali.”

Quando spiego che anche io sono arrivato a Marzahn Nord sulle tracce dei pregiudizi, inclusi quelli politici, l’altro ragazzo, Max, ha voglia di parlarne: “Il centro rifugiati qui dietro non è mica bruciato. Non è mai successo niente. Certo, anche qui ci sono degli estremisti di destra, magari perché da ragazzini si sono presi qualche pugno di troppo da qualche straniero.” Malgrado la fermezza delle sue parole, Max parla con un tono molto gentile, sorridendo. Gli domando cosa pensa del successo dell’AfD? “Non significa a tutti i costi che la gente sia di estrema destra, anzi, guarda, non c’entra proprio niente. Nel senso, cosa dovrebbero votare? Cosa? Frau Merkel? Qua nessuno la vuole più vedere, scordatelo, scordatelo proprio. Spd? Mah, anche per loro non so proprio che senso abbia. La gente è frustrata, CDU e SPD sono al governo da venti anni. Tante persone da queste parti sono stufe di guadagnare poco mentre tutto diventa più caro. C’è chi vota la sinistra estrema, ma altri la Linke non la vogliono votare nemmeno per scherzo, perché la Linke significa anche SED, il vecchio governo della DDR, quindi lasciamo stare.”
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© Emmanuele Contini.

Calze di lana
Qualche giorno dopo, a inizio aprile, sono di nuovo sul tram 16. Mentre aspetto di arrivare all’ultima fermata, leggo l’ennesimo articolo sulla campagna elettorale del socialdemocratico Martin Schulz, l’ex Presidente del Parlamento Europeo che vuole ora spodestare Angela Merkel. Anche lui deve aver fatto qualche giro in posti simili a Marzahn Nord visto che, d’un tratto, i suoi temi preferiti sono diventati l’uguaglianza, la difesa dei diritti sociali e la protezione dei meno abbienti. Schulz è arrivato a promettere un improbabile smantellamento dell’Agenda 2010, una riforma che fu opera dell’ultimo Cancelliere socialdemocratico, Gerard Schröder, e che, piaccia o meno, è stata una delle pietre angolari del rilancio dell’economia tedesca.

Non si sa se questa riscoperta della questione sociale da parte dell’establishment politico riuscirà, sul lungo periodo, a contrastare l’etnicizzazione delle rivendicazioni dei più scontenti. Magari funzionerà per le prossime elezioni, ma i problemi potrebbero cominciare proprio dopo. Ora, oltre un milione di nuovi arrivati è in Germania e andrà ad aggiungersi a comunità immigrate la cui integrazione nel paese è tutt’altro che realizzata (o, secondo alcuni, tutt’altro che realizzabile). Al di là delle opposte retoriche, al di là dei rancori neo-nazistoidi, al di là delle facili utopie post-terzomondiste, non si sa come proseguirà l’incontro tra il proletariato bianco tedesco e quello migrante.

Una risposta convinta su come debba avvenire questo incontro, però, è certo di averla Matthias, un uomo corpulento sulla cinquantina, che a Marzahn Nord ho incontrato più volte. Matthias gestisce da anni la Spielplatzinitiative Marzahn, un’associazione che cura due terreni attrezzati su cui vengono organizzate numerose attività per i più piccoli e, molto spesso, si creano occasioni d’incontro tra i bambini locali e quelli dei centri di accoglienza.

Matthias mi ha invitato a una delle giornate ricreative che organizza. Tutto si svolge su uno dei due terreni, dove c’è un piccolo laghetto artificiale, un bivacco con il fuoco, una bella casetta circolare con la cucina e un forno in mattoni. Quando arrivo, il prato brulica di bambini: alcuni giocano a pallavolo, altri cavalcano due pony arrivati là non so come, altri ancora saltano su un grande elastico. Delle ragazze del posto e delle giovani ragazze curde hanno cucinato alcune pizze. “Sai quanti genitori all’inizio non vogliono far venire i bambini? Tanti. Poi dopo le prime volte capiscono che i rifugiati sono persone come loro e tutto diventa più facile”, mi spiega Matthias.

I bambini giocano in gruppi, non sono completamente mischiati, si riconoscono ancora bene i gruppetti dei ragazzini medio-orientali e quelli dei piccoli tedeschi. L’atmosfera è gioiosa. Matthias mi parla dei prossimi progetti, in maniera instancabile: mi spiega delle difficoltà oggettive, delle soddisfazioni, dei contrasti nel quartiere. Infine mi racconta un episodio: “Lo scorso inverno, una volta, siamo riusciti a far venire a un’iniziativa diverse madri rifugiate con i loro figli e, anche, un gruppo di madri che vivono in una serie di caseggiati qua dietro, persone molto ostili contro i migranti. Sono caseggiati dove vivono molti rappresentanti della comunità russo-tedesca, un sottogruppo etnico che prova un particolare astio per i musulmani, non c’è niente da fare. Tante di quelle mamme o dei loro mariti erano stati fisicamente in prima fila nelle proteste contro l’apertura dei centri di accoglienza. “Quando, però, si sono incontrate qua con le mamme siriane, afgane o irakene hanno parlato tutte insieme ed è venuto fuori che nel centro di accoglienza i pavimenti dei prefabbricati erano molto freddi e i bambini avevano sempre i piedi gelati. È andata a finire che le persone del posto hanno regalato svariate paia di calze di lana ai bambini rifugiati. Quando ho rivisto alcune di quelle persone gli ho chiesto se hanno cambiato almeno un po’ idea su chi sta nel centro di accoglienza. Loro mi hanno risposto che non si tratta di cambiare idea. Si tratta dei bambini.”
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 05, 2018, 01:45:24 am
Alcuni giorni fa un italiano residente a Berlino mi ha precisato ciò:

Citazione
Giusto quasi tutto, fino agli immigrati, chi va al Jobcenter, per legge ha gli stessi diritti e doveri del tedesco, i soldi pero li danno a chi ha lavorato un anno minimo in regola, non come una volta che ti bastava solo il permesso di soggiorno....... Ai migranti che vengono da Libia Siria etc. danno c.ca un 150€ in meno di uno che prende Hartz4 regolare ( 410€ c.ca)....e si chiamano asylant di solito.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Sardus_Pater - Gennaio 09, 2018, 12:32:38 pm
Arme Deutschland.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 11, 2018, 19:42:22 pm
https://www.ilfattoquotidiano.it/2015/08/28/laquila-e-la-piovra-il-racconto-di-un-poliziotto-italiano-in-albania-fra-trafficanti-e-politici-corrotti/1991057/

Citazione
“L’Aquila e la Piovra”, il racconto di un poliziotto italiano in Albania fra trafficanti e politici corrotti
di Mario Portanova   

PAGINE NERE - Libri su crimini veri italiani e no/ Il diario in presa diretta di Gianni Palagonia - nome finto di un investigatore vero - in servizio negli anni 2000 nell'ufficio di collegamento di Tirana. Le ragazze inghiottite nella tratta, il trafficante in visita a una grande discarica italiana, il ministro che viaggia su una Mercedes rubata in Germania. Ritratto criminale (e sentimentale) di un Paese molto vicino a noi
di Mario Portanova | 28 agosto 2015

Più informazioni su: Albania, Narcotraffico, Polizia, Traffico di Rifiuti, Traffico Esseri Umani

Le tragedie dell’immigrazione riportano all’attualità la questione delle mafie straniere, cresciute intorno ai nostri confini, terrestri e marittimi, soprattutto grazie al traffico di esseri umani e di droga. In “L’aquila e la piovra – Un poliziotto italiano in missione in Albania” (Edizioni CentoAutori, 319 pagine, 16,50 euro), Gianni Palagonia svela il dietro le quinte delle attività delle nostre forze dell’ordine in Paesi caldi. Palagonia è il “nome falso di un poliziotto vero” che ha già all’attivo due romanzi, in realtà esperienze di vita vissuta in cui nomi e circostanze sono alterate quanto basta per garantire la necessaria riservatezza. Senza concedere nulla a preziosismi stilistici Palagonia, siciliano, investigatore protagonista nella realtà di delicate inchieste antimafia e antiterrorismo, offre un racconto in presa diretta della sua esperienza nell’ufficio di collegamento tra polizia albanese e italiana a Tirana negli anni 2000. Leit motiv del libro è il classico dilemma dello sbirro tra rispetto delle regole e necessità di portare a casa risultati. O, più semplicemente, di evitare un omicidio annunciato, con gli scarsi margini di manovra sanciti dai protocolli bilaterali e dal divieto di portare armi in un Paese dove negli anni Novanta sono state saccheggiate le caserme e non sono pochi quelli che conservano in casa un Kalashnikov.

Naturalmente Palagonia si imbatte in tragiche storie di emigrazione, viste con gli occhi degli altri. Come le croci bianche intorno alla chiesa di Blinshit – tra le montagne del Nord, la parte più povera dell’Albania – dedicate alle “ragazze smarrite di Zadrima”. Cioè le ragazze rapite dai trafficanti per essere avviate alla prostituzione in Italia, di cui i familiari non hanno saputo più nulla. Il che ci ricorda dolorosamente che a volte i temuti barconi dell'”invasione” sono trainati più dalla domanda che dall’offerta. Ma non è questo l’unico business criminale tra le due sponde dell’Adriatico. Il poliziotto-scrittore racconta una rocambolesca indagine su uno dei più importanti trafficanti di droga albanesi, in contatto con la ‘ndrangheta, agganciato in palestra dalla squadretta di investigatori italiani e inzeppato di “cimici” in occasione di un suo viaggio in Italia. Anche qui i nomi sono finti, tranne uno, quello di Borgo Montello. A sopresa, questa piccola frazione del Comune di Latina è l’unica meta del viaggio del trafficante, oltre alla visita a una società che si occupa, guarda un po’, di impianti eolici. Borgo Montello è la sede della seconda discarica di rifiuti del Lazio, intrisa di veleni e misteri. Poi ci sono i criminali disorganizzati, ma pericolosi lo stesso. Come l’albanese residente in italia che via sms annuncia a un amico di essere tornato in patria a uccidere “quella puttana” della sue ex, colpevole di essersi trovata un altro un po’ troppo presto, dando adito al sospetto di corna pregresse. La ragazza in questione ringrazierà le intercettazioni telefoniche.

E’ la dura legge del Kanun, il codice d’onore tradizionale che regola in modo drastico le questioni d’onore e le vendette di sangue e priva le donne di qualunque diritto (eredità compresa). Palagonia racconta un’Albania dove il Kanun offre la griglia di “valori” alle organizzazioni criminali, la corruzione è capillare – la mazzetta è necessaria anche per ottenere le minime cure in ospedale -, politici e mafiosi vanno a braccetto, i poliziotti integri finiscono disoccupati, per chi ha le amicizie giuste la legge è un optional e la maggioranza degli onesti fa sforzi eroici per resistere e sopravvivere. E ‘ citato anche un ministro che viaggia su una “Mercedes rubata in Germania” con due mafiosi come guardaspalle, ma il “protocollo” in casi come questi non prevede interventi da parte dei nostri agenti. Di fronte a questa Albania il poliziotto italiano si stupisce. Ma fino a un certo punto.


LA FRASE. “Il controllo non lo vuole nessuno perché sarebbe una perdita enorme di denaro che serve comunque a muovere l’economia di un’intera nazione e a fare arricchire i soliti noti”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 11, 2018, 19:49:55 pm
http://www.repubblica.it/esteri/2017/02/19/news/albania_paura_furti-158678977/

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Albania, allarme rapine dopo l'ultimo colpo grosso all'aeroporto: pronte misure d'emergenza

Presa una banda armata dopo una spettacolare caccia all'uomo. Sarebbe la stessa che lo scorso giugno fece irruzione indisturbata nel settore partenze, bottino oltre 3 milioni. Bruxelles ammonisce che per un’adesione futura del paese all’Unione europea - obiettivo strategico del premier Rama – è necessaria una vittoria definitiva contro malavita e corruzione
di ANDREA TARQUINI

19 febbraio 2017

Allarme rapine in Albania, il governo annuncia misure d’emergenza. L’ultima vicenda evoca quasi i film con cui Hollywood narrò del crimine a Chicago e altrove in Usa ai tempi di Al Capone. Dopo una spettacolare caccia all’uomo durata in tutto dieci giorni, la polizia albanese ha arrestato i sei membri della banda che il 9 febbraio scorso aveva assaltato un furgone blindato portavalori non lontano dall’aeroporto della capitale Tirana, dunque in una delle zone del paese dove dovrebbe essere garantito il massimo livello di sicurezza.

I sei arrestati, secondo il capo della polizia, Ervin Hodaj, erano gli stessi che in dicembre avevano assaltato a mano armata e svaligiato un altro camioncino portavalori, sempre nei pressi dell’aeroporto. E nel giugno dell’anno scorso, alcuni gangster erano addirittura riusciti a entrare, armi in pugno, nella zona di sicurezza del lato partenze dello scalo rubando circa 3 milioni di euro. Mentre a ottobre un’altra banda – forse la stessa del colpo del 9 scorso contro il furgone - aveva svaligiato una gioielleria in pieno centro, facendo saltare un muro dell’edificio con una potente carica esplosiva.
       
L’ultima rapina è stata il caso più clamoroso, dicono le autorità citate dalla Reuters e dall’agenzia di stampa cinese Xinhua. Il 9 febbraio appunto i sei, armati fino ai denti, avevano bloccato il furgone portavalori della ditta privata ‘Jaguar security’, e senza alcun problema avevano rubato un totale di 3,2 milioni di euro in varie valute. Lo hanno assaltato speronandolo con due potenti auto, poi sparando coi mitra gli hanno messo fuori uso tutti i 4 pneumatici. Hanno agito con calma, per dieci lunghi minuti.

Gravi sospetti pesano sulle guardie a bordo del furgone, che a quanto pare non hanno tentato di opporre resistenza, e probabilmente anche su altri componenti dei corpi privati di vigilantes portavalori: "Sono pagati poco e male, non possono essere eroi", ha detto il ministro dell’Interno, Saimir Tahiri. La dinamica della rapina è sconcertante: durante l’assalto, le guardie private non avevano acceso il sistema Gps che ovunque, di solito, consente alla centrale di ogni ditta portavalori, in collegamento con la polizia, di localizzare i furgoni carichi di denaro e quindi di scoprire in tempo una rapina. Il dispositivo Gps, addirittura, era stato spostato: non si trovava vicino ai sacchi colmi di banconote, ma sotto uno dei sedili della cabina di guida.

E le telecamere di sicurezza a bordo del furgone erano spente. Tutte tranne una che ha filmato i dieci minuti della rapina, mostrando i gangster che con tutta calma caricavano sulle loro auto una decina di enormi sacchi pieni di valuta. Poi sono fuggiti, e in un villaggio poco lontano, per ironia in una strada chiamata ‘Via dei ladri’,  hanno dato le loro vetture alle fiamme continuando il loro viaggio con altri veicoli.

La ‘Jaguar security’ si è vista subito ritirare la licenza. E governo e alti gradi della polizia studiano con la Banca centrale e gli istituti di credito misure per migliorare le garanzie di sicurezza. Un’ipotesi operativa è di affidare il trasporto di valuta ad agenti delle forze dell’ordine o dei corpi speciali, evidentemente ritenuti più affidabili delle guardie private.
       
La caccia all’uomo è durata fino a stamane quando, afferma la Xinhua, la polizia ha arrestato Admir Murataj, il capobanda. Gli altri cinque erano caduti nella rete degli agenti martedì scorso. Uno di loro aveva lavorato per la compagnia portavalori, altri due erano ex commandos dell’esercito albanese con alto addestramento militare: avevano prestato servizio nel piccolo contingente inviato dal paese in Afghanistan nell’ambito delle operazioni Nato. L’associazione delle banche albanesi esprime allarme: proprio la strada che dalla capitale conduce all’aeroporto internazionale “Madre Teresa” dovrebbe essere una delle più sicure, perché spessissimo vi transitano furgoni portavalori.
       
La rapina all’interno dell’aeroporto era avvenuta, scrive la Xinhua, il 30 giugno scorso. Tre gangster armati erano riusciti a entrare nell’area di sicurezza del settore partenze, senza che nessuno tentasse di fermarli, e da banche e negozi avevano rapinato circa 3 milioni di euro. La rapina con l’esplosivo condotta contro la gioielleria era avvenuta in ottobre, ed era fruttata mezzo milione di euro. La polizia sospetta che i suoi autori siano gli stessi del colpo contro il furgone condotto appunto il 9 febbraio scorso nei pressi dell’aeroporto.
       
Dopo mezzo secolo di spietata dittatura stalinista guidata da Enver Hoxha, che fu brutale e isolata dal mondo un po’come la Corea del Nord, l’Albania ha fatto dapprima lenti passi avanti verso una normalizzazione. Da quando Edi Rama, prima popolare sindaco-rinnovatore di Tirana, è diventato premier, riforme, modernizzazione e sviluppo economico hanno compiuto grandi progressi. Ma per un’adesione futura all’Unione europea – obiettivo strategico di Rama – è necessaria, come ammonisce Bruxelles, una vittoria definitiva contro malavita e corruzione.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 20, 2018, 19:04:32 pm
http://www.eastjournal.net/archives/87934

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ROMANIA: Prima donna premier. Ma c’è poco da festeggiare
Francesco Magno 2 giorni fa   

Il presidente della Repubblica Klaus Iohannis ha accettato la proposta socialista: Viorica Dăncilă sarà il nuovo primo ministro del paese. La Dăncilă, 54 anni, è attualmente europarlamentare del partito social-democratico (PSD). E’ nata a Videle, nella provincia di Teleorman; stessa città di cui è originaria Carmen Dan, il ministro degli Interni che l’ex premier Tudose voleva a tutti i costi allontanare dal suo governo. Teleorman è poi la provincia di Liviu Dragnea, il territorio che il padre padrone del partito governa indisturbato da vent’anni e da cui ha iniziato la sua scalata verso i palazzi del potere di Bucarest.


Leggendo la stampa occidentale, spesso tristemente offuscata dalla sindrome del politically correct, il sesso del nuovo primo ministro sembra offuscare il suo background politico. La Dăncilă non vanta infatti grandi realizzazioni; presidente dell’associazione femminile del PSD e due volte europarlamentare, essa non possiede alcun tipo di esperienza nell’amministrazione del paese. Il suo curriculum non riporta la conoscenza di lingue straniere, sebbene Dragnea sostenga la sua piena padronanza dell’inglese e del francese. Molti commentatori sostengono che la scelta sarebbe caduta su di lei dopo i rifiuti di altri più autorevoli membri del partito, tra cui spiccano il premier a interim Mihai Fifor e, soprattutto, il sindaco di Bucarest Gabriela Firea, da molti accreditata come una delle possibili sfidanti di Klaus Iohannis alle elezioni presidenziali del 2019.

La Dăncilă non ha mai nascosto la vicinanza al suo conterraneo Dragnea. Quest’ultimo, dopo due primi ministri “troppo indipendenti” ha optato per una persona fedele e ligia alle direttive del partito. E’ difficile credere che il nuovo premier arriverà allo scontro frontale con il presidente del PSD così come hanno fatto Grindeanu prima e Tudose poi. Nel febbraio 2017, quando Bucarest divenne teatro delle grandi proteste di piazza, la Dăncilă difese strenuamente a Bruxelles la modifica delle leggi sulla giustizia promossa dal suo partito, rispondendo piccata ad altri europarlamentari che dubitavano della bontà di suddette normative. Non sarebbe sorprendente pertanto vedere un nuovo tentativo di modifica della legislazione anti-corruzione, favorito questa volta dalla presenza di un primo ministro accondiscendente.

Perché Iohannis ha accettato la proposta di Dragnea? Il presidente ha agito pensando prima di tutto al suo tornaconto politico. Diventare adesso l’arbitro della vita politica romena, nominando un governo di unità nazionale o trascinando il paese verso le elezioni anticipate, lo avrebbe posto troppo sotto i riflettori. Un rischio molto grosso, a un anno dalle elezioni presidenziali. Iohannis ha scommesso sull’autodistruzione del PSD, falcidiato dalle lotte interne, il che gli garantirebbe una facile rielezione nel 2019. Senza contare il fatto che l’instabilità provocata dall’assenza di un governo forte potrebbe avere effetti gravissimi sull’economia romena.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 20, 2018, 19:09:44 pm
http://www.eastjournal.net/archives/87892

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KOSOVO: Ucciso Oliver Ivanovic, uno dei maggiori leader della comunità serba
Riccardo Celeghini 4 giorni fa   

Oliver Ivanović, uno dei maggiori leader politici dei serbi del Kosovo, è stato ucciso questa mattina a Nord Mitrovica. L’omicidio è avvenuto di fronte alla sede del suo partito, Građanska inicijativa “Srbija demokratija pravda”, dove Ivanović è stato raggiunto da cinque colpi di pistola. Alla notizia, il governo serbo ha annullato il previsto incontro di oggi a Bruxelles con la delegazione kosovara – parte del dialogo tra Kosovo e Serbia sotto la tutela dell’Unione Europea. Il capo dell’Ufficio per il Kosovo e Metohija del governo serbo, Marko Đurić, ha definito l’omicidio un atto criminale e terroristico, nonché un attacco a tutto il popolo serbo. Il governo kosovaro ha condannato con fermezza l’omicidio.

Di ritorno da Bruxelles, il presidente della repubblica Aleksandar Vučić, ha convocato per mezzogiorno una sessione straordinaria del Consiglio di Sicurezza Nazionale, alla quale è seguita la conferenza per i giornalisti alle 13. Alla conferenza, Vučić ha confermato che si tratta di un attentato terroristico contro tutto il paese e che i responsabili verranno consegnati alla giustizia.
Il presidente ha poi approfittato della presenza dei media per condannare le speculazioni pubblicate sui social poco dopo la conferma della morte di Ivanović, e per affermare che queste provengono da coloro che vorrebbero che “lo stivale albanese calpesti il nord del Kosovo”. Inoltre, Vučić ha fatto riferimenti diretti ai suoi oppositori politici, tra cui Saša Janković e Dragan Đilas, per difendersi dalle accuse di tradimento della questione kosovara.

Ivanović è stata una delle figure preminenti della comunità serba in Kosovo negli ultimi venti anni. La sua carriera politica inizia negli anni della guerra, quando diventa presidente del Consiglio Nazionale Serbo per il Nord Kosovo e Metohija. Da allora è emerso come uno dei leader più dialoganti del nord Kosovo, spendendosi come interlocutore sia con le organizzazioni internazionali che con le istituzioni di Pristina, divenendo deputato nel parlamento kosovaro. La sua carriera subisce una svolta nel 2014, quando viene arrestato, tra le proteste della Serbia, con l’accusa di crimini di guerra commessi a danno di albanesi durante il conflitto. Nel 2016 Ivanović viene condannato a 9 anni di detenzione, ma un anno dopo il verdetto viene annullato dalla Corte di Pristina, che ordina un nuovo processo. Durante la detenzione, Ivanović concorre alla carica di sindaco di Mitrovica Nord nelle elezioni locali del 2014, dove viene sconfitto da Goran Rakić, candidato della Lista Serba, il partito sostenuto dal governo di Belgrado. La sfida si ripete alle elezioni locali del 2017, quando Ivanović viene nuovamente sconfitto da Rakić al primo turno.

Proprio la decisione di opporsi al partito controllato dal governo di Belgrado è costata ad Ivanović un progressivo isolamento all’interno del panorama politico della comunità serba in Kosovo. Durante l’ultima campagna elettorale, Ivanović ha denunciato un clima di intimidazioni e minacce contro di lui e contro il suo partito da parte della Lista Serba. Nei mesi che hanno preceduto le elezioni quattro candidati di Iniziativa si sono ritirati in circostanze poco chiare e lo stesso Ivanović ha trovato molte difficoltà nell’accedere ai media serbi in Kosovo.

Questa situazione lascia presupporre che dietro all’omicidio ci possano essere regolamenti di conti all’interno della leadership politica serba del Kosovo, che da sempre è contrassegnata da violenze, aggressioni e minacce di diversa natura. D’altro canto, anche l’opzione di un omicidio interetnico non può essere scartata. Le accuse che pesavano su Ivanović erano particolarmente pesanti, tra cui l’aver orchestrato un’operazione di espulsione ed uccisione della popolazione albanese che viveva nel lato nord di Mitrovica, in qualità di leader di un’unità paramilitare in azione durante il bombardamento della Nato sulla Serbia di Slobodan Milosević. Nonostante si sia dichiarato sempre innocente, dunque, i nemici nel campo albanese non mancano.

Quel che è certo è che l’uccisione di un politico di tale livello rischia di avere delle ripercussioni pesanti nell’equilibrio inter-etnico e politico del Kosovo. In un momento di crescente tensione, dovuta all’attesa dei primi rinvii a giudizio della Corte Speciale per i crimini commessi dall’UÇK, l’Esercito di Liberazione del Kosovo, l’omicidio di Ivanović getta nuove ombre sul futuro del Kosovo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Hector Hammond - Gennaio 27, 2018, 16:49:18 pm
Non esistono paradisi sulla Terra, ma Paesi in declino e Paesi in ascesa (o in recupero). Nel lungo periodo meglio vivere nei secondi.
L'Europa il declino se l'è imposto, pure tramite il femminismo  :sick:  :cry: .
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 05, 2018, 19:32:10 pm
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ARMENIA: Non è un paese per bambine. Il dramma degli aborti selettivi

Emanuele Cassano 6 giorni fa   

L’Armenia è il secondo paese al mondo per tasso di aborti selettivi, a causa dell’ossessiva ricerca di figli maschi. Un approfondimento

Mariam, 31 anni, è madre di due bambine ed è originaria della regione di Armavir, Armenia occidentale. Anche dopo la nascita della seconda figlia, ha continuato a inseguire il suo sogno, avere un maschio, affidandosi ad un calcolo di probabilità. Ma non appena saputo di essere rimasta incinta e che si sarebbe trattato di un’altra femmina ha scelto di ricorrere all’aborto. “Mi sento colpevole di aver preso questa decisione, ma continuo a sperare di avere un figlio maschio un giorno. Non voglio scoprire ancora una volta che si tratta di una femmina e abortire di nuovo, non posso… Continuo a ripetermi che la prossima volta sarà quella buona”.

Spesso, in Armenia, molte donne come Mariam ricorrono alla pratica dell’aborto selettivo – spesso spinte in questo dal marito o dalla famiglia – per assicurarsi figli maschi, mettendo però a serio rischio la loro salute e lo stesso equilibrio demografico del paese.

Tra i primi al mondo per tasso di aborti selettivi

Secondo il 2016 Global Gender Gap Report, l’Armenia è il secondo paese al mondo per tasso di aborti selettivi, dietro solo alla Cina. Come ricorda Garik Hayrapetyan, rappresentante di UNFPA Armenia – agenzia Onu che si occupa di politiche famigliari – il sesso del feto è alla base del 10% di tutti gli aborti indotti effettuati nel paese caucasico, dove ogni anno circa 1.400 nascite femminili vengono interrotte. Il problema degli aborti selettivi è emerso in seguito all’indipendenza del paese, negli anni Novanta, sebbene in Armenia l’aborto venisse largamente praticato come metodo contraccettivo fin dall’epoca dell’Unione Sovietica (il primo paese a legalizzare l’aborto, nel 1920).

Questo problema non riguarda solo l’Armenia, ma è comune a tutto il Caucaso, come conferma la presenza nelle prime dieci posizioni della classifica dei paesi con il più alto tasso di aborti selettivi dell’Azerbaijan (al 5° posto) e della Georgia (all’8°).

Secondo un rapporto di UNFPA Armenia del 2013, il paese ha inoltre il terzo più alto livello di mascolinità alla nascita osservato nel mondo, e una sex ratio tale per cui per ogni 114-115 maschi nascono solo 100 femmine (la media mondiale è di 105 maschi per 100 femmine). Questa stessa ricerca dimostra come il divario aumenti progressivamente a seconda dell’ordine di nascita: mentre il rapporto tra sessi è relativamente equilibrato per la prima nascita, esso aumenta a 173 maschi per 100 femmine al terzo figlio.

Quali sono le cause di questo fenomeno?

Per Ani Jilozian, attivista presso il Women’s Support Center di Yerevan, questo squilibrio è dovuto principalmente a tre fattori tra loro correlati. Il primo è la preferenza verso i figli maschi, che deriva da una struttura familiare in cui le ragazze e le donne hanno un ruolo sociale, economico e simbolico marginale, e di conseguenza godono di meno diritti. I figli maschi garantiscono inoltre una sicurezza per ogni famiglia, in quanto hanno il compito di prendersi cura dei propri genitori e assisterli nel corso della loro vecchiaia, poiché le donne, una volta sposate, vanno solitamente a vivere presso la famiglia del marito. Un secondo fattore è lo sviluppo tecnologico applicato alla diagnostica prenatale, che ha permesso ai genitori di conoscere il sesso del bambino ancor prima della nascita. L’ultimo fattore è la bassa fertilità (in media ogni donna armena partorisce 1,7 figli), che riduce la probabilità di avere un figlio maschio nelle famiglie più piccole aumentando di conseguenza la necessità di selezionare il sesso.

Sebbene una statistica di UNFPA Armenia (2012) stabilisca che nel 70% dei casi siano le donne a scegliere di abortire, non sempre esse sono messe in condizione di prendere questa decisione in piena autonomia. Secondo uno studio qualitativo condotto da Ani Jilozian, basato su una serie di interviste realizzate con alcune donne che hanno fatto ricorso all’aborto selettivo, la maggioranza delle intervistate, pur rivendicando inizialmente la decisione di abortire, ha successivamente ammesso che la scelta è stata di fatto indotta dalla forte volontà del marito o della sua famiglia di avere un figlio maschio. Talvolta sono gli stessi mariti a prendere la decisione per la moglie, ricorrendo in molti casi anche a pressioni psicologiche.

Una legislazione inefficace

Secondo la legge armena una donna può effettuare un aborto fino alla 12ma settimana di gravidanza, periodo nel quale il sesso del feto non può ancora essere determinato, il che dimostra come la maggior parte degli aborti selettivi siano illegali e rischiosi. Solo il 57% delle donne è però al corrente dell’illegalità di questo processo e dei rischi che esso comporta.

Recentemente il governo armeno ha introdotto una nuova legge per combattere il fenomeno degli aborti selettivi. Secondo la nuova norma, prima di poter effettuare un aborto, una donna deve partecipare a una sessione di consulenza con il proprio medico, e successivamente aspettare tre giorni prima di ricevere l’autorizzazione per l’intervento. Secondo il governo armeno questa legge dovrebbe aiutare a sensibilizzare le donne sui rischi che comporta l’aborto e a metterle nella condizione di riflettere meglio.

Come spiega però Ani Jilozian, questa legge è inadeguata, in quanto limita la libertà riproduttiva della donna e ne mette a rischio la stessa salute. Dichiarare illegali gli aborti selettivi non è una soluzione che può combattere efficacemente il problema, in quanto non elimina le cause principali di questa preferenza sessuale, le quali sono profondamente radicate nella società patriarcale armena. Il tentativo di limitare l’accesso all’aborto senza affrontare le principali cause della preferenza del sesso potrebbe quindi finire per provocare una maggiore domanda di aborti illegali o non sicuri, in particolare per le donne provenienti dalle comunità più emarginate.

Inoltre, seppure negli ultimi anni in Armenia il numero di aborti selettivi sia in leggera diminuzione, secondo alcune proiezioni, se nel lungo periodo questo fenomeno non verrà adeguatamente contrastato, entro il 2060 in un paese di soli tre milioni di abitanti verranno a mancare circa 93.000 donne, ovvero il 3% dell’attuale popolazione totale. Questo causerebbe un conseguente processo di emigrazione di una parte della popolazione maschile, destinata ad andare in cerca di una partner al di fuori del paese, mettendone a rischio l’equilibrio demografico.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 05, 2018, 19:35:30 pm
http://www.eastjournal.net/archives/88036

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POLONIA: Le donne tornano in piazza per il diritto d’aborto

Paola Di Marzo 7 giorni fa   

Dopo poco più di un anno dalle imponenti manifestazioni note come Czarny Protest, “protesta in nero“, contro la criminalizzazione e il divieto totale d’aborto proposto dal partito di governo Diritto e Giustizia (PiS), le donne polacche sono tornate in piazza sfilando nelle principali città del paese col sostegno del piccolo “Podemos polacco”, il movimento Partia Razem.

Il tentativo di liberalizzare l’aborto

Stavolta, però, a scatenare la rabbia dei manifestanti è stata proprio l’opposizione in Parlamento per non aver assicurato sufficienti voti alla proposta di liberalizzare la legge sull’aborto, alla Camera per una prima lettura il 10 gennaio. Infatti, 29 deputati di Piattaforma Civica (PO), il principale partito d’opposizione, si sono astenuti e tre hanno votato contro incorrendo nell’espulsione dal partito come capitato a altri tre parlamentari del liberale Nowoczesna. Ha sorpreso, invece, il voto a favore di 58 deputati di PiS. L’oggetto della disputa è stata la proposta chiamata “Salviamo le donne” che prevedeva tra altre ipotesi per così dire “minori” (introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole, vendita della pillola del giorno dopo senza prescrizione medica) il diritto d’aborto senza restrizioni fino alla 12° settimana. Secondo quanto stabilito da una legge in vigore dal 1993, questa pratica ad oggi è esercitata solo nei casi in cui la vita della madre sia a rischio, la gravidanza sia frutto di stupro o incesto, oppure il feto sia gravemente malformato.

L’opposizione in parlamento lascia sole le donne

“L’opposizione ci ha abbandonato e ha perso fiducia e credibilità ai nostri occhi” ha dichiarato a East Journal Zofia Marcinek, studentessa di Varsavia e attivista su questo fronte dal 2016. “Mentre Razem condivide le nostre battaglie e ci ha sempre sostenuto nonostante gli sforzi siano limitati in quanto forza extra-parlamentare, il comportamento di PO e Nowoczesna è indicativo della distanza tra i partiti e i cittadini. Una volta eletti, i politici, abituati alla deferenza e a critiche blande, non si sentono più responsabili delle loro azioni e alcuni non ne prevedono nemmeno le conseguenze visto che conserveranno sempre la poltrona, almeno per questa legislatura. Nowoczesna, però, sta tentando di correre ai ripari promuovendo una proposta di legge simile alla nostra. Non è perfetta ma è già qualcosa. Non ci ha stupito invece il comportamento di PiS. Già in campagna avevano promesso che non avrebbero mai rigettato un’iniziativa cittadina al primo colpo e così è stato. Inoltre, anche se il loro obiettivo è un divieto totale, sanno che molti polacchi non sono d’accordo. A metà mandato assumersi un rischio del genere non sarebbe saggio. Anche in passato hanno fatto così: quando le elezioni si avvicinano, le loro misure si fanno meno drastiche e cambiano alcune personalità chiave, mentre altre si defilano”.

Ulteriori restrizioni in arrivo?

Nella stessa seduta del 10 gennaio, mentre la proposta “Save the Women” veniva rigettata, è avvenuta la prima lettura del progetto “Stop Abortion”, presentato dalla Fondazione “Vita e Famiglia” e approvato per un ulteriore riesame. Il disegno prevede la proibizione dell’aborto in caso di malformazioni fetali. I medici che non rispetteranno il divieto incorreranno in sanzioni penali.

Secondo le statistiche ufficiali del governo, nel 2016 sono stati effettuati 1088 aborti legali in Polonia, di cui 1042 dovuti a insufficienza irreversibile o malattia fetale incurabile. Ciò significa che alla luce dei cambiamenti che potrebbero arrivare, circa il 95% di queste donne lo farebbe illegalmente, e i medici che hanno eseguito questa procedura sarebbero esposti a accuse penali. “Già oggi le restrizioni all’aborto sono più severe che sulla carta” ci dice Zofia. “Molti dottori sono obiettori, altri pensano che praticandolo si farebbero brutta pubblicità. Così, in molti Voivodati diventa veramente impossibile esercitarlo. Alcune donne non vengono nemmeno informate sulle patologie fetali per evitare che ricorrano all’aborto”

In base alle le stime di varie organizzazioni non governative, il numero di aborti clandestini è compreso tra gli 80 e i 190 mila l’anno. Se la legge venisse approvata, questi numeri non farebbero che aumentare. Secondo un reportage del The Guardian, in Polonia l’aborto illegale costa quasi 895 dollari e per questa ragione sono molte le donne che decidono di recarsi all’estero, specie in Slovacchia dove la cifra media si aggira attorno ai 380 euro.

Il governo cambia il pelo ma non il vizio

Nonostante il rimpasto governativo delle scorse settimane e la messa in piedi di un esecutivo più moderato, non dovrebbero esserci passi in avanti al riguardo. Il nuovo ministro della Salute, Lukas Szumowski, è tra i 4000 dottori polacchi che hanno firmato una dichiarazione di fede impegnandosi a non partecipare “all’aborto, eutanasia, contraccezione, inseminazione artificiale, e fecondazione in vitro” per non violare i dieci comandamenti. Da quando al governo, il partito di Diritto e Giustizia ha messo fine ai finanziamenti per la fecondazione in vitro e sottoposto la pillola del giorno dopo a prescrizione medica, diversamente da quanto avveniva in passato. A ottobre dello scorso anno, alcune ONG polacche, attive nella protezione dei diritti delle donne e nel sostegno alle vittime di violenza domestica, hanno subito un raid della polizia che ha sequestrato documenti, hard disk, e computer. L’incursione avrebbe fatto parte di un’indagine sui finanziamenti stanziati dal Ministero della Giustizia nella precedente legislatura, ma le organizzazioni oggetto non hanno concordato sui modi, affermando che si sarebbe trattato di velate minacce per il mancato rispetto della linea di governo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 07, 2018, 20:29:18 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Italiani-in-Albania-diamo-i-numeri-185892

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Italiani in Albania: diamo i numeri

Da anni i media italiani ripetono che 19.000 italiani vivono e lavorano in Albania. Ma secondo il ministero degli Interni albanese sono meno di 2.000. Come si spiega una differenza simile?
06/02/2018 -  Nicola Pedrazzi   

19.000. Che sia in articoli , in trasmissioni televisive o in semplici esternazioni social , quando si parla della migrazione italiana in Albania quella è la cifra che ci siamo abituati a riportare.

Ma dove e quando nasce questo numero? E soprattutto: chi l’ha mai verificato? Se l’affascinante narrazione dell’”inversione dei flussi” si è da tempo affermata nel giornalismo italiano, il primo articolo che si è azzardato a quantificare il fenomeno risale all’ottobre 2014: venne pubblicato online, con virale riscontro, dal Corriere della Sera. La fonte, che l’articolista riporta accuratamente tra virgolette, è albanese: si tratta di Erion Veliaj, al tempo ministro del Welfare, oggi sindaco di Tirana. Questo il passaggio: “’Nel nostro paese vivono e lavorano 19 mila italiani’, calcola Erion Veliaj, ministro albanese del benessere sociale e della gioventù nel governo socialista guidato da Edi Rama. Numeri che, al netto degli imprenditori, dei rappresentanti diplomatici e degli studenti iscritti ai corsi di medicina all’Università Cattolica Nostra Signora del Buon Consiglio, indicano in 15-16 mila quelli che hanno un contratto di lavoro dipendente”.

Ora, come ricorda lo stesso articolo del “Corriere”, similmente a quanto accade in Italia per tutti i cittadini provenienti da paesi extra Schengen, anche in Albania gli stranieri che vogliano rimanere nel paese per più di tre mesi consecutivi sono obbligati a richiedere il permesso di soggiorno: per motivi di lavoro, di studio o di ricongiungimento famigliare. Detto altrimenti, eccezion fatta per i diplomatici, un italiano che lavori o studi stabilmente in Albania ha il dovere di presentarsi presso la questura albanese e di dimostrare di essere in possesso dei requisiti previsti dalla legge. Ne sanno qualcosa i pensionati italiani che sognano un economico (e detassato) riposo oltre Adriatico, e il cui progetto spesso si scontra con lo stato albanese , che alla pari di altri stati del mondo non considera un reddito da pensione un criterio sufficiente alla concessione del diritto di risiedere sul proprio territorio.
I dati ufficiali del ministero degli Interni albanese

Stiamo dunque alla legge albanese: se è vero che 19.000 cittadini italiani “vivono e lavorano” in Albania, 19.000 cittadini italiani devono aver richiesto e ottenuto un permesso di soggiorno dalle autorità. È qui che casca l’asino, perché stando all’ultimo rapporto pubblicato congiuntamente dal ministero degli Interni e dal ministero del Welfare albanese (il dicastero che fu di Veliaj), nel 2016 i cittadini stranieri con permesso di soggiorno erano 8692, tra cui solamente 1694 italiani. Sempre secondo il rapporto, al 1° gennaio 2017 si contavano sul suolo albanese 12.519 cittadini stranieri, pari allo 0,4% della popolazione. Tra questi 1854 italiani, ovvero qualche centinaio in più dei detentori di permesso di soggiorno annuale, ma meno di un decimo di quelli celebrati sui nostri giornali. Insomma, la “carica dei 19.000” descritta dal “Corriere” nel 2014 non si raggiunge nemmeno sommando agli italiani tutte le nazionalità straniere presenti in Albania nel 2017: 3954 turchi, 719 kosovari, 331 cinesi, 184 siriani….

In conclusione e a scanso di equivoci: che i cittadini italiani attualmente presenti in Albania siano di più dei permessi di soggiorno rilasciati dalla questura è probabile e presumibile. I casi sono molteplici: ci sarà, ad esempio, chi pendola tra i due paesi, o chi semplicemente il permesso non l’ha richiesto. A voler essere completi, in Albania vivono anche "albanesi di ritorno" provvisti di cittadinanza italiana. Vogliamo contare anche loro? Il problema è che qualunque criterio si scelga per approssimare per eccesso, quel 19.000 rimane incompatibile con l'ordine di grandezza indicato dai dati ufficiali.
Una “fake news” a fin di bene?

Se non siamo disposti a credere che il ministero degli Interni albanese pubblichi dati falsi, e se non siamo disposti a credere che in Albania risiedano illegalmente, senza permesso di soggiorno, più di 17.000 italiani, una sola conclusione rimane a nostra disposizione: nel 2014 Erion Veliaj ha diramato numeri esagerati, cui importanti testate italiane hanno fornito per anni una grancassa di pregio, senza mai verificarli. Perché?

Le motivazioni di Veliaj sono comprensibili: nel maggio 2014, quando per la prima volta ha dato in pasto all’ANSA il fatidico “19.000”, era a Roma per incontrare l’omologo ministro Poletti. Il suo obiettivo era quello di avviare i negoziati per un accordo sul mutuo riconoscimento delle pensioni, un problema “storico” delle relazioni italo-albanesi, perché se un cittadino albanese lascia l’Italia prima di avere maturato la pensione perde tutti i contributi che ha versato (ad oggi l’accordo tra i governi continua a mancare). Alla luce del saldo migratorio albanese, Veliaj aveva dunque tutto l’interesse a gonfiare i dati sugli italiani in Albania, al fine di crearsi un appiglio negoziale: riconoscete i contributi versati dagli albanesi, noi riconosceremo i contributi versati dagli italiani. Se la “bugia a fin di bene” nasce in quel contesto, la sua resistenza nel tempo si deve però a una ragione più profonda. L’idea di un’Albania nuova, ambita e desiderata proprio da chi, per decenni, ha associato l’Albania ai gommoni, è un guizzo di marketing in linea con la propaganda dei governi Rama: una strategia mirata al rinnovamento dell’immagine internazionale del paese e indirizzata tanto agli imprenditori stranieri quanto agli albanesi della diaspora, che grazie a questa politica godono finalmente di uno stereotipo positivo – e che un giorno, forse, potranno sdebitarsi votando dall’estero, proprio come propone la maggioranza socialista.
Gli albanesi e il voto estero

A fronte di 2.9 milioni di residenti nel paese (maggiorenni e minorenni insieme) risultano iscritti nelle liste elettorali albanesi 3.5 milioni di aventi diritto. Data la consistenza della diaspora albanese e considerando che alle scorse elezioni ha votato solamente 1 milione e mezzo degli aventi diritto, è evidente che la concessione del voto estero non è una questione tecnica ma politica. Nel momento in cui venisse concesso, e soprattutto nel caso in cui non si optasse per un meccanismo “all’italiana” (riservando ai residenti all’estero un numero limitato di seggi), il consenso del mezzo milione di albanesi residenti in Italia acquisirebbe un peso notevole sulla competizione elettorale in patria. Ecco perché i politici albanesi curano la loro immagine estera ed ecco perché già oggi le attenzioni che la stampa italiana dedica ai politici albanesi non sono politicamente innocue (si consideri poi che in Albania l’italiano è una lingua ancora molto diffusa).

Più difficile da comprendere sono le cause della credulità italiana. Con l’eccezione del portale EXIT – che pubblica anche in italiano , ma che è registrato a Tirana – al di qua del mare nessuna voce ha criticato le cifre provenienti dalla politica albanese, sebbene i dati dell’AIRE fossero di per sé già molto eloquenti: come ricordato dall’ambasciatore d’Italia Alberto Cutillo , gli italiani che al 1° gennaio 2017 hanno dichiarato di risiedere in Albania sono 1385 . Evitando di tirare in ballo il deterioramento della nostra politica e del nostro giornalismo – un problema più ampio del singolo episodio – l'incredibile leggerezza con cui in Italia abbiamo dato credito a un numero senza riscontri poggia nel caso specifico su due difetti tipici della relazione italo-albanese: lo spensierato disinteresse di parte italiana nei confronti dell’“Albania reale” (un paese di cui ci siamo sempre occupati tanto, ma a partire da noi stessi e dalle nostre emozioni, senza porci il problema di comprenderlo, né al tempo del fascismo, né al tempo del comunismo, né al tempo della democrazia); e per converso l’inamovibile importanza simbolica che l’”Albania dei migranti” ricopre nell’immaginario collettivo italiano. Ecco perché, per raccontare la nostra crisi (e non i progressi albanesi) siamo ricorsi volentieri alla barzelletta de “gli albanesi ora siamo noi ”. Un parallelo che non conosce il rispetto per la storia che evoca e che uno scaltro politico albanese, a quanto pare esperto conoscitore della mentalità dei suoi vicini, è stato lieto di suggerire, nella certezza che l’avremmo bevuto.
Un’amicizia retorica

Sia chiaro: l’immigrazione italiana in Albania rimane una novità degna di nota. È vero che la nostra imprenditoria frequenta assiduamente il paese, è vero che aerei per Tirana decollano tutti i giorni dai principali aeroporti italiani, è vero che ogni anno decine (centinaia? Qualcuno conosce le cifre esatte?) di studenti che non superano il test nazionale di medicina si iscrivono alla Buon Consiglio, è vero che il turismo italiano è in aumento esponenziale, è vero che dopo il terremoto un ristoratore de L’Aquila si è rifatto una vita a Tirana; insomma è vero che l’Adriatico di oggi è un confine poroso, soprattutto se pensiamo ai tempi della cortina di ferro e del regime enveriano. È tutto vero, e se si vuole dare a questa novità un giudizio di valore, ben venga: è tutto “positivo”! Tuttavia, nessun dato ufficiale ci consente di affermare che 19.000 italiani “vivono e lavorano” stabilmente in Albania. Continuare a ripeterlo è umiliante nei confronti della nostra professione, mentre sul piano politico non migliora le relazioni tra i due paesi, non contribuisce alla conoscenza dell’Albania in Italia, non abbatte gli stereotipi, non fa onore agli albanesi e non li aiuta a stare meglio dopo decenni di difficoltà – per la cronaca, il disagio e la migrazione albanese non sono finiti, basta dare uno sguardo alle richieste d’asilo in Europa.

È triste ammetterlo, ma questa retorica amicizia italo-albanese, vuota e improvvisata come le cifre con cui la raccontiamo, serve più che altro a dare un po’ di ossigeno mediatico ai governanti dell’altra sponda: politici in difficoltà nonostante la bella immagine che vendono agli albanesi che in Albania non ci vivono più, “amici” che in questa fase cruciale del cammino europeo avrebbero tanto bisogno di un serio partner adriatico, ma cui negli ultimi tempi l’Italia riserva soltanto selfie e falsi entusiasmi . Viene il serio dubbio che ciò accada anche perché non abbiamo molto di meglio da offrire.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 07, 2018, 20:37:05 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Quanti-albanesi-in-Italia-Sembra-facile-dirlo-eppure-181428

Citazione
Quanti albanesi in Italia? Sembra facile dirlo, eppure...

Più che letti e citati, i numeri andrebbero interpretati. Anche quelli riguardanti gli albanesi in Italia, una delle più "antiche" comunità immigrate del nostro paese. Un commento-glossario utile a fare un po' di chiarezza
25/08/2017 -  Rando Devole   

Nell'epoca digitale, quando le statistiche sembrano a portata di click, quando i numeri vengono sbattuti in prima pagina come mostri, quando le percentuali si inseguono come cani arrabbiati dalle proprie code, quando le diapositive ballano con la coreografia del PowerPoint, rispondere ad una domanda su quanti siano gli albanesi in Italia, sembra un gioco da ragazzi.

Allora, quanti sono gli albanesi in Italia? In risposta a questa domanda si ascoltano le risposte più strampalate. D'altronde, stando alla rappresentazione mediatica si direbbe che gli immigrati in Italia siano il doppio degli italiani. Il problema sta nella domanda. Quanti sono chi? Albanesi? Ma quali albanesi? I cittadini albanesi? Ecco, qui cominciano i guai...
Cittadinanza e nazionalità

Quando diciamo “albanesi”, intendiamo i cittadini albanesi o di nazionalità albanese? Perché la cittadinanza è un concetto giuridico. È uno "specifico vincolo giuridico tra un individuo e il suo stato di appartenenza, acquisito per nascita o naturalizzazione, tramite dichiarazione, per scelta, matrimonio o altre modalità, a seconda della legislazione nazionale", spiega il glossario della Commissione europea. Lo stesso glossario che ci ricorda una distinzione vecchia, ossia tra la cittadinanza e la nazionalità, sebbene i due termini vengano spesso usati come sinonimi. In verità, il mondo è pieno di paesi multietnici, con dentro diverse provenienze.

Ma perché ci offrono statistiche diverse? Per esempio, secondo l'Istat, al 1° gennaio 2016, in base ai dati forniti dal ministero dell’Interno, in Italia erano regolarmente soggiornanti 482.959 albanesi. Perfetto, tutto chiaro. Ma allora come mai, lo stesso Istituto scriveva poco prima che alla stessa data risiedevano 467.687 albanesi? Perché sono di meno? Qual è il numero giusto? Dove sono spariti gli altri albanesi? Che facciamo, diamo i numeri così, a caso?

In realtà, serve solo un po’ di attenzione e il rebus statistico si risolve da sé. Il fatto è che sono tutti cittadini albanesi, ma qualcuno ha la residenza, e quindi rientra nella categoria dei “residenti”, qualcun altro è soggiornante, in quanto semplicemente titolare di permesso di soggiorno. Anche le fonti dei dati sono diverse. Certamente, vivono tutti in Italia, ma non vanno sommati se no raddoppiano!

Chi volesse approfondire ulteriormente, potrà divertirsi con la definizione dell'Istat secondo cui "i cittadini non comunitari regolarmente soggiornanti sono tutti gli stranieri non comunitari in possesso di valido documento di soggiorno (permesso di soggiorno con scadenza o carta di lungo periodo) e gli iscritti sul permesso di un familiare". Ma fermiamoci qui, tralasciando anche la differenza tra permesso di soggiorno e carta di lungo periodo, per evitare di perderci.

Ritorniamo invece alla domanda iniziale: quanti albanesi vivono in Italia? L'ultimo numero disponibile è: 448.407 albanesi regolarmente residenti.
Regolarmente soggiornanti, regolarmente residenti e… clandestini?

Ma i distinguo non sono finiti. Gli esperti non aggiungono inutilmente la parola "regolarmente" di fianco a “soggiornanti” e “residenti”. Esistono infatti anche albanesi soggiornanti senza permesso di soggiorno. Di conseguenza, gli albanesi che vivono in Italia sono di più di quelli individuati dalle statistiche. Quanti di più? Ci sono cose che non si possono conoscere, se non ex post, dopo una regolarizzazione, o “sanatoria” per i nostalgici. Altrimenti bisogna affidarsi alle stime, che sono sempre, inevitabilmente, approssimative.

Ora, non si esclude che a qualcuno, quando ha letto le parole "senza permesso di soggiorno", sia venuto in mente il termine "clandestino". Non per incasinarci la vita, ma il termine è sostanzialmente fuorviante, nonché semanticamente antipatico, per le connotazioni acquisite nel tempo. Ma, oltre all'amore, chi è clandestino? Colui che non ha documenti? Allora chi ha il passaporto, magari con il visto d'ingresso, cos'è? E poi, un permesso di soggiorno scaduto ti rende “irregolare” o “clandestino”? La verità è che ci sono albanesi di tutti i tipi, anche nella storia recente della migrazione. Ci sono stati albanesi profughi, richiedenti asilo, albanesi rifugiati, albanesi migranti economici... Qui il lessico diventa più complesso e i riferimenti all'attualità davvero non mancano.
Passaporto e identità

Infine, ci sono anche gli albanesi che nel frattempo sono diventati italiani. O no? Il dubbio esiste, in quanto , ne abbiamo già parlato, chi acquisisce la cittadinanza italiana sparisce dalle statistiche sugli albanesi. Negli ultimi anni più di 100.000 albanesi hanno ottenuto la cittadinanza italiana. Ma il passaporto cambia anche l'identità? Cioè, quando uno consegna il permesso di soggiorno dà automaticamente le dimissioni dall'essere e sentirsi albanese? Ecco, qui le domande cambiano piano, e cominciano a diventare molto complesse.

Ad esempio esistono albanesi che hanno acquisito la cittadinanza italiana e sono partiti per il Nord Europa, dove si sono registrati come cittadini italiani. Sicuramente l'avrà fatto anche chi ha solo il permesso di soggiorno. E poi si trova sempre qualche giovane, nato e cresciuto in Italia, con la cittadinanza italiana, che ti confessa che si sente albanese, oppure "anche" albanese. Va conteggiato anche lui tra “gli albanesi in Italia”, oppure no?

Tra moglie e marito non mettere il dito, dice il proverbio. Che vale soprattutto nel caso dei matrimoni misti. E sono tantissimi, tra donne albanesi e uomini italiani, e viceversa. Ma quanti figli nati da questi matrimoni si sentono albanesi? Inoltre, quanti albanesi hanno perso l'identità e non si sentono tali? Alcuni non conoscono più la lingua, la balbettano, non la parlano. Difficile trovarli sulle tabelle statistiche. Diciamo pure impossibile.

Allora, che facciamo, ci arrendiamo? Per nulla. Bisognerebbe interpretarli i numeri, insieme alla realtà sociale, e soprattutto prenderla con filosofia. Anche quando incontriamo un tifoso che sfoggia orgoglioso la bandiera albanese, quella rossa con l'aquila bicipite in mezzo, dobbiamo sapere che questo non ci dice nulla del suo passaporto, che potrebbe essere di un altro paese europeo, o addirittura di un altro paese balcanico…. Ecco, appena si parla dei Balcani le cose si complicano ulteriormente. I numeri sembrano facili, eppure...

Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 07, 2018, 20:42:18 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Gli-albanesi-in-Italia-in-via-d-estinzione-180766

Citazione
Gli albanesi in Italia, in "via d’estinzione"?

Da alcuni anni il numero dei cittadini albanesi in Italia è in calo. Dopo aver superato il mezzo milione all’inizio del 2014, il loro numero ha cominciato a ridursi gradualmente
03/07/2017 -  Rando Devole   

Secondo gli ultimi dati appena pubblicati dall’Istat , in Italia vivono da residenti 448.407 albanesi. Con tale cifra essi occupano il secondo posto tra tutte le comunità straniere, attestandosi subito dopo i romeni, il cui numero ha superato il milione da molto tempo. Tuttavia, nella classifica dei paesi extra UE, gli albanesi residenti occupano il primo posto, seguiti da marocchini (420.651), cinesi (281.972) e ucraini (234.354). Del totale dei residenti stranieri, gli albanesi costituiscono l’8,9%.

Cos’è successo agli albanesi nel corso dell’ultimo anno? Se all’inizio del 2016 risultavano residenti in Italia 467.687 albanesi, in un anno il calo è stato di 19.280 persone. Tra 2015 e 2016 il decremento è stato ancora più sostanzioso. In poche parole, il trend negativo continua a essere evidente, anche se procede con un ritmo leggermente più lento. Se teniamo presente il fatto che i cittadini albanesi rientrano nella categoria di “immigrati storici”, sostanzialmente stabili e integrati, risultano tre i fattori principali della riduzione del loro numero: l’acquisizione della cittadinanza italiana, l’emigrazione verso altri paesi, il mancato bilanciamento di nuovi flussi migratori in ingresso dall’Albania.
Nuovi italiani

Dati più dettagliati sull’acquisizione della cittadinanza sono in via di pubblicazione, ciononostante il bilancio demografico ci permette già di avere un’idea complessiva del fenomeno. Il numero dei cittadini stranieri che hanno ottenuto la cittadinanza italiana durante il 2016 è notevole: 201.591. Con il 18% del totale, gli albanesi occupano il primo posto. Facendo un rapido calcolo, si può affermare che nell'ultimo anno più di 36.000 albanesi hanno preso il passaporto italiano (nel 2015 erano stati 35.134). Nell’arco degli ultimi anni, gli albanesi con passaporto italiano hanno raggiunto all'incirca le 100.000 unità. Un fenomeno sociale di grande interesse da molti punti di vista, anche se, contrariamente all'opinione diffusa in parte dell'opinione pubblica italiana, in Italia la maggior parte degli immigrati sono soggiornanti di lungo periodo. Questo vale in particolar modo per gli albanesi: se, nonostante la legge attuale sia abbastanza restrittiva, gli albanesi ottengono più di altri la cittadinanza, è perché essendo immigrati “storici” hanno già “compiuto” gli anni necessari.

A prescindere dalle statistiche o dalle stime, e al di là delle distinzioni tra residenti e soggiornanti, è evidente che a questo ritmo il numero di cittadini albanesi con il solo passaporto albanese si ridurrà drasticamente in pochi anni. Ciò non significa, è ovvio, che gli albanesi in Italia "spariranno", ma che per il “radar statistico” la maggior parte di loro non apparirà più come straniera: acquisendo il passaporto italiano, diverranno cittadini residenti di un altro paese, anche quando conservano la doppia cittadinanza.
Cambiamenti epocali

Si ha l’impressione che le politiche dei paesi interessati e le loro opinioni pubbliche siano distratte e non riescano a comprendere appieno il peso di questi cambiamenti epocali, che richiedono un approccio fondamentalmente diverso, che metta al centro le persone e le loro esigenze. Per non parlare delle grandi potenzialità e delle energie che rimarranno nascoste se non valorizzate dovutamente.

Oltre ai problemi economici, l’Italia si trova da anni nel vortice di una crisi migratoria nel Mediterraneo, svolgendo un buon lavoro nel campo dell’accoglienza, ma costretta ad affrontare discorsi strumentali in merito ad un fenomeno ormai strutturale. A tutto questo, negli ultimi giorni, si è aggiunto il feroce dibattito divampato sulla riforma della legge sulla cittadinanza, un tema che porta a galla atteggiamenti populistici e sentimenti xenofobi, assolutamente ingiustificabili nei confronti di una legge di civiltà e di giustizia sociale: di un atto dovuto nei confronti della seconda generazione, di ragazzi nati e cresciuti in Italia.

L’Albania, da parte sua, è alle prese con forti contraddizioni, profonde diseguaglianze e crisi provocate da una politica che pare sempre più distante dai bisogni reali delle persone. Il paese ha fatto enormi progressi negli ultimi due decenni, ma è bloccato da guerriglie politiche interne che rendono ancora più visibili l’assenza di una visione condivisa per il futuro e l’oblio riservato ai propri migranti, al di là delle dichiarazioni retoriche. Per capire la gravità della situazione, è sufficiente menzionare l’ultimo sondaggio Gallup , secondo cui il 56% degli albanesi d’Albania desidera emigrare all’estero.

Fatto sta che le politiche continuano ad essere condizionate da emergenze, interessi specifici e obiettivi di breve termine. Bisognerebbe, invece, alzare lo sguardo verso l’orizzonte, che ovviamente è molto ampio.


http://news.gallup.com/poll/211883/number-potential-migrants-worldwide-tops-700-million.aspx
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Febbraio 08, 2018, 00:17:36 am
Sul versante adriatico (specialmente Puglia) la presenza albanese è massiccia. Anche se l'immigrazione albanese sembra avere un minore impatto di altre, è un'ottima notizia. Del resto molte aziende italiane investono in Albania, cosa sicuramente preferibile (anche se crea disoccupazione da noi) ai 35 Euro al giorno e ai centri d'accoglienza con Wi-Fi.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Alberto1986 - Febbraio 08, 2018, 15:14:44 pm
Sul versante adriatico (specialmente Puglia) la presenza albanese è massiccia. ...

Negli anni '90. Ora sono gli italiani che vanno in Albania per pura convenienza economica.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Febbraio 09, 2018, 23:39:18 pm
Negli anni '90. Ora sono gli italiani che vanno in Albania per pura convenienza economica.
Ce ne sono meno ma sono stato nel Gargano pochi anni fa e gli albanesi non erano proprio pochissimi.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 12, 2018, 00:08:48 am
Ce ne sono meno ma sono stato nel Gargano pochi anni fa e gli albanesi non erano proprio pochissimi.


Sempre riguardo agli albanesi, leggi questo vecchio articolo.
http://www.eastjournal.net/archives/75501

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ALBANIA: 25 anni fa, quando la Rai parlò di noi

Lavdrim Lita 9 agosto 2016   

25 anni fa cominciava il grande esodo dei profughi albanesi verso l’Italia. Tra la notte del 6 e la mattina del 7 marzo del 1991, una prima ondata di persone in fuga dall’Albania si riversò sulle coste pugliesi. Era il preludio al drammatico viaggio verso Bari della nave Vlora che ad agosto attraccò in Puglia con 20 mila passeggeri a bordo.

La storia

Il crollo del muro Berlino e la morte violenta dei coniugi Ceausescu in Romania nel 1989 aveva scosso i regimi comunisti nell’ est Europa e sopratutto Tirana. Per 45 anni l’Albania fu sottomessa a dura prova da un regime stalinista guidata con metodi spietati dal dittatore Enver Hoxha. Questa prova consisteva nell’impoverimento materiale e spirituale di tre milioni di persone. Centinaia di chiese, mosche e altri luoghi di culto furono distrutte e decine di chierici persero la vita perla volontà cieca di estirpare con la violenza la fede nelle persone per sostituirla con il culto del partito.


L’Albania arrivava nei primi anni ‘90 come il terzo paese più povero del mondo dopo l’Uganda e l’Angola e dove la proprietà privata, la libera impresa, la libertà e i diritti umani fondamentali erano stati vietati per Costituzione. Durante il regime comunista la mobilità interna ed esterna erano totalmente proibite. La propaganda contro la migrazione e immigrazione era massiccia e rappresentata come una piaga sociale frutto del capitalismo. La propaganda totalitaria fino alla morte di Enver Hoxha nel 1985 rappresentava nell’immaginario collettivo albanese il fenomeno migratorio come una deportazione territoriale simile a quella per gli oppositori politici.

Il regime comunista del post-Hoxha guidata da Ramiz Alia cercò di allentare la presa della repressione dando l’idea di prossime riforme economiche e sociali, ma l’ incapacità e l’atrofia politica della classe dirigente deluse subito le aspettative. In condizioni di povertà diffusa, di disoccupazione crescente e di mancanza di reali prospettive per il futuro,l’emigrazione sembrava l’unica strada percorribile per una generazione che non aveva nulla da perdere.

Nel luglio del 1990 centinaia di giovani si diressero, spinti dalla speranza di una vita migliore, verso i cancelli delle ambasciate occidentali come fossero una casa sicura per chiedere asilo politico e una nave che li avrebbe guidati verso l’occidente. I primi dati sono spaventosi per la credibilità del regime, circa tremila persone si rifugiarono all’ambasciata tedesca; altre cinquemila in quelle italiane, francesi, greche, turche, polacche, ecc.

A Tirana il malcontento si manifestò ormai apertamente e diversi gruppi sociali e sindacali organizzarono scioperi e manifestazioni. Quelli che diedero un colpo definitivo al regime comunista furono gli studenti universitari che scesero in piazza in numero sempre maggiore: anche se in un primo momento le loro richieste erano limitate alle condizioni di studio, ben presto acquisirono una maggiore connotazione politica. Il passaggio da un regime totalitario a un sistema democratico di tipo liberale coincise con una grave crisi economica del paese, in un momento storico in cui la globalizzazione cominciava a far sentire i suoi effetti. Alla povertà ereditata si aggiunse la piaga della disoccupazione che in una società molto giovane come quella albanese incentivò le forti spinte migratorie.

Verso l’Italia

In questa confusione politica, economica e sociale, alla vigilia delle prime elezioni libere nel marzo del 1991, l’Albania era un paese in rovina, in cui regnava il caos e il sogno dell’occidente,in particolare l’ Italia, vista solo alla televisione. La Rai e i canali mediaset, anche se il fenomeno non e’ ancora scientificamente studiato, furono uno dei più importanti spiragli che mantenne vivo nell’immaginario collettivo il desiderio di libertà e la possibilità di una alternativa.

Nella primavera del 1991 l’Italia scoprì di essere la terra promessa per migliaia di albanesi.Dal 7 marzo 1991, gli albanesi entrarono a pieno titolo sulla scena continentale con quello che fu denominato “l’ esodo biblico”. I legami con l’Italia erano stati sempre di amore e odio. L’amore per essere cosi simili: “due popoli, un mare”. Anche nel medioevo, gli albanesi per scappare all’ invasione ottomana sbarcavano in Sicilia o in Puglia come ci dimostra la presenza della comunità arberesh nel sud Italia. L’Italia era sempre stata vista come un porto sicuro. Tuttavia, gli albanesi residenti in Italia nel lontano 1980 erano appena 514; nel 1990, 2.034.

Tutto questo stava per cambiare.La prima calorosa accoglienza nelle ambasciate occidentali confermò il desiderio di molti giovani di provare a scappare dal non-vivere. La voce per la partenza delle navi dal porto di Durazzo aveva fatto sì che centinaia di giovani di Tirana percorressero a piedi o in bicicletta 40 chilometri che dividono la capitale dalla città di mare. Una maratona verso la libertà. In quei giorni migliaia di giovani albanesi “assaltarono” la nave “Vlora”, una bellissima nave italiana costruita a Genova negli anni 60. La Rai stava finalmente parlando di loro. Per la prima volta, loro erano la notizia.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 12, 2018, 00:40:21 am
https://www.balcanicaucaso.org/Media/Multimedia/Romania-situazione-politica-e-sociale-preoccupante

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Romania: situazione politica e sociale preoccupante

Mihaela Iordache, corrispondente di OBCT, analizza la situazione in Romania dove, nonostante la crescita economica record, vi è povertà diffusa, corruzione, disparità sociali e forte instabilità politica (28 gennaio 2018)

Vai al sito di Radio Radicale
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Febbraio 12, 2018, 01:19:52 am
Confermato da conoscente rumeno.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 14, 2018, 18:36:20 pm
http://www.eastjournal.net/archives/88167

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STORIA: Le divisioni sindacali nell’Ungheria post-socialista

Stefano Cacciotti 8 giorni fa   

Il movimento sindacale ungherese vive oggi una crisi profonda, sia in termini di “efficacia” dell’azione negoziale sia in termini di unità del movimento. Questa crisi è dovuta in parte alle politiche del lavoro attuate da Orbán tra il 2010 ed il 2012. Tra queste, è opportuno ricordare gli emendamenti del 2010 sulle leggi che regolano il diritto di sciopero, l’abolizione della Legge sulle associazioni del 1990 (che regolava la formazione dei sindacati indipendenti) e l’introduzione di un nuovo Codice del lavoro nel 2012. Queste modifiche hanno ulteriormente liberalizzato il mercato del lavoro magiaro, oltre che minato alcuni dei diritti sindacali di base.

Tuttavia, per comprendere l’attuale crisi delle organizzazioni del lavoro ungheresi non ci si può limitare all’analisi delle politiche anti-sindacali portate avanti da FIDESZ nell’ultimo decennio. Infatti, nell’opera di logoramento dei diritti dei lavoratori, Orbán è stato facilitato dalle divisioni interne presenti nel movimento sindacale ungherese, incapace di organizzare un fronte unitario a livello nazionale sin dai primi anni 90 (Neumann, 2012).

1990. La nascita del Forum tripartito

Il passaggio da un’economia pianificata ad un’economia di mercato ha causato una profonda ristrutturazione del modello di relazioni industriali, fino ad allora caratterizzato da un sostanziale allineamento tra gli interessi dei sindacati ufficiali, rappresentati del Consiglio nazionale dei sindacati SZOT (Szakszervezetek Orszagos Tanacsa) e quelli dello Stato.

Con la fine dell’economia pianificata e l’innesto del libero mercato, questo modello viene progressivamente sostituito da un sistema ispirato al modello di contrattazione triangolare tipico delle società capitalistiche. Le prime modifiche in tal senso sono apportate nel 1990 da József Antall, leader del Forum democratico ungherese (Magyar Demokrata Fórum) e capo del primo governo eletto dopo la fine del regime, il quale avvia un processo di occidentalizzazione del modello di negoziazione sindacale che vede il suo fine principale nella nascita del Forum Tripartito. L’avvio di questa trasformazione, fortemente supportata dell’International Labour Organization (ILO), verrà successivamente accolta in modo favorevole anche dell’Unione Europea (Neumann, 2012).

Due “blocchi” sindacali

Nella nuova struttura tripartita le organizzazioni dei lavoratori si dividono principalmente in due blocchi: i sindacati riformati e i sindacati indipendenti. I primi sono gli eredi dei sindacati SZOT, e rappresentano le continuità con il passato socialista. I secondi, nati dopo il crollo del regime, rivendicano invece la distanza ideologica dall’ormai disciolto Partito Socialista Operaio Ungherese (Magyar Szocialista Munkáspárt).

Sebbene l’intenzione del governo Antall è quella di unificare la lotta sindacale in un unico canale istituzionale, la contrapposizione ideologica tra i due blocchi (riformati vs indipendenti) rende questo progetto difficile da realizzare. Tra le organizzazioni indipendenti, la Lega democratica dei sindacati (LIGA), fondata nel 1989 e guidata da pochi sindacalisti e molti accademici (perlopiù provenienti dalle Università di Budapest) si presenta come la formazione più agguerrita nel denunciare i privilegi dei sindacati riformati (Hughes, 2001).

Indipendenti vs riformati

In particolare, gli attacchi della LIGA si indirizzano contro il MSzOSz (Magyar Szakszervezetek Országos Szövetsége), “colpevole” di aver ereditato le proprietà e il capitale finanziario del vecchio sindacato di regime SZOS. Ad incrementare i malumori delle LIGA c’è anche la questione legata al numero di iscritti. Se infatti il MSzOSz supera i 2 milioni di membri, la lega democratica dei sindacati non raggiunge i 200 mila affiliati (Hughes, 2001).

Agli occhi del sindacato indipendente, le proprietà e i capitali accumulati dal MSzOSz, insieme all’alto numero dei lavoratori affiliati, sono il frutto del rapporto subalterno avuto da quest’ultimo con il regime socialista, e quindi considerate illegali nel nuovo contesto politico-economico. La LIGA rivendica quindi la necessità di spezzare tutte le connessioni con il vecchio regime, in modo tale da avviare un modello di attività sindacale democratica e libera a tutti gli effetti (Hughes, 2001).

L’assenza di un’azione sindacale unitaria

Se, da una parte, le denunce dei sindacati indipendenti nei confronti dei loro “cugini” riformati possono essere considerate legittime e coerenti con il cambiamento storico in atto in Ungheria, è altrettanto vero che la frammentazione che ne conseguì influì drammaticamente sulla forza contrattuale di tutto il movimento sindacale ungherese durante gli anni 90. Lo sviluppo di due blocchi contrapposti allontanò progressivamente i lavoratori ungheresi dall’attività sindacale, già pesantemente messa in crisi dall’emergere di valori individualisti e da una latente sfiducia verso le azioni collettive propria della società civile ungherese. Tutto questo è dimostrato dal crollo dell’affiliazione sindacale tra i lavoratori: nel giro di 5 anni (1991-1996) il maggiore sindacato magiaro, il MSzOSz, perde 2 milioni di iscritti (Frege, 2001).

Sulla base di questi presupposti FIDESZ è stato in grado, dal 2010 in poi, di sviluppare un dialogo selettivo con la LIGA e il sindacato di ispirazione cattolica MOSZ (Munkástanácsok Országos Szövetsége), escludendo progressivamente i “sindacati riformati” dal confronto istituzionale (Neumann, 2012). Appoggiandosi a frammentazioni che hanno radici nel periodo di transizione degli anni 90, Orbán ha quindi applicato una politica del divide et impera, approfittando dell’incapacità cronica del movimento sindacale ungherese di essere unito. In questo senso, la fusione avvenuta nel 2013 tra i sindacati riformati rappresenta una speranza per un futuro miglioramento della forza contrattuale sindacale nel paese, sebbene la strada verso un’azione comune con le organizzazioni di lavoro indipendenti resti ancora tutta in salita.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 17, 2018, 12:21:34 pm
http://www.eastjournal.net/archives/88216

Citazione
UNGHERIA: Il sistema sanitario arrugginisce ma il problema sono i rifugiati

Gian Marco Moisé 23 ore fa   

Per il secondo anno consecutivo, l’Ungheria si colloca in fondo alla classifica dell’Indice Sanitario Europeo del Consumatore (ECHI), a pari merito con Polonia, ma dietro ad Albania e Montenegro, stati che nonostante gli sforzi per entrare a farne parte, non sono ancora membri dell’Unione Europea.

L’Indice Sanitario Europeo del Consumatore (ECHI)

L’Indice Sanitario Europeo del Consumatore è un’analisi comparativa dei sistemi sanitari dei vari paesi europei dal punto di vista del consumatore, considerando tempi di attesa, accesso e qualità alle medicine e alle informazioni. La Centrale del Consumatore della Sanità (Health Consumer Powerhouse) è un think tank di origine svedese specializzato nel paragone delle prestazioni sanitarie dei diversi paesi. Visto dalla Commissione europea come il principale strumento di misurazione delle prestazioni sanitarie nazionali, ma inviso dal British Medical Journal che l’ha criticato per l’assegnazione eccessivamente arbitraria dei punteggi.

L’indice attribuisce un punteggio complessivo a ciascun paese in cui il minimo sono 333 punti e il massimo sono 1.000. Nel 2006, l’Ungheria aveva conseguito un punteggio di 600 punti, ma da quell’anno le prestazioni sono calate costantemente. L’anno scorso il paese aveva ottenuto 575 punti, undici in più rispetto a quelli assegnati alla Polonia.

L’Ungheria ha uno dei peggiori tassi di sopravvivenza di persone con tumore in tutta Europa, con un tasso di sopravvivenza per 5 anni poco al di sopra del 40% contro i 70% di Norvegia, Svizzera e Islanda. Lunghissimi i tempi di attesa per le TAC, il paese era in fondo alla classifica anche per la contrazione di infezioni in ospedale. Solo l’Albania ha superato l’Ungheria in fatto di “piccole donazioni” fatte a medici per l’ottenimento di cure più attente. Il paese però, eccelleva per una copertura quasi totale di bambini vaccinati contro le otto malattie più diffuse, e per il numero di ore di educazione fisica richieste a scuola.

Il risultato di quest’anno

Così come l’anno scorso, l’Ungheria si è collocata 30esima su 35 paesi esaminati (29esima su 31 se si considerano i paesi con lo stesso punteggio). Stupisce in particolar modo come nonostante le riforme restrittive volute dalla Polonia in ambito contraccettivo, i paesi siano arrivati a pari merito. La spiegazione che ne è stata data dagli autori è che: “Non c’è alcun tipo di correlazione tra accessibilità alla sanità e denaro pubblico speso.” Anzi, è persino meno costoso avere un sistema senza liste d’attesa perché: “Il sistema sanitario è fondamentalmente un processo industriale. Come ogni manager professionale di questo sistema certamente saprà, procedure lisce con un minimo di pausa o interruzione sono la chiave per tenere i costi bassi.”

Il problema sembra essere di natura culturale rispetto alla capacità di concepire il sistema sanitario. Infatti, Viktor Orbán già quand’era all’opposizione aveva dichiarato che: “Il sistema sanitario non è un business.” Lo stesso presidente dell’Associazione Medica Ungherese, István Éger ha chiarito che: “Non ci si occupa di consumatori, ma di pazienti.”

Il problema è generazionale

Mi permetterete il gioco di parole nella misura in cui si faccia notare che essendo pazienti, gli si richieda che aspettino pazientemente in fila il loro turno, per ore, settimane e mesi. In linea di principio è giusta la distinzione tra sistema sanitario e business, ma se si andasse al di là della strumentalizzazione delle parole e si guardasse alla realtà dei fatti, forse si potrebbe notare che un sistema ibrido che favorisca l’ingresso dei privati in ambito sanitario potrebbe rendere più soddisfatti i pazienti, e allo stesso tempo alleggerire il bilancio statale. Prova ne è il fatto che il Montenegro in un anno è passato dal 34esimo al 25esimo posto, e la Slovacchia è migliorata di 71 punti dal 2016.

Quello che urta di più della linea politica di Orbán è che è fatta di vecchie inefficaci soluzioni per problemi nuovi e complessi. Montesquieu scriveva che: “Il potere corrompe e il potere assoluto corrompe assolutamente.” Orbán è stato corrotto, anzi corroso fino all’osso da anni al potere. È invecchiato, e nonostante abbia anagraficamente solo 54 anni, si comporta come un leader sovietico. In gioventù si opponeva a un regime illiberale, oggi parla dei benefici della “democrazia illiberale”, vede nemici ovunque e focalizza l’attenzione pubblica sui rifugiati invece che concentrarsi sul migliorare il sistema sanitario del paese.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 18, 2018, 17:20:06 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/Dieci-anni-di-storie-dal-Kosovo-186140

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Dieci anni di storie dal Kosovo

Il Kosovo festeggia dieci anni di indipendenza. Anni segnati da successi simbolici, ma senza vere risposte a questioni come disoccupazione, convivenza, corruzione e mancanza di una strategia di sviluppo
16/02/2018 -  Veton Kasapolli   Pristina

Il decimo anniversario della dichiarazione di indipendenza del Kosovo coincide con il primo schieramento di una squadra nazionale alle Olimpiadi invernali a Pyongchang, in Corea del Sud. L'unico membro della squadra, lo sciatore Albin Tahiri, ha però ben poche possibilità di vincere una medaglia. La prima pagina della storia olimpica del Kosovo è stata scritta solo due anni fa, a Rio de Janeiro. Lì, grazie alla campionessa di judo Majlinda Kelmendi, il Kosovo ha vinto la sua prima medaglia d'oro: il suo più grande successo nello sport globale.

Questi momenti olimpici non sarebbero stati possibili senza la cruciale decisione del CIO di ammettere il Kosovo tra i suoi membri nel 2014. I politici del Kosovo esaltano come storici questi risultati ed esortano tutti i kosovari a cercare il successo e il riconoscimento internazionale individuale attraverso il duro lavoro, nello sport come in altri campi.

Sfortunatamente, un percorso così ambizioso è alla portata di pochissimi giovani. Albin Tahiri ha potuto permettersi allenamenti sulle piste da sci in vari paesi dell'UE facendo affidamento a risorse economiche personali, mentre in patria la squadra di Majlinda Kelmendi continua ad allenarsi in sale non riscaldate a causa dei continui tagli all'elettricità. Anche la nazionale di calcio, recentemente ammessa dalla FIFA, continua a giocare le partite casalinghe in Albania, in assenza di uno stadio con gli standard richiesti.

Agli altri non restano che strade più tortuose per raggiungere l'altro lato dei confini del Kosovo. Il più giovane paese in Europa è anche il più isolato del Vecchio continente: i suoi cittadini sono gli ultimi dei Balcani occidentali a non poter viaggiare senza visto nell'area Schengen. Questo non ha impedito a quasi il 10% degli 1,8 milioni di abitanti di entrare irregolarmente nell'UE da quando il Kosovo ha dichiarato l'indipendenza, il 17 febbraio 2008. Molti hanno addirittura rischiato la vita sulle montagne in inverno o nascondendosi in condizioni disumane all'interno dei camion. Alcuni sono morti attraversando dei fiumi nel tentativo di raggiungere l'Ungheria.

Una fuga così sistematica dal Kosovo libero e indipendente non era prevista dieci anni fa. All'epoca della dichiarazione di indipendenza, la società del Kosovo desiderava staccarsi da una debole amministrazione internazionale e autogestirsi, sognando di diventare presto un prospero nuovo paese nel mezzo dell'Europa.
Un'economia al palo

Nonostante una crescita costante del PIL del 3-4% l'anno dal 2008, tuttavia, l'economia non è mai decollata. Ciò ha portato i tassi ufficiali di disoccupazione al 27% (in realtà molto più alti, specialmente tra i giovani). I laureati che escono ogni anno dalle università pubbliche e private appena fondate a Pristina e nelle altre principali città kosovare lottano per un numero estremamente limitato di posti di lavoro. Anche le opportunità di ottenere un impiego presso il più grande datore di lavoro – il settore pubblico – rimangono scoraggianti. È proprio la mancanza di opportunità di lavoro che rimane oggi il più grande problema percepito dal cittadino kosovaro medio.

Mentre molti hanno cercato di emigrare, l'élite del Kosovo ha sviluppato un ambiente economico senza un chiaro modello di sviluppo: dieci anni di autogoverno si sono concretizzati in una serie di autostrade moderne, ma costose. Tale determinazione per investimenti pubblici ad effetto accomuna tutti i governi che si sono succeduti dall'indipendenza.

L'unica altra strategia di sviluppo messa in campo è stata la privatizzazione delle imprese pubbliche e di proprietà statale. Sfortunatamente sono stati creati ben pochi nuovi posti di lavoro nella produzione o nelle industrie: nel frattempo, però è esploso il settore della piccola e media distribuzione, dove però si vendono quasi esclusivamente merci importate. La sproporzione fra importazioni ed esportazioni (nove a uno in favore delle prime) riassume il dato più caratteristico della società consumistica del Kosovo indipendente.

Nel corso degli anni ci sono stati miglioramenti nel contesto degli investimenti, confermati dai World Bank Doing Business Reports, ma la realtà è che solo pochi vogliono investire il proprio capitale in un paese in difficoltà segnato dal conflitto. Il Kosovo continua a non convincere di avere un ambiente politico normale, un sistema giudiziario equo e indipendente e una fornitura stabile di energia elettrica, fondamentale per qualsiasi industria.

A proposito, recentemente lo stato ha annunciato di voler investire nell'utilizzo delle sue riserve di lignite, fra le più grandi in Europa. Alla fine del 2017, il governo ha firmato un contratto con una società con sede negli Stati Uniti per sviluppare una nuova centrale a carbone lignite da 600 MW, ma le prime forniture non saranno disponibili prima del 2023. Fino ad allora, i livelli di importazione di energia elettrica continueranno a salire, come per tutto il resto.
Stato di diritto, i problemi restano

Per quanto riguarda lo stato di diritto, il Kosovo non ha mostrato segni significativi di miglioramento durante questo decennio. Centinaia di migliaia di casi arretrati continuano a perseguitare i tribunali. Quando l'inefficienza si combina con l'incapacità di affrontare casi sensibili come la corruzione, il pubblico smette di credere nel sistema giudiziario stesso, e lo stesso vale per i partner del Kosovo, ovvero l'Unione europea e gli Stati Uniti. La prima continua a finanziare EULEX, la sua più grande missione all'estero, dal 2008, per trattare casi che i tribunali kosovari non riescono a gestire per una ragione o per l'altra. L'anno del decennale dovrebbe essere segnato anche dall'apertura della nuova Corte speciale per i supposti crimini di guerra commessi dal 1998 al 2000 da parte di membri dell'Esercito per la liberazione del Kosovo (UCK) che opererà dai Paesi Bassi.

L'esordio della Corte però appare estremamente problematico: prima ancora che l'istituzione abbia fatto partire i primi processi, che con tutta probabilità coinvolgeranno politici di primo piano, il parlamento di Pristina ha effettuato vari tentativi di bloccarne l'attività. Un comportamento che ha scatenato la dura reazione di Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania e Italia. Dopo le critiche internazionali, il Kosovo sembra aver fatto però marcia indietro e potrebbe diventare l'unica entità dell'ex Jugoslavia ad avere un tribunale ad hoc per gestire in modo indipendente il proprio recente passato, impegno che può essere utilizzato per ottenere più credibilità e sostegno internazionale.
Riconoscimenti internazionali

Finora il Kosovo ha ottenuto 116 riconoscimenti a livello globale : ancora troppo poco per aspirare ad entrare nelle Nazioni Unite e nelle sue organizzazioni. Allo stesso modo, non sono stati registrati progressi nel convincere ad un atteggiamento diverso i cinque paesi UE che non riconoscono la dichiarazione di indipendenza di dieci anni fa. Nonostante le divisioni, l'UE ha dimostrato la volontà di impegnarsi nelle relazioni con il Kosovo, firmando l'accordo di stabilizzazione e associazione nel 2016 che prevede un chiaro programma di riforme negli anni a venire. Tuttavia, la più recente Strategia per i Balcani occidentali conferma che il Kosovo può aspirare ad intraprendere il percorso di integrazione europea solo a passi molto piccoli.

Lento è anche il processo di riconciliazione tra la maggioranza albanese e le altre comunità del paesi. La minoranza serba continua a vivere una vita parallela gestendo i propri settori educativo, medico e culturale. Il paese non è affatto vicino a colmare questa divisione, soprattutto nelle municipalità del nord, scosso nelle ultime settimane dall'omicidio del leader politico Oliver Ivanović.

Ma le divisioni possono essere notate solo da chi le vive in prima persona, così come la corruzione, la disuguaglianza o la disoccupazione. Sulla carta, il Kosovo è un paese multietnico in cui l'albanese e il serbo sono lingue garantite dalla Costituzione. La sua legislazione è tra le più moderne, ma in pratica rimane largamente inattuata. In teoria, l'ambiente per gli investimenti esteri ha registrato progressi sorprendenti, ma non vi sono ancora investitori reali disposti a scommettere sul paese. Al loro posto, centinaia di milioni di euro in rimesse affluiscono dalla diaspora per sfamare grandi famiglie disoccupate.

Fino a quando tutto questo non migliorerà, al kosovaro medio rimangono poche speranze di cambiamento ed opportunità: per non cadere nella tentazione di fuggire lontano, non resta che gioire delle storie di giovani talenti arrivati a successi incredibili, ma individuali, nello sport, nel cinema o nella musica.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 24, 2018, 18:04:04 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-attacco-alla-procura-anti-corruzione-186319

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Romania: attacco alla procura anti-corruzione

Il governo romeno prosegue senza indugio nella propria riforma della giustizia. Ed ora mette nel mirino la procuratrice anti-corruzione Laura Codruța Kövesi
23/02/2018 -  Mihaela Iordache   

Nonostante le critiche, gli avvertimenti europei e le proteste di strada, il principale partito della Romania, il PSD (partito Socialdemocratico), va avanti con il proprio progetto di riforma della giustizia, fatta su misura – secondo l'opposizione – per i suoi membri indagati per corruzione.

Ieri il ministro della Giustizia romeno Tudorel Toader ha chiesto la revoca dell'incarico alla procuratrice Laura Codruța Kövesi, a capo della procura anti-corruzione (Dna).

Della lotta alla corruzione, la Kövesi è diventata un simbolo nel paese. Ma per il PSD il Dipartimento Nazionale Anti-corruzione da lei guidato da tre anni non farebbe altro che fabbricare dossier contro i socialdemocratici.

In realtà, negli ultimi anni, la Romania ha fatto passi notevoli nella lotta alla corruzione, risultati apprezzati anche da Bruxelles che ora guarda con preoccupazione l'assalto del PSD alla giustizia, attraverso modifiche di legge e il tentativo di sottometterla al controllo politico.

La quarantaquattrenne Laura Codruța Kövesi però intende continuare il proprio lavoro sino alla fine del suo mandato, cioè tra un anno. Il leader del PSD Liviu Dragnea – indagato e condannato per corruzione – non sembra però intenzionato a permetterglielo, convinto dell'esistenza di uno “stato parallelo” costituito da magistrati e uomini dei servizi segreti che darebbero la caccia a politici innocenti.
Esecuzione pubblica

Il discorso di ieri del guardasigilli è stato articolato in venti punti ed alcuni commentatori politici lo hanno definito “un'esecuzione pubblica” ed hanno evocato i tempi di Ceaușescu, dove c'era solo “chi era con noi e chi era contro di noi”, e i metodi operativi della Securitate, i famigerati servizi segreti del regime.

Tra le varie cose di cui il ministro ha accusato la Kövesi anche quella di danneggiare l'immagine del paese: cosa possono pensare gli altri paesi vedendo che in Romania un così alto numero di politici è corrotto? Cosa possono pensare – verrebbe da aggiungere – di un politico come Liviu Dragnea che ha cambiato tre primi ministri in un anno e che dopo molti anni di governo della contea di Teleorman non è riuscito a ridurvi la povertà dilagante, utile solo a raccogliere voti quando i socialdemocraici promettono aumenti di stipendi e di assistenza sociale?
Per strada

A qualche ora dal discorso del ministro della Giustizia che ha chiesto la revoca della procuratrice Laura Codruța Kövesi, circa 1000 persone sono scese in strada a Bucarest a suo sostegno e altre centinaia nelle altre grandi città del paese. Si prevedono altre manifestazioni nei prossimi giorni, nonostante la neve che sta ricoprendo in queste ore la capitale romena.

Da quando ha vinto le elezioni, nel dicembre del 2016, il PSD ha “il merito” di aver fatto scendere la gente per strada. “Giustizia non corruzione”, ”Uscite fuori di casa, se v’importa”, ”Tudorel, dimissioni”, ”Che la DNA venga e vi porti via”, ”Il PSD, la peste rossa”, questi gli slogan delle proteste. Dall’inizio del gennaio del 2017, queste ultime sono state organizzate soprattutto attraverso Facebook.

Il ministro della Giustizia si recherà prossimamente anche in Parlamento per sostenere la propria richiesta di revoca dell'incarico alla procuratrice della DNA. La parola finale toccherà però al presidente della Romania, Klaus Iohannis, che si è sempre detto contrario alle modalità con cui i socialdemocratici stanno cambiando la legislazione nell’ambito giudiziario. Ma non mancano neppure analisi secondo le quali presto lo stesso presidente potrebbe finire nel mirino del PSD attraverso un'ipotetica sospensione dal suo incarico attraverso un voto del parlamento. Tra l'altro l'anno prossimo sono previste le elezioni presidenziali.

Di fatto il PSD sta tenendo impegnato il paese in situazioni fortemente conflittuali che occupano tutti i dibattiti televisivi schierati pro o contro il governo di Bucarest.
E ora?

Dopo la richiesta di revoca fatta dal ministro della Giustizia, il presidente romeno Klaus Iohannis ha intanto preso tempo, dichiarando che a causa della mancanza di chiarezza nei contenuti del rapporto presentato e tenendo conto che la valutazione dell’attività della DNA e del suo management da parte del presidente della Romania diverge da quella presentata dal ministro „si impone un’analisi approfondita di questo documento”.

Nei giorni precedenti alla richiesta di revoca il capo della procura anti-corruzione romena Laura Codruța Kövesi aveva tenuto una conferenza stampa nella quale aveva denunciato “l’attacco” contro la giustizia e il tentativo di screditare il Dipartimento anti-corruzione che “non falsifica prove come sostengono i politici”. Tutti gli attacchi che arrivano della sfera politica rappresentano per la Kövesi un tentativo di mettere in ginocchio lo stato romeno e umiliare la società.

Negli ultimi anni in seguito al lavoro anti-corruzione svolto dalla DNA oltre 70 politici tra cui ministri e parlamentari sono stati rinviati a giudizio.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 24, 2018, 18:08:32 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Catalin-Prisacariu-le-sfumature-della-censura-185908

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Cătălin Prisacariu: le sfumature della censura

Durante la sua brillante carriera ha inanellato numerose dimissioni, conseguenza del non voler scendere ai compromessi che gli venivano richiesti. Uno sguardo sulla stampa rumena da parte del giornalista investigativo Cătălin Prisacariu
22/02/2018 -  Stela Giurgeanu   

(Pubblicato originariamente da Dilema Veche nell'ambito del programma ECPMF, selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans e OBCT)

Cătălin Prisacariu è membro del comitato rumeno per il giornalismo investigativo ed ha, al suo attivo, una lunga lista di dimissioni. Agli esordi della carriera è stato giornalista nella stampa regionale a Iași, è poi divenuto giornalista investigativo per Evenimentul Zilei, poi capo del dipartimento investigativo di Academia Cațavencu e redattore capo a Kamikaze. Ha anche animato due talk show su TVR Info e B1TV. Infine, fino a poco tempo fa, è stato giornalista per România liberă che ha lasciato nel novembre scorso.

Lei lavora in questo campo da più di vent'anni ed ha attraversato i più grandi gruppi editoriali del paese, sia nella carta stampata che nell'audiovisivo. Ma alla fine ha sempre dato le dimissioni. Perché?

Per ragioni politico-economiche, alle quali si aggiungeva la censura, più o meno importante, più o meno sorniona. Non riesco a mentire e non sono mai riuscito a restare quando una cosa mi veniva imposta o quando le mie inchieste non venivano pubblicate. Il problema è che, dopo vent'anni di carriera, mi rendo conto di avere fatto il giro di quasi tutti i media del paese.
La libertà dei media in Romania

Per una panoramica esaustiva sul paese, visita il Resource Centre sulla libertà dei media curato da OBCTranseuropa. Tutte le risorse sulla Romania a partire da qui .

Che si tratti della stampa o della televisione, arriva il momento in cui il direttore ha bisogno di un “servizio” da parte di un rappresentante del partito al potere. A farne le spese in primo luogo sono i giornalisti di inchiesta i cui articoli vengono commissionati, ma poi non vengono pubblicati, per utilizzarli come merce di scambio con il protagonisti dell'inchiesta. Si pone allora il problema se accettare o meno, sapendo che se si alzano le mani una volta, vi è il rischio di doverlo rifare e si rischia di non sapere più chi si è e quale sia il senso del nostro mestiere. Ogni volta ho dato le dimissioni.

In alcuni media ho avuto fortuna, sono rimasto più a lungo. Ad Academia Cațavencu, dove dirigevo il dipartimento di investigazione, non ho avuto alcun contatto con il direttore sino al 2009. Supervisionavo tutte le inchieste ed ero garante dell'onestà del contenuto. Ma quando la lotta politica si è fatta rude, e il direttore ha voluto prendervi parte, me ne sono dovuto andare. In Romania rimanere integri è una questione di fortuna, tutto può andar bene per qualche anno e da un giorno all'altro ci si ritrova davanti ad una scelta.

Quando un giornalista lascia una redazione a causa della censura o di pressioni editoriali subite, non è accolto a braccia aperte dagli altri?

Al contrario! Quando nel 2015 sono stato licenziato da B1 TV, ufficialmente per ragioni economiche, ho cercato lavoro per un anno e mezzo. È stato il periodo peggiore che ho mai attraversato, senza prospettive e perché ho capito che la solidarietà, in questo ambiente, non esiste.

Anche se si è un giornalista della sua reputazione? Con una tale carriera alle spalle?

È una carriera che soprattutto penalizza. In Romania si è mal visti se si abbandonano più posti di lavoro. Chi vuole assumere un giornalista il cui precedente datore di lavoro dice che non ha accettato di fare quello che gli si chiedeva?

È impossibile in Romania per un giornalista onesto fare carriera?

È difficile. In questo mestiere è inevitabile entrare in contatto con qualcuno di importante e subirne le pressioni. Si può fare carriera lavorando da indipendenti ma vi è in questo caso la difficoltà della precarietà, o si può lavorare per delle Ong, ma i questo caso non si tratta veramente di giornalismo. Si può anche pubblicare su di un sito personale, ma il rischio è che i propri scritti vengano riutilizzati da altri, senza ricevere un centesimo, come mi è già accaduto.

Le pubblicazioni da indipendente hanno la stessa ricaduta sul grande pubblico dei media?

In Romania non è possibile vivere da giornalista investigativo indipendente. Una soluzione è quella di lavorare per la stampa estera. Con un po' di fortuna si potrebbe sopravvivere dal punto di vista finanziario. Il retro della medaglia è che spesso i soggetti vengono trattati per essere proposti ad un pubblico straniero. È raro il caso in cui vengano pubblicati in Romania e che abbiano un'incidenza. Durante una collaborazione con Der Spiegel, ho scritto di un rumeno coinvolto in un caso di corruzione che riguardava airbus. Nessuno ne ha parlato in Romania.

In alcuni paesi i giornalisti vengono minacciati di morte, subiscono aggressioni fisiche, vengono a volte uccisi... quale la situazione in Romania?

È una questione di contesto culturale, credo semplicemente che in Romania questa aggressioni fisiche non funzionino. Un clima simile forse vi è stato solo tra le due guerre mondiali, quando era chiaro che i legionari non avrebbero avuto alcuno scrupolo ad assassinare anche i giornalisti. Ma ora non vi sono reazioni così relativamente a quanto fatto emergere dalla stampa. Ma avviene anche perché in Romania i politici non si sentono minacciati dai giornalisti dato che nella maggior parte dei casi avviene un controllo editoriale preventivo al livello della direzione dei grandi gruppi mediatici.

Quale il ruolo del pubblico?

Affinché la società cambi vi sono due strade: un movimento dal basso verso l'alto, o dall'alto verso il basso. Io ritengo che attualmente le cose in Romania non possano essere cambiate dal basso verso l'alto, perché non vedo chi sia in grado di dare l'impulso per farlo. Se si guarda alla demografia ed alle disparità di reddito si capisce che, di fatto, questo paese non può coagulare attorno ad idee che coinvolgano un numero di persone sufficiente a provocare del vero cambiamento. La stampa può educare il pubblico, ma solo se più giornalisti accetteranno di subire ostracismo, fame e disperazione e inizieranno a non rispondere alle richieste dei loro superiori.

Quale la possibilità, un giorno, di avere in Romania una stampa sana?

All'inizio delle inchieste su Adrian Năstase, nel 2005, i giornalisti scoprirono documenti ai quali non avevano avuto accesso quando era primo ministro. Tutto l'ambiente era in fibrillazione e vi era vera concorrenza, e questo era un buon segno. Poi è arrivata la crisi finanziaria e il contesto politico è divenuto più teso. I grandi magnati hanno preso il controllo della stampa e si sono coalizzati. La crisi ha portato alla chiusura di numerose testate giornalistiche. I salari si sono abbassati, si doveva difendere il proprio posto di lavoro, veloci ad accettare compromessi. la concorrenza è di fatto sparita ed assieme a quest'ultima la buona salute della stampa. Quindi, vi è ancora molto da fare.

Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 25, 2018, 09:57:21 am
http://www.eastjournal.net/archives/88521

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MONTENEGRO: Lanciate granate contro l’ambasciata statunitense

Gian Marco Moisé 3 giorni fa   

A Podgorica, intorno a mezzanotte un assalitore ha fatto esplodere due granate vicino al complesso dell’ambasciata statunitense. Secondo le testimonianze l’uomo sarebbe stato fermato dalle guardie di sicurezza all’ingresso dell’ambasciata e dopo aver lanciato una granata contro il muro di cinta dell’edificio si sarebbe ucciso con uno degli esplosivi rimasti attaccati alla sua cintura.

Secondo quanto appena riportato dal quotidiano Vijesti, la polizia montenegrina sospetta che l’attentatore potesse essere il quarantatreenne Dalibor Jauković, residente a Podgorica ma originario di Kraljevo, in Serbia.

Steve Goldstein, del dipartimento di stato, ha dichiarato che il movente dell’assalitore resta ignoto e non è chiaro se l’attentato intendesse essere suicida o no. Poco dopo le esplosioni la polizia ha chiuso l’accesso alla strada. L’ambasciata ha sospeso le regolari attività e dichiarato stato di allerta attiva.

Da quel che è emerso nelle prime ore, nessun membro dello staff dell’ambasciata è rimasto ferito nell’attentato. Il portavoce del dipartimento di stato Heather Nauert ha confermato che: “In questo momento lo staff dell’ambasciata sta lavorando con la polizia per identificare l’assalitore. L’ambasciata sta conducendo un’indagine interna per assicurarsi che tutto lo staff sia al sicuro.”

L’anno scorso, il Montenegro è stato il ventinovesimo paese a fare il suo ingresso nella NATO. Gli Stati Uniti hanno hanno legami diplomatici col Montenegro dal 2006, quando il paese ha dichiarato la sua indipendenza dalla Serbia.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 25, 2018, 19:07:36 pm
Tirana 1994-1995


Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 27, 2018, 01:41:33 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Cittadini-italo-albanesi-la-carica-dei-200-mila-185685

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Cittadini italo-albanesi: la carica dei 200 mila
Sono sempre di più le persone appartenenti alla comunità albanese in Italia che stanno ottenendo la cittadinanza
26/02/2018 -  Keti Biçoku   

(Pubblicato originariamente su Shqiptariiitalise.com il 26 gennaio 2018, tit.orig. "Mbi 200 mijë shqiptarë kanë pasaportë italiane")

Se, da una parte, la crisi economica e la mancanza di veri e propri decreti flussi di lavoratori dall’estero ha causato il calo degli arrivi di nuovi immigrati albanesi in Italia, dall’altra, sempre più albanesi stanno diventando italiani. In molti hanno completato ormai il ciclo: lasciare il loro paese d'origine, immigrare, integrarsi e diventare pienamente parte della società, mettendo in tasca il passaporto italiano.

Tutto questo ha portato alla diminuzione del numero degli albanesi con un documento di soggiorno al di sotto delle 450 mila unità. Più precisamente, la comunità degli albanesi in Italia – quelli che si contano come permessi di soggiorno - è cresciuta di anno in anno fino all’inizio del 2013, quando superò il mezzo milione (502.546); da allora si è notato un continuo ridimensionamento per arrivare a 441.838 persone al 1° gennaio 2017.

Nello stesso periodo della riduzione della comunità degli albanesi con un documento di soggiorno, però, siamo testimoni dell’aumento rilevante di quanti diventano cittadini italiani.

I dati Istat parlano chiaro. Solo durante il 2016 hanno giurato fedeltà alla Costituzione italiana 36.920 cittadini albanesi. Sempre secondo l'Istat, sono donne e uomini, quasi in egual misura; diventano italiani più per ragioni di lunga residenza che di matrimonio con un italiano; e ottengono automaticamente la cittadinanza per trasmissione sempre più minori.

Le cifre del 2016 quasi quadruplicano rispetto a quelle del 2012, quando diventarono italiani solo 9.493 albanesi. Di anno in anno la crescita è stata inarrestabile: si è passati a 13.671 acquisizioni nel 2013, a 21.148 nel 2014 ed a 35.134 riconoscimenti di cittadinanza nel 2015.

Inoltre, solo nel 2016 hanno ottenuto la cittadinanza italiana più albanesi di quanti l’avevano acquisita fino al 2011. Lo dice il censimento del 2011. Infatti, un interessante dato raccolto in quell'occasione, fu quello della cittadinanza avuta prima di quella italiana. 33.699 persone dichiararono di avere la cittadinanza albanese prima di diventare italiani.

Una semplice addizione dei dati e i conti sono presto fatti: alla fine del 2016, gli albanesi diventati italiani superano i 150 mila.

Non sono ancora disponibili i dati del 2017, ma l’andamento attuale delle acquisizioni di cittadinanza, l’anzianità e la stabilità della comunità albanese in Italia fanno pensare che venga mantenuta la tendenza degli ultimi anni. Quindi è ragionevole stimare che oltre 35 mila altri albanesi abbiano giurato fedeltà al tricolore anche durante l’anno scorso.

Forse, qualcuno di tutti questi ha lasciato l’Italia, forse qualcun altro ha cambiato vita. Senza dubbio, però, siamo attorno a quest'ordine di grandezza.

E non è tutto: ai dati sfuggono tutti quelli di seconda generazione che in oltre un quarto di secolo, dal 1990 a questa parte, sono nati da coppie di albanesi, di cui almeno uno aveva già ottenuto la cittadinanza italiana, oppure nati da coppie miste italo-albanesi. Tutti questi bambini, non considerati mai stranieri dall’Italia, nascono italiani (almeno loro, visto l’affossamento al Senato della riforma della cittadinanza per i figli degli immigrati), quindi non risultano nelle statistiche degli stranieri diventati italiani. Quanti sono? Difficile dirlo con esattezza, ma alcuni analisti parlano di 25-30 mila.

Per i nati da genitori albanesi, ma tutti e due con passaporto italiano, non esistono statistiche. Troviamo dati solo per i nati delle coppie miste. Nei rapporti annuali Istat sulla natalità risulta che solo nell’anno 2016 sono nati oltre 2.600 bimbi da tali coppie: 2.300 nel 2015, 2.150 nel 2014, 1.800 nel 2013, 1.850 nel 2012, 1.750 nel 2011, 1.500 del 2010, … oltre 1.400 nel 2008, …, circa 1.350 nel 2006 e così via.

Quindi, affermare che ci sono oltre 200 mila italiani odierni "di sangue albanese" – senza considerare gli arbëreshë - non è sbagliato. Almeno per le leggi in vigore, perché nessuno può sapere poi cosa, nell'intimo, si senta ognuno di noi.

Fanno comunque tutti parte di quella grande comunità di albanesi all’estero sui quali l’Albania non sa tanto. Né quanti sono di preciso e tanto meno dove vivono. L’ultimo governo ha dedicato loro un ministero, progettando la loro registrazione per dare loro la possibilità di partecipare alle elezioni albanesi votando da dove vivono. Forse è troppo tardi ormai e non si sa quanto possa essere ancora confortante il detto "Meglio tardi che mai".
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 27, 2018, 01:45:06 am
http://www.eastjournal.net/archives/88557

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Romania: scontro totale tra governo e anti-corruzione
Francesco Magno 13 ore fa   

Giovedì sera il ministro della Giustizia Tudorel Toader ha annunciato di aver avviato la procedura per la rimozione di Laura Codruţa Kövesi da procuratore capo della Direzione Nazionale Anti-Corruzione (DNA). La notizia ha nuovamente risvegliato la popolazione, che nelle principali città del paese ha sfidato il freddo per protestare contro la decisione governativa. Si tratta soltanto dell’epilogo di uno scontro, che dura ormai da anni, tra il partito social-democratico (PSD) e la magistratura; scontro che si avvia inesorabilmente verso la resa dei conti finale.

Chi è Laura Codruţa Kövesi, l’incubo dei socialisti

Laura Codruţa Kövesi (1973) è dal 2013 procuratore capo della DNA. Nata Laura Lascu, mantiene il cognome del primo marito Edvard Kövesi, nonostante il divorzio. Promessa giovanile della pallacanestro femminile romena (vicecampione europea nel 1989), nel 2006, a soli 33 anni, viene nominata dal presidente Traian Băsescu procuratore generale della Corte di Cassazione, la più giovane nella storia del paese. Vi fu chi storse il naso di fronte ad una scelta tanto inconsueta: una donna, giovanissima, al vertice della giustizia nazionale. Qualche anno dopo Băsescu spiegò la sua scelta motivandola con una necessità impellente di rottura rispetto al passato, che solo una giovane donna poteva garantirgli. Secondo altri, la scelta fu dettata dalla lunga amicizia tra Vasile Blaga, uomo forte dello staff di Băsescu, e Ioan Lascu, padre della Kövesi. Ioan Lascu è la personificazione vivente della continuità istituzionale che caratterizzò il passaggio dalla Romania comunista a quella democratica. Questi mantenne infatti la carica di procuratore capo della città di Mediaş tra il 1980 e il 2010, senza essere minimamente scalfito dagli eventi politici che funestarono il paese nel corso degli anni. Nel 2013 Kövesi venne nominata procuratore capo della DNA. Il suo operato è stato ben giudicato a livello europeo, grazie all’ingente numero di arresti che negli ultimi anni ha falcidiato la classe politica romena, afflitta dall’endemica piaga della corruzione.

Liviu Dragnea e la fronda anti-Kövesi

Un partito, più degli altri, è stato colpito dall’ondata di arresti degli ultimi anni, in quella che potremmo a buon ragion definire una “Mani Pulite” in salsa carpatico-danubiana. Il PSD ha visto la propria classe dirigente costantemente posta sotto lo sguardo inquisitore dei procuratori DNA; molti illustri esponenti della classe dirigente del partito sono finiti dietro le sbarre per episodi di corruzione. Lo stesso Liviu Dragnea è attualmente oggetto di un’indagine; secondo quanto sostengono i magistrati, questi avrebbe favorito la società di costruzioni Tel Drum (controllata da uomini a lui molto vicini), facendole vincere in modo più o meno lecito appalti per lavori nella regione di Teleorman, sua terra natale e feudo elettorale principale. La Tel Drum avrebbe poi ricevuto migliaia di fondi pubblici per lavori infrastrutturali mai effettuati. A seguito di queste indagini, nel novembre scorso la DNA ha congelato i beni di Dragnea, rendendo la frattura tra PSD e magistratura ormai insanabile.

I presunti abusi della DNA

Anche all’interno della procura anti-corruzione non mancano tuttavia le ambiguità e le ombre. Sono in molti a denunciare i duri metodi inquisitori della DNA, fatti di carcerazioni preventive, intercettazioni capillari, interrogatori fiume. Non sono mancati i casi di errori giudiziari, di polveroni risolti in un nulla di fatto, di conflitti tra corpi distinti della magistratura. I più maligni sostengono addirittura una fosca relazione tra mondo giudiziario e servizi segreti, qualcosa che trascende i limiti imposti in uno stato di diritto che aspira a standard occidentali, tanto che la Corte Costituzionale ha spesso redarguito la DNA per aver abusato dei suoi poteri. Oggi il paese è spaccato in due tra chi appoggia in toto i metodi della Kövesi, ritenuti un male necessario per sconfiggere definitivamente la corruzione, e chi invece ritiene (vuoi per tornaconto personale, vuoi per reale convinzione) che i metodi della magistratura non siano degni di uno stato membro dell’UE.

Iohannis, baluardo della DNA

Dopo che il ministro ha avviato la procedura per la rimozione del procuratore capo, la palla passa adesso al Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), che dovrà pronunciarsi contrariamente o a favore. La scelta del CSM è tutt’altro che scontata: non sono pochi i magistrati vicini al PSD e ostili alla Kövesi, che potrebbero quindi schierarsi a favore della sua sostituzione. Dopo il voto del CSM l’ultima parola spetterà comunque al presidente della Repubblica Klaus Iohannis, che ha le facoltà costituzionali per bloccare l’intero iter. Più volte Iohannis si è espresso chiaramente a favore della DNA e del suo procuratore capo, ed è difficile credere che possa avallare qualsivoglia cambio al vertice. Tuttavia, se anche il CSM dovesse schierarsi contro la Kövesi, la frattura istituzionale diventerebbe sempre più profonda. Dragnea potrebbe nuovamente sfoderare la carta della sospensione del presidente, giustificata dalla mancata approvazione da parte di Iohannis di una scelta già avallata dagli altri principali poteri dello Stato, l’esecutivo e la magistratura. La situazione resta fluida, pronta a rapide ed impreviste soluzioni anche nel breve termine.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Sardus_Pater - Febbraio 27, 2018, 17:38:09 pm
Le lotte negli stati balcanici per ovviare alla piaga della corruzione resteranno lettera morta, combattute dal solito baulardo di disperati stile Little Big Horn?
Anche stati che stanno molto meglio di Romania, Albania e Bulgaria hanno i loro problemucci, compresa la Rep. Ceca e quella Slovacca.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 01, 2018, 00:47:40 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Slovenia/Media-in-Slovenia-tra-criminali-politici-e-barbari-186338

Citazione
Media in Slovenia: tra criminali, politici e "barbari"
Un lungo approfondimento sulla proprietà dei media in Slovenia dimostra come sia molto difficile, nel paese, fare in modo deontologicamente corretto il mestiere di giornalista
27/02/2018 -  Blaž Zgaga   

(Pubblicato originariamente da ECPMF )

Elogiata in passato come modello per i Balcani, la Slovenia – la parte più sviluppata dell'ex Jugoslavia, oggi membro dell'UE e della NATO – presenta molti problemi nel suo panorama mediatico. Il passaggio da ex repubblica socialista a democrazia parlamentare ha portato tanto successi quanto fallimenti, e la struttura proprietaria dei media sembra rimanere uno dei maggiori problemi, in quanto i proprietari dei media controllano apertamente o segretamente le politiche editoriali.

Durante la transizione, gli oligarchi locali hanno fatto fortuna soprattutto collaborando con i politici post-comunisti in discutibili processi di privatizzazione, in modo arbitrario e similmente agli sviluppi in Russia e in altri paesi in transizione. Un elemento importante dell'attuale panorama mediatico sloveno è che quasi tutti i proprietari di media mainstream sono indagati per gravi crimini da parte dell'equivalente sloveno dell'FBI, che si occupa di corruzione, crimine organizzato e terrorismo. Alcuni di loro hanno già subito condanne.
 
Per approfondire sullo stato della libertà dei media in Slovenia, naviga le risorse messe a disposizione dal Resource Centre curato da OBCT, a partire da qui .

Stojan Petrič, proprietario dell'azienda e gruppo di costruzioni Kolektor - che nel 2015 ha acquistato il principale quotidiano sloveno Delo e il tabloid più diffuso nel paese Slovenske novice - è sotto inchiesta per aver abusato della sua posizione e della fiducia nella sua attività commerciale. La polizia ha messo in rilievo come un gruppo di indagati, tra cui Petrič, avrebbero guadagnato almeno 1,8 milioni di euro da attività non lecite.

Ma anche le sue azioni da nuovo proprietario di Delo sono preoccupanti. Subito dopo l'acquisizione ha nominato caporedattore ad interim Gregor Knafelc, capo delle relazioni pubbliche nella sua principale holding, FMR. Knafelc, senza una sola giornata di esperienza giornalistica o editoriale alle spalle, ha licenziato molti giornalisti, per lo più di fama e con esperienza, e modificato in modo significativo la linea editoriale. Knafelc è stato sostituito il primo dicembre 2017 con un nuovo caporedattore ad interim, quindi il giornale rimarrà senza una guida dal pieno mandato.
"Lealtà" e "unità"

In un'insolita intervista rilasciata nel febbraio 2018 al proprio quotidiano, Petrič ha dichiarato di aspettarsi "lealtà" e "unità" dai giornalisti di Delo. Ha elogiato il sistema politico cinese e ha affermato che le nazioni più piccole dovrebbero seguire il modello cinese. Ha anche annunciato nuove acquisizioni di media in Slovenia.

Delo oggi è solo un'ombra del rispettato e influente quotidiano di una volta, paragonabile a The Times o Le Monde, ma la crisi di credibilità era già iniziata nel 2005, quando il governo di destra di Janez Janša è salito al potere e ha iniziato a intromettersi intensamente nella sua politica editoriale, aiutato dall'allora proprietario Boško Šrot. Šrot sta scontando una pena di cinque anni e dieci mesi per abuso d'ufficio in una vendita a catena di una partecipazione del 7,3% nella holding Istrabenz nel 2007, con una condanna aggiuntiva di 5 anni nel 2014 per abuso di posizione o fiducia e per riciclaggio di denaro. Šrot è ancora in prigione.

Nell'ottobre 2017 i pubblici ministeri hanno presentato una richiesta di indagine contro Stojan Petrič e altri co-imputati, che hanno negato qualsiasi accusa.

Il secondo quotidiano sloveno, Dnevnik, appartiene invece al gruppo finanziario DZS dal 2003. L'attività principale di DZS è il turismo. Il proprietario Bojan Petan è indagato in Slovenia e in altri paesi per diversi reati. Rischia fino a otto anni di carcere per abuso di posizione o fiducia in attività commerciali durante la privatizzazione del resort turistico Terme Čatež, che avrebbe portato decine di milioni di euro in guadagni illeciti alla sua società. Inoltre, è stato indagato per crimine organizzato e riciclaggio di denaro da parte della procura speciale in Bosnia Erzegovina. Ha negato qualsiasi illecito.
Operazioni aziendali in paesi offshore

Petan era anche comproprietario della principale agenzia pubblicitaria, di pubbliche relazioni e lobbying Pristop, insieme al socio in affari Franci Zavrl, fondatore di Pristop ed ex proprietario del settimanale di sinistra Mladina, marito della giornalista investigativa Anuška Delić, che ha lavorato con il Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi su Panama e Paradise Papers. Sia Petan che Zavrl hanno operazioni commerciali in paesi offshore e sono stati indagati dalla polizia per appropriazione indebita di decine di milioni di Euro. La polizia slovena ha perquisito gli appartamenti di Petan e Zavrl/Delić e molti altri uffici nel giugno 2014. Anche questa indagine è in corso, e l'imputato nega ogni accusa.

Infine, Bojan Petan è molto ben collegato, e il suo impero economico è un rifugio sicuro per molti ex funzionari dell'intelligence e del governo. Sebastjan Selan, ex direttore generale della principale agenzia di intelligence slovena Sova, è diventato uno dei più importanti manager nel suo impero economico. Anche altre ex spie lavorano per DZS. Nel frattempo, l'ex portavoce del governo Darijan Košir è diventato vicedirettore di Dnevnik e gestisce contemporaneamente la propria società di pubbliche relazioni.

Il processo contro Petan è ancora in corso, mentre sono cadute le accuse contro Zavrl. Tuttavia, questo non è stato l'unico incontro ravvicinato di Zavrl con la giustizia: è stato infatti indagato in passato dalla polizia finlandese e lussemburghese per riciclaggio di denaro per milioni di euro nella questione Patria*, uno dei maggiori scandali in Slovenia negli ultimi dieci anni. Anche queste accuse sono comunque cadute nel nulla.

L'ex primo ministro Janez Janša, che insieme a Zavrl è stato arrestato nel 1988 dall'esercito popolare jugoslavo nel "processo Roška" che ha innescato la cosiddetta "primavera slovena" (un movimento popolare che ha portato a cambiamenti democratici e al movimento di successione della Slovenia nell'allora Jugoslavia), è stato condannato a due anni di carcere per corruzione nell'affare Patria. La condanna di Janša è stata confermata da tutti i tribunali sloveni, inclusa la Corte Suprema. Tuttavia, la Corte Costituzionale ha in seguito abrogato queste sentenze e richiesto un nuovo processo, poi andato in prescrizione.
Guadagni illeciti

Il terzo quotidiano mainstream della Slovenia, Večer, è stato acquistato nel 2014 da Uroš Hakl e Sašo Todorovič, per solo un milione di euro. Tuttavia, l'affare era finanziato principalmente da debiti, e alcuni immobili di proprietà del giornale sono stati subito venduti per finanziarne l'acquisizione.

Todorovič è l'ex amministratore delegato del provider di telecomunicazioni T-2. Hakl è l'ex direttore dell'agenzia Pristop ed è stato anche indagato per abuso d'ufficio. Hakl e i co-imputati del processo nel quale è coinvolto avrebbero guadagnato oltre un milione di euro in aiuti di stato illeciti. Hakl rischia fino a otto anni di carcere. Le indagini sono in corso, e anche lui nega ogni illecito.

Un altro magnate dei media, ma anche del settore tipografico e della gestione dei rifiuti, è Martin Odlazek, condannato a sei mesi di prigione per abuso di posizione e fiducia in attività economiche nel 2013. Ha scontato la pena agli arresti domiciliari. Ma il suo passato criminale non gli ha impedito di espandere il proprio impero mediatico con il nuovo tabloid Svet24 e molti altri settimanali, compreso l'acquisto del settimanale di destra Reporter. Possiede anche diverse stazioni radio slovene.

Nel panorama televisivo sloveno, il servizio pubblico RTV Slovenija continua a fungere da terreno di gioco politico per i principali partiti, che attuano la loro influenza sulla politica editoriale attraverso il Consiglio dei programmi, in cui 21 dei 29 membri sono eletti dal parlamento. Ad esempio, a luglio 2017, il nuovo direttore generale di RTV Slovenia Igor Kadunc ha tentato di sostituire il direttore del programma Ljerka Bizilj per aver violato gli standard editoriali sostenendo la redattrice Jadranka Rebernik che aveva approvato il programma promozionale in prima serata del cantante neo-Ustasha croato Marko Perković "Thompson". La proposta di Kadunc è stata poi rifiutata dal Consiglio dei programmi con la maggioranza dei voti dei membri di destra dello stesso. Questo caso conferma che la politica controlla ancora la politica editoriale delle emittenti pubbliche .

Il proprietario delle quote di maggioranza della piccola emittente televisiva privata Planet TV e del 100% delle azioni del noto media online Siol.net è la società statale di telecomunicazioni Telekom Slovenije, che offre ancora molti canali per l'influenza politica dietro le quinte.

La piccola emittente di partito Nova24TV, fondata dall'SDS di Janez Janša, ha invece ricevuto importanti finanziamenti dall'Ungheria. Alcuni proprietari di media ungheresi, amici intimi del primo ministro ungherese Victor Orban, vi hanno investito almeno 800.000 euro, ricevendo in cambio importanti quote di capitale in un canale di informazione che diffonde costantemente propaganda di destra. Anche il settimanale SDS Demokracija è oggi di proprietà degli amici di Orban. Janez Janša, il cui partito è membro del Partito popolare europeo, è strettamente legato a Orban e alla sua politica anti-immigrazione e anti-liberale.

Ma la vera scossa sismica nel panorama mediatico sloveno è avvenuta a luglio 2017, quando la società Pro Plus (proprietaria dei canali televisivi POP TV e Kanal A, che raggiungono il 70% degli spettatori nel mercato sloveno e ricevono una quota ancora maggiore di entrate pubblicitarie) è stata acquistata per 230 milioni di euro da United Group, di proprietà della società di private equity KKR di New York (Kohlberg, Kravis e Roberts). Prima ancora, Pro Plus apparteneva alla Central European Media Enterprises (CME), incorporata nel paradiso fiscale delle Bermuda.
"I barbari alla porta"

Henry Kravis e George Roberts sono noti come gli inventori del leveraged buy-out, e la loro acquisizione della società RJR Nabisco negli Stati Uniti è stata eloquentemente trasposta in un film di Hollywood del 1993: "I barbari alla porta". Tuttavia, questi "barbari" trovano forte sostegno per le attività di lobby nei Balcani da parte del presidente del KKR Global Institute David Petraeus, ex direttore della CIA e comandante delle forze militari statunitensi in Afghanistan e Iraq, che ha prestato servizio anche nell'operazione di pace NATO nei Balcani.

Petraeus ha fatto visita al primo ministro sloveno Miro Cerar il 18 maggio 2017, esercitando pressioni per l'acquisto della principale compagnia televisiva slovena, che possiede anche il sito più visitato: 24ur.com. Inoltre, KKR ha contemporaneamente acquistato il canale televisivo più visto della Croazia, ma i regolatori croati non hanno approvato questa parte dell'accordo. Dragan Šolak, azionista di minoranza e presidente di United Group, ha incontrato anche il premier Cerar il 19 aprile 2017.

Dopo l'attività di lobby di Petraeus, l'Agenzia slovena per la protezione della concorrenza (CPA) ha dato il via libera all'accordo KKR di 230 milioni di euro, nonostante tale investimento stia creando un'integrazione verticale nei mercati dei media e delle telecomunicazioni, con rischio di monopolio in molti altri mercati locali. Inoltre, la nomina del nuovo direttore della CPA Andrej Matvoz solleva molti dubbi sulla sua indipendenza. Nonostante la mancanza di qualsiasi esperienza in questo impegnativo campo del diritto, è stato nominato dal ministro dello Sviluppo Economico e della Tecnologia come direttore ad interim. Ma la corte slovena ha dichiarato in seguito illegale la decisione. Inoltre, la Commissione slovena per la prevenzione della corruzione ha sporto denuncia contro Matvoz per aver barato in un esame di esperti presso la polizia slovena. Tuttavia, questa serie di questioni non ha impedito alla coalizione politica al governo di confermare Matvoz in parlamento.

L'intensiva attività di lobby è confermata anche dalla decisione del ministero della Cultura sloveno, che ha stabilito formalmente che Pro Plus non è parte correlata dei programmi POP TV e Kanal A, di cui Pro Plus detiene il 100% delle azioni. Pertanto, il ministero della Cultura si è tirato indietro rispetto a qualsiasi decisione in merito all'acquisizione di United Group (KKR), abdicando al proprio ruolo di regolatore dell'industria dei media.

United Group, registrata nei Paesi Bassi, possiede anche le società di telecomunicazioni SBB e Telemach, Sportklub, Total TV, Net TV e molte altre società di comunicazione nell'ex Jugoslavia. Raggiunge 1,74 milioni di famiglie e ha realizzato ricavi per 488 milioni di euro nell'ultimo anno. È uno dei più importanti fornitori di servizi di telecomunicazione e media nei Balcani, offre anche servizi di telefonia mobile e trasmette il canale N1 TV, partner locale della CNN in Croazia, Bosnia e Serbia.

L'azionista di minoranza serbo-sloveno di United Group, Dragan Šolak – fra i più ricchi nei Balcani – opera regolarmente nei paesi offshore. Secondo il settimanale croato Nacional*, la sua controllata United Media con sede a Zurigo è riuscita a canalizzare 6,7 milioni di euro dalla Croazia verso conti segreti in Liechtenstein e Cipro per la trasmissione di licenze senza pagare tasse significative.

Fra una tale concentrazione di proprietari di media con un passato e presente criminali, politici corrotti e aggressivi baroni di Wall Street, è praticamente impossibile lavorare come giornalista indipendente in Slovenia. Molti giornalisti esperti hanno già lasciato la professione o sono stati costretti all'espatrio. D'altra parte, una nuova generazione di giovani giornalisti sembra essersi completamente adattata agli interessi commerciali e agli obiettivi dei nuovi proprietari di media. La solidarietà professionale fa parte di un passato ormai dimenticato. L'etica professionale e personale dei giornalisti al servizio di questi criminali, politici e "barbari" tende a cadere sempre più in basso.


 
* Lo scandalo Patria è stato portato alla luce nel 2008 in collaborazione tra il giornalista finlandese Magnus Berglund (YLE) e l'autore di questo articolo.

** L'inchiesta su Nacional è stata realizzata dall'autore di questo articolo.

Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 10, 2018, 13:37:32 pm
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SLOVACCHIA: Ricette per teorie del complotto, aggiungete Soros q.b.

Gian Marco Moisé 1 giorno fa   

Il primo ministro Robert Fico ha risposto negativamente all’ipotesi di un rimpasto del governo presentata del presidente della repubblica slovacca Andrej Kiska. Non solo, è passato all’offesa ventilando ipotesi di complotto, chiedendo spiegazioni rispetto all’incontro di Kiska con il milionario George Soros, fondatore dell’Open Society Foundation.

Come un vetro appannato

Con il duplice omicidio del giornalista investigativo Ján Kuciak e della sua fidanzata Martina Kušnírová, la cittadinanza è scesa in piazza per manifestare contro la corruzione, la mancanza di trasparenza, e incidentalmente, il governo Fico. Infatti, per quanto il primo ministro stia cercando di rendere la vicenda una questione personale, le proteste nascono da una scarsa lungimiranza della classe dirigente slovacca.

Già nel 2010, il piccolo paese centro-europeo è stato investito dal cosiddetto scandalo del Gorilla,* un rapporto dei servizi segreti che ha esposto una rete di tangenti tra il mondo degli affari e le più alte cariche dello stato. Nel corso del 2016, invece, il governo Fico aveva dovuto giustificare l’indagine ai danni del ministro degli interni Robert Kaliňák, sospettato di aver accettato un pagamento di 260.000 euro da parte dell’uomo d’affari Ladislav Bašternák.

La cosa peggiore è che i chiarimenti giudiziari rispetto alle vicende non sono ancora arrivati. L’esecuzione di Ján Kuciak, che stava indagando sui legami tra personaggi vicini alla ‘Ndrangheta e politici di SMER-SD, il partito del primo ministro, sembra l’ennesimo tentativo di far sparire la polvere sotto il tappeto. I cittadini slovacchi sono scesi in piazza, e tra loro, anche il presidente della repubblica Andrej Kiska, che domenica 4 marzo ha chiesto le elezioni immediate o un rimpasto del governo che metta da parte le figure poco trasparenti. Oggi, in Slovacchia. la popolazione guarda alle sue istituzioni attraverso un vetro appannato.

La teoria del complotto

Dopo aver rifiutato categoricamente le ipotesi ventilate dal presidente, Fico ha parlato di complotto, sostenendo che invece di focalizzarsi su questioni irrilevanti, Kiska dovrebbe spiegare alla cittadinanza perché nel settembre del 2017 si sia incontrato con Soros. L’accusa appare infondata. Infatti, l’incontro non era stato nascosto, ma addirittura reso noto dallo stesso Kiska su Facebook il 25 settembre. Il presidente slovacco ha incontrato il filantropo di origine ungherese negli Stati Uniti nel corso di un viaggio durante il quale si è intrattenuto con decine di persone. Il tema del loro incontro è stata l’integrazione delle comunità rom in est Europa, uno dei capisaldi dell’Open Society Foundation.

Fico sta cercando di distrarre l’opinione pubblica quel tanto che basta da permettergli di salvare il governo. Nonostante i suoi sforzi, lunedì 5 marzo, il ministro della cultura Marek Maďarič, di SMER, si è dimesso sostenendo che: “È chiaro che debbano esserci dei cambiamenti nel governo”, perché sono: “Gli stessi partiti della coalizione a chiederli.”

L’atteggiamento di Fico, oltre ad essere estremamente infantile, è antidemocratico e tristemente comune a larga parte dei leader politici mondiali. Abbiamo visto Donald Trump cercare di spostare l’attenzione sull’amministrazione Obama ogniqualvolta gli venga chiesto se sapesse delle ingerenze russe a suo favore durante la campagna elettorale. Anche se colui che trova in Soros il bersaglio preferito delle sue critiche è senz’altro il premier ungherese Viktor Orbán, con cui Fico sembra avere sempre più punti di contatto.

Il problema è che la cosa spesso funziona, e Soros, insieme ai vaccini e alle scie chimiche, sta entrando a pieno diritto tra gli argomenti più in voga tra i complottisti di tutto il mondo. Il problema non sono le notizie false, ma l’incapacità di distinguere tra il verosimile e il grossolano, tra uno scherzo e un argomento serio. Ne “Il Pendolo di Foucault” Umberto Eco scriveva: “C’era un tale, forse Rubinstein, che quando gli avevano chiesto se credeva in Dio aveva risposto: ‘Oh no, io credo… in qualcosa di molto più grande…’ Ma c’era un altro (forse Chesterton?) che aveva detto: da quando gli uomini non credono più in Dio, non è che non credano più a nulla, credono a tutto“.

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ELEZIONI SLOVACCHIA / 3: La tangentopoli slovacca e le elezioni anticipate

Matteo Zola 10 marzo 2012   

Le elezioni anticipate avrebbero dovuto essere incentrate sull’Europa e sul ruolo della Slovacchia nell’Unione, ma le rivelazioni sulla corruzione politica ai massimi livelli minacciano di far crollare l’intero sistema.

da Presseurop

Cadere sull’Europa

Quando in ottobre il governo di destra di Iveta Radičova è caduto a causa di una disputa sulla partecipazione della Slovacchia al bailout per i paesi indebitati dell’eurozona, è sembrato che il ruolo del paese in Europa avrebbe ridisegnato la politica nazionale.

In molti a quel punto hanno pensato che le elezioni del 10 marzo avrebbero sancito l’inizio di una nuova era in cui l’orientamento pro-europeo avrebbe compattato la coalizione di governo più di qualsiasi tradizionale divergenza ideologica (e nel caso della Slovacchia, anche culturale) tra destra e sinistra.

Spazzati via dal gorilla

Tuttavia, nel giro di qualche mese, la situazione è cambiata radicalmente. L’Europa è finita nel dimenticatoio, e la scena pubblica è ormai dominata dagli scandali legati alla corruzione che stanno sgretolando inesorabilmente la politica slovacca. La pubblicazione del documento “Gorilla“, un rapporto dei servizi segreti slovacchi (Sis) sui legami tra il mondo degli affari e la politica, ha spinto gli elettori (soprattutto quelli di destra) verso nuovi partiti, spuntati come funghi dopo un temporale.

Nel giro di poco tempo, però, anche le nuove formazioni sono state colpite una dopo l’altra da nuovi scandali. Probabilmente la conseguenza principale dell’attuale caos sarà un’affluenza ai minimi storici (45 per cento), con un terzo dei votanti che non ha ancora deciso a chi assegnare la preferenza.

Partiti nella polvere: il Sas

Per comprendere la situazione vale la pena di ripercorrere il cammino di alcune nuove formazioni politiche che recentemente hanno dominato la scena politica (insieme a Gorilla, naturalmente). SaS, giovane partito liberale euroscettico che ha provocato la caduta del partito di Radičova (per la ratifica del trattato sul fondo salva-stati Esm, ndr), ha visto improvvisamente crollare la sua reputazione di partito libero dalla corruzione e animato da saldi principi.

Per trascinarlo nella polvere sono bastate due rivelazioni: il ministro della difesa Ľubomír Galko ha chiesto ai Servizi segreti di intercettare le conversazioni telefoniche di alcuni giornalisti, mentre il leader del partito Richard Sulík ha lasciato che un imprenditore coinvolto nei “Mafia file” esaminasse le candidature del partito prima delle elezioni. Come dimostrano alcuni filmati registrati di nascosto e pubblicati anonimamente, quando era presidente del parlamento Sulík ha incontrato l’uomo d’affari Martin Kočner e gli ha passato informazioni riservate.

Gente ordinaria e 99%, nuove formazioni

Il partito Gente ordinaria di Igor Matovič è un’altra forza che aspira a ricoprire un ruolo di rilievo nella politica slovacca. L’anno scorso Matovič, un giovane populista, ha rotto con SaS ed ha formato una lista separata insieme a diverse personalità di spicco, appartenenti soprattutto ai circoli intellettuali conservatori.

Un’altra nuova formazione politica è 99%, fondata lo scorso ottobre. La sua lista è ricca di nomi sconosciuti, ma il partito ha potuto organizzare una massiccia campagna elettorale grazie al sostegno di una società produttrice di armamenti.

Panico e silenzi

A causa dell’ondata di scandali amplificati dai mezzi d’informazione, i politici slovacchi sono in preda al panico e si rifiutano di rispondere alle domande dei giornalisti e di apparire nei dibattiti televisivi, come è accaduto al leader nazionalista del Sns, Jan Slota, il cui partito è colato a picco nei sondaggi.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 10, 2018, 13:40:48 pm
http://www.eastjournal.net/archives/88734

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Il tonfo dei socialisti in Europa. Il tradimento si paga

Matteo Zola 3 giorni fa   

Un grande sciopero di medici, portuali e dipendenti del trasporto pubblico ha attraversato nelle scorse settimane le vie di Atene, dimenticata capitale del fallimento europeo. Ragione dello sciopero non è la povertà diffusa, il mancato pagamento degli stipendi, la carenza di medicinali negli ospedali, no, a questo i greci si sono abituati. È l’introduzione di una legge che limita il diritto di sciopero. La norma è inserita nell’ultimo, ennesimo, pacchetto di misure di austerità imposto dai creditori. Oh no, non si tratta di una cosa grave, solo una piccola correzione della percentuale di adesioni necessarie per poter indire uno sciopero, ma si sa com’è, i diritti si erodono un poco alla volta, senza clamore, finché non ne resta più nulla. Così i greci scioperano per il diritto di sciopero in un paese guidato – udite udite – da un partito che si definisce “social-democratico” e “marxista”, quello di Alexis Tsipras e dell’altra Europa che, a ben vedere, sembra uguale all’originale.

La sinistra europea è al capolinea, tutta: crollano i partiti di ispirazione social-liberale, si frantumano e polverizzano i movimenti più radicali, rovinano formazioni sopravvissute persino al crollo del comunismo, trasformatesi e riformatesi negli ultimi vent’anni cercando di adeguarsi alle nuove esigenze dell’epoca. A cosa si deve questo tracollo? Forse all’essersi troppo adeguati, all’aver spinto troppo in là il riformismo, abbracciando dottrine economiche e sociali che, di sinistra, hanno sempre meno, nell’illusione che lo zeitgeist del nuovo secolo fosse tutto globalizzazione e liberismo. Forse, per altri, il tracollo si deve all’aver troppo indugiato in sogni novecenteschi, magliette di cheguevara, coltivando chimere del bel tempo che fu, quando c’era lo zio Beppe a guidare le magnifiche sorti e progressive che poi tanto magnifiche non erano.

Di sicuro, per tutti, il crollo si deve all’aver dimenticato i lavoratori. I lavoratori tutti, non gli operai, che non ci sono più, ma quella grande massa di persone private della propria dignità personale in nome della flessibilità, tanto cara a una visione liberista della società, che nei fatti è precarizzazione. Insomma, ingiustizia sociale. La sinistra europea ha appoggiato quando non promosso misure che hanno reintrodotto norme feudali, come il lavoro a chiamata o quello accessorio, privando i cittadini di strumenti contrattuali, riducendo gli spazi della negoziazione, fino ad atomizzare il lavoro, mettendo tutti contro tutti, e persino poveri contro poveri.

La sinistra europea ha tradito i lavoratori, e il tradimento si paga.

Si è visto in Francia, dove il partito socialista è uscito distrutto da anni di governo in cui non ha saputo dare risposta al malessere sociale, e dove ora il bel Macron – fumo negli occhi della sinistra giovanilista, insieme al Picketty – sta forzando la mano proprio sul lavoro allo scopo di introdurre precarietà a dosi massicce. E si è visto in Germania dove, dopo anni di grandi coalizioni, l’SPD è diventato stampella di esecutivi votati a ridurre i diritti sul lavoro (no, la Germania non è il paradiso dei lavoratori che alcuni decantano!). I cittadini tedeschi si aspettavano di più da un partito che vanta, tra i suoi padri nobili, Karl Marx. Si aspettavano cioè di non dover calare le brache di fronte al dogma della produttività, di non trovarsi a fare i conti con uno stato sociale punitivo come quello incarnato dal Piano Harz, un inferno voluto dal governo socialista di Gerhard Schröder e che, dal 2005, toglie dignità a coloro che sono socialmente più deboli. E infine, si è visto anche in Italia dopo le ultime elezioni, e c’era da aspettarselo.

È un fenomeno europeo, dicono i politici di sinistra a propria discolpa, ma è proprio la dimensione europea che li inchioda: il tradimento dei lavoratori è andato di pari passo con l’adesione supina alle misure imposte da Bruxelles, ovvero a una visione dell’economia tutta votata al mercato e alla finanza, che ha visto nell’austerità uno strumento punitivo piuttosto che correttivo. Non a caso i creditori che oggi impongono una revisione del diritto di sciopero in Grecia sono la Banca centrale europea e la Commissione europea, oltre al Fondo monetario ovviamente. L’aver sostenuto, appoggiato, approvato norme siffatte (si pensi al famigerato pareggio di bilancio in Costituzione) costituisce anche un secondo tradimento, quello democratico: accettando cioè di farsi dettare l’agenda economica da un organismo scarsamente rappresentativo della volontà popolare, in parte sottratto a qualsiasi controllo di natura democratica, i partiti di sinistra hanno mancato nel correggere, limitare, fermare le derive dell’Unione. O forse non hanno voluto, accecati dal mito mitterandiano dell’euro-socialismo. Ma non era certo per questa Europa che Spinelli si è fatto il confino.

La crescita dell’estrema destra in Europa occidentale è collegata al fallimento delle sinistre.

È così che va se tradisci il lavoro. Lasci uno spazio politico che viene riempito dalla canaglia. Il tradimento dei lavoratori e dei cittadini si paga. Le forze reazionarie sanno cogliere questo malcontento. Lo useranno a quali fini? Occorrerà aspettare ancora un decennio prima che la sinistra comprenda l’errore storico che ha compiuto. Prima che ci si renda conto che rappresentare i lavoratori – vocazione e missione della sinistra – significa comprenderne le paure, trovare risposte, difendere i ceti meno abbienti e quelli intermedi dalle storture e della aggressioni del mercantilismo, opponendosi allo zeitgeist, individuando strade nuove, riaffermando il primato della politica sull’economia, smantellando se necessario quelle istituzioni che rendono i cittadini servi della gleba. Occorre che la sinistra comprenda che quelli che prima, anche decenni fa, votavano per i partiti comunisti o socialisti occidentali, sono esattamente gli stessi che oggi votano per i fronti nazionali e le leghe alternative. Ci vorrà tempo ma è necessario che la sinistra faccia piazza pulita dello snobismo intellettuale che vede negli altri, quelli che votano per la reazione, una massa di buzzurri ignoranti nemici del popolo. È quello il popolo.

Oh, il popolo, vituperata parola una volta cara alle bandiere rosse! La fiumana del quarto stato è ancora lì, e sempre più genti a ingrossarla. Il colore della bandiera conta. Non si può lasciare in mano alle destre sociali, ai movimenti reazionari, la difesa delle istanze popolari poiché quelli le useranno per fini assai poco democratici. Smantellare l’Europa a colpi di post-fascismo non è una soluzione ma ripensarla è necessario, perché c’è un nesso evidente tra misure economiche europee, vincoli comunitari, dottrine votate all’austerità e politiche del lavoro nei singoli paesi. È tempo che la sinistra europea torni a farsi espressione di questa fiumana lasciando da parte il conformismo europeista e la fascinazione finanziaria. Nel frattempo preghiamo che l’Europa ci sia ancora, che non restino solo macerie umane e materiali dopo la presa del potere delle forze reazionarie e delle loro parole d’ordine a passo dell’oca.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 10, 2018, 13:50:01 pm
Anche ad est parlano di femminicidio.

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Turchia/Turchia-la-mappa-della-violenza-sulle-donne-185984

Citazione
Turchia: la mappa della violenza sulle donne

Intervista con Ceyda Ulukaya, giornalista ed ideatrice della prima mappa del femminicidio in Turchia, un originale e apprezzato progetto di data journalism
08/03/2018 -  Fazıla Mat   

Ceyda Ulukaya, è giornalista ed ideatrice della prima mappa del femminicidio in Turchia. Il progetto, realizzato in collaborazione con Sevil Şeten e Yakup Çetinkaya, è stato nel 2016 tra i finalisti dei Data Journalism Awards, nella sezione Small Newsroom. La mappa copre il periodo tra il 2010 e il 2017, in cui sono state uccise almeno 1964 donne. Oltre a fornire la data e il luogo degli omicidi, ha dei filtri qualitativi che indicano le generalità delle donne uccise, il tipo di rapporto che gli omicidi avevano con le vittime, il “pretesto” dell’omicidio e l’esito per quanto riguarda l’omicida. Per la giornalista si tratta quasi di un bollettino di guerra. Nostra intervista.

Com’è nata l’idea di questo progetto?

È nata verso la fine del 2014, quando ho iniziato ad occuparmi di data journalism. Conoscevo il centro Bianet ed ero al corrente dei loro report annuali sulla violenza maschile perché avevo svolto lì uno stage. Conseguentemente ho iniziato ad analizzare la Convenzione di Istanbul, secondo la quale gli Stati firmatari sono tenuti a raccogliere i dati relativi agli omicidi delle donne. L’idea era quella di creare una mappa che potesse mettere in luce la gravità del fenomeno in maniera semplice e immediata, soprattutto per chi non si occupa della questione in maniera specialistica. Ho presentato domanda al programma di giornalismo investigativo Objective della piattaforma P24, che mi ha assegnato un fondo per portare avanti il lavoro, durato un anno. Il sito è stato poi pubblicato per la prima volta il 25 novembre 2015. Mi piacerebbe arrivare a coprire almeno 10 anni, fino al 2020, ma è necessario trovare nuovi finanziamenti.

Su quali fonti ha condotto la raccolta dei dati?

All’inizio avevo immaginato di poter ottenere i dati che mi servivano presentando domanda ai vari ministeri, sulla base del diritto di accesso alle informazioni pubbliche. Speravo così di ricavare anche delle informazioni dettagliate sulle donne. Purtroppo però, nessuna delle domande che ho presentato ha avuto risposta. Ciascuna delle sedi interpellate mi ha indirizzato all’altra, dicendomi di rivolgere la richiesta al ministero della Giustizia, alla gendarmeria, alla questura, al ministero dell’Interno… In ultima istanza mi è stato detto che i dati richiesti rendevano necessario un lavoro aggiuntivo e dunque non era possibile comunicarli.
Un'immagine tratta dalla mappa, interattiva e in continuo aggiornamento , sui femminicidi in Turchia

Ma i ministeri non dispongono di dati propri?

I ministeri, soprattutto quello delle Politiche per la famiglia, pubblicano periodicamente delle statistiche sul tema. Addirittura nel 2009, quest’ultimo aveva comunicato che c’era stato un aumento del 1400% negli omicidi delle donne, suscitando un grande polverone. Il ministero ha poi continuato ad aggiornare quei dati, con numeri che sono diventati molto più “accettabili”. Tuttavia, quando ho presentato domanda per avere accesso a questa informazione, mi è stato detto che non esiste un simile dato. Quindi non è chiaro se ne siano effettivamente in possesso. D’altra parte alcune organizzazioni di donne e la stessa Bianet hanno iniziato a contare i casi di femminicidio proprio a causa di questa incongruenza. Quindi, di fronte a una simile difficoltà, e volendo adottare il massimo della trasparenza sul tema, i media sono diventati la fonte diretta da cui attingere questi dati.

Quale metodo ha utilizzato per la raccolta dei dati?

Ho utilizzato come punto di partenza i bollettini di Bianet sulla violenza maschile, che sono redatti in forma di rapporto. In questi rapporti viene detto, ad esempio, che una donna, identificata con delle iniziali, è stata uccisa per accoltellamento in una data città. In particolare, nei casi un po’ più datati si fa spesso ricorso alle iniziali delle donne uccise. Per ciascuno di questi casi, quando mancavano informazioni, ho proceduto a fare una ricerca su Google, digitando le informazioni che avevo, o immaginando i titoli che i giornali locali avrebbero potuto dare al pezzo. In questo modo sono risalita alla notizia apparsa sulla stampa per ogni singolo caso. La prima mappatura comprendeva il periodo tra il 2010 e il 2015, mentre ora arriva a coprire i casi fino alla fine del 2017.

Pensa che i media riportino in maniera esaustiva i casi delle donne uccise?

Assolutamente no. Ed è per questo che nel fornire i numeri ribadiamo sempre che si tratta del numero minimo, che sono state uccise “almeno” un tot donne. Poi ci sono dei casi in cui le donne vengono indotte a suicidarsi. Anche su questo ogni tanto sono state riportate delle notizie, ma c’è indefinitezza sull’argomento e non si riesce a dire con esattezza quali e quanti casi rientrino in questa casistica. Molti altri omicidi vengono taciuti. Ad esempio il 25 novembre del 2017 ho preparato e inviato ai vari media un video assieme ad un comunicato che comprendeva i dati della mappa sul femminicidio. Secondo i dati della mappa Bayburt risultava come l’unica città dove non erano state uccise donne. E i media avevano riportato la notizia dicendo che Bayburt era la città ideale per loro. Ma qualche giorno dopo ho ricevuto un’email con cui mi veniva chiesto di rettificare questa immagine immeritata che avevo dato alla città, con il link ad una notizia su un delitto commesso lì contro una donna. Ci sono dunque dei casi in cui la notizia appare sui giornali locali, ma non raggiunge un pubblico più vasto e rimane perciò nell’ombra. Almeno però ora c’è un canale aggiuntivo dove le persone possono fare le loro segnalazioni.

Qual è il pretesto principale dei femminicidi in Turchia?

Al primo posto troviamo un pretesto “indefinito”. Questo significa che nel 22,4% dei casi conteggiati la notizia riportata sulla stampa non forniva informazioni sulla causa che avrebbe portato al delitto. Segue al secondo posto il pretesto della lite/discussione (nel 16,5% dei casi), ma anche questo è un movente estremamente vago. È infatti difficile pensare che negli altri casi non ci sia stata una discussione prima dell’omicidio. Sembra invece dare qualche elemento di riflessione la terza opzione,  il “sospetto di tradimento”. Va tenuto conto che la categoria del “pretesto” è stata preparata sulla base delle dichiarazioni fatte dai responsabili degli omicidi. Ma vediamo spesso che sono in molti a dichiarare di aver ucciso per sospetto di tradimento perché i colpevoli sperano  in tal modo di ridurre la pena. Altre attenuanti della pena sono la buona condotta - quando ad esempio l’uomo si presenta in tribunale indossando una cravatta e si dimostra remissivo di fronte al giudice. Vediamo che condanne all’ergastolo vengono ridotte a 8 anni, perché sono tenuti in conto la provocazione che gli uomini affermano di avere subito, la loro buona condotta davanti ai giudici e la legge sui crimini penali. Un altro, tra i pretesti di omicidio più frequenti, è il rifiuto da parte della donna di accettare la proposta di riconciliazione dell’uomo. Sono casi in cui ad esempio, l’uomo si reca dalla moglie, che è tornata a vivere a casa dei genitori. Il marito si presenta e chiede di far pace, ma ci va con la pistola, con l’idea che se non verrà accettato ucciderà la donna e, a volte, anche le persone che si trovano con lei in quel momento. Ma anche il fatto che una donna abbia riso, o che non abbia lavato il bucato, sono pretesti per ucciderle.

Chi sono gli uomini che commettono gli omicidi?

Al primo posto si collocano i mariti (40,6%), al secondo i fidanzati (11,4%). L’aggressore “sconosciuto” si trova all’ottavo posto, e rappresenta solo l’3,8% dei casi. I responsabili degli omicidi sono quasi tutti uomini che fanno parte della quotidianità della donna con la quale si trovano relazionati. Si tratta di una situazione tragica, perché troviamo moltissimi parenti di primo grado, inclusi padri, fratelli, generi e figli.

Cosa emerge invece nella sezione destinata all’esito degli omicidi?

Nel 59,7% dei casi, i colpevoli sono stati arrestati. Il secondo esito più frequente (17,6%) è il suicidio dell’assassino, seguito dalla resa alla polizia (11,5%). Nel 6,2% dei casi l’esito è “sconosciuto”, semplicemente perché non era riportato sul giornale esaminato. Non era possibile per me seguire tutto l’iter giudiziario dei singoli casi. Ma ci sono delle organizzazioni delle donne che lo fanno. Io però ho tenuto traccia di altri dati. Ho segnato se prima dell’omicidio c’era stato un periodo in cui la donna aveva cercato di separarsi o di divorziare dall’uomo. Oppure se aveva presentato un esposto alle autorità, o se si erano registrati precedenti episodi di violenza. La mappa indica che almeno 246 donne avevano notificato le minacce alle autorità, mentre 369 omicidi sono stati preceduti da eventi di violenza o di minaccia.

Qual è il quadro complessivo che emerge da questa mappa?

La stampa riporta questi omicidi come eventi di cronaca nera, come se fossero casi singoli, fatti tragici a sé stanti. Ma quando li osserviamo nel loro insieme emerge un unico schema ripetitivo. Questi omicidi si assomigliano tutti, hanno pretesti ed esecutori simili, che appartengono per la maggior parte alla cerchia familiare delle vittime. E questo ci dice molto sull’origine del problema e su come potrebbe essere contrastato. Ma la possibilità di contrastarlo dipende dall’intenzione. Volendo, a livello locale, nelle province dove c’è un numero più alto di omicidi si potrebbero sviluppare meccanismi di protezione per le donne, mentre a livello nazionale si potrebbero implementare misure legali più efficienti. Ad esempio si potrebbe fare in modo che il pretesto del sospetto di tradimento non sia più un’attenuante. La Convenzione di Istanbul è uno strumento molto importante, impone agli Stati di conteggiare gli omicidi delle donne, ma questo non viene fatto. Questa mappa dice tante cose, ma solo a chi le vuole ascoltare.
Questo articolo è pubblicato in associazione con
e distribuito con licenza (CC BY-SA 4.0)
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Sardus_Pater - Marzo 10, 2018, 23:07:29 pm
http://www.eastjournal.net/archives/88800

Ma in pratica è un articolo filo Soros.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 12, 2018, 23:59:02 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Croazia-l-UE-critica-sui-veterani-di-guerra-186618

Citazione
Croazia, l'UE critica sui veterani di guerra

La Commissione europea punta il dito sull'esecutivo di Zagabria con riferimento alla recente legge sui veterani di guerra, i cui "privilegi", pensioni comprese, secondo Bruxelles renderebbero il welfare croato poco equo
12/03/2018 -  Giovanni Vale   

Troppi diritti ai veterani di guerra croati, parola dell’Unione europea. Nel suo ultimo rapporto sulla situazione economica nel paese, la Commissione europea ha infatti notato "l’esistenza di categorie privilegiate come quella dei reduci di guerra" e ha chiesto a Zagabria di intervenire per rendere il proprio welfare più equo nei confronti degli altri cittadini.

La scorsa settimana, l’esecutivo europeo ha pubblicato un documento di 73 pagine relativo all’andamento economico della Croazia nell’ambito del cosiddetto Semestre europeo. Nel commentare la ripresa "che dovrebbe continuare nei prossimi due anni" e al tempo stesso il fatto che il paese "ha realizzato pochi progressi nell’affrontare le raccomandazioni specifiche rivoltegli nel 2017", la Commissione torna a concentrarsi sul tema dei branitelji, ovvero dei «difensori» della «guerra patriottica croata» (così com’è ufficialmente chiamata in Croazia la guerra degli anni '90). Diciamo che «torna» ad intervenire sull’argomento perché, come fa notare il portale Index.hr , Bruxelles aveva già evidenziato, nel suo rapporto del 2016 , che "i criteri di eleggibilità per i sussidi di protezione sociale sono inconsistenti (in Croazia, nda.)", dato che a lato di uno schema generale rigido, coesistono "altri schemi che si applicano a precise categorie, come quella dei reduci di guerra e delle loro famiglie". Questa volta, tuttavia, l’intervento dell’Ue è decisamente più netto, colpevole anche l’iniziativa del governo Plenković che nel frattempo ha proposto di estendere, invece che limitare, questi privilegi.
Più diritti ai veterani

Che i branitelji, i «difensori» della guerra di indipendenza croata, godessero di uno status speciale all’interno della società non c’erano dubbi. Numerosissimi e spesso rappresentati da leader molto presenti nei media, i veterani di guerra sono in effetti una presenza immancabile nel dibattito politico in Croazia. Ma che il loro trattamento - «privilegiato» per citare il documento comunitario - fosse tale da preoccupare l’esecutivo europeo, questa è una novità rilevante. La Commissione europea, come detto, mette nero su bianco che "le autorità (croate, nda.) hanno proposto di estendere ulteriormente i benefici assicurati agli ex combattenti e alle loro famiglie, provocando così un aumento dei loro plafonds pensionistici". Ma non solo, l’iniziativa legislativa di Andrej Plenković avviene mentre "pochi progressi sono stati fatti per facilitare il reinserimento dei veterani di guerra nel mercato del lavoro" e in un momento in cui "le pensioni dei veterani sono generalmente più del doppio di quelle previste dallo schema ordinario".

Il riferimento fatto dall’esecutivo europeo è "alla legge adottata dal governo nel novembre del 2017" e che "riapre la possibilità di registrarsi come ex combattenti, riduce il limite di età per andare in pensione ed estende ai famigliari il diritto di ereditare le pensioni dei veterani". La misura che il governo conservatore croato propone va insomma in controcorrente rispetto alla velata osservazione dell’Ue fatta già nel 2016, al punto da introdurre "anche un numero supplementare di privilegi sociali per i reduci di guerra" e da imporre "l’obbligo di finanziare le associazioni di veterani (tra lo 0,3% e l’1% del budget dei governi locali)". Ed è interessante notare che Bruxelles non avanza ragioni economiche per criticare l’iniziativa della squadra di Plenković - si potrebbe ad esempio pensare all’elevato debito pubblico, che seppur in calo, si mantiene comunque al disopra dell’80% del Pil - ma denuncia un peggioramento del sistema di welfare croato, già "afflitto da una scarsa individuazione di chi ha davvero bisogno e dall’esistenza di categorie privilegiate come quella degli ex combattenti".
Un elettorato indispensabile

Se c’è un motivo per cui Andrej Plenković non soltanto disattende le raccomandazioni europee in questo ambito ma va apertamente contro il parere di Bruxelles, quel motivo è politico. In Croazia, i branitelji rappresentano una fetta di elettorato fondamentale e, grazie a dei leader noti a livello nazionale, sono in grado di pesare molto sulla bilancia politica. I dati rendono un’idea dell’ampiezza del fenomeno. Nella primavera del 2016, il registro dei veterani di guerra presso il ministero degli Ex Combattenti contava più di 505mila persone, in crescita rispetto agli anni precedenti. In percentuale, si tratta di oltre il 12% della popolazione croata. È chiaro che si tratta di un segmento sociale ampio e dunque non riconducibile ad un solo pensiero o orientamento politico, ma i gruppi più rumorosi sono tradizionalmente schierati a destra ed in grado di influenzare pesantemente l’Unione democratica croata (Hdz), il partito del premier Plenković, all’interno del quale contano non pochi sostenitori tra i più intransigenti.

A dimostrazione dell’importanza dei veterani di guerra, si pensi al gesto della presidente Kolinda Grabar-Kitarović, che nel giorno stesso della sua elezione a capo di Stato nel gennaio del 2015, decise di andare ad incontrare proprio i branitelji. A loro, che accampavano da mesi nel centro di Zagabria per protestare contro l’allora governo socialdemocratico di Zoran Milanović, la neoeletta presidente assicurò il proprio sostegno incondizionato. Ad un appuntamento elettorale successivo, quando nel settembre 2016 l’attuale premier Plenković sfidò l’ex capo dell’Sdp Milanović, fu quest’ultimo a recarsi proprio dai veterani, nel tentativo (vano) di convincerli a non votare per i conservatori. Le frasi del leader socialdemocratico, registrate e diffuse con o senza il suo consenso, gli valsero non soltanto la sconfitta alle urne ma pure la carica da segretario dell’Sdp. Per convincere gli ex combattenti a votare per lui, Milanović si era lasciato andare a dichiarazioni contro i serbi, che a detta del socialdemocratico "vorrebbero essere i padroni dei Balcani, ma sono solo una manciata di miserabili".

Più di recente ancora, gli ex combattenti delle Forze croate di difesa (Hos) hanno protestato contro la decisione di una commissione governativa di dichiarare incostituzionale il saluto ustascia «Za dom spremni!» (Per la patria, pronti!), che loro regolarmente usano in pubblico durante le loro commemorazioni. La commissione, nominata proprio dall’esecutivo Plenković per risolvere le questioni legate ai regimi del passato, aveva pertanto autorizzato delle eccezioni al divieto all’uso del saluto, proprio per permettere all’Hos di continuare con le proprie commemorazioni. Ma i veterani hanno comunque deciso di protestare.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 20, 2018, 19:45:56 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-ammalarsi-d-ospedale-186696

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Romania: ammalarsi d'ospedale

I rumeni hanno paura a recarsi in ospedale e non senza ragione: si può entrare con una banale febbre ed uscire con un’infezione mortale. Un’inchiesta
19/03/2018 -  Laura-Maria Ilie,  Florentin Cassonnet   

(Originariamente pubblicato da Le Courrier des Balkans il 6 marzo 2018)


Gennaio 2018, ospedale di Sibiu: Adolf e Alexandra Lichtenstein hanno appena perso il figlio di tredici giorni. “Aveva la febbre, rifiutava il cibo, aveva la dissenteria e allora siamo andati all’ospedale”, spiega il padre al microfono della tv Digi24. “Gli infermieri hanno iniziato ad insultarci e ad affermare di disturbarli per una banale febbre. L’ospedale è in uno stato disastroso: sporcizia, vecchie coperte, il bimbo è stato messo in un letto di metallo arrugginito”. L’autopsia rivelerà più tardi la causa del decesso: una meningite di origine batterica non rilevata dagli esami effettuati e il batterio E-coli ESBL, una specie multiresistente contratta alla nascita.


Nello stesso momento, all’ospedale Sfântul Pantelimon di Bucarest, anche Nicoleta Radu perdeva il figlio, nato con parto cesareo, ucciso da un altro batterio multi-resistente di tipo Klebsiella. Secondo i medici le sarebbe stato trasmesso dalla madre ma Nicoleta non ci crede. “Sono stata seguita per tutta la gravidanza e tutto andava bene”, spiega, convinta che il figlio abbia contratto il batterio nell’ospedale Sfântul Pantelimon. Un ospedale che sarebbe “conosciuto per ospitare il batterio Klebsiela” afferma Vasile Barbu, presidente dell’Associazione nazionale dei pazienti. “Dopo la morte di mio figlio sono arrivati dei dottori ed hanno disinfettato tutto e preso dei campioni. Eravamo tutti scioccati. Sembrava cercassero di nascondere qualche cosa”, racconta Nicoleta.

Quello che “cercavano di nascondere” è senza dubbio l’ampiezza delle infezioni contratte negli ospedali della Romania. I batteri sono organismi viventi che negli ospedali subiscono forti pressioni selettive come conseguenza dell’utilizzo massiccio di disinfettanti e antibiotici. Le specie più deboli muoiono ma le più resistenti sopravvivono, mutano e si propagano. E divengono più pericolose. Un batterio viene chiamato multi-resistente quando resiste a più famiglie di antibiotici. È per non accelerare questo processo di selezione naturale dei batteri che in Francia si pubblicizza lo slogan “L’antibiotico, non è automatico”. In effetti la multi-resistenza può portare all’impasse terapeutica. I ricercatori temono infatti la nascita di “supergermi”, microorganismi resistenti ai medicinali conosciuti e potenzialmente devastanti, che potrebbero quindi causare terribili epidemie.
La tragedia del Colectiv

Ogni anno quasi quattro milioni di rumeni entrano in ospedale ed è proprio a seguito dei ricoveri ospedalieri che si propaga questo tipo di infezioni. Elena Copaciu è professoressa presso l’Università di medicina Carol Davila. Ci riceve tra due visite ambulatoriali che effettua presso una clinica privata dove lavora. È stata in passato capo-anestesista dell’unità di cure intensive dell’Ospedale universitario di Bucarest. “Gli epidemiologi controllano la situazione da più di vent’anni ed hanno visto i germi divenire sempre più resistenti. L’Oms ha redatto una lista dei batteri multi-resistenti più pericolosi e purtroppo noi, nel nostro quotidiano, ne incontriamo parecchi”, afferma. Una minaccia molto seria per la Romania che quindi “deve assolutamente partecipare allo sforzo mondiale per limitare la propagazione di queste specie”.

È con la tragedia del Colectiv, nel 2015 e con lo “scandalo Hexipharma” che ne è seguito che la questione è arrivata alla luce del giorno. I neonati e le persone anziane sono i più vulnerabili, ma chi ha subito ustioni lo è ancora di più: le ustioni permettono ai batteri di entrare nel corpo umano. Tra i 65 morti dell’incendio nella discoteca di Bucarest, il 31 ottobre del 2015, più della metà sono decedute all’ospedale non a seguito delle ferite ma per infezioni contratte proprio durante il ricovero.

È evidente che molte altre persone morivano negli ospedali rumeni anche prima di questa tragedia ma nessuno sembrava accorgersene. Da qualche anno l’Unità di cure intensive (ICU) per le bruciature e la chirurgia plastica dell’ospedale Arşi a Bucarest sembra a volte, secondo le parole di Comelia Roiu, dottoressa anestesista “una valle della morte”. “Sapete qual è il tasso di mortalità all’ICU?” Ha chiesto una volta al direttore generale dell’ospedale, attualmente ancora in carica. “Sì, del 90%”. “E vi lascia indifferente?”. Quest’ultimo avrebbe alzato le spalle e se ne sarebbe andato senza rispondere. Un segno di disinteresse, abbandono o sconfitta?

Mentre i feriti del Colectiv, sopravvissuti all’incendio, morivano in ospedale, il ministro della Salute dell’epoca, Nicolae Bănicioiu (Partito socialdemocratico) assicurava che gli ospedali rumeni possedevano “tutto quanto era necessario” ed offrivano condizioni sanitarie “simili a quelle della Germania”. Alcuni giornalisti rumeni allora hanno cercato di comprendere meglio la situazione. Ed è scoppiato uno scandalo sanitario: l’affare “Hexipharma” prende il nome dal produttore di prodotti per l’igiene che vendeva agli ospedali disinfettanti diluiti con l’acqua. Tra il 2010 e il 2016 la Hexipharma avrebbe “indotto all’errore” 340 ospedali sui 554 del paese. In Romania sono i direttori d’ospedale che firmano i contratti d’acquisto e non vi è alcuna autorità indipendente che controlla i prodotti utilizzati.

Hexipharma non è la sola azienda coinvolta e molte altre si sarebbero infilate nel vuoto di controllo da parte delle autorità statali. Una settimana dopo la pubblicazione del primo articolo sulla frode di Hexipharma, è stata aperta un’inchiesta giudiziaria su Dan Condrea, proprietario dell’azienda. Tre settimane più tardi, il 26 maggio del 2016, quest’ultimo è morto in un incidente stradale. Il processo Hexipharma è tutt’ora in corso.
Dati falsati

Ma in questo scandalo legato alla corruzione, è tutto il sistema che viene tirato in causa. Dopo il Colectiv, le autorità hanno finalmente avviato controlli negli ospedali di Bucarest: secondo queste indagini meno dell’1% dei pazienti ospedalizzati erano portatori di uno o più batteri all’uscita dall’ospedale. Un risultato sorprendente dato che la media europea è del 5,7%. E allora in Romania qual è la cifra vera: 10, 15, 20%? Di più? “Impossibile saperlo perché i dati ufficiali sono falsi, il fenomeno è largamente sotto-stimato”, continua Elena Copaciu. “si riporta ciò che abbiamo trovato e non ciò che non abbiamo trovato”, si difende Adina Enescu, direttrice medica dell’ospedale di Pitești. Dicendolo in altro modo: perlomeno si chiudono gli occhi, se non si camuffa consapevolmente il problema.

Camelia Roiu rifiuta questa politica dello struzzo. Dopo aver allertato il suo direttore medico ha informato della questione anche la direttrice dell’ospedale che le ha risposto che non era un suo problema. Dopo aver seguito tutte le strade interne si è quindi rivolta alla stampa ed è divenuta una whistleblower. Nel dicembre 2015 ha contattato il giornalista Cătălin Tolontan, autore dell’inchiesta su Hexipharma. Ora è stanca da anni di lotta ed è recalcitrante nell’incontrare giornalisti. Camelia Roiu ha anche provato, qualche anno fa, di partire per lavorare in Francia ma vi ha trovato un’accoglienza “fredda” e non se l’è sentita di proseguire con quello sradicamento. È resistita un mese ed è poi rientrata in Romania dove ha continuato nel suo posto di anestesista presso l’Unità di cure intensive dell’Ospedale Arşi.

Da anni Camelia Roiu denuncia l’indolenza, la disumanizzazione e la mancanza di professionalità dei medici che non rispettano sistematicamente i protocolli di igiene di base come quello di lavarsi le mani prima di toccare i pazienti o di portare la mascherina. “Siamo noi, i medici, i primi colpevoli. Molti la pensano come me ma sono dei vigliacchi, seguono i loro interessi, dicono che tengono famiglia, figli da crescere e che hanno bisogno del loro lavoro. Sono abituati al compromesso, alle piccole bustarelle... Preferiscono mantenere lo status quo, non vogliono cambiamenti, non vogliono scandali. Che i malati muoiano o sopravvivano, se ne fregano”.

Si trattava di un caso molto particolare, ma come è potuto accadere? “Le mosche - spiega Camelia Roiu - entrano dalle finestre, si posano sui pazienti e depongono loro uova dopo aver messo le zampe dappertutto”. Possono entrare dalla finestra o dai sistemi di ventilazione. L'ospedale Arşi è stato costruito cent'anni fa. Numerosi altri ospedali del paese hanno almeno 60 o 70 anni. Nessun ospedale nuovo è stato costruito dalla caduta del comunismo nel 1989, ci si è limitati a ristrutturare. Nel 2017 il budget dedicato al settore sanitario rappresentava il 4,6% del Pil rumeno, corrispondente a 7,7 miliardi di euro.

Rispetto alle infezioni ospedaliere i prodotti disinfettanti sono poco efficaci perché i batteri sono ovunque: nei muri, nei sistemi di areazione. Servirebbe ricostruire questi edifici dal nuovo. “È una lotta eterna, una lotta per la sopravvivenza, non si deve lasciar perdere, altrimenti potrebbe accaderci qualcosa di veramente grave”, sottolinea Elena Copaciu. Si riferisce al giorno in cui questi super-germi usciranno dagli ospedali, divenendo fuori controllo e diffondendosi tra la popolazione.
Un sistema che non s'interessa dei singoli

Secondo la legislazione rumena segnalare infezioni ospedaliere è compito del medico responsabile del reparto in cui si sono verificate, poi del direttore sanitario ed infine del direttore dell'ospedale. Ecco perché i medici e i direttori degli ospedali sono “reticenti a riportare la corretta situazione” e perché nessuno conosce dati effettivi relativamente alle infezioni ospedaliere in Romania: temono di essere coinvolti in un procedimento giudiziario. “Fin tanto che la legge continuerà ad essere così il fenomeno sarà sottostimato”, afferma Elena Copaciu.

Di fatto un sistema che non s'interessa del destino dei singoli. Il ministero della Sanità Sorina Pintea (Socialdemocratici) ha recentemente denunciato “l'indolenza e la pigrizia” dei medici ed ha promesso che dopo l'aumento dei loro salari saranno sottomessi a valutazioni più severe. Cosa promessa, cosa dovuta: a fine febbraio il governo ha aumentato il salario dei medici di circa 1000 euro. “Con questo aumento ci si aspetta servizi medici di migliore qualità ma se le strutture nelle quali lavoriamo non offrono buone condizioni, non sarà possibile”, chiarisce Victor Eşanu, presidente della Federazione dei sindacati dei medici della Romania. Rimane pertanto ancora più vantaggioso emigrare per esercitare all'estero, guadagnando di più e non dovendo condividere le responsabilità di un sistema che sta affondando. Ogni anno 3000 nuovi medici arrivano sul mercato del lavoro e 3500 lasciano il paese.

“Il ministero della Salute non coordina gli sforzi, i vari progetti non hanno sostenibilità, nessuno si appoggia su professionisti per determinare le direttive. A volte i ministri non capiscono appieno le richieste degli esperti. Si sono alternati 27 o 28 ministri della Salute dal 1989 e, ogni volta, i progetti del predecessore vengono abbandonati. I funzionari si adeguano ad ogni ministro entrante”, continua Elena Copaciu, che denuncia in modo diplomatico il pressapochismo e la polarizzazione presente all'interno delle istituzioni sanitarie.

Camelia Roiu lo dice in termini meno diplomatici: “I direttori degli ospedali sono di nomina politica e spesso non hanno le competenze adeguate per l'incarico che ricoprono. La formazione per il management ospedaliero consiste in un corso di tre mesi, io l'ho frequentato, è una presa in giro. Queste persone sono nominate solo per favorire contratti con determinate aziende legate al partito. Se il sistema continuerà ad essere controllato politicamente, non vi sarà alcun miglioramento. Nemmeno il governo tecnocratico di Dacian Cioloș, arrivato al potere dopo le dimissioni del gabinetto Ponta, a seguito della tragedia del Colectiv, non ha cambiato nulla. Io ci speravo, ma non è accaduto nulla”, continua Camelia Roiu. Ciononostante è proprio sotto l'impulso del ministro della Salute “tecnocratico” Achimaș-Cadariu, nel 2016, che è stato implementato un “Piano nazionale di sorveglianza per le infezioni ospedaliere”. Nessuno sa, due ministri della Salute più tardi, se è ancora in vigore o meno.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 20, 2018, 19:59:40 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/La-Bosnia-Erzegovina-si-svuota-186646

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La Bosnia Erzegovina si svuota

In Bosnia Erzegovina è in atto una continua fuga di persone verso l'estero. Le Ong denunciano, le autorità si tappano le orecchie
15/03/2018 -  Dženana Karabegović   

(Pubblicato originariamente da Radio Slobodna Evropa , selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans e OBCT)


35.000 persone avrebbero lasciato la Bosnia Erzegovina nei primi dieci mesi del 2017. La Bosanska Posavina sarebbe la regione più colpita dall'esodo. Le destinazioni principali sarebbero Germania, Austria, Svezia e Svizzera. Secondo Mirhunisa Zukić, presidentessa dell'associazione "Unione per un ritorno sostenibile in BiH ", denuncia che le autorità stanno sottostimando il fenomeno e non fanno nulla per arginarlo.

A fine 2017 l'organizzazione che presiede, l'Unione per un ritorno sostenibile, ha annunciato che più di 150.000 persone avevano abbandonato la Bosnia Erzegovina nel corso degli ultimi quattro anni, di questi 11.000 originari di una sola regione, la Posavina, e negli ultimi dieci mesi. La situazione in questa regione nel nord della Bosnia è la più allarmante?

Noi studiamo da cinque anni il fenomeno dell'emigrazione dei cittadini della Bosnia Erzegovina. I nostri dati, che ci rivelano la partenza di 151.000 persone, sono stati raccolti sul campo, presso le comunità locali. Volontari lo hanno fatto porta a porta. Anche le autorità locali hanno condiviso con noi i loro dati. Purtroppo molte persone non informano le autorità della loro partenza, vanno all'estero tre o quattro mesi, poi ritornano un po' e poi lasciano il paese per sempre. Noi seguiamo continuamente questi movimenti complessi.

Dopo che avete reso pubblici questi dati alcuni rappresentanti locali hanno espresso le loro perplessità affermando che non corrispondono alla realtà delle singole municipalità. Cosa rispondete?

Ai tempi della nostra inchiesta ci siamo resi conto che le autorità locali sono impotenti rispetto a questo fenomeno e che non erano in possesso di dati adeguati. Siamo rimasti sorpresi nell'apprendere quando poco sapessero relativamente alla migrazione dei loro concittadini.

Alcuni ci hanno poi richiesto i dati che avevamo raccolto e li hanno verificati sul terreno con propri funzionari. Ma non si è nemmeno tentato di elaborare una strategia per mettersi in relazione con queste persone che sono tentate dalla partenza e nemmeno sono state fatte loro proposte per convincerli a restare, ad esempio iniziando a realizzare tutte le promesse fatte nelle varie campagne elettorali...

Hanno incassato la botta, ma senza provare a impedire alla gente di fare le valigie. Noi abbiamo offerto loro il nostro aiuto per mettersi in contatto con chi è tentato dalla migrazione, ma nessun sindaco ha risposto all'offerta.

Quali le principali cause di partenza? Molti di coloro che partono avevano un lavoro...

Quasi ad un quarto di secolo dopo la fine della guerra nulla cambia nel nostro paese: che si tratti dell'incertezza economica, della corruzione, delle tensioni politiche. I cittadini sono affaticati e stufi di promesse. Noi tentiamo, da parte nostra, di mostrare esempi positivi e di dire che è possibile vivere in Bosnia Erzegovina, restarci.

Avete dichiarato che i principali responsabili di questa situazione sono i politici ed avete inviato una lettera ai membri della presidenza tripartita della Bosnia Erzegovina affinché facciano visita alla vostra associazione nella regione della Bosanska Posavina, la più toccata dal fenomeno. Avete ottenuto risposta?

Abbiamo scritto ai tre membri della presidenza, abbiamo loro inviato la lista completa di tutte le municipalità e tutte le partenze ma, da parte loro, nessuna risposta, né scritta né orale. Ritengo questo silenzio inammissibile e che gli elettori ne terranno conto alle prossime elezioni. Spero che alla fine questi politici vengano sanzionati dall'elettorato perché, come ci dice la gente che incontriamo, quello che fanno questi politici non corrisponde alla volontà dei cittadini.

Occorrerebbe dedicare una sessione speciale del parlamento della Bosnia Erzegovina alla questione emigrazione. Ma cosa possono fare i politici per cambiare direzione al flusso?

Molto. Ma sono in grado i nostri politici di fare qualcosa? Ce lo dimostrino! Occorre sviluppare presso la popolazione una coscienza collettiva del problema, fornire spiegazioni. Ma l'ossessione del mantenere il potere accieca i nostri politici.


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Drazana Stefanovic Poletan • 5 giorni fa

Quella regione perché molte persone hanno ottenuto passaporto croato essendo nati dal altra parte di fiume Sava, andrebbero via anche dal altre città o regioni ma hanno poche possibilità. 9 su 10 giovani vogliono andare via dalla bosnia.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 20, 2018, 20:04:02 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Infrastrutture-i-Balcani-colmeranno-il-gap-186559

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Infrastrutture: i Balcani colmeranno il gap?

Autostrada in Albania - Marjola Rukaj

Infrastrutture insufficienti o obsolete, stati senza risorse che non possono finanziare grandi progetti. Un rapporto FMI segnala un'impasse, senza individuare soluzioni possibili
16/03/2018 -  M. Obradović   

(Pubblicato originariamente da Danas , selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans e OBCT)

Il livello di reddito medio dei sei paesi dei Balcani occidentali (Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Macedonia, Montenegro e Serbia) corrisponde al 30% di quello dell’Unione europea. Non solo siamo in ritardo, ma il gap si riduce molto lentamente: del -12% dal 2000 ad oggi, con una stagnazione quasi totale dall’inizio della crisi economica mondiale nel 2008. Un ritardo che è possibile spiegare in gran parte con la mancanza di infrastrutture stradali, ferroviarie o energetiche e con il cattivo stato di quelle esistenti.

In febbraio il Fondo monetario internazionale (FMI) ha reso pubblico, a proposito, un rapporto sottolineando che le carenze nelle infrastrutture stradali limitano in modo considerevole l’accesso dei produttori e consumatori dei Balcani occidentali ai mercati sia internazionali che nazionali. Anche la scarsa affidabilità delle strutture di approvvigionamento energetico e idrico avrebbe contribuito, secondo l'FMI, a ridurre le capacità produttive, scoraggiando gli investitori esteri. Secondo il Rapporto sulla competitività mondiale per gli anni 2016/2017 il posizionamento medio dei paesi della regione è attorno all’85mo posto su 138 paesi presi in considerazione.

Investimenti pubblici in infrastrutture avrebbero effetti rilevanti sia nel corto che nel lungo termine. Potrebbero infatti garantire un innalzamento immediato della domanda attirando investitori stranieri. Più a lungo termine determinano un aumento dei livelli di produzione direttamente correlato all’efficacia dei progetti infrastrutturali stessi. Infine, se i finanziamenti a questi progetti sono equilibrati, è possibile che non impattino in modo negativo sul livello del debito pubblico. Ciononostante se le istituzioni sono deboli, se i governi sono poco efficaci e se la corruzione causa spese inutili e scelte sbagliate di utilizzo delle risorse pubbliche, i costi di queste infrastrutture possono divenire rilevanti.
Raccomandazioni FMI

Il documento dell’FMI si focalizza sulla buona gestione dei progetti infrastrutturali e formula una serie di raccomandazioni. Gli autori del rapporto rilevano che progetti per i quali esistono finanziamenti internazionali rimangono irrealizzati mentre a volte i governi dei Balcani insistono nel mettere a budget progetti attualmente irrealizzabili. Si sottolinea inoltre che a volte entrano in concorrenza tra loro istituzioni pubbliche diverse e comunque queste ultime si coordinano tra loro sempre in modo insufficiente. Viene sottolineato che anche il coordinamento tra autorità centrale e autorità locali è troppo debole.

Anche quando il quadro legislativo è adeguato, spesso non viene rispettato e non esiste alcuna procedura di monitoraggio e controllo delle performance finanziarie dei progetti e dei programmi di investimento delle istituzioni pubbliche. Gli autori del documento dell’FMI concludono affermando che la scelta sui progetti infrastrutturali dovrebbe essere “meglio protetta” dalle influenze politiche.

Ciononostante, dal 2007, si può notare un’accelerazione degli investimenti pubblici nella regione, spesso a seguito di iniziative internazionali, pur rimanendo lo stato delle infrastrutture pubbliche deficitario e ben al di sotto della media europea, in particolare strade e ferrovie, queste ultime all’abbandono da anni. Ad eccezione di Serbia e Bosnia Erzegovina, tutti i paesi dell’area hanno problemi di approvvigionamento energetico.

Per quanto riguarda le infrastrutture i Balcani occidentali si situano attorno al 50% della media europea. In questo contesto la messa meglio sarebbe la Serbia, con un ritardo di -30% rispetto alla media Ue mentre fanalino di coda è l’Albania con un -70%. Un ritardo che i paesi dei Balcani occidentali hanno anche rispetto ai paesi dell’Europa centrale o ai paesi baltici. Gli investimenti attuali sono insufficienti per colmare il gap.
Rischio indebitamento

Negli ultimi 15 anni gli investimenti infrastrutturali dei paesi della regione sono stati in media del 6% del Pil. Una media che può portare ad errori di valutazione dato che ad esempio la Serbia è in fondo alla lista e mette a disposizione solo il 3% del suo Pil per investimenti infrastrutturali mentre la Bosnia è in cima alla classifica dedicandovi l’8%. Anche se il valore capitale degli investimenti infrastrutturali è raddoppiato in 15 anni, a questo ritmo servirà aspettare 33 anni affinché i Balcani occidentali raggiungano l’attuale livello Ue.

Nei fatti, la possibilità di investire sono limitate dall’alto livello di debito pubblico di tutti i paesi della regione. Bosnia Erzegovina e Macedonia sono in parte risparmiati dal problema, ma in Serbia, Albania e Montenegro il debito pubblico supera il 65% del Pil e questo rende questi paesi fragili secondo i parametri del FMI. “I paesi troppo indebitati avranno problemi a finanziare il loro progetti infrastrutturali senza adeguamenti fiscali”, sottolineano gli esperti del FMI che si interrogano anche sulle possibilità di ricorso a partenariati pubblico-privato.

Il documento conclude che il settore bancario e il risparmio nazionale di questi paesi sono ancora troppo deboli per finanziare progetti infrastrutturali dai costi elevati e che comunque il credito rappresenta la sola e unica fonte di finanziamento malgrado il rischio congenito di aumentare il debito pubblico. E per il FMI non si può che guardare alle istituzioni finanziarie internazionali.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 20, 2018, 20:12:19 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Bosnia-e-Serbia-le-infrastrutture-mancate-170178

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Bosnia e Serbia: le infrastrutture mancate

Gli abitanti di Glogonj riempiono le bottiglie dalla cisterna (foto CINS)

Serbia e Bosnia Erzegovina negli ultimi sette anni e mezzo hanno sprecato più di 47 milioni di euro in penali su crediti non utilizzati per importanti progetti infrastrutturali mai realizzati
19/04/2016 -  Dino Jahić ,  Vladimir Kostić

(Originariamente pubblicato da CINS , il 15 aprile 2016. Titolo originale: Poreski obveznici na dvostrukom gubitku zbog neodgovorne vlasti )

È una fredda mattina di novembre a Glogonj, piccolo villaggio mezzo addormentato distante più o meno un'ora di macchina da Belgrado. Questa è una regione pianeggiante della Serbia, rinomata per le coltivazioni di cavolo cappuccio e per le tracce di arsenico nell'acqua.

Gli abitanti del posto hanno riempito bottiglie e taniche d'acqua dalla cisterna posizionata di fronte all'edificio del comune. E' la loro quotidianità da quando, nel giugno scorso, l'acqua di colore giallastro che usciva dai rubinetti delle case è stata dichiarata non potabile.

"Fino a quando non è arrivata la cisterna, l'acqua la dovevamo comprare", afferma Boban Mitić, riempiendo una bottiglia d'acqua. "Adesso, un po' la compriamo e un po' beviamo quella della cisterna".

Nel frattempo a Glogonj è stata costruita una fontana pubblica, come soluzione temporanea, ma l'acqua è tuttora contaminata.
Prestiti ottenuti, penale pagata e treni mai utilizzati

Il governo della Bosnia Erzegovina ha ricevuto un prestito dalla BERS per il rinnovo della rete ferroviaria in entrambe le Entità il cui valore è di 70 milioni di euro, e per il quale fino alla fine del 2014 sono stati pagati 1,33 milioni di euro di penale. Il termine per la conclusione del progetto era stato inizialmente fissato per la fine del 2011, ma è stato prorogato diverse volte - e stando alle informazioni ottenute dai giornalisti del CINS - il progetto dovrebbe essere concluso entro la fine del 2016.

Dragan Ćalović, direttore dell'Unità per l'implementazione dei progetti della società pubblica delle ferrovie bosniache, afferma che la realizzazione ha subito rallentamenti a causa di una lunga procedura d'appalto - la scelta dell'esecutore dei lavori per la sistemazione dei binari è durata circa 15 mesi, e c'è stato un ritardo anche nel produrre la documentazione del progetto.

Ćalović spiega che ad un certo punto è stato deciso che per il progetto sarebbero stati spesi meno soldi di quanto inizialmente previsto, quindi con la BERS sono state concordate le modifiche al progetto, il ché ha allungato i tempi per la sua ultimazione e per il pagamento delle penali.

Un progetto per la ferrovia in Bosnia Erzegovina che è diventato inglorioso.

La società che gestisce le ferrovie della Federazione ha ottenuto il prestito per l'acquisto di nove serie di vagoni Talgo, dell'importo di 67,63 milioni di euro, che è stato utilizzato alla fine nel 2013. Il prestito era stato concesso dal governo della Spagna, ed era stata pagata una penale poco più alta di 60 mila euro. L'intero progetto è stato un fiasco totale: i treni con i vagoni Talgo non sono mai stati utilizzati, perché non sono affatto compatibili con i binari presenti in Bosnia Erzegovina. Il caso dell'acquisto di questi treni al momento si trova sotto inchiesta da parte della Procura del Cantone di Sarajevo.

L'acqua non potabile di Glogonj è solo uno dei problemi infrastrutturali che accomuna Serbia e Bosnia Erzegovina, e che le autorità avrebbero dovuto risolvere con fondi provenienti da prestiti di banche internazionali per lo sviluppo e da governi di altri stati.

Come già avvenuto in passato, i soldi non sono però stati spesi in tempo. I problemi sono rimasti irrisolti e i cittadini pagano un prezzo doppio: non ricevono i servizi che spettano loro e poi il denaro deve essere restituito alle banche creditrici, dato che lo stato non ha utilizzato i finanziamenti in tempo utile.

Dall'inizio del 2008 fino al giugno del 2015, la Serbia ha speso addirittura 35,2 milioni di euro in penali a causa dell'inutilizzo di denaro proveniente da prestiti, mentre la Bosnia Erzegovina per lo stesso motivo ha speso 12,4 milioni di euro. Lo dimostrano i dati forniti dal Centro per il Giornalismo d'Inchiesta della Serbia (CINS).

47,6 milioni di euro che potevano ad esempio essere utilizzati per fornire 35,8 milioni di pasti per gente bisognosa nelle mense popolari di Belgrado, oppure assicurare il funzionamento della mensa popolare di Tuzla per un periodo di 44 anni, se si prendono in considerazione i costi evidenziati dai gestori di queste mense e dai rappresentanti delle autorità locali.

"Questi sono soldi buttati", afferma l'economista bosniaco Erol Mujanović. "Queste cifre dimostrano che lo stato si è occupato di qualcosa non essendo però in grado di garantire un risultato - oppure era all'altezza ma non voleva, ovvero non poteva, portare a termine il progetto". "Torniamo alla politica o alla corruzione. O ad entrambi", aggiunge Mujanović.
L'utilizzo a rilento del denaro

Il villaggio di Glogonj non è che un piccolo esempio dell'inefficienza che caratterizza i progetti pubblici nei Balcani.

Questo villaggio ricade sotto l'amministrazione di Pančevo, ma il problema con l'acqua doveva essere risolto con il prestito proveniente dalla banca per lo sviluppo tedesca KfW. Un totale di 25 milioni di euro era destinato all'organizzazione dell'approvvigionamento idrico e della rete fognaria dei comuni di media grandezza in Serbia. A Pančevo spettavano tre milioni di euro.

Stando alle condizioni dettate dal contratto per il prestito, il denaro doveva essere utilizzato per intero entro la fine del 2016. Fino a giugno 2015 era stata spesa appena la metà dei soldi totali, e la Serbia ha dovuto pagare 286 mila euro per il mancato utilizzo del denaro.

Questa penale, definita come "commitment fee", riguarda molti prestiti per progetti di sviluppo, e non ricade tra i tassi d'interesse. Il suo importo dipende innanzitutto dal volume del prestito e dal modo in cui viene impiegato - i progetti vengono infatti realizzati gradualmente e di conseguenza il denaro viene impiegato in modo cadenzato. Questa tariffa si paga per le parti di prestito inutilizzate, e se il prestito non viene utilizzato entro il termine stabilito, ne consegue che, se si superano i termini, una parte del denaro non potrà affatto essere utilizzata.

Nel caso di Glogonj, il progetto è ad un punto morto sin dal principio.

Dal 2010, il direttore dell'azienda pubblica "Acquedotto e rete fognaria di Pančevo", che doveva garantire agli abitanti l'approvvigionamento di acqua pulita, è stato sostituito addirittura sei volte. Inoltre, i contrasti irrisolti riguardanti i rapporti di proprietà dei terreni hanno ostacolato la costruzione del nuovo acquedotto, con il quale doveva prendere avvio l'intero progetto.

"La costruzione del nuovo acquedotto è stata interrotta in quanto era stato verificato che dal 2005 al 2015 abbiamo razionalizzato talmente tanto il riduzione del consumo che il progetto iniziale non è più adatto", afferma Aleksandar Radulović, che ha ricoperto la funzione di direttore di quest'azienda fino a luglio 2011, per esser poi nuovamente nominato alla direzione nel settembre 2015.

Stando a quel che dice Radulović, i cambi frequenti ai vertici dell'azienda hanno sì contribuito a rallentare lo sviluppo dell'intero progetto, ma non in modo considerevole.

Sono numerosi i motivi per cui Serbia e Bosnia Erzegovina ritardano nella realizzazione di importanti progetti infrastrutturali: le lentezze burocratiche, le lunghe procedure che riguardano gli appalti, la mancanza della documentazione progettuale, la politicizzazione delle attività professionali, la mancanza di progettazione, i problemi con gli espropri della terra, il cattivo controllo sugli addetti ai lavori, le continue proroghe dei termini ecc.

"Il commitment fee è un male necessario, non si può evitare", afferma Edin Tokić dal ministero della Finanza della Bosnia Erzegovina. Aggiungendo anche che non esistono molti modi attraverso cui ottenere i finanziamenti per i progetti infrastrutturali ed è per questo motivo che lo stato deve accettare le regole imposte da chi fornisce il denaro.

Svitlana Pyrkalo, portavoce della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS), afferma che tali tariffe sono una consuetudine nei progetti di sviluppo seguiti dalla banca, la quale in questo modo può coprire le proprie spese operative.

Tra i creditori che applicano questa tariffa ci sono la BERS, la banca per lo sviluppo tedesca KfW, la Raiffeisen Bank, i governi dei singoli paesi ed altre istituzioni. Come spiega Svitlana Pyrkalo, "queste penali rappresentano un incentivo ai clienti, in questo caso i governi, affinché utilizzino il denaro dei prestiti entro i termini stabiliti".
Milioni di euro per progetti che riguardano i trasporti

Evidentemente, tali incentivi non sono serviti a Serbia e Bosnia Erzegovina, dove il tasso di disoccupazione è rispettivamente del 18 e 28 per cento, e il prodotto interno lordo è tra i più bassi d'Europa.

I giornalisti del CINS hanno fatto richiesta per ottenere maggiori informazioni ai ministeri della Finanza dei due paesi, e dopo aver analizzato centinaia di pagine di documentazione ufficiale hanno scoperto che in decine di casi i governi erano in ritardo con la realizzazione dei progetti infrastrutturali, spesso per colpa di una cattiva progettazione.

Di conseguenza, in quei paesi in cui ogni dinaro, marco o euro può fare la differenza, il denaro non speso proveniente dalle istituzioni creditrici è stato restituito utilizzando i soldi pubblici dei contribuenti.

Il governo ha dovuto restituire milioni di euro che erano destinati a progetti per la costruzione di strade e centrali elettriche, per l'ammodernamento del sistema sanitario, dell'istruzione e per l'agricoltura, nonché per l'approvvigionamento idrico, il rinnovo della rete ferroviaria, e tanti altri progetti.

In entrambi i paesi, la maggior parte dei finanziamenti è stata indirizzata ad infrastrutture e trasporti.

Dall'inizio del 2009 alla fine del 2014, per soli sei progetti di costruzione e manutenzione delle strade in Bosnia sono stati versati ben 5,79 milioni di euro di penale, ovvero l'1,4 per cento del totale dei fondi destinati a quegli stessi progetti.

La Serbia, invece, negli ultimi sette anni e mezzo ha dovuto pagare 13 milioni di euro in penali per i finanziamenti diretti alla costruzione delle strade, ovvero l'1,1 per cento dei fondi concessi.

Osman Lindov, professore alla facoltà di ingegneria civile dell'Università di Sarajevo, afferma che in Bosnia Erzegovina i progetti esistono, ma le istituzioni competenti non sono in grado di realizzarli, soprattutto a causa della poca esperienza e scarsa preparazione delle persone incaricate di portare avanti i lavori, che non capiscono che senza una buona rete stradale non ci può essere sviluppo economico.
Corridoi

Il ritardo nella costruzione del Corridoio Vc è costato 3,76 milioni di euro alle casse della Federazione di Bosnia Erzegovina (FBiH - una delle due entità in cui è diviso il paese). L'inizio dei lavori per il progetto di 209 milioni di euro finanziato dalla BERS era fissato per il 2009. Il credito concesso doveva essere impiegato entro il 2012, ma il termine è stato poi prorogato di altri due anni.

Per la realizzazione del progetto era stata incaricata la società "Autoceste FBiH", che esiste appena dal 2011. Nella risposta in forma scritta indirizzata ai giornalisti del CINS affermano che in precedenza il progetto era gestito da parte del ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture della FBiH, il che aveva rallentato le tempistiche nell'utilizzo del denaro.

Il Corridoio Vc è il tratto bosniaco del Corridoio 5, e i lavori di costruzione sono stati caratterizzati da diversi problemi, come non aver inserito nel progetto il tratto finale del corridoio, inoltre in uno dei cantieri, il direttore principale dei lavori è stato sostituito per ben tre volte.

La procura di Bosnia Erzegovina dal 2013 ha avviato l'esame del pagamento delle penali e dei prestiti non utilizzati per la costruzione delle infrastrutture stradali nel paese, a partire da quelli destinati alla costruzione del Corridoio Vc.

La procura si è rifiutata di rispondere alle domande dei giornalisti del CINS circa lo status dell'inchiesta.

In Serbia, per la costruzione del  Corridoio 10 nel sud del paese, tra Niš e Dimitrovgrad, sono stati restituiti, a causa di inutilizzo, 3 dei 150 milioni di euro del prestito concesso dalla BERS. Il contratto era stato firmato nel settembre del 2009 e i lavori dovrebbero terminare entro la fine del 2016. Fino al giugno dell'anno scorso era stato impiegato appena un terzo dei soldi concessi.

Relativamente al 2015, stando alle indagini condotte dal Consiglio Fiscale, l'organo statale indipendente predisposto al controllo della politica fiscale in Serbia, i lavori per la costruzione del Corridoio 10 si erano arrestati a causa di una cattiva gestione degli appalti pubblici e dell'espropriazione dei terreni. "Il fatto che vengano pagate delle penali per l'inutilizzo del prestito significa che i contribuenti pagano di tasca propria a causa di incurie delle istituzioni statali", afferma Vladimir Vučković, membro del Consiglio Fiscale.
L'incuria del governo e il problema della politicizzazione

Nel settembre del 2010, in piena campagna elettorale, l'allora Presidente della FBiH, nonché leader dell'HDZ-BIH Borjana Krišto, ha inaugurato l'apertura dei lavori per la costruzione del parco eolico nei pressi di Mesihovina, in Erzegovina.

Il prestito di 71 milioni di euro, concesso dalla banca tedesca per lo sviluppo KfW, era stato affidato alla compagnia pubblica "Elektroprivreda Hrvatske Zajednice Herceg Bosne Mostar". Il progetto prevedeva che i lavori terminassero entro il 2013, ma il termine è stato prorogato per due volte. L'inizio della produzione di energia elettrica è prevista per la fine del 2017.

L'intreccio di competenze tra tutti i livelli statali, le lungaggini burocratiche e l'enorme quantitativo di documenti che dovevano essere forniti dalle istituzioni - tutte consuetudini per il sistema bosniaco - sono solo alcuni dei motivi che hanno portato al ritardo nei lavori.

Tra le altre cose, il fornitore degli impianti è stato selezionato appena lo scorso marzo.

Fino al 2014 erano stati pagati 768 mila euro di penali - e al momento non è stata costruita nemmeno una pala eolica.

Anche quest'azienda non ha accettato di parlare con i giornalisti del CINS.

In Serbia, una parte dei 150 milioni di euro concessi dalla BERS destinati all'azienda pubblica "Srbijagas" doveva essere utilizzata per la costruzione di un impianto di stoccaggio del gas a Itebej, in Vojvodina. Il progetto è rimasto a un punto morto per anni a causa di irrisolti problemi circa la proprietà dei terreni e per altri problemi legati all'esproprio di queste terre, come si evidenzia nel rapporto sugli investimenti pubblici redatto dal Consiglio Fiscale.

L'impianto di stoccaggio del gas rientrava nel progetto del gasdotto "South Stream", che comprendeva il trasporto di gas dalla Russia verso i Balcani e quindi in Austria. Sino a quando la Russia non ha deciso di abbandonare il progetto del gasdotto nel 2014, la Serbia ha basato tutta la propria politica energetica proprio sul South Stream.

Per questo periodo, la Serbia ha dovuto sborsare dal proprio budget 2,5 milioni di euro a causa del mancato utilizzo del denaro.

Vučković, del Consiglio Fiscale, afferma che la contrattazione per il prestito è la parte più facile del lavoro e che il problema sorge quando bisogna investire il denaro e presentare un risultato. Aggiunge inoltre che gli errori delle autorità serbe sono avvenuti a tutti i livelli e in tutte le fasi della realizzazione del progetto: "Caratterizzato da un comportamento inadatto, inefficiente e poco credibile, così come dall'assenza di senso di responsabilità per gli impegni presi".

A Glogonj, mentre le autorità locali cercano di ripulire l'acqua dall'arsenico, gli abitanti sono costretti ad arrangiarsi come riescono. Questi affermano che i problemi con l'acqua esistevano anche prima ma che solo adesso è stata dichiarata non potabile.

L'arsenico rientra tra le 10 sostanze chimiche peggiori che l'Organizzazione Mondiale della Sanità classifica come dannose per la salute pubblica. L'arsenico viene descritto come estremamente tossico e si ritiene che un prolungato utilizzo di acqua contaminata da questa sostanza possa provocare diversi problemi alla pelle, così come tumori e quindi la morte. Può inoltre condurre a problemi cardiovascolari e al diabete.

I membri della famiglia di Mitar Đakovski bevevano sempre l'acqua del rubinetto, fino a quando una loro nipote ha cominciato ad accusare dolori allo stomaco. Da allora, comprano solo acqua in bottiglia, la cui spesa, come afferma Mitar, pesa sull'economia della famiglia.


Una bottiglia d'acqua da un litro e mezzo in Serbia costa un po' meno di 50 centesimi di euro, il ché non è poco, considerato che lo stipendio medio in Serbia è ufficialmente di 360 euro, anche se molti guadagnano molto meno.

"Io durante l'estate dovevo comprare sei litri d'acqua, tre volte al giorno", dichiara Đakovski.

Questo reportage rientra nel progetto finanziato dalle fondazioni Robert Bosch Stiftung e Thomson Reuters Fondation


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Prestiti ottenuti, penale pagata e treni mai utilizzati

Il governo della Bosnia Erzegovina ha ricevuto un prestito dalla BERS per il rinnovo della rete ferroviaria in entrambe le Entità il cui valore è di 70 milioni di euro, e per il quale fino alla fine del 2014 sono stati pagati 1,33 milioni di euro di penale. Il termine per la conclusione del progetto era stato inizialmente fissato per la fine del 2011, ma è stato prorogato diverse volte - e stando alle informazioni ottenute dai giornalisti del CINS - il progetto dovrebbe essere concluso entro la fine del 2016.

Dragan Ćalović, direttore dell'Unità per l'implementazione dei progetti della società pubblica delle ferrovie bosniache, afferma che la realizzazione ha subito rallentamenti a causa di una lunga procedura d'appalto - la scelta dell'esecutore dei lavori per la sistemazione dei binari è durata circa 15 mesi, e c'è stato un ritardo anche nel produrre la documentazione del progetto.

Ćalović spiega che ad un certo punto è stato deciso che per il progetto sarebbero stati spesi meno soldi di quanto inizialmente previsto, quindi con la BERS sono state concordate le modifiche al progetto, il ché ha allungato i tempi per la sua ultimazione e per il pagamento delle penali.

Un progetto per la ferrovia in Bosnia Erzegovina che è diventato inglorioso.

La società che gestisce le ferrovie della Federazione ha ottenuto il prestito per l'acquisto di nove serie di vagoni Talgo, dell'importo di 67,63 milioni di euro, che è stato utilizzato alla fine nel 2013. Il prestito era stato concesso dal governo della Spagna, ed era stata pagata una penale poco più alta di 60 mila euro. L'intero progetto è stato un fiasco totale: i treni con i vagoni Talgo non sono mai stati utilizzati, perché non sono affatto compatibili con i binari presenti in Bosnia Erzegovina. Il caso dell'acquisto di questi treni al momento si trova sotto inchiesta da parte della Procura del Cantone di Sarajevo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 20, 2018, 20:17:37 pm
http://www.eastjournal.net/archives/89028

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MACEDONIA: Il parlamento approva, l’albanese è lingua ufficiale del paese

Riccardo Celeghini 7 ore fa   

Lo scorso 14 marzo il parlamento della Macedonia ha approvato la nuova legge sull’uso delle lingue. Il testo, figlio dell’intesa tra il primo ministro Zoran Zaev e i partiti rappresentanti della comunità albanese, parte della coalizione di governo, eleva di fatto l’albanese a lingua ufficiale del paese, insieme al macedone. Nonostante il rifiuto del presidente della repubblica Gjeorge Ivanov di firmare la legge apra una crisi istituzionale tra governo e presidenza, gli albanesi possono esultare per il raggiungimento di un obiettivo a lungo inseguito, che punta a migliorare le relazioni tra le comunità all’interno del paese.

Il contenuto della legge

L’approvazione della legge era ormai attesa da tempo, essendo parte dell’accordo di coalizione tra i socialdemocratici di Zaev e i partiti della comunità albanese entrati nella compagine di governo. La legge, difatti, rappresenta un passo avanti consistente per quanto riguarda i diritti linguistici della comunità albanese, che costituisce, secondo il censimento del 2002, il 25% della popolazione della Macedonia. Alla lingua albanese erano state già garantite ampie tutele a seguito degli accordi di Ohrid del 2001, ma la messa in atto aveva mostrato diverse lacune.

Con il testo appena approvato, insieme al macedone, anche alla lingua parlata da almeno il 20% della popolazione (dunque, l’albanese) viene riconosciuto lo status di lingua ufficiale del paese. Prima di questa legge, tale status era valido solo nelle municipalità dove vivono gli albanesi, ma non a livello nazionale. La principale conseguenza di questo riconoscimento è l’obbligo per tutte le istituzioni statali di rapportarsi con i cittadini di etnia albanese nella loro lingua. Tale obbligo si riflette anche in parlamento, aprendo alla possibilità per i deputati di esprimersi in albanese. Un ispettorato sull’uso delle lingue si occuperà inoltre di monitorare l’applicazione della legge.

L’opposizione del presidente

La legge sull’uso delle lingue era stata già approvata dal parlamento a gennaio, ma era stata bloccata dal presidente della repubblica, proveniente dal partito conservatore oggi all’opposizione VMRO-DPMNE. Il secondo voto, quello di metà marzo, toglie però al presidente il potere di veto. L’annuncio di Ivanov di non voler comunque firmare la legge, dunque, viola la Costituzione e apre un ulteriore fronte di scontro con il governo a guida socialdemocratica, in carica da giugno 2017.

Le motivazioni presentate da Ivanov, secondo il quale la legge mina l’unità del paese favorendo una sola comunità, sono piuttosto deboli, e nascondono l’ultimo tentativo del partito che ha governato il paese nell’ultimo decennio di ostacolare l’esecutivo Zaev, come dimostrato dal tentativo dei deputati della VMRO, guidati dall’ex premier Nikola Gruevski, di togliere il microfono al presidente del parlamento per fermare il voto dell’aula. La stessa VMRO si è attivata per mobilitare i propri supporter in una serie di manifestazioni di piazza, nella speranza di mettere in difficoltà il governo.

Le prospettive future

Se il premier Zaev sarà in grado di respingere la forte reazione dell’opposizione e di superare lo scoglio dello scontro istituzionale con il presidente della repubblica, l’approvazione della legge può segnare un ulteriore rafforzamento dell’esecutivo, dato che consolida l’asse tra i socialdemocratici e i partiti della comunità albanese. Non a caso, lo stesso Zaev ha annunciato un rimpasto di governo nelle prossime settimane.

Il momento, d’altronde, è particolarmente delicato: la Macedonia è nel pieno dei negoziati con la Grecia per risolvere la ormai ventennale questione del nome. Se dopo aver migliorato i rapporti con la componente albanese della popolazione, il governo Zaev risolvesse la disputa con Atene, aprendo la strada verso l’adesione alla Nato e all’Unione europea, la Macedonia potrebbe davvero lasciarsi alle spalle i fantasmi del passato e guardare al futuro con ottimismo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 05, 2018, 19:35:17 pm
Fosse accaduto in Italia, avremmo letto e ascoltato parole del tipo:
"Certe cose succedono solo in Italia".
Sì, infatti.

http://www.eastjournal.net/archives/89293

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RUSSIA: L’incendio di Kemerovo, fiera della negligenza

Maria Baldovin 9 giorni fa   

Sono ufficialmente 64 le vittime dell’incendio verificatosi in un centro commerciale di Kemerovo, città russa a circa 250 chilometri da Novosibirsk, in Siberia. Si tratta per la maggior parte di bambini, presenti in massa nella struttura, che ospitava numerose attrazioni, tra cui un cinema multisala, un parcogiochi e una pista di pattinaggio. L’incendio, la cui causa non è ancora stata accertata, è cominciato intorno alle 16 (ora locale) ed è divampato molto velocemente tra i diversi piani dell’enorme edificio. Una tragedia resa tale dalle caratteristiche dell’edificio stesso, uno scatolone grigio con poche finestre, costruito ignorando le misure di sicurezza, con un allarme antincendio non funzionante e alcune uscite di sicurezza bloccate. Una fiera della negligenza, che non ha mancato di far scoppiare polemiche e proteste di massa.

L’entità della tragedia rimane ancora sconosciuta. Sui social network, infatti, circolano cifre alternative rispetto a quelle riportate dai giornali e, secondo alcune speculazioni, le vittime potrebbero essere centinaia. Altre fonti riportano le denunce riguardo al tentativo delle autorità di nascondere il vero numero delle vittime. Nel frattempo, nella città di Kemerovo migliaia di persone si sono riversate per strada, chiedendo giustizia e le dimissioni del governatore locale Aman Tuleev. Al momento sono state arrestate e inquisite cinque persone, tra le quali il direttore tecnico della compagnia proprietaria dell’edificio e il capo dell’organizzazione che ha fornito gli allarmi antincendio. Tuleev si è scusato con Vladimir Putin per la tragedia avvenuta nella oblast’ di sua competenza, ringraziandolo allo stesso tempo di aver trovato il tempo di chiamarlo personalmente. Ai parenti delle vittime nessuno sembra ancora aver chiesto scusa. Neanche Putin stesso, volato a Kemerovo martedì mattina, ha presenziato alla manifestazione pubblica spontaneamente organizzatasi in città. Il neoeletto presidente russo, tuttavia, ha commentato l’accaduto definendo colpevole “una negligenza criminale” e ha indetto il lutto nazionale per il 28 marzo.

Nonostante le dimensioni (si parla di 23mila metri quadrati), il centro commerciale era stato definito una piccola impresa, quindi esente da controlli per i primi tre anni di attività, secondo una legge firmata nel 2015. Quest’ultima era stata una mossa molto popolare in favore delle piccole imprese, che in questo modo sarebbero “sfuggite alle persecuzioni da parte delle agenzie statali” commenta il giornalista Leonid Bershidskij. Un altro modo per dire che alcune attività agivano senza alcun tipo di controllo da parte dello stato, o di chiunque altro.

L’incendio di Kemerovo è solo una tra le tante tragedie scaturite dalla corruzione endemica, dalla supremazia del profitto sulle vite umane, dai favoritismi fatti al business man di turno e alle mafie. Una tendenza che anche il nostro paese conosce fin troppo bene.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 09, 2018, 19:40:32 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Cecenia/Cecenia-a-scuola-di-corruzione-110568

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Cecenia, a scuola di corruzione

Nel suo ultimo messaggio televisivo alla popolazione, il primo ministro russo Vladimir Putin ha dichiarato che il livello di corruzione in Cecenia è minimo. In realtà, basta trascorrere pochi giorni nella regione per avvertire che la corruzione, come una ragnatela, avvolge praticamente ogni sfera della vita in Cecenia. A partire dalla scuola primaria
25/01/2012 -  Majnat Kurbanova   

Mentre in Russia diventa ogni giorno più popolare lo slogan “basta dar da mangiare al Caucaso!”, Vladimir Putin conferma gli investimenti per lo sviluppo del Caucaso del nord. Secondo molti analisti russi, la maggior parte di questi fondi finisce però in tasche ignote. Verificare queste accuse è molto difficile, dati gli stretti rapporti di parentela e clan che legano chi governa non solo la Cecenia, ma tutte le repubbliche del Caucaso settentrionale. Infatti lo stile di governo dei leader della regione ha molti elementi in comune: autoritarismo violento, nepotismo e assoluta mancanza di trasparenza nei flussi finanziari. A questo si aggiunge il totale controllo su stampa e televisione e l'attiva promozione del culto della personalità.

Tutto questo genera un contesto che è comune a buona parte della sud della Russia, ma senza dubbio dal punto di vista della corruzione la Cecenia ne è un caso esemplare. Un po' perché ha visto due guerre sanguinose dagli effetti devastanti, ma vede ora ingenti flussi di finanziamenti alla ricostruzione di ciò che si è distrutto. Un po' perché al governo c'è il carismatico Ramzan Kadyrov, protetto personalmente da Vladimir Putin. Ma certo anche perché i gruppi nazionalisti che in Russia gridano “basta dar da mangiare al Caucaso!” hanno in mente soprattutto la Cecenia nella quale nel corso di pochi hanni sono stati realizzati lavori di ricostruzione mozzafiato. Il grattacielo più alto nel Caucaso del nord, la più grande moschea d'Europa, l'orologio analogico più grande del mondo in cima ad un edificio di 45 piani... tutto questo è presente a Grozny oggi. Tuttavia, se a turbare i nazionalisti russi è il fatto stesso che enormi finanziamenti vadano ad una repubblica tradizionalmente ostile, a preoccupare gli abitanti della Cecenia, a cui queste somme non arrivano, è la quotidiana lotta contro la corruzione.
Corruzione in Cecenia

Corruzione, concussione e un sistema di regali e sussidi incomprensibile ai profani sono l'abitudine nel Paese. Non stupisce nessuno, ad esempio, il dover pagare una tangente per ottenere qualsiasi documento in un ufficio pubblico. Per una certa somma, qualsiasi medico vi certificherà l'idoneità alla pensione d'invalidità, anche se godete di ottima salute. Con questa vi recate all'ufficio pensioni e per una certa somma otterrete la pensione già dal mese successivo. Nel frattempo, migliaia di invalidi autentici che non possono permettersi la tangente sono costretti a passare intere giornate tra file estenuanti e umilianti controlli medici per dimostrare di essere realmente malati. Per il rilascio del passaporto, anche questo si capisce, la tangente è indispensabile: 300 dollari o 250 euro in aggiunta alla tassa di 2500 rubli. Secondo una donna che ha fatto il passaporto di recente, la scrivania del funzionario in questione aveva cassetti distinti per le varie tangenti: uno per i dollari, uno per gli euro e uno per i rubli. Per contare meglio. Senza alcun imbarazzo, quando lei gli ha consegnato i soldi, l'impiegato ha aggiunto i 250 euro appena ricevuti alla pila di banconote in euro che teneva ordinatamente assieme con un elastico.

Con i soldi, in Cecenia si può risolvere tutto. Ci si può laureare in medicina senza saper fare un'iniezione. Poi ci si può comprare un posto di vice-primario in qualsiasi ospedale o clinica, un incarico in cui non ti troverai mai a fare iniezioni, ma solo ad amministrare. Si può diventare docenti universitari senza aver nulla da insegnare. In un Paese dove giovani di neanche trent'anni fanno carriere da capogiro diventando come per magia ministri, rettori ed Eroi della Russia, tutto si può comprare. È solo questione di prezzo. Chi ha meno soldi, compra pensioni e sussidi. Chi ne ha di più, compra incarichi che danno potere sulla distribuzione di pensioni e sussidi. Ma il problema non è tanto la corruzione in sé, ma il fatto che questa sia diventata in qualche modo la normalità. Questo sistema mina le fondamenta della società e crea un clima in cui chi non ha l'opportunità di incassare tangenti invidia chi ce l'ha, e chi oggi è costretto a pagare una tangente ne estorcerà una domani se sarà in posizione di farlo.
A scuola di corruzione


L'abitudine alla corruzione si instaura già dall'infanzia. Proprio a scuola i bambini sono esposti per la prima volta alla corruzione e imparano come funziona la vita fuori dalle mura scolastiche. La scuola, un istituto statale con cui quasi tutti gli abitanti vengono a contatto, è anche l'esempio perfetto di come si fanno i soldi in Cecenia. Tre anni fa, ad esempio, il governo ha imposto l'uniforme nelle scuole di ogni ordine e grado. Per le ragazze gonna nera, camicia bianca e velo obbligatorio. Per i ragazzi giacca, pantaloni neri e camicia bianca. Niente di speciale, non fosse che l'uniforme è considerata regolare solo se di una determinata fattura, tessuto e modello: il tutto di produzione di una determinata azienda, di proprietà del clan dominante nel Paese. Vestire un bambino per la scuola costa almeno 70-80 euro, per gli studenti si arriva a 150-200. Se si considera che le famiglie cecene sono di norma numerose, il sussidio per ogni figlio ammonta a circa 5 euro al mese e il tasso di disoccupazione è fra i più alti in Russia, si può immaginare quale sforzo questo comporti.

Un altro popolare metodo per spillare soldi a scolari e genitori è la vendita dei testi scolastici. Scuole e docenti impongono agli studenti i testi di ultima edizione, a loro volta imposti alle scuole dal ministero dell'Istruzione. Funziona così: ogni anno il ministero acquista una certa quantità di libri a prezzi scontati da editori russi e ne riceve altri da distribuire gratuitamente ai non abbienti. I testi vengono poi mandati alle scuole perché gli insegnanti li vendano agli studenti a prezzo di mercato. Il ricavato va ovviamente nelle tasche dei dipendenti del ministero. La cosa assurda è che ogni anno gli alunni sono obbligati a comprare i testi appena usciti: i libri dell'anno prima, anche se della stessa materia e degli stessi autori, che potrebbero andare a fratelli o sorelle minori, possono invece finire nella spazzatura, perché il loro uso è espressamente vietato dal ministero e quindi dalle scuole.

Un altro diffuso metodo di arrotondamento per gli insegnanti sono le ripetizioni, parola che in Cecenia ha un significato un po' diverso che nei Paesi occidentali. Qui gli insegnanti abbassano di proposito i voti agli alunni per costringere i genitori a mandarli a lezione. A fare lezione privata sono gli stessi insegnanti: invece di fare il proprio lavoro in orario scolastico, quindi, si dedicano agli alunni nel tempo libero, peraltro non individualmente, ma in gruppo. Ad un profano che capitasse nel mezzo di una di queste “lezioni private” sembrerebbe di assistere ad una regolare ora di lezione, anche perché il tutto si svolge in aule scolastiche libere in quel momento.

Ajna vive a Grozny con il figlio, che frequenta una delle migliori scuole della capitale. Qualche anno fa, quando vivevano a Mosca, il figlio era considerato uno degli alunni più dotati della scuola e collezionava premi nelle varie olimpiadi scolastiche. In tre anni di vita scolastica in Cecenia, invece, non ha ottenuto un solo voto alto, per quanto impeccabili potessero essere i suoi compiti in classe. Gli insegnanti si lamentavano regolarmente del suo “scarso rendimento”, finché qualcuno non ha fatto capire ad Ajna che il ragazzo sarebbe stato bocciato se lei non lo avesse mandato a ripetizione dai suoi stessi insegnanti. Da allora Ajna paga “ripetizioni” di matematica, russo e fisica, e suo figlio è diventato improvvisamente uno dei primi della classe.

In media, le ripetizioni costano da 1000 a 2000 rubli al mese (25-50 euro) per materia. Se i genitori non sono in grado di pagare, ad attendere i figli ci sono voti sistematicamente bassi, atteggiamenti ostili da parte dei docenti e prospettive di bocciatura. Gli insegnanti giustificano il proprio comportamento non proprio pedagogico con le regolari tangenti che devono a loro volta pagare agli impiegati del ministero. Questi a loro volta dicono di raccogliere soldi per versarli nel fondo Ahmad Kadyrov, gestito dalla madre dell'attuale presidente Ramzan Kadyrov. Il fondo, che finanzia molte opere benefiche ma anche di ricostruzione, è ufficialmente costituito dai contributi volontari degli imprenditori ceceni. Secondo dati non ufficiali, tuttavia, somme significative arrivano dalle tangenti raccolte da impiegati pubblici e imprenditori.
Fuori dalle aule

La corruzione nel sistema scolastico non rappresenta certo un caso unico. Secondo esperti indipendenti, il picco di corruzione si è avuto dai primi anni 2000 al 2009 circa. Ad arricchirsi alle spalle della disastrata Cecenia in quel periodo furono anche i soldati dell'esercito russo e i numerosi funzionari di polizia e servizi speciali inviati nella repubblica. A suo tempo, WikiLeaks diffuse un dispaccio dell'ex-ambasciatore statunitense in Russia, che raccontava di come il governo ceceno si appropriasse sistematicamente di buona parte degli aiuti umanitari russi, e che il governo federale era costretto a tollerare tutto questo per “tenere calma la situazione”. Due anni fa, Kadyrov annunciò che la corruzione sarebbe stata assimilata al terrorismo e combattuta ferocemente. Da allora, le televisioni locali hanno mostrato qualche arresto dimostrativo di funzionari accusati di corruzione, ma l'aria che si respira nel Paese non è diventata più pulita. La corruzione si è semplicemente fatta più astuta, meno sfacciata. In questo quadro, l'affermazione di Putin sul basso livello di corruzione in Cecenia suona quantomeno cinica.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 09, 2018, 19:45:23 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-scuola-e-mazzette-139244

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Romania, scuola e mazzette

Il sistema scolastico romeno avrebbe bisogno di una seria riforma. Ad aggravare la situazione, come rilevano recenti inchieste della magistratura, concorre una diffusa corruzione tra gli insegnanti
17/07/2013 -  Mihaela Iordache   Bucarest

Soldi sottoforma di mazzette destinati, questa volta, agli insegnanti. Una pratica che si trascina da anni, come confermano gli stessi ex studenti che in cambio di una “piccola attenzione” si sono assicurati il diploma di maturità. Una “maturità” che parte da un semplice ragionamento: in Romania puoi fare benissimo carriera, riempirti di diplomi, master e dottorati non tanto perché sei meritevole ma perché paghi. Se accetti di far parte del sistema di corruzione il rischio è di diventare a tua volta un corrotto. E tutto questo ti viene insegnato sin dalla scuola.

Lo scorso 1 luglio, al primo giorno degli esami di maturità gli inquirenti con l’aiuto del Servizio Romeno di Informazione (SRI), la Direzione Generale Anticorruzione e la Polizia di Bucarest hanno eseguito alcune perquisizioni al Liceo “Dimitrie Bolintineanu”. Operazione  svolta in cerca delle tanto ambite mazzette, effettivamente poi rinvenute nelle aule e nelle tasche degli insegnanti. Decine di insegnanti sono stati ascoltati dalla polizia, mentre la direttrice del liceo, Costica Varzaru è stata messa in stato di fermo per 29 giorni.

Secondo il tribunale di Bucarest Costica Varzaru è indagata per traffico d’influenza, pretendendo  denaro in cambio di raccomandazioni. Secondo i magistrati si tratta di un pericolo sociale, dal momento che si crea un vantaggio a favore di chi promuove gli esami di maturità in questo modo, rispetto a chi si attiene alla procedura corretta. Sussiste, quindi, il rischio che lo studente che ha comprato l’influenza di qualcuno venga ammesso all'università a discapito del suo coetaneo promosso in modo legale.

Inoltre nella coscienza dei cittadini si forma l’opinione che il sistema può essere frodato proprio dai rappresentanti dello stato incaricati di sorvegliare il buon svolgimento degli esami.
Mazzette a scuola

Gli ufficiali del Servizio Romeno di Informazione hanno piazzato microfoni anche nei vasi da fiori del Liceo Bolintineanu. In questo modo hanno potuto intercettare i dialoghi tra gli insegnanti sullo svolgimento delle prove di maturità. Secondo i magistrati che si sono occupati del caso, i soldi raccolti dagli insegnanti arrivavano alla direttrice Costica Varzaru che poi doveva darli ai supervisori.

Secondo la stampa romena, Varzaru nel secondo semestre avrebbe iniziato a chiedere soldi agli studenti con la promessa di aiutarli a passare gli esami. Le somme sarebbero arrivate anche a 500 euro per studente. Secondo la tv DiGi 24 i magistrati avrebbero trovato in mano agli insegnanti circa 10.000 lei (oltre 2.000 euro). Una parte dei soldi erano nascosti persino nei reggiseni delle insegnanti incaricate di sorvegliare gli studenti durante le prove.

Quasi 40 gli insegnanti interrogati dalla polizia e circa un centinaio gli studenti, prelevati da scuola con degli autobus. La “disponibilità” della polizia (su istruzioni dei magistrati) di offrire questo tipo di “trasporto gratuito” agli studenti ha suscitato l’ira dei genitori che per difendere i propri figli sono arrivati alle mani con le forze dell’ordine. Il procuratore capo della Romania, Tiberiu Nitu, ha tenuto a sottolineare che le interrogazioni degli studenti sono state eseguite in accordo con la procedura.

Anche il primo ministro Victor Ponta (tra l’altro accusato di plagio per la sua tesi di dottorato...) è dovuto intervenire. Meravigliandosi, il premier romeno ha detto: “Non siamo più ai tempi dei comunisti per portar via la gente dalla strada”.

È vero che i tempi sono cambiati, purtroppo però la mentalità e le pratiche sembrano tuttora in vigore. E addirittura peggiorate in materia di mazzette, regali e attenzioni offerte agli insegnanti, proprio quelli che in teoria dovrebbero essere un esempio di moralità.
Parlano gli ex studenti

In una intervista alla radio Europa Fm, Andrei, un ex studente che nel 2006 si occupava della raccolta dei “fondi” destinati agli insegnanti, ha raccontato che già allora gli passavano le soluzioni delle prove. Sette anni fa uno studente ha offerto circa 200 euro per avere le soluzioni ed evitare di avere voti bassi, spiega Andrei.

La Federazione delle Associazioni dei Genitori sostiene che potenziali frodi sono state segnalate anche negli anni scorsi ma le autorità non hanno mai reagito. Per la Federazione si tratta di “pratiche messe in atto dagli adulti, le cui vittime sono però gli stessi adolescenti”. Secondo Mihaela Guna, presidente della Federazione, quest’anno è stato fatto un passo avanti con l’avvio delle inchieste.

Anche la Federazione dei Sindacati dell’Istruzione “Spiru Haret” scende in campo e in una lettera aperta indirizzata al premier Ponta chiede misure immediate per risolvere i problemi nel sistema pre-universitario. I sindacati chiedono l’aumento degli stipendi e aggiungono che non solo gli insegnanti devono rispondere ma anche i genitori che hanno considerato la corruzione una soluzione per coprire la superficialità e il disinteresse dei propri figli. “Un insegnante che ha uno stipendio di 250 euro sarà tentato di dare lezioni di ripetizione senza pagare le tasse oppure di accettare beni da parte di genitori e studenti”, considerano i rappresentanti dei sindacati.
Serve una riforma vera

Come nota anche l’agenzia tedesca Deutsche Welle (sezione romena) , a scuola i voti vengono sistematicamente “gonfiati”. Per l’ammissione al liceo si calcola una media aritmetica tra il voto ottenuto all'esame nazionale e la media generale ottenuta tra le classi V-VIII. “Quello che tutti sembrano ignorare e che nei quattro anni di studio è in vigore una stupida e colpevole competizione per i voti, che ammazza completamente la scuola”, rileva il portale tedesco.

Infatti, i giovani delle scuole meno performanti ma che hanno voti più alti, grazie al ben rodato meccanismo della corruzione, potrebbero entrare in licei di prestigio a scapito di altri che lo meriterebbero di più. Da qui anche la “competizione” degli insegnanti nel “gonfiare i voti” (spesso dietro una “piccola attenzione” per “salvare” i propri studenti).

Il sistema di istruzione romeno avrebbe bisogno di una vera riforma. Negli anni, vari ministri hanno cambiato le regole, eliminando alcuni esami una volta obbligatori. Oggi non sono pochi quelli che si richiamano alle vecchie regole, quando le prove scritte e orali facevano davvero la differenza. L’ex ministro dell’Istruzione, Ecaterina Andronescu sostiene ora che l’esame per l’ammissione alla facoltà deve essere reintrodotto per una corretta selezione dei candidati.

Intanto quest’anno i risultati finali dell’esame di maturità confermano ancora una volta che la scuola romena è in caduta libera, solo il 56,4% dei candidati ha superato le prove. Molti studenti hanno provato a copiare oppure a comprarsi i voti, il che dimostra la percezione che hanno i giovani romeni della scuola e in genere della vita in Romania.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 09, 2018, 19:51:50 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-illiberale-per-opportunismo-186806

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Romania: illiberale per opportunismo

Diversamente dall'Ungheria, il partito al governo in Romania non ha alcuna agenda ideologica illiberale. Si aggrappa solo in modo disperato al potere e ai privilegi acquisiti
06/04/2018 -  Bogdan Nedea   

(Pubblicato originariamente da Balkan Insight il 19 marzo 2018)

Se a qualcuno capita di sfogliare la stampa rumena in questi giorni, in particolare commenti ed editoriali, vi troverà numerosi riferimenti alle tendenze e mosse illiberali del Partito socialdemocratico (PSD), attualmente al potere nel paese.

Questo potrebbe portare alla conclusione che la Romania è ben incamminata lungo la strada del divenire un altro paese illiberale nell'Europa centro-orientale.

Ma ci si sbaglierebbe di grosso. Le premesse potrebbero sembrare, ad un primo sguardo, corrette: confinando con paesi che hanno deragliato dal cammino liberale, la Romania sotto il PSD avrebbe scoperto i benefici del condurre una dottrina politica centralistica e conservatrice.

La ricetta è ben rodata: opporre resistenza ad alcune politiche UE adducendo di proteggere mal definiti interessi nazionali; aggiungere variegati attacchi alla libertà di stampa e rendere la gestione del settore pubblico sempre più irresponsabile ed opaca. E poi rimestare il tutto in un calderone di teorie cospirative citando figure quali il miliardario statunitense George Soros, affermando che intende destabilizzare il paese.

Se sembra tutto così familiare è perché lo si è già visto accadere nell'Ungheria di Viktor Orban. Quest'ultimo è colui il quale ha affermato che la democrazia liberale classica ha fallito e che è tempo di prendere in mano le redini del destino ed indirizzarlo verso la democrazia illiberale. Si può riconoscere un qualcosa di tutto questo anche in Polonia.

Ma per quanto induca in tentazione comparare Ungheria, Polonia e Romania, le tre sono molto diverse tra loro. L'Ungheria di Orban è uno stato che si autodefinisce illiberale; la Polonia è una democrazia con tendenze illiberali; la Romania, attualmente, è in gran parte uno stato illiberale per opportunismo. Per metterla diversamente, il suo governo, in questo momento, lo ritiene il guanto che calza meglio.
Essere illiberali conviene

Per meglio capire quest'affermazione si deve comprendere il passato del PSD; creato dopo la rivoluzione del 1989, che ha posto fine al regime comunista, il partito è stato legittimato da figure di secondo e terzo piano dell'ex Partito comunista ereditandone di fatto la discendenza e le pratiche.

Da allora in avanti, salvo per un periodo di quattro anni, è sempre, in un modo o nell'altro, stato al potere, che gli viene garantito da una base elettorale in gran parte rurale e nostalgica dei bei tempi andati.

Nel novembre del 2016 ha ottenuto la maggioranza in parlamento ed ha iniziato a perseguire la propria agenda. Il primo momento e probabilmente quello più significativo nel definire i successivi anni di governo è stato la preparazione di una proposta di legge che prevedeva la depenalizzazione dell'abuso d'ufficio, crimine per il quale il leader del partito Liviu Dragnea, era allora sotto inchiesta ed è successivamente stato condannato.

Quella decisione scatenò le più ampie proteste di strada degli ultimi 27 anni in Romania e il progetto di legge è stato, alla fine, ritirato.

Ma il governo non ha rinunciato all'obiettivo che si era posto dato che è ora in parlamento, largamente dominato dal PSD, che si sta tentando di modificare il codice penale e depenalizzare l'abuso d'ufficio.

Nonostante gli avvertimenti della Commissione di Venezia e di Bruxelles, si sta cercando anche di cambiare le leggi vigenti in modo da far dipendere maggiormente il sistema giudiziario dalla politica. Da sottolineare che negli ultimi 16 mesi in cui il PSD è stato al potere ha già cambiato, attraverso un voto di sfiducia, due governi che aveva in precedenza nominato (ora si è al terzo, ndr).

Ma la somma di questi elementi non porta alla conclusione che siamo di fronte ad uno stato illiberale e non porta al parallelo con l'Ungheria, un paese che apertamente rivendica quest'ideologia.

Orban ha costruito il suo discorso politico sul resistere e sfidare le politiche dell'Unione europea per ragioni elettorali appellandosi in continuazione alla fetta più debole dei suoi cittadini, i cosiddetti “sconfitti dalla transizione”.

Il PSD rumeno ha iniziato a fare questo (ma in modo molto più timido) solo dopo che Bruxelles ha contestato apertamente la riforma della giustizia. Inoltre la retorica dei politici rumeni non è anti-Ue. Vengono solamente rispedite al mittente le considerazioni di Bruxelles sul paese denunciando costantemente che sono frutto di “disinformazione”.

Per quanto riguarda la stampa il leader ungherese aveva bisogno di limitarla per evitare che la sua visione venisse contestata.

Ma in Romania la maggior parte della stampa ha da tempo e volontariamente fatto la sua scelta: la stampa rumena è infatti piena zeppa di giornalisti ed influencer desiderosi di sostenere il politico di turno per qualche soldo in più. Negli anni questo ha portato ad un pubblico sottosviluppato e uniformato, a disinformazione e ad un generale indebolimento della società civile.
Opportunisti

Dato che crede che la democrazia liberale e l'integrazione europea siano irreversibili, la società rumena si è rilassata e questo ha portato all'incontrollata ascesa della gerarchia di lacchè di partito: opportunisti, poco formati e con inclinazioni criminali. Personaggi che hanno accompagnato la loro ascesa con discorsi politici di scarso livello - e questo ha contribuito ad abbassare le stesse aspettative dei cittadini – ed hanno distratto l'attenzione pubblica dalle questioni cruciali attraverso fiammeggianti cicli di notizie.

Esempi se ne hanno anche in questi giorni. In Romania tre quarti del paese è colpito da pesanti inondazioni e il tasso di inflazione ha raggiunto il più alto livello degli ultimi cinque anni come conseguenze dell'innalzamento artificioso dei salari. Nel frattempo il leader del PSD parla di approvare una legge che prevederebbe la punizione dei funzionari pubblici – tra questi anche i parlamentari – che parlano male del loro paese all'estero.

Ma diversamente da quanto accaduto in Ungheria, questi sviluppi hanno prodotto, in Romania, un effetto opposto: si è avuta una veloce resurrezione del giornalismo d'inchiesta che, assieme ad una società civile sempre più attiva, ha svelato molti fatti di corruzione e malacondotta che coinvolgevano politici. E mentre tra la popolazione cresceva il sentimento di protesta, il governo veniva sempre più spesso contestato nelle strade.

Per ultimo è stato necessario, per il PSD, creare un nemico invisibile ed indefinibile (del tipo “Soros” o “Lo stato parallelo”), il “governo grigio della Romania dei servizi segreti e degli ambienti ad essi vicini” per giustificare le mosse antidemocratiche contro il sistema giudiziario e per giustificare i propri errori di governo.

Questa era una tattica già utilizzata dall'ex dittatore rumeno Ceausescu prima del 1989 ed è stata già vista in Russia ed in altri posti. Il fattore “paura” viene utilizzato per spingere determinati strati sociali a votare per il PSD. In questo caso la strategia viene aggiornata con la figura di Soros (che il PSD accusa di aver finanziato le massicce proteste di strada a Bucarest), importata dall'Ungheria dove Orban l'ha utilizzata con efficacia.

In conclusione, la classe politica della Romania è lontana da una ideologia illiberale, perché, in primo luogo, ciò implicherebbe che abbia un'ideologia. Tale ipotesi indicherebbe erroneamente un certo tipo di coerenza.

D'altra parte l'intera regione, in particolare la Romania, ha già vissuto il dramma del delirio illiberale. Dietro al mucchio delle illusioni ideologiche deluse, abbiamo trovato solo gli interessi diretti di pochi.

In questo caso la Romania è solo una conbricola di personaggi indagati o condannati penalmente che si trovano in una posizione di potere, dalla quale stanno semplicemente cercando di cambiare il sistema giudiziario in modo che risponda ai propri bisogni. Nel frattempo tentano di mantenere i propri privilegi e arricchire se stessi e chi è a loro vicino.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 14, 2018, 14:43:52 pm
http://www.eastjournal.net/archives/89540

Citazione
UNGHERIA: Orbán, non chiamatelo populismo

Matteo Zola 3 giorni fa   

Viktor Orbán, ha vinto le elezioni parlamentari ottenendo il terzo mandato alla guida del paese. Il suo partito, Fidesz, ha ottenuto il 49,5% dei voti. Al secondo posto il partito di estrema destra Jobbik. L’affluenza è stata del 69%, molto alta per l’Ungheria. Alla luce di questi dati, la stampa nostrana non ha trovato di meglio che ripetere la solita solfa, ovvero che è “una vittoria del populismo”, di un “tiranno” da cui salvare genti ignare e innocenti, del peggiore “nazionalismo” e che – questa sono riusciti a dirla in una rete all-news nazionale – “Jobbik è un partito che sta più a destra di Orban, anche se non si sa come sia possibile”. Conformismo e fastidio.

Non se ne può più. Si assiste ormai a un fiorire dell’uso del termine “populista” per definire qualsiasi forma di governo o di pensiero non coerente con la dottrina liberale. Il termine, che ha un’accezione negativa, viene usato per delegittimare un vasto spettro di possibilità politiche: protezionismo economico, nazionalismo paternalista, corporativismo, euroscetticismo, conservatorismo, ma anche idee di democrazia diretta o forme di socialismo rivoluzionario: tutto (e il contrario di tutto) sembra potersi contenere in questa parola.

Un uso siffatto del termine non solo è sbagliato – lo si confonde con demagogia – ma realizza il più grave dei peccati intellettuali, quello che potremmo chiamare erbafascismo, ovvero la tendenza a mettere in unico fascio – totalizzante e totalitario – le erbe più disparate, talune propriamente erbacce, varia gramigna, ma anche qualche semplice da cui magari si potrebbe ricavare medicamento o balsamo per le cancrene dell’epoca nostra. Di più, si corre il rischio di sbagliare diserbante con l’effetto di veder la malerba resistere e ancor più proliferare.

Tacciare Viktor Orbán di populismo è fuorviante poiché non è al popolo che egli si rivolge, non è degli ungheresi che si fa campione, ma della nazione eterna, quella cattolica, quella sopravvissuta ai terrori del Novecento, quella repressa – ma non domata – del 1956, anno della Rivoluzione in cui l’Europa tutta volse altrove lo sguardo o, peggio, si dichiarò carrista. Sono elementi solo in apparenza secondari, lontani nel tempo. In Ungheria, come in larga parte dell’Europa centro-orientale, la storia è ora e qui. Non è un passato rinchiuso nei musei o nei sassi inerti delle civiltà sepolte, è corpo vivo che cammina nel presente. Il passato è attualità. E guardando al passato Orbán dice che la fedeltà all’Europa non è un dogma, visto che l’Europa tradì la nazione ungherese in quel 1956. E dice che essere partner va bene, ma che un partner dice anche dei “no”, altrimenti è un servo. Il paragone, fatto da Orban tempo addietro, tra l’Unione Sovietica e l’Unione Europea non è casuale – e nemmeno così peregrino, a dirla tutta.

L’Ungheria è uscita dalla cattività sovietica grazie alle forze sotterranee che hanno tenuto vivo lo “spirito” della “nazione” anche negli anni più bui. Sono termini che possono farci sorridere, qui in occidente, ma su cui nessuno – in Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca o Slovacchia – si sognerebbe di ridere. La libertà di oggi è, per quei paesi, il risultato di una tenacia spirituale che ha consentito alla “nazione” di sopravvivere alla barbarie nazista, all’occupazione sovietica, ai tentativi di annichilimento culturale o linguistico.

Nel caso ungherese, il bagno di sangue del 1956 ha prodotto sotterranei rivoli che, negli anni Ottanta, sono riemersi carsici dal sottosuolo dando vita a movimenti come il Magyar Demokrata Fórum o il Fiatal Demokraták Szövetsége (Fidesz), l’alleanza dei giovani democratici fondata dal venticinquenne Viktor Orbán nel 1988. Si tratta di movimenti che proponevano un’alternativa democratica per il proprio paese, lottando contro il regime comunista ma anche contro l’idea – quella della rivoluzione socialista – che essi incarnavano. Una lotta dalle profonde radici, di cui questi movimenti si sentivano – e ancora si sentono – gli eredi. Eredi di quella che, in Europa centro-orientale, chiamano controrivoluzione. Un termine che, da questa parte d’Europa, fa subito pensare alla reazione, alla Vandea, all’oltranzismo cattolico, ma erano dette “controrivoluzioni” la Primavera di Praga, la Rivoluzione ungherese del ’56, quella di Velluto, l’azione di Solidarność. Oggi, per i leader politici di molti di quei paesi, è controrivoluzione quello che noi chiamiamo “euroscetticismo“.

All’indomani della caduta del Muro di Berlino, l’Ungheria – come tutti i paesi della regione – ha dovuto costruire dal niente istituzioni moderne, tali da garantire ai cittadini diritti e libertà. Tuttavia, mentre da un lato procedeva nello state-building, ricostituendo la nazione ritrovata, dall’altro la sovranità appena acquisita veniva reclamata dal processo di integrazione europea. Si è trattato di un passaggio difficile e per certi versi penoso, unico nella storia. L’integrazione europea era però un obiettivo primario, sia per ragioni di ordine geopolitico, sia per poter accedere ai cospicui aiuti economici messi a disposizione per l’integrazione. Un processo voluto e cercato, quindi, in nome di quel “ritorno all’Europa” che fu parola d’ordine del periodo post-sovietico. Il corto circuito tra Budapest e Bruxelles – come anche tra Varsavia, Praga, Bucarest e Bruxelles – è il risultato di quel penoso passaggio di sovranità, ceduta non appena ritrovata.

Nelle more di quell’epocale passaggio, arriva Viktor Orbán che, citando Argentieri, “ha dato un senso all’essere ungheresi” restituendo al paese la sovranità perduta – sovranità, altra parolaccia ormai. Nel farlo ha scomodato la storia antica e recente, ha riabilitato la figura di Miklós Horthy (obliterandone il carattere fascista ed esaltandone il ruolo di difensore della patria) e ha calcato la mano sull’unicità etnica dei magiari. A tempo perso, ha usato la crisi dei migranti per ribadire come la nazione ungherese sia sempre, da sola, in prima linea contro l’invasore. In questo senso il suo nazionalismo è stato strumentale ma non si deve credere al mero opportunismo: Orbán, abbiamo visto, è dagli anni Ottanta che porta avanti una visione nazionalista venata di spiritualismo e senso mistico. Va letta in tal senso la recente riforma della Costituzione (da cui è stata cancellata la parola “repubblica”).

Il primo ministro magiaro sembra voler incarnare l’eredità del passato ergendosi ad antemurale contro i nemici di oggi: l’europeismo dogmatico, il colonialismo finanziario, ma anche la falsa utopia degli “stati uniti d’Europa”. Nemici veri, non solo fantasie di un piccolo premier col cappello da Napoleone. La stessa visione messianica del proprio compito, lo spinge però a forzare le regole della democrazia: il mancato rinnovo delle licenze ai media di opposizione non è illegale, ma è un evidente azione di censura; il sistema elettorale vigente, che ha ridisegnato i collegi al fine di rendere quasi impossibile il successo dell’opposizione (il famoso gerrymandering), non è illegale ma nemmeno dimostrazione di cristallino amore per la democrazia rappresentativa.

Una democrazia in crisi, secondo Orbán, colpita a morte dai modelli di “società aperta” che derivano dalle dottrine di Bergson e Popper e che oggi, piuttosto malaccortamente, si associano al pensiero liberale. Più che a Popper, il premier ungherese guarda a Soros la cui organizzazione, Open Society, è impegnata nel paese promuovendo e finanziando attività e gruppi che portano avanti idee politiche liberali. Un nemico interno da debellare, un fantoccio da agitare davanti all’opinione pubblica. Tanto più che il premier ungherese è un liberista sfegatato: quel che non ama è il liberalismo ma le aziende che delocalizzano in Ungheria gli piacciono parecchio.

Anche grazie a questa doppiezza, Orbán ha portato il suo paese fuori dalle secche della crisi economica. I dati macroeconomici sono confortanti. Ha rivendicato libertà di azione in ambito politico ed economico rispetto ai vincoli europei, nel bene e nel male. Ma ha forzato la mano alla democrazia, pur senza oltrepassare limiti che altrove – Italia compresa – non siano già stati superati da tempo. Ha strumentalizzato paure e ansie degli ungheresi. Ha voluto incarnare un certo spirito nazionale, a metà tra ipocrisia e fede. È un leader di destra (ma non estrema destra!) che non ama l’opposizione e che crede nella dittatura della maggioranza, patologia della democrazia. Ma nell’attuale contesto politico europeo, è un leader necessario al suo paese. Il suo successo è il risultato di un’epoca convulsa, fatta di incertezze e forze sempre meno controllabili dai cittadini, un’epoca in cui il potere è lontano anni luce, chiuso nelle stanze delle organizzazioni sovranazionali. Spaesata, la piccola Ungheria si è data un capo. E spaesati tutti, in molti ci hanno visto un modello: l’orbanismo, che non è derubricabile a semplice “populismo”, è diventato per molti una possibile risposta alla progressiva sottrazione di sovranità popolare. E sovranità, non è sovranismo. Come popolare, non è populismo. In tal senso viene da chiedersi se Orbán non sia l’uomo sbagliato per una giusta causa.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 14, 2018, 14:46:20 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Azerbaijan/Azerbaijan-le-presidenziali-farsa

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Azerbaijan, le presidenziali farsa
12 aprile 2018

L'11 aprile scorso si sono tenute in Azerbaijan le elezioni presidenziali anticipate. Ilham Aliyev, presidente uscente, si è guadagnato un quarto mandato con l'86% dei voti. La Commissione elettorale centrale ha reso noto che l'affluenza sarebbe stata del 74.5%.

I principali partiti d'opposizione non hanno preso parte al voto, boicottandolo perché ritenevano non sarebbe stato equo. Human Right Watch ha sottolineato che gli elettori di fatto non erano messi nelle condizioni di esprimere il proprio voto per un'alternativa a Aliyev.

Sul web girano molti video a testimonianza delle svariate irregolarità avvenute durante le votazioni. Il governo però ha rigettato le accuse di brogli definendole “bugie”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 14, 2018, 14:47:51 pm
https://www.balcanicaucaso.org/Media/Gallerie/Bayan-Yani-mensile-senza-testosterone

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Bayan Yanı, mensile “senza testosterone”
13 aprile 2018

Il sito di approfondimento culturale Kaleydoskop ha dato spazio a "Bayan Yanı", rivista umoristica al femminile che ha appena compiuto sette anni. Ne riportiamo alcune copertine

Bayan Yanı, costola del settimanale umoristico LeMan, è nata nel 2011 come numero speciale per l’8 marzo, con lo scopo di celebrare le donne e al tempo stesso denunciare l’allarmante crescita della violenza di genere in Turchia. Concepita inizialmente come pubblicazione una tantum, di fronte a un immediato successo si è presto trasformata in una testata mensile, che nei suoi attuali 74 numeri non ha mai smesso di farsi portavoce delle innumerevoli sfaccettature dell’universo femminile, da temi leggeri come la depilazione alla denuncia del femminicidio.

Autodefinita “prima e unica rivista umoristica femminile al mondo”, nonché “la vostra rivista senza testosterone”, Bayan Yanı vanta una redazione composta da un solo uomo e circa venti donne, tra le quali Ramize Erer, direttrice, e Meral Onat. Il nome, traducibile come “accanto alle donne”, fa riferimento al divieto per uomini e donne che viaggiano non accompagnati sui pullman interurbani di sedere gli uni accanto alle altre.

Proponiamo la copertina del primo numero e quelle che nel mese di marzo degli anni successivi hanno celebrato il coraggio delle donne e l’anniversario della rivista.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: gluca - Aprile 14, 2018, 23:30:08 pm
UNGHERIA: Orbán, non chiamatelo populismo
Io darei volentieri un rene per avercelo in Italia, uno così.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 15, 2018, 00:41:47 am
Io darei volentieri un rene per avercelo in Italia, uno così.

Io il rene me lo tengo e me lo terrei.
Nondimeno va evidenziato che uno come Orbán, così come uno come Putin, esiste e può esistere anche perché vive in un contesto sociale ben diverso da quello occidentale.
Per esser più chiaro: in Europa dell' Ovest la sua vita sarebbe molto più difficile, proprio perché quella occidentale è una società più smidollata, più femminea ed anche meno nazionalista.
Non parliamo poi dell' Italia, ovvero del Paese più esterofilo ed anti-nazionalista d' Europa, popolato da uomini e donne perennemente impegnati a darsi le martellate sui genitali e parimenti convinti(e) che il resto del mondo sia sempre e comunque migliore del Bel Paese.
Non a caso consiglio sempre a questa gente di fare le valigie e di andarsene, magari nella meravigliosa Africa o nella stupenda America Latina (ovvero il continente più violento al mondo).
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: gluca - Aprile 15, 2018, 10:22:38 am
Conosco l' atteggiamento di cui parli, tipico di chi appartiene ad una certa parte politica, peraltro.
Va detto pure che, dal mio punto di vista, tale modo di pensare è stato ampiamente inculcato, nella mente dei nostri connazionali, dalla classe dirigente degli ultimi 30 anni (dovevano darci l' inculata dell' euro, per cui dovevano portare gli italiani a pensare che cedere la sovranità del proprio paese fosse meglio).
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Sardus_Pater - Aprile 15, 2018, 13:02:24 pm
Craxi molto più patriottico della Meloni sicuramente :ohmy: .
Stranamente Tangentopoli è scoppiata quando Bettino ha cominciato a porre condizioni sull'entrata dell'Italia in Europa favorevoli al Belpaese (e anche a Greci e Spagnoli, altri stati all'epoca a guida socialista e simili sotto mille aspetti all'Italia). Non fu solo una vendetta per Sigonella.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: gluca - Aprile 15, 2018, 13:50:21 pm
Craxi molto più patriottico della Meloni sicuramente :ohmy: .
Stranamente Tangentopoli è scoppiata quando Bettino ha cominciato a porre condizioni sull'entrata dell'Italia in Europa favorevoli al Belpaese (e anche a Greci e Spagnoli, altri stati all'epoca a guida socialista e simili sotto mille aspetti all'Italia). Non fu solo una vendetta per Sigonella.
La storia parte da molto prima, almeno dal siluramento di Baffi a Bankitalia.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 16, 2018, 23:42:58 pm
L'esterofilia italiana ha varie cause, ed anche le sue origini son decisamente più lontane nel tempo.
Di certo c'è che quello italiano - o ciò che ne resterà - non sarà mai un popolo nazionalista.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: gluca - Aprile 17, 2018, 01:11:30 am
Io mi accontenterei di un popolo sovrano...
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 17, 2018, 20:28:35 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Vojislav-Seselj-orgoglioso-dei-crimini-per-cui-e-stato-condannato-187303

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Vojislav Šešelj, orgoglioso dei crimini per cui è stato condannato

Condannato in appello presso il Tribunale internazionale dell’Aja per i crimini nella ex Jugoslavia, il leader del Partito radicale serbo si vanta dei crimini commessi e occupa un seggio in parlamento. Nonostante la legge non lo consenta
17/04/2018 -  Antonela Riha Belgrado

Con la sentenza emessa l’11 aprile scorso, la Corte d’appello del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (TPI) all’Aja ha condannato il leader del Partito radicale serbo Vojislav Šešelj a 10 anni di detenzione, riconoscendolo colpevole per capi d’accusa riguardanti crimini contro l’umanità. Con questa decisione la Corte d’appello ha parzialmente ribaltato la sentenza di primo grado emessa nel marzo 2016, con cui il Tribunale dell’Aja aveva assolto Šešelj per tutti i capi d’accusa che gli venivano contestati.

Così si è giunti al termine di un processo, avviato nel 2006, che verrà ricordato per le numerose stranezze e controversie che lo hanno caratterizzato.

Una di esse riguarda la durata del processo e del periodo trascorso dall’imputato in stato di detenzione. Vojislav Šešelj si era consegnato volontariamente al Tribunale dell’Aja nel 2003, trascorrendo in carcere più di tre anni in attesa del processo, iniziato solo alla fine del 2006, ed è stato rilasciato nel 2014 per motivi di salute. La Corte d’appello ha quindi condannato Šešelj a una pena detentiva che egli ha già scontato.

Appresa la notizia della condanna, Šešelj ha dichiarato di essere orgoglioso di tutti i crimini di guerra e contro l’umanità che gli venivano attribuiti e di essere pronto a ripeterli in futuro. Ha inoltre affermato che la sentenza d’appello è illegittima e che intende impugnarla.
“A Hrtkovci non c’è spazio per i croati”

Šešelj è stato dichiarato colpevole di “incitamento alla persecuzione (dislocamento forzato), deportazione e altri atti disumani (trasferimento forzato di popolazione), nonché di crimini contro l’umanità e persecuzioni (violazione del diritto alla sicurezza personale), e di crimini contro l’umanità commessi a Hrtkovci, in Vojvodina.

Il 6 maggio 1992, Šešelj tenne un discorso nel villaggio di Hrtkovci, a poca distanza dal confine che separa la Serbia dalla Croazia, durante il quale dichiarò che “a Hrtkovci non c’è spazio per i croati”, minacciando: “Se non se ne vanno da soli, li porteremo al confine della terra serba. Da lì dovranno proseguire a piedi”.

Rivolgendosi alla platea dei suoi sostenitori, concluse il discorso dicendo: “Sono convinto che voi serbi di Hrtkovci e di altri villaggi limitrofi saprete preservare la concordia e l’unità reciproca, e che molto presto vi libererete dei croati rimasti nei vostri villaggi e nei dintorni”.

Questo discorso è considerato il primo atto di una vasta campagna di espulsione dei croati da Hrtkovci e da altri villaggi e città della Vojvodina. La registrazione del comizio di Hrtkovci è stata una delle principali prove addotte dall’accusa nel processo a carico di Šešelj davanti al Tribunale dell’Aja.

La Corte d’appello ha confutato anche la conclusione paradossale contenuta nella sentenza di primo grado, secondo cui la procura del Tribunale dell’Aja non ha provato che, nel periodo compreso tra il 1991 e il 1993, “la popolazione civile non serba fosse esposta a un attacco diffuso e sistematico in gran parte della Croazia e della Bosnia Erzegovina”.

Nella motivazione della sentenza d'appello , letta dal giudice Theodor Meron, si precisa che “nessun giudice ragionevole avrebbe potuto concludere che non vi era stato un diffuso e sistematico attacco contro la popolazione civile non serba in Croazia e in Bosnia Erzegovina”.

Partendo da queste premesse, la Corte d’appello ha modificato quella parte della sentenza di primo grado emessa nei confronti di Šešelj nella quale il collegio giudicante, presieduto dal giudice Jean-Claude Antonetti, aveva contestato – con l’eccezione della giudice Flavia Lattanzi – l’esistenza di numerosi crimini già accertati in altre sentenze emesse dal Tribunale dell’Aja.

Si può supporre che la conclusione del processo a carico di Vojislav Šešelj e la pronuncia della sentenza definitiva abbiano portato sollievo alla maggior parte dei protagonisti di questo procedimento.

Nel corso del processo, Šešelj aveva trasformato l’aula del tribunale in un palcoscenico dove, difendendosi da solo, era riuscito a far modificare il collegio di primo grado, e per aver rivelato il nome di un testimone era stato condannato, in un processo separato, a oltre 4 anni di detenzione.

Aveva anche intrapreso uno sciopero della fame e, pur essendo gravemente malato, si era rifiutato di sottoporsi alla chemioterapia, mentre durante le udienze non aveva mai perso occasione per insultare, nel più volgare dei modi, chiunque ritenesse suo avversario – dai giudici e procuratori ai suoi oppositori politici.

È stato l’unico imputato del Tribunale dell’Aja a cui è stato permesso di non essere presente in aula durante la lettura della sentenza. Ha aspettato a Belgrado sia la sentenza di assoluzione di primo grado, emessa nel 2016, sia la recente sentenza d’appello.
Nessun commento da parte delle autorità di Belgrado

La sentenza di condanna di Šešelj non ha destato una particolare attenzione dell’opinione pubblica serba, se non il giorno in cui è stata pronunciata.

Il presidente serbo Aleksandar Vučić, che quotidianamente appare in pubblico, non ha commentato la sentenza di condanna a carico del suo “padre politico”. Durante gli anni Novanta, Vučić è stato uno dei più stretti collaboratori di Šešelj, fino a quando, nel 2008, non è passato al Partito progressista serbo, di cui è attualmente leader.

Due anni fa, quando Šešelj è stato assolto in primo grado, Vučić ha dichiarato che “fin dall’inizio era chiaro che si trattava di un processo politico”.

Anche una parte dell’opinione pubblica serba – compresi i sostenitori della giustizia transizionale – ritiene che certe sentenze del Tribunale dell’Aja siano frutto di decisioni politicamente motivate.

La sentenza d’appello con cui Šešelj è stato condannato a 10 anni di detenzione, che ha già scontato nel carcere di Scheveningen, è stata commentata da molti come un tentativo di “salvare l’onore” del Tribunale, compromesso dalla controversa sentenza di assoluzione ma anche come un’ulteriore prova delle posizioni antiserbe delle “grandi potenze”.

Gli esperti sono divisi tra quanti affermano che la condanna di Šešelj costituisce ora un importante precedente, in quanto un cittadino della Serbia è stato condannato per aver commesso crimini nel territorio non coinvolto dalle operazioni di guerra, e quanti invece ritengono che la giustizia sia solo parzialmente soddisfatta.

Finora non ci sono reazioni del governo alle richieste dell’opposizione e di alcune organizzazioni non governative che chiedono di ritirare il mandato parlamentare a Šešelj, perché in quanto criminale di guerra condannato secondo la Legge sull’elezione dei deputati non può più essere deputato al parlamento. Con la condanna per crimini di guerra, non può più ricoprire la carica di deputato né far parte del Comitato parlamentare di controllo sui servizi di sicurezza.

Nella sua prima dichiarazione in parlamento dopo la sentenza di condanna, Šešelj come è sua consuetudine ha usato parole minacciose: "Sono venuto a vedere se qualcuno mi dirà che sono un criminale di guerra, così che gli spacco subito la faccia".

In Serbia, a quanto pare, a Šešelj tutto è ancora permesso. Può vantarsi dei crimini commessi, occupare un seggio in parlamento, partecipare ai reality show, minacciare croati, albanesi e oppositori politici in Serbia e nel resto del mondo.


Tuttavia, essendo politicamente debole, Šešelj non rappresenta alcuna minaccia per il presidente Vučić. Ma continua a ricordargli gli anni Novanta, quando insieme disegnavano i confini della “Grande Serbia”, un ricordo che Vučić vorrebbe cancellare dalla memoria collettiva.

Seguendo le sue indicazioni, gran parte dei cittadini serbi è disposta, coscientemente o no, a dimenticare i crimini avvenuti durante gli Novanta in Serbia e in altre repubbliche ex-jugoslave, molti dei quali vedono per protagonista proprio Vojislav Šešelj.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 17, 2018, 20:30:21 pm
Io mi accontenterei di un popolo sovrano...

Io no.
Ma ormai me ne son fatto una ragione.
Gli italiani son questi, pertanto non c'è nulla da fare.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 19, 2018, 20:08:48 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Georgia/Benvenuti-all-inferno-i-cantieri-ferroviari-in-Georgia-186464

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Benvenuti all'inferno: i cantieri ferroviari in Georgia

La costruzione di una linea ferroviaria nella Georgia centrale fa parte degli ambiziosi programmi di aggiornamento infrastrutturale del paese. Ma chi vi lavora rischia la salute e la vita
06/03/2018 -  Luka Pertaia   

(Pubblicato originariamente da OC Media il 26 febbraio 2018)


In un nebbioso giorno di metà gennaio Tevdore Natsabidze, 58 anni, cammina lungo una stradina fangosa che porta al cantiere dove lavora come manovale. È originario del villaggio di Nebodziri, nella municipalità di Kharagauli, Georgia centrale, 160 chilometri ad ovest di Tbilisi. È attualmente impiegato nella costruzione del tunnel ferroviario di Bezhatubani, un villaggio vicino al suo.

“Qui passano raramente delle auto. A volte un camionista mi dà un passaggio, ma sono abituato a camminare. Mi tengo in forma”, racconta, salendo per una collina prima di attraversare un ponte del 19mo secolo.

“Occorre stare molto attenti qui. In molti sono stati investiti da treni perché non erano sufficientemente attenti”, ammonisce Tevdore, mentre percorre il tratto di ferrovia che arriva sino al cantiere.

Mentre si avvicina alla fermata ferroviaria di Bezhatubani, all'orizzonte si inizia ad intravedere un cantiere. L'unico modo per raggiungerlo è uno stretto sentiero che scende lungo la collina.

Mentre Tevdore raggiunge il cantiere si aggiunge a lui un'altra ventina di uomini, stanno attendendo impazienti un treno che li porti al quartier generale dell'azienda per cui lavorano, nella città vicina di Khashuri. Vanno a discutere, con l'amministrazione dell'azienda, le richieste poste da chi è in sciopero. Ben presto sono raggiunti da molti altri.
“Un progetto per il benessere dei cittadini”

Il cantiere dove lavora Tevdore fa parte di un programma per ammodernare il principale collegamento ferroviario est-ovest del paese, da Tbilisi a Batumi. I lavori più rilevanti vengono fatti sul settore Zestaponi–Kharagauli e su quello Moliti–Kvishkheti. Il costo del programma è di circa 278 milioni di dollari.

La nuova linea ferroviaria andrà a rimpiazzare quella esistente tra Zestaponi–Kharagauli, aggiungendo una traccia ulteriore per collegare i villaggi di Moliti e Kvishkheti. Il progetto prevede lungo la linea sei nuovi tunnel, dei quali 5 sono già stati realizzati, ha dichiarato a OC Media il portavoce dell'azienda statale delle Ferrovie georgiane.

Il primo ministro georgiano Giorgi Kvirikashvili ha dichiarato l'anno scorso che il progetto di modernizzazione delle ferrovie è parte “di un più ampio programma di riforma in quattro punti”. Quest'ultimo include “nuove infrastrutture rispondenti a standard moderni, con nuove stazioni ferroviarie, porti, aeroporti e infrastrutture turistiche”.

Il primo ministro ha sottolineato che “ogni investimento, ogni progetto, è finalizzato al benessere dei nostri cittadini”. Ciononostante i lavoratori impiegati nel cantiere della ferrovia da tempo lanciano l'allarme per la loro salute, messa a rischio da pessime condizioni di lavoro.
Un altro sciopero

È il 19 gennaio. Da cinque giorni circa cinquanta lavoratori hanno incrociato le braccia chiedendo migliori condizioni di lavoro. L'azienda datrice di lavoro è la China Railway 23rd Bureau, ramo locale dell'azienda statale cinese China Railway Construction Corp.

“Non è la prima volta che scioperiamo”, afferma Giorgi Kiknadze, sindacalista e leader de facto del gruppo. A suo avviso nonostante l'azienda abbia promesso “di migliorare le cose” e nonostante alcuni passi siano stati effettivamente intrapresi, le condizioni generali del cantiere restano “intollerabili”.

Dopo un viaggio di 30 minuti da Bezhatubani a Khashuri, i lavoratori in sciopero hanno incontrato Ilia Lezhava e Paata Ninua, vice-responsabili del sindacato NTU, che raccoglie i lavoratori del settore ferroviario, nato nel 2015.

Mentre circa 40 lavoratori attendono nel cortile del quartier generale dell'azienda, i sindacalisti raggiungono un accordo con i datori di lavoro. A tutti viene promesso il pagamento dei permessi di malattia e delle ferie. Lo sciopero è terminato.

Ma l'annuncio arriva con una pessima notizia. Circa 26 lavoratori “non sono più necessari” perché a breve il tunnel verrà terminato. Solo i pochi funzionali alla chiusura dei lavori manterranno i loro posti di lavoro.
Acqua inquinata e ambiente non igenico

Non tutti sono d'accordo con la sospensione dello sciopero. In molti dubitano che l'azienda si occuperà veramente della loro sicurezza. “Ce lo dice l'esperienza”, dice Kiknadze.

Secondo Arsen Latsabidze, lavoratore di 44 anni, i cavi elettrici vengono lasciati esposti nel tunnel, al buio, durante i lavori. “Spesso in pozzanghere”, aggiunge.

Oltre ad accusare l'azienda della pessima situazione della sicurezza sul lavoro e del non pagare malattie e ferie, i lavoratori sottolineano che sono stati disattesi anche numerosi accordi presi. Secondo Jaba Peradze, 40 anni, l'azienda spesso non fornisce nemmeno guanti a sufficienza, obbligandoli ad utilizzarne di consunti. “Forniscono solo due paia di stivali al mese, che, data l'intensità del nostro lavoro, non sono sufficienti. E le calzature sono senza punte in acciaio, per proteggerci i piedi”, protesta.

Inoltre i lavoratori affermano che, ogni volta che piove, l'acqua che bevono è contaminata. “Quando abbiamo chiesto all'amministrazione acqua potabile ci è stato detto di berla dai rubinetti, ma questi sono di fatto collegati direttamente con il fiume Tskhenistskali”, aggiunge Peradze.

I gabinetti e le docce nel cantiere non rispettano alcuno standard sanitario. Dei dieci rubinetti nelle docce comuni e indivise, solo tre funzionano. Lo spogliatoio è sporco e ci si aspetta che siano i lavoratori a pulirlo nel loro tempo libero.
Oltre Bezhatubani

“Lavorare qui è una benedizione e una maledizione allo stesso tempo”, racconta Kiknadze che aggiunge che non ci sono quasi posti di lavoro nel comune e nelle città vicine, e nemmeno a Tbilisi. “Stiamo lavorando qui e almeno guadagniamo un reddito medio mensile di circa 240-320 dollari, ma a quale costo? Non sai mai cosa può capitarti”.

Appena tre giorni dopo l'accordo per la fine dello sciopero, tre operai sono rimasti feriti in un'esplosione nel tunnel. Era stata pianificata per procedere con il tunnel ma diversi operai vicino a dove sono stati collocati gli esplosivi non sono stati avvertiti della detonazione. Un'inchiesta penale è stata avviata per "violazione delle norme in materia di salute e sicurezza".

L'incidente del 22 gennaio non è stato il primo a ferire lavoratori nei cantieri gestiti dal China Railway 23rd Bureau Group. Nel luglio 2017, due operai sono rimasti feriti nello stesso cantiere di Bezhatubani dopo che un masso si è distaccato dal soffitto del tunnel in costruzione. L'azienda ha negato qualsiasi illecito affermando che "durante la costruzione, le norme sulla sicurezza del lavoro sono state rigorosamente rispettate" e aggiungendo che agli operai sono state fornite attrezzature adeguate. "Vi sono spesso infortuni sul lavoro, ma nessuno nell'amministrazione prende precauzioni", dice Kiknadze. China Railway 23 è stata anche in passato accusata di cattive condizioni di lavoro e mancata sicurezza sul lavoro.

Un monitoraggio da parte del sindacato NTU, realizzato nell'aprile del 2017, ha verificato condizioni simili nei cantieri dei villaggi limitrofi di Zvare e Dzirula. Nell'agosto 2016, l'Ufficio del difensore pubblico della Georgia ha rilasciato una dichiarazione in merito al cantiere di Zvare, affermando che i dipendenti si lamentavano della mancanza di "condizioni di lavoro adeguate, ambiente di lavoro sicuro e norme igieniche". Vi si menzionava anche che i lavoratori non avevano familiarità con i contenuti del loro stesso contratto di lavoro.
Ispezioni ignorate

Secondo il monitoraggio del sindacato NTU dell'aprile 2017 l'azienda aveva affrontato solo alcuni dei problemi emersi ad esempio fornendo ai lavoratori delle mascherine per respirare e attaccando alcuni cavi alle pareti. Ma si continuava, secondo il sindacato, a non adottare adeguate precauzioni nello stoccaggio degli esplosivi, che venivano tenuti nei veicoli utilizzati per il loro trasporto. Tra l'altro è stata sottolineata anche la mancanza di kit di pronto soccorso e di adeguato equipaggiamento.

Un successivo monitoraggio condotto sempre dal NTU nell'agosto del 2017 ha messo in rilievo che l'azienda non rispettava un decreto emesso nel 2014 dal governo georgiano perché non era stata adottata alcuna ventilazione nel tunnel, rendendo ai lavoratori la respirazione difficoltosa.

Le conclusioni di ogni monitoraggio sono state inviate all'azienda.

Secondo quando dichiarato a OC Media dal ministero del Lavoro sarebbe ancora in corso l'indagine condotta sull'incidente avvenuto lo scorso 22 gennaio. Il ministero sostiene che propri ispettori hanno visitato il cantiere due volte per determinare le cause dell'incidente.

Il ministero ha dichiarato che il Dipartimento sul lavoro ha controllato i cantieri sia a Zvare che Bezhatubani tre volte dal 2016, evidenziando almeno 30 violazioni di legge. “Sono poi state fornite per iscritto le raccomandazioni più rilevanti”, ha affermato sempre il ministero a OC Media.

Ma le raccomandazioni da parte degli ispettori del lavoro, così come i risultati dei monitoraggi sindacali, non sono vincolanti dal punto di vista giuridico. Per fare in modo che le cose cambino, chi si batte per i diritti dei lavoratori sta facendo pressioni affinché venga modificata la legislazione e venga allargato il mandato degli ispettori del lavoro.
Una legge sul lavoro più severa

Lina Ghvinianidze, a capo dell'Human Rights Education and Monitoring Centre (EMC), con sede a Tblisi, sostiene che l'attuale sistema di ispezioni sul lavoro, adottato nel 2015, "non può essere efficace" emettendo esclusivamente delle raccomandazioni, e dipende dalla "buona volontà dei datori di lavoro nell'ammettere gli ispettori sul luogo di lavoro".

Ghvinianidze aggiunge che i cantieri nei pressi di Kharagauli sono un esempio di quanto l'attuale legislazione sia fallimentare aggiungendo che, nonostante il numero di raccomandazioni emesse nei confronti delle aziende di costruzione, i "loro lavoratori hanno continuato a lavorare in condizioni pessime, rischiando la salute e la vita".

Secondo dati forniti a OC Media dal ministero degli Interni tra il 2010 e il 2017 in Georgia sono stati 359 i morti sul lavoro e 984 i feriti.

Chi si batte per i diritti dei lavoratori - tra cui anche EMC, sindacati ed altri - sta mettendo tutto il proprio impegno per arrivare ad una riforma non solo dell'Ispettorato del lavoro ma della legislazione sul lavoro in generale. si ritiene infatti possa essere un primo e significativo passo per ridurre gli incidenti sui luoghi di lavoro.

Le Ferrovie georgiane hanno dichiarato di non essere responsabili delle condizioni di lavoro nei cantieri di costruzione della ferrovia, aggiungendo che la loro preoccupazione è la qualità di quanto viene costruito. Archil Grishashvili, direttore di China Railway 23rd Bureau Group, non ha voluto commentare in merito alle accuse rivolte all'azienda per cui lavora.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 23, 2018, 19:36:20 pm
http://www.eastjournal.net/archives/89559

Citazione
NORD CAUCASO: Daghestan, tra instabilità e terrorismo
Emanuele Cassano 3 giorni fa   

Questo articolo è stato originariamente pubblicato da OBC Transeuropa

L’attentato dello scorso 18 febbraio alla chiesa ortodossa di San Giorgio a Kizlyar, nella repubblica russa del Daghestan, ha riportato all’attenzione dei media il problema del terrorismo nel Caucaso settentrionale. Seppur in netto calo rispetto al passato, questo fenomeno continua a rappresentare un problema concreto per la regione – teatro negli ultimi 15 anni di una violenta insurrezione armata – come dimostrano i principali dati riguardanti gli incidenti e le vittime legate ad atti di terrore.

Rivendicato dall’ISIS, l’attacco di Kizlyar, messo in atto dal 22enne Khalil Khalilov, è figlio come molti altri del malessere di una comunità afflitta da gravi problemi socio-economici e sconvolta da anni di conflitti e instabilità politica; fattori che hanno contribuito a creare terreno fertile per la radicalizzazione e l’estremismo violento, favorendo in questo modo l’aggressiva propaganda del terrorismo islamista.
Un contesto complesso

Il Daghestan possiede livelli di povertà, corruzione, disoccupazione e criminalità tra i più alti di tutta la Federazione russa. Dal punto di vista economico la regione dipende fortemente da Mosca, in quanto circa l’80% del proprio budget è costituito da sussidi federali; segno del trattamento di favore riservato dal Cremlino al fine di scongiurare la prospettiva di un nuovo conflitto etnico come quello ceceno. Buona parte di questi fondi, destinati allo sviluppo locale, finisce però per essere spesso oggetto di appropriazione indebita da parte di funzionari locali corrotti. L’aggravarsi di questo fenomeno ha recentemente spinto le autorità federali ad avviare nella regione una massiccia campagna anti-corruzione, che ha portato all’epurazione di diversi membri del governo.

La regione è inoltre caratterizzata da una società fortemente multietnica. Qui convivono – non senza difficoltà – decine di popoli: caucasici, turchici, iranici e slavi, con il risultato che nella repubblica si parlano ben 32 lingue diverse, di cui 14 ufficiali. Questa complessa composizione sociale ha favorito nel tempo una clanizzazione della politica, con gruppi familiari identificati su base etno-regionale in perenne lotta tra loro per il controllo delle principali attività economiche e delle posizioni di potere all’interno del governo. Neanche l’introduzione – fin dagli anni Novanta – di quote etniche per i posti di governo e i seggi nel parlamento locale è servita ad arginare questo fenomeno, che continua a minare la stabilità politica della repubblica.

La società daghestana è infine divisa dallo scontro tra l’Islam tradizionale, rappresentato dalle comunità sufi e dal Muftiyat locale (entità che si occupa dell’amministrazione della comunità musulmana della regione) e appoggiato dalle autorità federali, e l’Islam radicale, di più recente diffusione, al quale fanno riferimento le comunità salafite. Quest’ultimo, osteggiato dal Cremlino e dagli stessi sufi, può però vantare un forte appeal tra quei giovani daghestani che, delusi dalla loro società di appartenenza, sono alla ricerca di nuovi ideali intorno ai quali costruire la propria identità.
Oltre l’ISIS

L’attentato di Kizlyar è l’undicesimo attacco rivendicato finora dall’ISIS nella regione, sebbene le autorità russe ritengano improbabile un collegamento diretto tra Khalilov e lo Stato Islamico, il quale, secondo l’analista politico Andrey Serenko, avrebbe tentato di “appropriarsi” dell’attacco – come in passato di altri – per riabilitare la propria immagine dopo ripetuti fallimenti.

Gli uomini di Daesh iniziarono a mettere gli occhi sulla regione nel giugno 2015, quando annunciarono la costituzione di un nuovo governatorato nel Caucaso russo con a capo il daghestano Rustam Asildarov (conosciuto come Emiro Abu Muhammad Kadarsky), morto nel dicembre 2016 durante uno scontro a fuoco con le forze armate russe. Già dal 2012 però, i successi militari dello Stato Islamico in Medio Oriente portarono molti combattenti a lasciare il Daghestan per la Siria, permettendo così a Mosca di allentare la forte pressione esercitata nella regione dai ribelli islamisti. La successiva ritirata dell’ISIS ha posto il problema del rientro in patria di questi guerriglieri, tornati a rappresentare una potenziale minaccia per il Cremlino.

Nella regione sono attivi anche alcuni gruppi ribelli rimasti fedeli a ciò che rimane dell’organizzazione jihadista “Wilāyat Daghestan” (nota in precedenza come Shariat Jamaat), gruppo legato in origine all’Emirato del Caucaso, proclamato nel 2007 dal ceceno Doku Umarov. Lo stesso Asildarov, prima di giurare fedeltà allo Stato Islamico, combatté tra le fila di questa formazione con il grado di comandante. Negli ultimi anni il Wilāyat Daghestan – come del resto lo stesso Emirato – ha però perso progressivamente il proprio potere, a causa della “concorrenza” di Daesh, delle partenze verso la Siria e della dura repressione delle autorità; al punto da essere dichiarato distrutto nel febbraio 2017 dall’allora capo della Repubblica daghestana Ramadan Abdulatipov.

A complicare ulteriormente lo scenario vi è poi la presenza di diverse decine di cellule composte da combattenti “indipendenti”, bande criminali legate a determinati clan locali e, come nel caso di Khalilov, lupi solitari, ovvero individui auto-radicalizzatisi che di fatto non posseggono alcun legame concreto – se non puramente nominale – con le principali organizzazioni terroristiche che rivendicano un ruolo nella regione.
Obiettivi istituzionali

Perpetrato ai danni di una minoranza religiosa (gli ortodossi costituiscono il 2,4% della popolazione daghestana, prevalentemente musulmana), l’attacco di Kizlyar ha rappresentato – metodologicamente parlando – un’eccezione per il terrorismo locale, i cui obiettivi principali risultano spesso essere la polizia e le forze dell’ordine.

Secondo i dati di Caucasian Knot, delle 2058 vittime del terrore in Daghestan nel periodo 2010-2017, ben 594 (circa un terzo del totale) sono poliziotti o agenti federali, a fronte di 403 vittime civili. Le restanti unità fanno riferimento ai militanti uccisi. Molti degli stessi attentati rivendicati negli ultimi due anni dall’ISIS hanno avuto obiettivi politico-militari, piuttosto che civili.

A finire nel mirino del terrore sono state anche diverse autorità religiose legate all’Islam moderato; è il caso dello sheykh Said Afandi Chirkeyskiy, importante esponente della comunità sufi del Daghestan e strenuo oppositore dell’Islam radicale, ucciso nel 2012 da una terrorista suicida.
Attentati in diminuzione

Negli ultimi anni la repressione messa in atto da Mosca è comunque riuscita a ridurre progressivamente gli episodi terroristici, il cui numero appare in netta diminuzione. Secondo Caucasian Knot, tra il 2016 e il 2017 il Daghestan ha visto un calo degli attacchi terroristici del 62,5%, mentre le vittime sono scese del 73%. Inoltre, se nel 2011 il terrorismo islamista fece 413 vittime, (con una media di oltre una al giorno), nel 2014 esse scesero a 208, mentre nel 2017 furono “solo” 47.

Per combattere il terrorismo islamista il Cremlino ha sempre adottato una linea di tolleranza zero, contrastando l’insurrezione daghestana con ogni mezzo a disposizione, dall’inasprimento dei controlli sulle comunità salafite alla distruzione delle abitazioni dei ribelli e di chi offriva loro riparo, facendo terra bruciata intorno agli insorti. Nel luglio 2016 è stata inoltre approvata una controversa legge antiterrorismo nota come “legge Yarovaya”, dal nome della parlamentare che l’ha redatta, la quale ha vietato il proselitismo e la diffusione di materiale religioso al di fuori dei luoghi di culto riconosciuti dalle autorità, introducendo inoltre dure pene detentive per chiunque cercasse di organizzare o incoraggiare disordini di massa.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Aprile 23, 2018, 22:25:20 pm
Già, ma almeno la classe dirigente russa non svende il proprio Paese, come l'Ucraina, le nazioni dell'UE e anche l'Italia.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 23, 2018, 23:33:55 pm
Certo, perché la classe dirigente russa è fortemente nazionalista.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Massimo - Aprile 24, 2018, 00:35:35 am
Inoltre nella cultura russa l'individuo è SACRIFICABILE per gli interessi della nazione ed è disposto ad ESSERE SACRIFICATO sempre per gli interessi nazionali. Il contrario avviene in Italia, ove la massima aspirazione (e vanto) è la furbizia individuale.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 25, 2018, 12:06:37 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Albania-la-vendetta-di-sangue-esiste-187372

Citazione
Albania: la vendetta di sangue esiste

Pubblicato un rapporto di Operazione Colomba sul fenomeno della vendetta di sangue in Albania. Vi si auspica una definitiva presa di consapevolezza da parte delle istituzioni albanesi
24/04/2018 -  Redazione OBCT   

Mario Majollari aveva chiesto, nel 2014, asilo politico in Svezia. Era fuggito dall'Albania perché temeva di essere assassinato. Suo padre, nel 2000, aveva ucciso un uomo e Majollari temeva ora la vendetta da parte dei familiari della vittima.

La Svezia però non gli ha accordato alcuna protezione internazionale e nel 2016 Mario Majollari è stato costretto a rientrare in Albania dove è stato assassinato lo scorso 10 aprile, a Tirana. Ricercato per l'omicidio è Katriot Gjuzi, fratello di Ilir Gjuzi, ucciso dal padre di Mario Majollari.

Secondo la stampa svedese tra le varie motivazioni che hanno convinto il giudice a non concedere l'asilo, anche il fatto che le autorità albanesi avevano garantito di essere in grado di offrire protezione per i conflitti legati alla vendetta di sangue.

Dal 2010 Operazione Colomba , Corpo Nonviolento di Pace della Comunità Papa Giovanni XXIII, è presente a Scutari, in Albania, per sostenere le famiglie sotto vendetta. Tra le varie attività molte sono rivolte alla sensibilizzazione dei cittadini e delle istituzioni albanesi sulla questione. Nel 2013 i volontari di Operazione Colomba Albania hanno ad esempio raccolto quasi 6000 firme in 6 mesi su un documento che impegnava i firmatari a contrastare il fenomeno della vendetta di sangue, richiedendo l'intervento dello stato. L’estate del 2015, invece, più di 300 persone hanno marciato da Scutari a Tirana per sensibilizzare le istituzioni locali: una settimana a piedi e 130 chilometri, passando per più di 10 comuni.
Questione di numeri

Ma Operazione Colomba non si occupa solo di questo. Partendo dalla consapevolezza che i dati sulla distribuzione geografica e numerica del fenomeno della vendetta di sangue variano sensibilmente a seconda delle fonti che li hanno elaborati, dal 2013 monitora i casi di violenza legati alla vendetta sui media albanesi e internazionali. Il database comprende ad oggi 550 casi.

Lo scorso 27 marzo a Tirana, anche prendendo spunto da questo monitoraggio, l'organizzazione ha presentato un rapporto relativo al triennio 2015-2018 nel contesto di una conferenza patrocinata dall'ambasciata italiana e co-organizzata assieme all'Avvocato del Popolo (Ombudsman) Erinda Ballanca. All'incontro erano presenti anche rappresentanti di alto livello delle istituzioni albanesi, tra i quali Gramoz Ruçi, Presidente del Parlamento, Edon Qesari, consigliere del ministro degli Interni, e Mimi Kodheli, rappresentante della Commissione Esteri del Parlamento. L’incontro ha registrato, inoltre, un’ampia partecipazione di ambasciate, organizzazioni non governative e giornalisti.

I numeri resi noti da Operazione Colomba descrivono un fenomeno che non è affatto marginale. Nel periodo preso in esame da gennaio 2015 a dicembre 2017 sono avvenuti 141 nuovi casi di hakmarrja (violenze e ferimenti) e 15 nuovi casi di gjakmarrja (omicidi). "Rispetto al periodo 2011-14, si sono registrati un aumento dei casi di hakmarrja e un andamento costante dei casi di gjakmarrja", precisano gli attivisti.

Le città in cui il fenomeno della hakmarrja e della gjakmarrja si è manifestato più frequentemente sono in ordine decrescente Tirana (con 86 fatti), Scutari (con 46 fatti), Durazzo (con 36 fatti), Valona (con 17 casi) e Lezhë (con 12 fatti).

Oltre al fenomeno della vendetta di sangue sul territorio albanese, purtroppo, si assiste anche al cosiddetto fenomeno della “esportazione della vendetta”: alcuni casi continuano infatti anche al di fuori dei confini nazionali. Ad esempio, secondo i dati raccolti dal database di Operazione Colomba dal 2013, alcuni omicidi per vendetta di sangue si sono consumati anche in Italia, 11 casi, e in molti altri paesi europei. Un fenomeno in continuo sviluppo e trasversale sotto diversi punti di vista poiché riguarda diverse località in tutta l’Albania e si spinge al di fuori dei confini nazionali e coinvolge persone di tutte le età e di entrambi i generi.
E le istituzioni?

In passato le autorità albanesi cercavano di minimizzare il fenomeno. Ora le cose sono cambiate e lo dimostra anche la presenza istituzionale di alto livello alla presentazione del rapporto di Operazione Colomba. "La pressione del panorama internazionale e la crescente visibilità del fenomeno nei media locali e internazionali hanno spinto tutte le istituzioni a occuparsi delle vendette di sangue" si scrive nel rapporto "l’Unione Europea è stata la principale organizzazione internazionale a porre la propria attenzione specificamente sul contrasto alla vendetta di sangue, fino a far diventare la sua eliminazione uno dei requisiti per l’accesso del Paese alla membership europea".

Questo però non basta. Secondo Erinda Ballanca, difensore civico dell'Albania, "il fenomeno richiede un nuovo approccio, con un permanente miglioramento della legislazione, una veloce reazione della Polizia di Stato, della procura e delle corti per la cattura e la condanna degli autori di reati legati alla vendetta, ed anche un maggiore impegno anche delle strutture del sistema di educazione".

Intanto per evitare che accadano altri casi come quelli di Mario Majollari e per fare in modo che gli stati europei si prendano appieno le proprie responsabilità al Parlamento europeo è stata presentata una petizione nella quale - anche facendo riferimento al fenomeno della vendetta di sangue - si chiede che l'Albania non venga più considerato paese d'origine sicuro nella valutazione delle richieste di asilo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 25, 2018, 12:09:50 pm
Inoltre nella cultura russa l'individuo è SACRIFICABILE per gli interessi della nazione ed è disposto ad ESSERE SACRIFICATO sempre per gli interessi nazionali. Il contrario avviene in Italia, ove la massima aspirazione (e vanto) è la furbizia individuale.

Sì, lo so, tuttavia non credo che ci siano quemmisti (e non) disposti ad essere sacrificati per la Nazione, né qui, (in Italia) né in Francia, né in Spagna, né in Portogallo o altrove.
Un conto è essere nazionalisti e un conto è essere fanatici nazionalisti.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Red- - Aprile 25, 2018, 12:55:35 pm
Diceva la logica del signor Spock: "in casi di necessità l'interesse dei tanti viene prima dell'interesse dei pochi, o di uno".
Logica ineccepibile, ma ad una condizione, cioè che sia condivisa dalla massa. Cosa che non avviene oggi, in Italia. Ne consegue che anche la suddetta logica, in tali condizioni, perde di significato.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 25, 2018, 14:37:44 pm
Sì, d'accordo, tutto vero; ma sfatiamo la leggenda urbana secondo la quale tale discorso riguarderebbe solo gli italiani, perché non è affatto così.
Certo, mi rendo conto che la mia è una battaglia contro i mulini a vento, poiché il disprezzo di sé e del proprio popolo che l'italiano medio nutre da tempo immemore non si cancella in un attimo.*
Tantomeno posso farlo io.

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* Recentemente mi è capitato di discutere con un conoscente, il quale, tra le varie cose, sosteneva che "l'Italia è diventato il Paese più povero del mondo".
Insomma, roba che non ho mai sentito uscire dalla bocca dell' albanese** o del rumeno più deficiente.
Ma, del resto, quando si tratta di queste cose la stupidità dell' italiano medio (specie se di sesso maschile) raggiunge vette altissime e difficilmente eguagliabili.
Poi sì, che l' Italia sia messa peggio di alcuni lustri fa è fuori discussione; ma da qui a definirla "il Paese più povero del mondo" ci passano di mezzo l'Oceano Atlantico e l'Oceano Pacifico messi insieme.

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** Per inciso: all' inizio degli anni Novanta, ossia quando l' Italia era la quinta potenza economica del mondo (per un breve periodo fu anche la quarta), l'Albania era il terzo Paese più povero del mondo (sì, del mondo).
Ma tanto neppure gli albanesi dell' epoca erano soliti fare i discorsi disfattisti tipici dell' italiano medio.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Red- - Aprile 25, 2018, 20:28:43 pm
Nel primo dopoguerra l'Italia era un paese semidistrutto, quasi raso al suolo; si mangiavano i topi, a patto di trovarli. Ma la gente cantava, c'era speranza, c'era fiducia nel futuro. I cuori erano alle stelle.
Oggi si ha più di allora, ma i cuori sono rasoterra. Alcuni stanno scavando. Cosa che probabilmente non avviene in Albania, Romania , e forse neppure in Africa.
Tutto questo avrà un perchè. E probabilmente è quello che, inconsapevolmente, ci rimproverano africani and C.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Red- - Aprile 25, 2018, 21:08:24 pm
...Secondo me viviamo in un contesto troppo innaturale, in cui sentiamo di non avere reali possibilità di stare meglio e per questo molti sono disfattisti; lo stesso sentiment probabilmente non è presente in altre nazioni.

Sul vecchio forum un utente scrisse:
"Gli uomini restano in casa sino in tarda età perché sentono di non avere più una missione sociale, un futuro da costruire, un senso. E sentono bene."

Si può non essere d'accordo...?
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: CLUBBER - Aprile 25, 2018, 21:43:55 pm
Nel primo dopoguerra l'Italia era un paese semidistrutto, quasi raso al suolo; si mangiavano i topi, a patto di trovarli. Ma la gente cantava, c'era speranza, c'era fiducia nel futuro. I cuori erano alle stelle.
Oggi si ha più di allora, ma i cuori sono rasoterra. Alcuni stanno scavando. Cosa che probabilmente non avviene in Albania, Romania , e forse neppure in Africa.
Tutto questo avrà un perchè. E probabilmente è quello che, inconsapevolmente, ci rimproverano africani and C.
io ho molti dubbi sull'immagine fin troppo positiva che hai fatto del passato.
In più ogni generazione dice sempre la stessa cosa"prima c'erano più valori,adesso tutti sono egoisti,prima si viveva felici con poco...".
conosco gente di 80-90 anni e questi presunti valori superiori non li vedo neanche di striscio.
Sono materialisti e avidi esattamente come la maggior parte dei giovani.

Alcuni stanno scavando. Cosa che probabilmente non avviene in Albania, Romania , e forse neppure in Africa.
Tutto questo avrà un perchè. E probabilmente è quello che, inconsapevolmente, ci rimproverano africani and C.
All'africano medio del morale basso degli italiani non gliene frega niente.
la maggior parte di loro si lamenta solo del fatto che vorrebbe parassitare ancora di più il popolo italiano.
Che poi bisogna andarci in alcuni paesi dell'Africa a vedere che non è che i loro cuori siano poi così traboccanti di gioia e speranza.





Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Aprile 25, 2018, 22:59:36 pm
Non è che i 90enni siano immuni dall'influenza del presente. Comunque ho visto io stesso le cose cambiare.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 26, 2018, 00:21:35 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/La-schizofrenia-albanese-e-Edi-Rama-su-La-7-159252

Citazione
La schizofrenia albanese e Edi Rama su La 7

Un paese in pieno sviluppo e ricco d'opportunità. Da dove origina questa nuova immagine diffusa dai media italiani sull'Albania? Un editoriale
03/03/2015 -  Fatos Lubonja   

(Pubblicato originariamente su Panorama il 23 febbraio 2015. Titolo originale "Skizofrenia shqiptare dhe Rama ne la7")


Qualche tempo fa avevo scritto un articolo in cui, tra le altre cose, parlavo anche della schizofrenia albanese. Sostenevo che gli albanesi continuano ancora oggi, come ai tempi della propaganda comunista, a vivere in modo schizofrenico tra due mondi: quello dell’esaltazione dei loro eroi e quello della maledizione dell’attuale stato di miseria, che è conseguenza di quegli stessi miti. Quella volta mi riferivo agli eroi dell’UÇK che governavano il Kosovo contro gli albanesi, e nelle molte critiche ricevute venivo accusato di essere anti-albanese al punto da arrivare ad insultare gli albanesi descrivendoli come dei malati mentali. In realtà, l’uso del termine “schizofrenia” non ha solo l’accezione psichiatrica, ma anche quella della coesistenza di elementi incompatibili e contraddittori in una stessa realtà, in un libro, in una politica, in un articolo, in un discorso o in un pensiero. Parola quindi usata per esprimere con maggiore potenza quello che in parole più miti si potrebbe definire “contraddittorio” o “incoerente”.



Citazione
Fatos Lubonja

Scrittore e intellettuale albanese, è editore della rivista letteraria Përpjekja, pubblicata a Tirana. Nato nella capitale nel 1951, laureato in fisica, fu arrestato nel 1974 per associazione e propaganda contro il regime e condannato a 17 anni di lavori forzati. Venne scarcerato solo nel 1991. Oggi è noto nel suo Paese e all’estero come uno degli analisti più lucidi e critici del periodo enverista, dello stalinismo e delle contraddizioni della nuova democrazia albanese. Nel 2002 gli è stato conferito il Premio Moravia, seguito l’anno dopo dal Premio Herder. In Italia ha pubblicato Diario di un intellettuale in un gulag albanese (ed. Marco, 1994) ed Intervista sull'Albania (Il Ponte, 2004)

Ho qui l’occasione di tornare ancora una volta sul termine che avevo utilizzato allora. Mentre il paese si trova a fronteggiare una delle alluvioni più violente della sua storia (a causa dei gravi abusi perpetrati in questo ventennio sul territorio), mentre in Albania la criminalità avanza fino a coinvolgere gli affari della famiglia del ministro dell’ordine pubblico, mentre la crisi economica dilaga, in relazione anche alla crisi in Grecia e in Italia, mentre gli albanesi lasciano il paese con ritmi che non si verificavano da anni, nei media nostrani ho visto esaltare un articolo di Roberto Saviano uscito su L’Espresso, in cui l’autore di Gomorra ripropone un ritornello recentemente molto in voga nei media italiani. Una cantilena sull’Albania che cambia, un paese che oggi non è più sinonimo di persone in fuga, ma patria di albanesi che ritornano e di italiani che arrivano.

A lasciare senza parole, più che l’Albania descritta da Saviano, è la reazione in rete degli albanesi, felici che finalmente all’estero si parli bene dell’Albania e orgogliosi di essere rappresentati dignitosamente dal loro Primo Ministro, quasi fossero loro stessi convinti che sia tutto vero. Mi sono allora domandato: ma non sono gli stessi che si lamentano senza tregua della situazione del paese? Ecco, è di questo tipo di schizofrenia che avevo parlato.

Schizofrenia naturale o male culturale? Io credo che fino ad un certo punto sia naturale, considerato che in quanto esseri umani siamo costretti a vivere molte contraddizioni, tra cui una delle più potenti è proprio quella tra il reale e l’ideale, tra i desideri sconfinati e le limitate possibilità di realizzarli. Ma intelligenza, istruzione e cultura prima, politica e giornalismo poi, ci soccorrono per distinguere le differenza tra queste condizioni e per trovare il modo di vivere queste contraddizioni nel modo più sano possibile. Al contrario, noto invece come una cultura perversa del fare politica e giornalismo stia cercando di storpiare ed abusare di queste contraddizioni umane. La politica albanese cerca di manipolare i cittadini attraverso i media internazionali, sfruttando le debolezze di persone che per stare meglio hanno bisogno di autocompiacersi, spesso all’interno di quel complesso di inferiorità che cerca conferme nell’attenzione degli stranieri. Il tutto anche per vendere all’estero questa realtà come una sorta di paradiso e per fare poi di questi articoli e reportage la superficie su cui invitare i cittadini a specchiarsi. Nonché per legittimare il potere e gli autori di un paradiso che in realtà è un inferno. In questo modo, chi non può contare sull’indipendenza di pensiero, rimane suggestionato dall’autorevolezza degli stranieri, riconoscendo nel proprio paese paradiso e inferno nello stesso tempo; passando dall’uno all’altro senza riuscire a capire né dove stia l’inganno, né di chi sia opera.

Tale manipolazione, in particolare con i media italiani, è pesantemente in atto da qualche tempo. Non molto tempo fa, a Bari, due giornalisti mi hanno fatto quella che più che una domanda era un’affermazione: “Potrebbe cortesemente illustrarci questo miracolo albanese: ora non sono più gli albanesi a lasciare il paese ma gli italiani ad andare in Albania”. Chiaramente rimasi basito. Mi venne in mente il film di Amelio di due-tre anni fa che finisce con il protagonista italiano che trova lavoro in Albania. Allora ho fatto notare ai giornalisti che forse avevano preso troppo sul serio l’ironia del regista, incentrata sulla difficile situazione italiana. Ma non molto tempo dopo ho visto un’intera pagina di Repubblica sullo stesso tema, con l’intervista ad un albanese di successo, rientrato in patria per aprirvi un call center. Ancora, una giornalista di Rai 2 non tardò a piombare un giorno a casa mia, dicendomi di essere venuta per immortalare l’Albania in cui da qualche tempo facevano ritorno gli albanesi, e ora anche gli italiani. Alla domanda su chi fossero queste imprese italiane che avevano da prima cercato e poi avuto cotanta fortuna in Albania, non seppe che nominare il caso del famoso call center. Come se quel lavoro dove i ragazzi sono rinchiusi come i polli nelle incubatrici, a fare telefonate assurde per otto ore al giorno e due-trecento euro al mese, avesse qualcosa anche di minimamente dignitoso.

Trovo che sia normale, anzi simpatico, che ci siano italiani dimentichi del razzismo che ancora oggi impregna il giudizio sull’Albania, ma un maggiore senso della realtà è dovuto e questi giornalisti non possono permettersi di raggirare i loro connazionali, senza considerare, per giunta, che forse sono loro stessi ad essere manipolati per abbindolare gli albanesi.

L’uscita di Rama su La 7, in un programma che voleva presentare l’Albania come il paradiso degli italiani, è l’apice di questa politica della schizofrenia. Ascoltando Edi Rama è impossibile non pensare alla schizofrenia albanese: è la stessa persona che appena diciotto mesi fa parlava dell’Albania della miseria, della povertà, della disoccupazione, della corruzione, dell’ingiustizia, del clientelismo del sistema che corrompe anche i tedeschi, figuriamoci poi gli albanesi; insomma, è riuscito a dire di tutto ed è da ottusi pensare che l’Albania sia diventata un paradiso per gli italiani in questo anno e mezzo in cui sono stati sospesi anche gli investimenti perché - come ha ricordato lo stesso Primo Ministro - prima era necessario estinguere i debiti. Perché quell’albanese di successo del call center non è tornato in Albania ai tempi di Rama, ma in quelli della miseria. Gli stesi anni in cui è stato girato anche il film di Amelio. Ma, guarda caso, neanche l’opposizione si è preoccupata di intervenire per chiedere al Primo Ministro perché invece di farsi il mazzo in ufficio, è sempre in volo da un paese all’altro per promuovere l’Albania, neanche fosse la sua ultima creazione artistica. Magari perché dobbiamo essere tutti felici dell’immagine dell’Albania all’estero. E se qualcuno la pensa diversamente, si fa presto ad additarlo come anti-albanese. Ecco, è questa la schizofrenia.

Qualcuno può pensare che il premier si adoperi in questo modo per chiamare gli investitori italiani, ma dubito che un italiano decida di venire ad investire in Albania vedendo una trasmissione televisiva. Un imprenditore decide di investire dopo avere messo piede sul territorio; e, a meno che non sia un mafioso – come purtroppo lo sono stati molti italiani che hanno investito in Albania – ci penserà due volte prima di investire in un paese ancora quotidianamente afflitto dalla criminalità.

Di base, sono convinto che a sfornare questa immagine illusoria dell’Albania non siano le cucine mediatiche italiane, ma piuttosto quelle di Tirana, d’accordo con il pessimo giornalismo italiano (forse anche con l’Ambasciata d’Italia a Tirana). Questa manipolazione attraverso la copertura dell’Albania reale con la foglia di fico dipinta dai media stranieri coincide con l’insediamento al potere di un nuovo governo, con a capo un genio della manipolazione mediatica, che ha alle spalle un apparato propagandistico (che oggi ci ostiniamo a chiamare network) che proprio per questo lavora e viene ricompensato. E lo scopo di questo lavoro, come dicevo, non è quello di chiamare investitori, ma di manipolare, stordire, far perdere ai cittadini il senso della realtà, il loro pensiero critico. Perché questo lavoro serve al potere, non solo per ampliare prestigio e autorità sui cittadini, ma anche per delegittimare la critica interna, già estremamente debole a causa di un’opposizione screditata e di media e società civile che sono, per lo più, fedelissimi clienti del potere.

Traduzione a cura di Erion Gjatolli
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 26, 2018, 00:28:56 am
Nel primo dopoguerra l'Italia era un paese semidistrutto, quasi raso al suolo; si mangiavano i topi, a patto di trovarli. Ma la gente cantava, c'era speranza, c'era fiducia nel futuro. I cuori erano alle stelle.
Oggi si ha più di allora, ma i cuori sono rasoterra. Alcuni stanno scavando. Cosa che probabilmente non avviene in Albania, Romania , e forse neppure in Africa.
Tutto questo avrà un perchè. E probabilmente è quello che, inconsapevolmente, ci rimproverano africani and C.

Red, ma tu sei mai stato in Albania e in Romania ?
Io sì, anni fa, quando i suddetti paesi erano nella cacca più totale (non che oggi siano diventati "le nuove Americhe", eh...) e t' assicuro che "i loro cuori non erano affatto alle stelle".
Mentre in Africa non ci son mai stato - né mai ci andrò; non ci penso neppure - ma è veramente difficile credere che in luoghi dove ti tagliano le mani per un furto, si muore di fame, nonché a causa della malaria, di ebola e quant'altro, e in certe zone si ammazzano a più non posso (in confronto l' Italia è una sorta di "paradiso terrestre"), possano avere "i cuori alle stelle".


Citazione
E probabilmente è quello che, inconsapevolmente, ci rimproverano africani and C.

E tu dai peso alle parole di soggetti che provengono da paesi culturalmente inferiori e messi decisamente peggio del nostro ?
Per me le loro parole hanno un valore a dir poco nullo.
Casomai, nel momento in cui approdano sul suolo italiano e magari rompono pure i maroni, sono io a giudicarli; il che è ben diverso.
Credo sarebbe il caso di liberarsi da certi complessi di inferiorità.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 26, 2018, 00:33:25 am
...Secondo me viviamo in un contesto troppo innaturale, in cui sentiamo di non avere reali possibilità di stare meglio e per questo molti sono disfattisti; lo stesso sentiment probabilmente non è presente in altre nazioni.

Sul vecchio forum un utente scrisse:
"Gli uomini restano in casa sino in tarda età perché sentono di non avere più una missione sociale, un futuro da costruire, un senso. E sentono bene."

Si può non essere d'accordo...?

Red, l' esterofilia italiana, mista a disfattismo cronico, ha origini ben più lontane, ed esisteva(no) molto prima dell' avvento di quello che tu definisci "neofemminismo".


Citazione
Sul vecchio forum un utente scrisse:
"Gli uomini restano in casa sino in tarda età perché sentono di non avere più una missione sociale, un futuro da costruire, un senso. E sentono bene."


Ignoro chi sia quell' uomo, ma tale affermazione la trovo solo parzialmente condivisibile.
Dal mio punto di vista la questione è ben più complessa.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 26, 2018, 00:41:28 am
All'africano medio del morale basso degli italiani non gliene frega niente.
la maggior parte di loro si lamenta solo del fatto che vorrebbe parassitare ancora di più il popolo italiano.
Che poi bisogna andarci in alcuni paesi dell'Africa a vedere che non è che i loro cuori siano poi così traboccanti di gioia e speranza.


Ecco, appunto.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 26, 2018, 00:48:02 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Albania-lo-stato-e-la-criminalita-organizzata-183442

Citazione
Albania: lo stato e la criminalità organizzata

Un'organizzazione criminale italo-albanese dedita al narcotraffico dall'Albania smantellata nei giorni scorsi a Catania ha finito per scuotere, pesantemente, anche la politica albanese
23/10/2017 -  Tsai Mali   


Una contorta vicenda di traffici internazionali, collaborazione tra autorità e gruppi criminali e parentele scomode sta facendo tremare in questi giorni il governo del Premier socialista Edi Rama, insediatosi per il secondo mandato nel mese di settembre. Quattro anni di indagini delle autorità italiane sono state finalizzate il 17 ottobre scorso con un mandato di cattura nei confronti di undici persone, tra cui anche i fratelli Moisi e Florian Habilaj, noti alla cronaca albanese dal 2015, cioè da quando un ex agente dell'antidroga di Fier, Dritan Zagani, ha denunciato il legame – di sangue e di affari – con l'allora ministro degli Interni, Saimir Tahiri.

Secondo l'ex ufficiale di polizia, i fratelli Habilaj erano coinvolti da tempo in un giro di traffico di narcotici con l'Italia e si muovevano a bordo di un'auto di proprietà del ministro, che in Albania gli garantiva l'intoccabilità. Tahiri aveva ammesso in quell'occasione di aver venduto il veicolo ai cugini, senza mai fare il passaggio di proprietà, nonché di averlo utilizzato anche successivamente per un viaggio privato all'estero.

L'agente Zagani, all'epoca già sotto inchiesta per abuso d'ufficio, ha chiesto e ottenuto asilo politico in Svizzera. Mentre Saimir Tahiri, oggi deputato e coordinatore del Partito Socialista, è rimasto a capo del ministero degli Interni fino al marzo 2017, prima di essere improvvisamente destituito con un maldestro rimpasto di governo in cui a farne le spese finirono anche altri tre ministri socialisti. Alla luce delle recenti rivelazioni ottenute dalle autorità italiane, la procura albanese ne chiede ora l'arresto con l'accusa di traffico di narcotici e corruzione.
Il coinvolgimento di Tahiri

Nell'ambito delle indagini della Guardia di Finanza su un'organizzazione internazionale che negli anni è riuscita a trasportare oltre 3.500 kg di marijuana dall'Albania all'Italia, con un giro d'affari che supera i 20 milioni di euro, la procura albanese ha ottenuto anche un voluminoso fascicolo con le intercettazioni di incontri e conversazioni telefoniche tra i membri della banda, da cui è emersa l'ombra del coinvolgimento di Saimir Tahiri, nel periodo delle intercettazioni a capo del ministero degli Interni.

In una conversazione del dicembre 2013, qualche mese dopo le elezioni politiche albanesi, gli indagati Moisi Habilaj e Sabaudin Çelaj si chiedono cosa abbia più di loro il neo nominato ministro. Per Çelaj ci sarebbe stato “giusto il nome”, intendendo la reputazione e l'incarico governativo, non certo il denaro, condizione evidentemente ritenuta imprescindibile per la carriera politica. Secondo Habilaj però, il cugino di Tirana "ha fatto almeno 5 milioni di euro in un mese", ma il compagno ridimensiona l'importanza della cifra per le tasche del ministro sottolineando che per una campagna elettorale all'albanese "non sono sufficienti neanche 20 milioni".

In un'altra occasione, gli indagati parlano di una somma di 30 mila euro, parte del ricavato di una delle tratte di narcotici, che spetterebbe a Saimir, e successivamente di due bracciali, dal valore di qualche migliaio di euro, per la moglie e la madre di Saimir.

In alcuni casi il riferimento è evidente mentre in altre occasioni si fa solo il nome, ma secondo gli inquirenti italiani il Saimir citato dagli indagati sarebbe proprio l'ex ministro.
Le conseguenze politiche

"Due criminali, miei cugini di decimo grado, non hanno esitato a fare il mio nome. Di criminali che fanno il nome di un politico per vantarsi, e comunque per i propri interessi, ce ne sono tanti. Ma intendo chiedere alla procura di indagare, senza avvalermi dell'immunità di deputato", ha dichiarato Tahiri in conferenza stampa a poche ore dalla pubblicazione delle intercettazioni. "Finirò nella cella più remota del carcere e ci rimarrò finché sarà fatta chiarezza", affermava accorato la sera stessa in televisione, certo che il giorno dopo la procura avrebbe avuto il via libera per l'arresto.

Nel generale e imbarazzato silenzio dei socialisti l'unico a prendere la parola è stato il Primo Ministro Edi Rama che ha subito preso le distanze e definito "rivoltanti e scioccanti" le conversazioni degli indagati. "Vogliamo la verità, quanto prima", ha brevemente commentato il Premier sui social, mentre l'uomo di punta del suo precedente governo era improvvisamente diventato un "ramoscello storto" all'interno della grande famiglia socialista.

In meno di ventiquattro ore però il vento è cambiato. Sotto casa e davanti al Parlamento Tahiri non ha trovato gli agenti di polizia ma una schiera di sostenitori accorsi ad incoraggiarlo a fare giustizia e ad insultare e zittire la giornalista "cretina" che osava fargli una domanda sul suo coinvolgimento nella vicenda . Nel frattempo nel dibattito sul concedere o meno l'immunità parlamentare i deputati socialisti si sono stretti intorno al collega, hanno preso un giorno di tempo per valutare la documentazione e poi preteso dai magistrati – simulando una improbabile seduta giudiziaria - prove incontestabili della colpevolezza del collega. Il giorno dopo, il Consiglio dei mandati - ente preposto all'analisi della concessione dell'immunità -  se ne è uscito con due rapporti: uno dell'opposizione che convalidava l'arresto e uno della maggioranza che consentiva solo indagini, ma con il deputato a piede libero. Facile prevedere quale otterrà la maggioranza in aula nei prossimi giorni.

I guai giudiziari di Tahiri hanno riunito intorno allo stesso tavolo tutti i partiti di opposizione che, aderendo all'appello del Partito Democratico di Lulzim Basha, principale formazione del centrodestra albanese, hanno accettato di coordinare i propri interventi e di trovarsi uniti nella lotta al potere criminale rappresentato in primis dal premier Edi Rama. Questo nuovo fronte comune dell'opposizione ha subito chiesto le dimissioni di Rama in quanto "principale responsabile dei legami della criminalità con la cupola governativa e rappresentante degli interessi di un sistema oligarchico e corrotto".

Che l'opposizione avrebbe trasformato la vicenda in una battaglia politica era prevedibile, ma tutti i presenti a quel tavolo, da Basha a Mediu, da Kryemadhi a Kokedhima, così come i grandi assenti, Berisha e Meta, i propri problemi con la giustizia li hanno sempre schivati o archiviati grazie alle protezioni politiche, a cavilli burocratici e termini di prescrizione. Sono anche loro, al pari di Tahiri e Rama che oggi denunciano, emblema del fallimento di un sistema giudiziario e politico che non ha mai rotto il suo "codice del silenzio", quella inscalfibile complicità tra chi sale e scende dal potere.

Nell'assoluta impunità che ha accompagnato per oltre 25 anni tanto l'Albania degli sbarchi, della crisi e dei conflitti di ieri, quanto quella del miracolo, del boom e delle opportunità della narrazione di oggi, Saimir Tahiri ha solo rischiato, anche se per sole ventiquattro ore, di essere la prima eccezione.
La capitolazione di uno stato

Oltre al “capitolo" politico, nelle intercettazioni delle autorità italiane, pubblicate integralmente in questi giorni sulla stampa , c'è la quotidianità delle vite dei membri di un'organizzazione criminale, per la parte albanese capitanata dai fratelli Habilaj. C'è il denaro facilmente guadagnato e subito sperperato, lo scoramento per i carichi intercettati dalle autorità italiane e il sollievo di scampare ogni volta all'arresto, il disappunto per i calzini Hugo Boss pagati 320 euro e la soddisfazione per i bracciali tempestati di diamanti da regalare alla mamma, con tanto di garanzia in caso di furto.

Da quelle carte emergono però anche due paesi agli antipodi dello stesso mare dove, a Porto Palermo, luogo prediletto per la partenza degli scafi carichi di cannabis, gli 80 km che li separano diventano improvvisamente un abisso. Da un lato del mare - quello italiano - c'è l'ossessione di essere sotto osservazione, la povertà, c'è la polizia che i suoi indagati li segue, li controlla, ne registra le conversazioni e intercetta le spedizioni. Dall'altro c'è la libertà, il lusso, la polizia che “guarda e passa”, innocua e inoffensiva.

In Albania, la banda degli Habilaj ha dalla sua la polizia dell'intera area di Valona, "hai visto il furgone che è passato, sono tutti dei nostri, ma qualche traditore può capitare, vai a sapere chi viene e chi va"; ha un "grande capo" a Tirana con cui avvengono incontri a tu per tu, e che non è escluso sia lo stesso cugino socialista; ma anche un “uccellino” nella sala radar di Durazzo, "da lì vedono tutto, anche i pesci", che dà loro indicazioni sulla rotta e li riprende se, come capitato una volta, l'imbarcazione entra per errore nelle acque territoriali greche dove invece la protezione viene a mancare.

Nelle intercettazioni delle autorità italiane potrebbero non esserci elementi sufficienti a dimostrare l'effettivo coinvolgimento di Saimir Tahiri nella vicenda, anche se certamente basterebbero per troncarne la corsa politica, ma c'è la parabola dell'attività di un'organizzazione criminale attiva dal 1998 e legata evidentemente a tutti i governi di Tirana che da allora si sono susseguiti. C'è, soprattutto, la parabola di un paese in cui ancora oggi regnano l'illegalità, la corruzione e la collusione della politica con la criminalità organizzata. In quelle 400 pagine di intercettazioni c'è, tra le righe, la capitolazione dello stato albanese.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: TheDarkSider - Aprile 26, 2018, 13:14:20 pm
Francamente, bisogna anche vedere in quale parte d'Italia si abita. Io abito in una cittadina della Val Padana che, a parte il clima orribile (ma a cui sono abituato da sempre), e' un gioiello in quanto a qualita' della vita e dei servizi della pubblica amministrazione.
Qui perfino quando vai all'Ufficio Immigrazione in Questura, che frequento per via della mia compagna, l'impiegato o il poliziotto che trovi e' gentile e fa di tutto per risolverti i problemi.

Certo poi, visto che siamo su un forum QM-ista, le donne sono quello che sono, femministe e pretenziose come dappertutto in Italia, ma io con la mia compagna frequentiamo solo altre coppie con donne straniere, e quindi non ho neanche questo problema, di dover sopportare le insopportabili donne italiane :cool:
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Aprile 26, 2018, 15:55:56 pm
E la Thailandia?
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: TheDarkSider - Aprile 26, 2018, 17:35:38 pm
E la Thailandia?
Ci vado tutte le volte che posso, ma innegabilmente abbiamo piu' diritti e servizi qui in Italia.
In particolare, la mia compagna da straniera ha piu' diritti e servizi qui in Italia di quanto io da straniero possa mai averne in Thailandia, che essendo uno stato fuori dall'orbita dell'occidente politicamente-corretto, ha normative sugli stranieri a dir poco discriminatorie e xenofobe.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: CLUBBER - Aprile 26, 2018, 22:00:49 pm
Non è che i 90enni siano immuni dall'influenza del presente. Comunque ho visto io stesso le cose cambiare.
Guarda,parlando con i miei nonni e molti anziani,sento spessissimo storie del passato di meschinità ed avidità:famiglie che guerreggiavano per l'eredità,parenti che si disprezzano l'un l'altro,grande interesse per la posizione sociale delle persone frequentate,matrimoni d'interesse,amicizie di interesse e, rispetto ad oggi, una maggiore 'subordinazione" e un maggiore servilismo nei confronti di chi era più ricco e benestante.
Secondo me, dal punto di vista dei miei personali valori,i cosiddetti bei tempi non sono mai esistiti.
Poi,per carità, i miei valori possono non coincidere con quelli tuoi o di altri utenti del forum.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Red- - Aprile 28, 2018, 14:19:41 pm
Red, l' esterofilia italiana, mista a disfattismo cronico, ha origini ben più lontane, ed esisteva(no) molto prima dell' avvento di quello che tu definisci "neofemminismo".


....Etcetera
Se si vuol vedere chiaramente la differenza tra 40 anni fa ed oggi, non che sia così difficile, basta vedere qualche documentario su Rai Storia, leggere qualcosa di quegli anni, oppure vedere qualche film (italiani, mi riferisco all'Italia, le altre realtà le conosco poco) di quegli anni.
Bisogna vedere come si comportavano i giovani di quegli anni e come si comportano oggi. Le differenze sono evidenti.
Ci fu un periodo in cui i giovani non avevano paura ad uscire e protestare, a salire sul palco su cui parlava un capo sindacalista per dire la loro, oppure dove cantava un cantautore per contestarlo pubblicamente, in diretta nazionale; e non erano nessuno, solo giovani. Oggi è impensabile. Hanno paura. E' un fatto.
Siamo molto meno liberi di un tempo, siamo liberi di fare quello che ci dicono di fare.
Il massimo della protesta, oggi, è votare 5 stelle. (i quali poi o rientreranno nei ranghi o saranno cancellati). Non si fa di più, la paura fa 90.
E' chiaro che, in un clima simile, ogni cosa può essere agevolmente diretta dall'alto.
La paura crea un popolo spento, apatico, demoralizzato, che non cerca più nulla. Il neofemminismo, (l'essenza femminile, lo Yin), per ora ha vinto. Questa, per me, in sintesi, è la realtà odierna.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Aprile 28, 2018, 14:58:59 pm
Ci vado tutte le volte che posso, ma innegabilmente abbiamo piu' diritti e servizi qui in Italia.
In particolare, la mia compagna da straniera ha piu' diritti e servizi qui in Italia di quanto io da straniero possa mai averne in Thailandia, che essendo uno stato fuori dall'orbita dell'occidente politicamente-corretto, ha normative sugli stranieri a dir poco discriminatorie e xenofobe.
L'ho sentito anche di altri Stati asiatici.
Guarda,parlando con i miei nonni e molti anziani,sento spessissimo storie del passato di meschinità ed avidità:famiglie che guerreggiavano per l'eredità,parenti che si disprezzano l'un l'altro,grande interesse per la posizione sociale delle persone frequentate,matrimoni d'interesse,amicizie di interesse e, rispetto ad oggi, una maggiore 'subordinazione" e un maggiore servilismo nei confronti di chi era più ricco e benestante.
Secondo me, dal punto di vista dei miei personali valori,i cosiddetti bei tempi non sono mai esistiti.
Poi,per carità, i miei valori possono non coincidere con quelli tuoi o di altri utenti del forum.
Ho sentito anch'io questi racconti ma credo dipenda molto dalla storia familiare, poi le buone notizie non fanno notizia.
Ho parenti di quattro regioni diverse e a parte qualche caso sporadico non ho sentito di fatti del genere.
In compenso, amicizie e matrimoni d'interesse oggi ne vedo a iosa, a leggere queste pagine poi si direbbe che sono la norma.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 28, 2018, 15:35:16 pm
Se si vuol vedere chiaramente la differenza tra 40 anni fa ed oggi, non che sia così difficile, basta vedere qualche documentario su Rai Storia, leggere qualcosa di quegli anni, oppure vedere qualche film (italiani, mi riferisco all'Italia, le altre realtà le conosco poco) di quegli anni.
Bisogna vedere come si comportavano i giovani di quegli anni e come si comportano oggi. Le differenze sono evidenti.
Ci fu un periodo in cui i giovani non avevano paura ad uscire e protestare, a salire sul palco su cui parlava un capo sindacalista per dire la loro, oppure dove cantava un cantautore per contestarlo pubblicamente, in diretta nazionale; e non erano nessuno, solo giovani. Oggi è impensabile. Hanno paura. E' un fatto.
Siamo molto meno liberi di un tempo, siamo liberi di fare quello che ci dicono di fare.

Sì, ma l' esterofilia italiana era presente allora come oggi.
Come ho già avuto modo di scrivere in questo forum, il primo esterofilo che ebbi modo di conoscere già da bambino, fu (ed è)... mio padre.*
E come lui ne ricordo tanti, sia suoi coetanei che non.
Le origini dei complessi di inferiorità italiani son decisamente più lontane nel tempo.

@@

* Trattasi di un uomo nato nel 1941.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: CLUBBER - Aprile 28, 2018, 20:30:43 pm
Ho sentito anch'io questi racconti ma credo dipenda molto dalla storia familiare, poi le buone notizie non fanno notizia.
Ho parenti di quattro regioni diverse e a parte qualche caso sporadico non ho sentito di fatti del genere.
In compenso, amicizie e matrimoni d'interesse oggi ne vedo a iosa, a leggere queste pagine poi si direbbe che sono la norma.
Vicus io ho parenti in 2 regioni(Sardegna,Lazio), vivo in Veneto e di questi fatti invece ne ho sentito parecchi(sia da familiari che non).

poi le buone notizie non fanno notizia.
Vicus questo è un discorso valido nel giornalismo non quando i vecchi parlano del loro passato.
Anzi è vero il contrario,gl anzianii tendono a magnificare il passato(la loro giovinezza):tutto era meglio,la gente era meglio eccetera...solo dopo un po' incominciano a raccontare tutto il negativo che c'era ai loro tempi.
ma poi basta averci a che fare con i vecchi,io tutta questa superiorità morale non la vedo,troppo comodo affermare che sono influenzati dai tempi di oggi,se i valori sono autentici non cambiano.






Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: CLUBBER - Aprile 28, 2018, 20:46:51 pm
Se si vuol vedere chiaramente la differenza tra 40 anni fa ed oggi, non che sia così difficile, basta vedere qualche documentario su Rai Storia, leggere qualcosa di quegli anni, oppure vedere qualche film (italiani, mi riferisco all'Italia, le altre realtà le conosco poco) di quegli anni.
Bisogna vedere come si comportavano i giovani di quegli anni e come si comportano oggi. Le differenze sono evidenti.
Ci fu un periodo in cui i giovani non avevano paura ad uscire e protestare, a salire sul palco su cui parlava un capo sindacalista per dire la loro, oppure dove cantava un cantautore per contestarlo pubblicamente, in diretta nazionale; e non erano nessuno, solo giovani. Oggi è impensabile. Hanno paura. E' un fatto.
Siamo molto meno liberi di un tempo, siamo liberi di fare quello che ci dicono di fare.
Il massimo della protesta, oggi, è votare 5 stelle. (i quali poi o rientreranno nei ranghi o saranno cancellati). Non si fa di più, la paura fa 90.
E' chiaro che, in un clima simile, ogni cosa può essere agevolmente diretta dall'alto.
La paura crea un popolo spento, apatico, demoralizzato, che non cerca più nulla. Il neofemminismo, (l'essenza femminile, lo Yin), per ora ha vinto. Questa, per me, in sintesi, è la realtà odierna.
Guarda Red in Italia si ha così tanta paura di protestare oggigiorno che  hanno devastato un città( Genova) ed è stato fatto eroe un drogato con un estintore in mano come arma contro le forze dell'ordine.
In Val Di Susa si ha talmente paura di protestare che ogni 2-3 settimane la polizia deve usare gli idranti contro i giovani che gli bersagliano con sassi e fuochi d'artificio.
Parli poi di vittoria del femminismo...sono d'accordo...peccato che è proprio negli anni che stai magnificando che il femminismo è esploso,non a caso i peggiori ometti,zerbini e femministi che abbiamo in italia sono proprio sessantottini.

Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Red- - Aprile 28, 2018, 21:07:25 pm
Guarda Red in Italia si ha così tanta paura di protestare oggigiorno che  hanno devastato un città( Genova) ed è stato fatto eroe un drogato con un estintore in mano come arma contro le forze dell'ordine.
In Val Di Susa si ha talmente paura di protestare che ogni 2-3 settimane la polizia deve usare gli idranti contro i giovani che gli bersagliano con sassi e fuochi d'artificio.
Parli poi di vittoria del femminismo...sono d'accordo...peccato che è proprio negli anni che stai magnificando che il femminismo è esploso,non a caso i peggiori ometti,zerbini e femministi che abbiamo in italia sono proprio sessantottini.
Si ok, ma non ci confondiamo, chi protestava a Genova erano organizzazioni internazionali, profemministe, etc, organizzate, appunto. (tipo le femen. Spero nn si dica che è un moto spontaneo, quello  :P )
In Val di Susa la cosa è un pò più complessa, ma chi protesta lì probabilmente sono gli stessi, (cioè gruppi "antagonisti". ma chi sono? da dove vengono? che vogliono?)  tranne una minoranza locale.
Altra cosa sarebbe protestare per il lavoro, per relazioni di coppia normali (succede, ma solo in silenzio, vedasi "le sentinelle in piedi"), ed altre cose simili decisamente importanti.
La conosco bene la questione secondo cui ognuno tesse le lodi dei propri tempi, in cui era giovane. Ma, ripeto, se si parla di muoversi per far cambiare le cose in meglio, da noi l'impressione è che i giovani abbiano una paura folle. Chi si muove lo fa solo perchè evidentemente è guidato da qualcuno, non perchè ci siano moti spontanei, come accadeva un tempo.
L'ultimo esempio di moto spontaneo, a mia memoria, è stato "la pantera", ma hanno beccato tutti i capi e gli hanno fatto passare dei guai, e loro si sono dileguati. a quel punto anche lì i gruppi organizzati (centri sociali) presero il soppravvento, e tutto finì.  :P
Strana 'sta cosa dei centri sociali, gli unici autorizzati a far casino. Per cosa, poi!? ..Per niente.  :D

Ripeto, ci sono in ijnternet, specie su youtube, diversi doc sugli anni '70, io li ho trovati interessantissimi per vedere la grande differenza tra quella generazione e quella attuale.
Poi si potrebbe discutere su quale sia meglio, ma è altro discorso. Io però, obiettivamente, trovo che sia stata meglio quella; si sono divertiti di più, hanno fatto più cose, etcetera.
Preciso che on appartengo nè a quella nè alla generazione attuale, io mi ritengo degli anni 80-90 nel senso che sono gli anni che mi hanno visto "giovane".
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: CLUBBER - Aprile 28, 2018, 21:24:52 pm
Si ok, ma non ci confondiamo, chi protestava a Genova erano organizzazioni internazionali, profemministe, etc, organizzate, appunto. (tipo le femen. Spero nn si dica che è un moto spontaneo, quello  :P )
In Val di Susa la cosa è un pò più complessa, ma chi protesta lì probabilmente sono gli stessi, (cioè gruppi "antagonisti". ma chi sono? da dove vengono? che vogliono?)  tranne una minoranza locale.
Altra cosa sarebbe protestare per il lavoro, per relazioni di coppia normali (succede, ma solo in silenzio, vedasi "le sentinelle in piedi"), ed altre cose simili decisamente importanti.
La conosco bene la questione secondo cui ognuno tesse le lodi dei propri tempi, in cui era giovane. Ma, ripeto, se si parla di muoversi per far cambiare le cose in meglio, da noi l'impressione è che i giovani abbiano una paura folle. Chi si muove lo fa solo perchè evidentemente è guidato da qualcuno, non perchè ci siano moti spontanei, come accadeva un tempo.
L'ultimo esempio di moto spontaneo, a mia memoria, è stato "la pantera", ma hanno beccato tutti i capi e gli hanno fatto passare dei guai, e loro si sono dileguati. a quel punto anche lì i gruppi organizzati (centri sociali) presero il soppravvento, e tutto finì.  :P
Strana 'sta cosa dei centri sociali, gli unici autorizzati a far casino. Per cosa, poi!? ..Per niente.  :D
Red  ritengo quanto hai esposto poco convincente,mi sembra una forzatura il tuo discorso.
Rimango della mia.
Comunque,a parte il confronto tra legittime differenze di vedute,ci tenevo a specificare che non appoggio minimamente CERTI modi di protestare distruttivi e vandalici mentre apprezzo le proteste serie dove chi non c'entra niente non viene coinvolto.

Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: CLUBBER - Aprile 28, 2018, 21:37:44 pm


Ripeto, ci sono in ijnternet, specie su youtube, diversi doc sugli anni '70, io li ho trovati interessantissimi per vedere la grande differenza tra quella generazione e quella attuale.
Poi si potrebbe discutere su quale sia meglio, ma è altro discorso. Io però, obiettivamente, trovo che sia stata meglio quella; si sono divertiti di più, hanno fatto più cose, etcetera.
Preciso che on appartengo nè a quella nè alla generazione attuale, io mi ritengo degli anni 80-90 nel senso che sono gli anni che mi hanno visto "giovane".
Legittimo,qua siamo nel campo delle opinioni,tuttavia faccio notare, come affermano molti sindacalisti del tempo,che durante il 68 non è che tutti erano ribelli rivoluzionari,per uno che protestava mille stavano a casa e andavano a letto presto.
Stesso discorso per Martin Luter King(personaggio che per molti versi apprezzo) e i suoi sostenitori:per ogni negro che si faceva pestare in nome dei suoi diritti mille negri stavano a casa.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 29, 2018, 19:05:44 pm
http://www.eastjournal.net/archives/89715

Citazione
BOSNIA: Il grande gelo dei veterani
Alfredo Sasso 3 giorni fa   

Questo articolo è stato originariamente pubblicato da OBC Transeuropa

Quelle tra fine febbraio e inizio marzo sono state le notti più gelide dell’inverno bosniaco, con temperature tra i -15 e i -20 nelle regioni di Sarajevo e Tuzla. In quelle stesse notti il termometro sociale ha iniziato a salire, quando i veterani di guerra hanno occupato diversi luoghi nevralgici della rete stradale del paese, tra cui lo snodo di Sički Brod vicino a Tuzla, vari punti lungo la Brod-Sarajevo (principale via di comunicazione del paese) e diversi passi di frontiera con la Croazia. Iniziati il 28 febbraio, i blocchi sono durati diversi giorni, causando pesanti disagi alla viabilità e qualche scontro con le forze di polizia.

Dopo alcune settimane di tregua e mobilitazioni a singhiozzo, la protesta è riemersa tra il 9 e il 10 aprile con nuovi blocchi stradali, e con ancora più forza il 17 aprile, quando un corteo di qualche centinaio di veterani si è radunato davanti al Parlamento della Federazione di BiH e ha anche cercato di farvi ingresso, prima di essere caricato dalla polizia antisommossa. “Abbiamo difeso questo paese, ma oggi non abbiamo niente”, ha commentato un manifestante. Un altro, più bellicoso: “La prossima volta veniamo con le bombe”. L’escalation di blocchi stradali e presidi è insolita anche per la categoria sociale probabilmente più protestataria del paese come quella dei veterani, già protagonisti di importanti mobilitazioni nel 2012, nel 2014, nel 2016 e infine nel giugno dell’anno scorso, quando decine di reduci di guerra costruirono un’occupazione permanente autonominatasi “Kamp Heroja” (“Campo degli Eroi”) davanti alla sede del governo della Federazione di BiH, una delle due entità che compongono il paese.

Dieci mesi dopo le tende del “Kamp Heroja” sono ancora lì, ormai una parte stabile del paesaggio urbano sarajevese. E identiche restano le richieste al governo della Federazione da parte dei veterani che nel 1992-95 hanno combattuto sia nelle file dell’Armija, l’esercito della Repubblica di Bosnia Erzegovina, che in quelle dell’HVO, la compagine militare croato-bosniaca (non è coinvolto in questa protesta il terzo attore militare del conflitto, la VRS, quella serbo-bosniaca i cui veterani ricevono sussidi dalla Republika Srpska, l’altra entità del paese). Sono tre le rivendicazioni base della protesta: la creazione di un registro unico e pubblico degli ex-combattenti, un sussidio minimo di 167 euro al mese e uno stop ai fondi alle associazioni di categoria che, secondo le ragioni della protesta, sottraggono risorse pubbliche alle reali necessità dei veterani.

Ognuno di questi punti illustra bene i paradossi e gli squilibri del sistema pubblico bosniaco nell’ultimo dopoguerra. A ventidue anni dalla fine del conflitto non esiste un registro centrale e affidabile dei veterani, che indichi chiaramente chi ha combattuto per quale unità e per quanto tempo. Questo vuoto amministrativo avrebbe permesso nel corso degli anni, secondo le accuse dei veterani, migliaia di iscrizioni abusive e certificazioni di invalidità false o esagerate. Secondo i dati in possesso del governo della Federazione, sarebbero circa 577.000 i combattenti registrati (per la certificazione è sufficiente avere prestato servizio in guerra un giorno solo), dei quali circa 92.000 hanno ottenuto una prestazione di invalidità nel 2017. È però una cifra fortemente contestata dai veterani che protestano, secondo cui i combattenti congedati alla fine del conflitto non erano più di 280.000 e dunque, come ha detto ironicamente uno di loro, in 22 anni “non solo nessuno è morto, ma anzi ne sono nati di nuovi”.

Solo negli ultimi mesi, pressato dalle proteste, il governo della Federazione ha iniziato a aggiornare e sistematizzare i dati. Il ministro dei Veterani Salko Bukvarević ha annunciato di avere depennato circa 6.000 utenti e ridotto le prestazioni di invalidità per circa 7.000. Ma il completamento del registro durerà a lungo e richiederà una paziente e non scontata collaborazione degli enti locali. E soprattutto, non soddisfa i veterani in protesta, che fin da subito richiedevano un registro accessibile al pubblico per indagare sugli abusi del passato ed evitare nuove manipolazioni. Il governo della Federazione, invece, prevede di riservare l’accesso alle sole istituzioni e di evitare misure retroattive per ragioni di privacy e operatività.

L’altra richiesta degli ex-combattenti appare, a prima vista, paradossale: il taglio ai fondi e, nei fatti, una drastica diminuzione delle associazioni di categoria a cui loro stessi appartenevano o appartengono tuttora. Si tratta di circa 1.600 enti, ovvero 20 per ogni municipalità della Federazione, che sono accusati di malagestione e spreco di risorse. Le organizzazioni di veterani percepiscono gran parte dei fondi a livello locale. Secondo dati ufficiali, dei circa 6.15 milioni di euro che ottengono, solo 185.000 arrivano dalla Federazione. Il grosso è dunque stanziato dai dieci cantoni che compongono la Federazione, e una parte minore proviene dalle municipalità. La proliferazione di associazioni è dunque, almeno in parte, conseguenza della frammentazione istituzionale e della confusione tra competenze imposte dal sistema di Dayton.

Va riconosciuto che molte organizzazioni fungono da welfare sostitutivo, garantendo un sostegno primario per voci quali borse di studio, servizi medici e spese funerarie. Ci sono però abusi sistemici e una diffusa corruzione che coinvolge funzionari e partiti politici, soprattutto a livello locale. Molte associazioni hanno operato da “macchine elettorali”, con una base socialmente vulnerabile e dunque ancora più ostaggio delle promesse economiche dei partiti e della demagogia dei leader in cambio di voti.

Un caso eclatante è emerso proprio la scorsa settimana, quando  un’inchiesta del magazine sarajevese Klix ha indagato la vicenda di Pravednost (Correttezza), un’organizzazione creata da un noto politico sarajevese, l’ex-generale dell’esercito Sefer Halilović. Secondo l’inchiesta, Pravednost ha beneficiato di oltre 600.000 euro di fondi pubblici, concessi dal ministero dei Veterani del Cantone di Sarajevo (da molti anni sotto il controllo del partito di Halilović, il BPS) e invece di programmi sociali li avrebbe destinati, in buona parte, alle spese legali e di sostentamento di alcuni ex-ufficiali che sono attualmente imputati per crimini di guerra dalla giustizia bosniaca. Curiosamente lo stesso Halilović, personaggio molto popolare tra i reduci di guerra, aveva personalmente visitato le proteste di fine febbraio e ne aveva più volte appoggiato le richieste.

I veterani e la politica

Poiché in Bosnia Erzegovina vi è già fibrillazione per le elezioni di ottobre, alcuni hanno insinuato che la mobilitazione degli ex-combattenti sarebbe stata montata ad arte per poi essere addomesticata con promesse simboliche e qualche piccola concessione economica. Eppure, anche ora che la tensione torna ad aumentare, il tema dei veterani è nuovamente sparito dall’agenda del Parlamento della Federazione, cosa che ha propiziato il corteo e gli incidenti di ieri. I partiti continuano a mostrare un certo distacco sulla questione. Un motivo cruciale è che negli ultimi anni si sono fatte sempre più intense le pressioni degli organi internazionali (su tutti l’FMI) sulle istituzioni bosniache per contenere i sussidi ai veterani nell’ambito dei tagli alla spesa pubblica. È soprattutto per queste pressioni che il governo della Federazione, pur avendo già fatto passi concreti sul registro e sui limiti alle associazioni, si è mostrato finora inflessibile sull’aumento delle risorse finanziarie per i veterani, che ammontano a 290 milioni di euro (una parte consistente del budget totale).

Poi vi è una questione più prettamente politica. L’SDA, il principale partito della Federazione e dei musulmani nazionalisti, sta vivendo una profonda crisi di leadership interna, che di fatto priva i veterani del loro tradizionale interlocutore e getta incertezza sui rapporti di potere futuri. L’instabilità si manifesta anche nei media del paese che hanno effettuato una copertura totalmente dissimile delle proteste dei veterani. Come spiega un’analisi di Balkan Insight, i due canali TV pubblici di Sarajevo, BHTV e FTV, hanno ignorato di fatto le manifestazioni anche quando hanno creato caos nelle comunicazioni del paese, mentre le emittenti transnazionali Al Jazeera Balkans e N1 (affiliato della CNN) hanno seguito gli eventi con grande attenzione ed edizioni speciali.

Per ora, il resto della popolazione non pare avere mostrato né appoggi tangibili, né ostilità verso la causa dei veterani. In Bosnia Erzegovina vi è indubbiamente un diffuso riconoscimento per lo status sociale di combattente (anche se per lo più diviso secondo le appartenenze etno-nazionali) e un rispetto per le enormi sofferenze materiali che i reduci di guerra patiscono. Vi è sicuramente una certa popolarità per la rivendicazione di giustizia sociale e la narrazione anti-elitaria di cui i veterani si presentano portatori, visti come “difensori veri” di patrie e comunità che si mantengono sulla soglia di sopravvivenza al contrario di un ceto politico superpagato e ampiamente disprezzato. C’è simpatia per la trasversalità di appartenenze che ormai da tempo caratterizza le mobilitazioni dei veterani, togliendo la linea di frattura dal fattore “etnico” e riposizionandola tra il “basso” di chi reclama insieme i diritti negati e l’”alto” di chi sfrutta le differenze per proprio privilegio.

Ma si avvertono anche segnali di insofferenza per la continua mobilitazione dei veterani, a volte considerata una lobby che difende unicamente gli interessi corporativi grazie a un rapporto subdolo con la classe politica e con una retorica revanscista e assistenzialista che ostacolerebbe una transizione verso il futuro. Talvolta, più semplicemente, i veterani sono percepiti come “privilegiati” che accedono a certi benefici, come l’accesso preferenziale o esclusivo ad alcuni impieghi e servizi pubblici (educazione, sanità) nonché a prestazioni sociali e sussidi d’invalidità maggiori di almeno il 30% rispetto ai cittadini comuni, per quanto bassi in termini assoluti.

A queste disparità di trattamento alcuni hanno autonomamente reagito con stratagemmi che hanno causato, però, nuovi squilibri e fratture sociali. La politologa Jessie Hronesova, in un suo articolo, ha illustrato come molte vittime civili della guerra, per aggirare la loro esclusione dalle politiche riparatorie riservate ai veterani, abbiano fatto certificare se stessi o alcuni familiari morti come soldati. Dunque è stata anche questa pratica a contribuire al fenomeno dei “falsi certificati” che ha alimentato un’ondata di sfiducia verso le istituzioni e tra le stesse categorie sociali. Secondo la sociologa Oliwia Berdak, la centralità dell’uomo-cittadino-combattente nel sistema sociale bosniaco avrebbe inoltre contribuito alla ri-tradizionalizzazione di genere, relegando la donna a un ruolo dipendente e subordinato.

Proteste e movimenti

Risulta ancora più delicato indagare la relazione tra proteste dei veterani e le proteste sociali più ampie, come quelle per il lavoro e per le politiche urbane, o espressioni trasversali come i Plenum del 2014. Un’attivista dei movimenti di Sarajevo che preferisce restare anonima spiega a OBCT: “Un appoggio organizzato ai veterani di fatto non esiste. C’è chi aderisce alla protesta, chi supporta moralmente, ma non c’è nulla di politicamente strutturato. È una questione molto delicata. In un momento in cui le politiche sociali sono oggetto di riforma è opinione diffusa, soprattutto a sinistra, che sia problematico basare le prestazioni sociali su un certo status particolare invece di una solidarietà sociale ampia”.

Secondo l’attivista, è cruciale l’assenza di ogni riferimento al lavoro: “Quasi non si parla dei diritti di questo gruppo di persone in quanto lavoratori. Loro sono stati combattenti durante la guerra, ma prima e dopo di questa erano, e sono, lavoratori a cui è stato sottratto di fatto il diritto al lavoro, con la svendita e la distruzione del patrimonio produttivo in Bosnia Erzegovina. Ma i loro problemi sono immediati e richiedono una soluzione istantanea perché molti da anni vivono appena sulla soglia di sopravvivenza. E quindi ampliare le basi della protesta, dando ad essa un senso più ‘politico’, diventa quasi impossibile”.

Dunque non ci possono essere rapporti tra le proteste dei veterani e gli altri movimenti sociali? “I collegamenti tra le proteste sono deboli e rari”, risponde. “L’intersezione è un’eccezione. Una protesta non riesce a essere una scintilla per qualcosa di più grande. Ma non solo: una protesta perde forza da sola perché insiste sull’importanza del gruppo e non cerca legami con il contesto sociale più ampio. E in un contesto in cui dominano le narrazioni, sia locali che straniere, sull’eccesso di politiche sociali, sulla spesa degli aiuti e sulla pigrizia di chi li riceve, tutto ciò è ancora più difficile”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Red- - Aprile 29, 2018, 21:31:58 pm
Red  ritengo quanto hai esposto poco convincente,mi sembra una forzatura il tuo discorso.
Rimango della mia.
Comunque,a parte il confronto tra legittime differenze di vedute,ci tenevo a specificare che non appoggio minimamente CERTI modi di protestare distruttivi e vandalici mentre apprezzo le proteste serie dove chi non c'entra niente non viene coinvolto.
Il mio è stato un tentativo di andare oltre la superficie, un tentativo di ragionare un pò sulla sostanza. Non è riuscito, pazienza, ma ci vuole anche impegno e non sempre se ne ha voglia.
Per stare più terra-terra, tu mi hai detto che le proteste oggi ci sono eccome, e mi hai citato la val di susa e i centro sociali.
Ora, io domando se quello della val di Susa è il problema principale che ha oggi l'Italia, ti domando se ha un senso quella protesta, ti domando se davvero risolva qualche problema.
Poi mi dici che ci sono i centri sociali, ed io, (sempre molto civilmente)  domando se le loro proteste servono e a cosa cappero servono.
Vorrei ricordare che ad esempio oggi in Itlaia c'è il problema dello schiavismo, della gente che non arriva a fine mese, c'è il problema dei giovani senza un futuro, c'è il problema delle pensioni troppo basse, il problema di una ormai inesistente ridistribuzione del reddito; domando chi protesta per questo.
Ma mi rispondo da solo: nessuno.

Io dico che negli anni 70 (non nel 68, si badi), ci sarebbero stati sommovimenti popolari per molto meno.  Ma i sommovimenti (le sommosse) li fanno i giovani, non i cinquantenni. E i giovani oggi sembrano intorpiditi, spaventati, con troppi altri problemi nella testa (le donne che non ci stanno, il neofemminismo, la mancanza di prospettive, etcetera. ....Rinunciano, sapendo già che non ce la possono fare).
Questo dico. Sono esagerato? io credo di no, Anzi ne sarei sicuro al 90% circa.
Così è, secondo me.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: CLUBBER - Aprile 29, 2018, 22:53:08 pm
Il mio è stato un tentativo di andare oltre la superficie, un tentativo di ragionare un pò sulla sostanza. Non è riuscito, pazienza, ma ci vuole anche impegno e non sempre se ne ha voglia.
Per stare più terra-terra, tu mi hai detto che le proteste oggi ci sono eccome, e mi hai citato la val di susa e i centro sociali.
Ora, io domando se quello della val di Susa è il problema principale che ha oggi l'Italia, ti domando se ha un senso quella protesta, ti domando se davvero risolva qualche problema.
Poi mi dici che ci sono i centri sociali, ed io, (sempre molto civilmente)  domando se le loro proteste servono e a cosa cappero servono.
Vorrei ricordare che ad esempio oggi in Itlaia c'è il problema dello schiavismo, della gente che non arriva a fine mese, c'è il problema dei giovani senza un futuro, c'è il problema delle pensioni troppo basse, il problema di una ormai inesistente ridistribuzione del reddito; domando chi protesta per questo.
Ma mi rispondo da solo: nessuno.

Io dico che negli anni 70 (non nel 68, si badi), ci sarebbero stati sommovimenti popolari per molto meno.  Ma i sommovimenti (le sommosse) li fanno i giovani, non i cinquantenni. E i giovani oggi sembrano intorpiditi, spaventati, con troppi altri problemi nella testa (le donne che non ci stanno, il neofemminismo, la mancanza di prospettive, etcetera. ....Rinunciano, sapendo già che non ce la possono fare).
Questo dico. Sono esagerato? io credo di no, Anzi ne sarei sicuro al 90% circa.
Così è, secondo me.
aspetta stavamo parlando di altro.
Parlavamo di giovani spaventati e sottomessi all'autorità,io ho fatto notare che i giovani di oggi tante cose hanno ma non il timore per l'autorità.
I giovani io li vedo manifestare spesso in maniera anche esagerata e violenta(cosa che capitava anche negli anni 70) ,se poi le loro battaglie siano inutili o meno è un altro discorso.
Qui però si incomincia a parlare,in un certo senso,di opinioni politiche(nel senso più ampio del termine).
Ad esempio io penso che oltre a tante cose positive gli anni 70 hanno portato anche tanta merda di cui paghiamo le conseguenze anche oggi.
Però ripeto,si rischia di scivolare in discorsi politici.
Comunque mi è chiaro il tuo punto di vista.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 01, 2018, 15:08:44 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-il-buono-il-brutto-e-il-corrotto-187472

Citazione
Serbia: il buono, il brutto e il corrotto

Da qualche tempo è online un nuovo gioco lanciato dal portale di giornalismo investigativo della Serbia CINS, con l’intento di avvicinare i cittadini al tema della corruzione negli appalti pubblici. Un'intervista
30/04/2018 -  Magdalena Ivanović  Belgrado

(Originariamente pubblicato dal Centro per gli studi anti-autoritari CAAS )

Negli ultimi giorni i cittadini della Serbia, e non solo, vestono volentieri i panni di un city manager. Interpretando questo ruolo, devono prendere decisioni in merito agli appalti pubblici, confrontandosi con corruzione, pressioni politiche e tanti altri ostacoli, ed è da tutto questo insieme di fattori che dipende l’esito del primo gioco online lanciato dal Centro per il giornalismo investigativo della Serbia (CINS), intitolato “Dobar, loš, korumpiran“ [Il buono, il brutto, il corrotto].

Oltre ad aver dato ai cittadini l’opportunità di divertirsi venendo guidati tra scenari di gare d’appalto truccate, CINS ormai da anni informa l’opinione pubblica sui fenomeni di corruzione e criminalità, ricevendo numerosi premi e riconoscimenti per le sue inchieste giornalistiche.

Abbiamo parlato di questo insolito gioco che affronta il tema della corruzione, ma anche delle difficoltà con cui si confronta il giornalismo investigativo in Serbia e di nuove sfide e progetti di CINS, con Dino Jahić, caporedattore di CINS dal 2015 e giornalista investigativo.

CINS ha recentemente lanciato un gioco online dedicato al tema degli appalti pubblici, intitolato “Il buono, il brutto, il corrotto “. Com’è nata l’idea e qual è l’obiettivo principale del gioco? Come se la cavano i giocatori nel ruolo di city manager? Prevalgono gli onesti o i corrotti?

Il giornalismo investigativo non può più limitarsi a produrre testi accompagnati da qualche fotografia, per quanto buoni e interessanti possano essere. La sopravvivenza nello spazio virtuale richiede capacità innovativa e sforzi costanti per creare qualcosa di diverso, di più interattivo, al fine di raggiungere il più ampio pubblico possibile. Noi non ricorriamo al sensazionalismo, ai clickbait, alle immagini di nudo e simili metodi di promozione che oggi, purtroppo, sono diventati consueti, pertanto non ci resta che essere creativi e offrire contenuti quanto più variegati possibile. A volte realizziamo animazioni, a volte brevi video o infografiche, giochiamo con le possibilità offerte dai social network. Questa volta abbiamo deciso di trattare un tema molto complicato, quello degli appalti pubblici, in modo un po’ diverso, e così è nato il gioco “Il buono, il brutto, il corrotto“.

L’obiettivo è che i giocatori si divertano e al contempo divengano consapevoli che, mentre loro giocano in un mondo immaginario, qualcuno gioca allo stesso gioco nella vita reale, con i soldi dei contribuenti, ma anche che imparino qualcosa sul funzionamento degli appalti. Tutte le situazioni presenti nel gioco sono, naturalmente, ispirate a casi realmente accaduti, alcuni dei quali sono stati oggetto delle nostre inchieste.

I giocatori devono prendere decisioni relative alle gare d’appalto, confrontandosi con la corruzione e con diverse pressioni da parte di businessman e politici. Ogni volta che si trovano di fronte a una scelta, ricevono consigli, e questa è la parte educativa e, direi la più importante del gioco – ci sono delle spiegazioni semplificate di alcune norme e regole molto complesse, che chiariscono ai giocatori perché qualcosa è giusto o sbagliato e quali conseguenze quel qualcosa può avere su di loro.

Per quanto riguarda l’ultima parte della sua domanda, all’inizio molti cittadini ci segnalavano che completavano il gioco in troppo poco tempo perché cercavano di essere onesti. Poi tutti hanno capito che devono fare qualche compromesso se vogliono arrivare all’ultimo atto del gioco. Ciò rispecchia quanto accade nella vita reale, le cose funzionano davvero così.

Già che abbiamo menzionato la corruzione, quanto è presente questo fenomeno nella nostra società? Come lo si contrasta a livello politico e legale, ovvero quali le sanzioni per i funzionari corrotti?

Sembra ormai banale dirlo, ma credo che la corruzione sia presente in ogni segmento della nostra società. Dai casi più innocui, in cui semplici cittadini si vedono costretti a pagare per anticipare una visita medica o per sbrigare più rapidamente qualche faccenda burocratica – cose a cui siamo ormai abituati e che sono diventate normali, anche se non dovrebbe essere così – , ai grandi affari condotti dallo stato che spesso sono coperti da un velo di segretezza. E ogni volta che si cerca di nascondere informazioni all’opinione pubblica, c’è una reale possibilità che stia succedendo qualcosa di illecito.

Mi piacerebbe poter rispondere alla seconda parte della sua domanda con più ottimismo, ma l’esperienza di CINS e di altri colleghi che si occupano di giornalismo investigativo dimostra che le sanzioni sono rare, ovvero praticamente inesistenti. Quando parliamo con i colleghi di altri paesi, rimangono scioccati nell’apprendere come le istituzioni in Serbia non reagiscano alle nostre rivelazioni.

Basti pensare alla questione dei dottorati. Noi abbiamo provato che Jorgovanka Tabaković [governatore della Banca centrale serba e vice-presidente del Partito progressista serbo, ndt.] aveva copiato una buona parte della sua tesi di dottorato. Dico: provato! E niente, nessuna reazione, nessuna conseguenza. Oppure questa vicenda della tesi di dottorato di Siniša Mali [sindaco di Belgrado, la cui tesi di dottorato è sottoposta a una verifica di autenticità, già contestata da numerosi accademici e professori universitari serbi, ndt]. Invece di sanzionarlo in qualche modo, a subire pressioni sono persone che hanno scoperto che la sua tesi contiene “prestiti” da opere altrui. In altri paesi i politici e i funzionari statali spesso si dimettono di propria iniziativa quando viene scoperto che hanno copiato anche solo una piccola parte della tesi. Da noi, invece, più si è disonesti, più si avanza. Ma le tesi di dottorato copiate non sono certo l’unico problema. Non vi è nessuna sanzione per chi spreca soldi pubblici per un albero di Natale estremamente costoso, per chi riceve finanziamenti illeciti per le campagne elettorali, per chi non può provare la provenienza del denaro utilizzato per l’acquisto di beni. Potrei andare avanti a elencare fino a domani. Ed è proprio questo, questa situazione assurda, che abbiamo voluto dimostrare nel nostro gioco sull’esempio degli appalti pubblici.


Collaborate con altri giornalisti investigativi in Serbia e nella regione, in particolare per quanto riguarda le inchieste su corruzione e criminalità, due fenomeni tanto diffusi nell’area balcanica?

Quando, a un certo punto, i giornalisti investigativi – non solo nella nostra regione ma in tutto il mondo – hanno capito che i fenomeni di criminalità e corruzione non conoscono frontiere, hanno cominciato a utilizzare lo stesso principio. Grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie e alla creazione di diverse reti, formali o informali, di giornalisti investigativi, ora possiamo controllare cosa fanno i politici e businessman serbi in qualsiasi parte del mondo. E allo stesso modo possiamo aiutare i colleghi di altri paesi. Funziona davvero così.

Per quanto riguarda i giornalisti investigativi in Serbia, collaboriamo ogni volta che se ne presenta l’occasione o che ce n’è bisogno. Credo che nella nostra regione non ci sia mai stato così tanto giornalismo investigativo di qualità come adesso, ed è un’ottima cosa. Di conseguenza, c’è una sana concorrenza tra di noi, e anche questa è una cosa positiva, perché così ci spingiamo a vicenda a migliorare sempre di più. Quando vedo che qualcuno ha fatto bene una cosa, voglio che anche CINS la faccia così bene o ancora meglio, sia che si tratti dell’uso di un nuovo software, di un nuovo modo di presentare la storia o di qualcos’altro. Credo che anche gli altri colleghi la pensino così.

Come viene praticato il giornalismo investigativo a livello globale? Quali sono le sue potenzialità, i suoi punti di forza e le debolezze?

Il giornalismo investigativo è simile ovunque, gli standard professionali sono uguali, così come i metodi di lavoro. Le potenzialità sono enormi e continuano ad aumentare parallelamente allo sviluppo delle nuove tecnologie e alla sempre maggiore disponibilità di saperi e informazioni. L’unica domanda è se e come verranno sfruttate queste potenzialità. A volte mi sembra che il più grande vantaggio del giornalismo investigativo sia allo stesso tempo anche il suo più grande svantaggio, e non solo in Serbia.

Avvengono grandi fughe di informazioni, buona parte del lavoro può essere svolta al computer, in un ufficio o una stanza, senza praticamente dover uscire fuori. I giornalisti investigativi indagano sulle grandi frodi da milioni, miliardi di euro, ma spesso dimenticano per chi lo fanno, e questi sono i cittadini. È molto importante trovare un equilibrio tra lavoro sul campo, interviste di persona e analisi di grandi quantità di dati, di assetti proprietari molto complessi, ecc. Penso che come giornalisti investigativi dobbiamo sforzarci di più per creare questo equilibrio e far capire ai cittadini che i temi su cui indaghiamo riguardano anche loro. E dobbiamo occuparci di più dei temi che li riguardano direttamente.

I reportage di CINS che trattano temi ambientali non sono molto letti, ma noi pensiamo che sia importante farli perché in questo ambito ci sono molti problemi e questioni irrisolte di cui i cittadini non sono nemmeno consapevoli perché di fronte al dilagare della corruzione e criminalità passano in secondo piano, pur avendo un indubbio impatto sulla vita e sulla salute delle persone. Questo è quel ruolo educativo che stiamo cercando di svolgere, spero con qualche successo.

I giornalisti investigativi sono costante bersaglio di critiche e minacce, correndo gravi rischi nell’esercizio della loro professione. Recentemente è stato ucciso il giornalista slovacco Ján Kuciak, insieme alla sua fidanzata; l’anno scorso è stata uccisa la giornalista maltese Daphne Caruana Galizia. Il bilancio dei giornalisti uccisi negli ultimi anni è davvero drammatico. Quanto vale la pena rischiare la propria vita e quella dei propri cari per fare questo mestiere? Come vi proteggete? Potete contare di più sulla protezione dello stato o su quella offerta da organizzazioni e istituzioni internazionali?

Se decidete di fare questo lavoro dovete essere consapevoli dei rischi e dei problemi che esso comporta. E se siete una persona normale, non potrete mai restarne indifferenti. Ma potete fare tutto ciò che è in vostro potere per proteggervi. Le organizzazioni internazionali possono aiutare, può aiutare anche lo stato – il quale a volte fa il contrario – , ma credo sia fondamentale che i giornalisti si prendano cura della propria sicurezza. Esistono diversi metodi di protezione, con i quali, purtroppo, non potete mai proteggervi completamente, né fisicamente né nel mondo virtuale, ma potete cercare di ostacolare al massimo il lavoro di chi vorrebbe crearvi problemi. Sono ancora molti i giornalisti che non prendono sul serio questa problematica.

Se state lavorando su inchieste delicate, è saggio parlarne ad alta voce in un bar? Se tenete in casa una parte della documentazione, è saggio scrivere sui social network dove vi trovate e per quanto tempo starete via? È saggio avere una password della posta elettronica composta da soli cinque, sei caratteri che contiene il vostro nome o l’anno di nascita? Oppure andare da soli a un incontro con una persona potenzialmente pericolosa, in un posto sconosciuto? Naturalmente, la risposta a tutte queste domande è “no”, ma nella prassi spesso accade il contrario. Tuttavia, anche se un giornalista si attiene a tutti i protocolli di sicurezza, ciò non garantisce una protezione assoluta. Pertanto è fondamentale essere consapevoli dei rischi che si corrono e avere la certezza di aver scelto il mestiere giusto.

CINS è tra i firmatari della Dichiarazione per la libertà dei media (Proglas za slobodu medija ), nata nell’ambito di una più ampia iniziativa tesa a denunciare le pressioni a cui sono sottoposti i media indipendenti in Serbia. Quali sono le vostre aspettative al riguardo?

Penso che sia importante che i giornalisti lottino insieme per i loro diritti, ed è per questo che abbiamo deciso di appoggiare questa iniziativa. Tornando alla mia risposta precedente, nessuno può proteggere i giornalisti se loro non cercano di proteggere se stessi e la loro professione. Sono vergognose le pressioni a cui sono sottoposti in Serbia tutti i giornalisti che osano criticare il potere. Nessuno può convincermi che sia un caso che gli ispettori fiscali siano presenti quotidianamente nella redazione del portale Južne vesti .  Per cui dobbiamo, se non altro, almeno dimostrare che non siamo né ciechi né stupidi, che vediamo quanto sta accadendo e che siamo capaci di alzare la voce per denunciarlo.

Il lavoro dei giornalisti di CINS è stato premiato con numerosi riconoscimenti, tra cui lo European Press Prize vinto l’anno scorso nella categoria del giornalismo investigativo per una serie di inchieste su corruzione e criminalità organizzata. Si potrebbe dire che il 2017 è stato l’anno di maggior successo per CINS. Quali sfide vi siete posti per il prossimo periodo in questo clima di oscurantismo mediatico?

Sì, l’anno scorso è stato davvero pieno di successi. Nove premi vinti e la selezione tra i finalisti del Global Shining Light Award – il più prestigioso premio internazionale dedicato al giornalismo investigativo, accanto al Pulitzer – sono risultati di cui, come caporedattore, sono molto fiero perché so quanto duramente abbiamo lavorato come squadra per arrivare non tanto ai premi quanto alle storie che sono state premiate. Si tratta di ore e ore, giorni e notti di lavoro, di migliaia di pagine di documenti letti e analizzati, decine di interviste. Tenendo conto di tutte le difficoltà con cui ci confrontiamo, vincere questi premi è stata una bella soddisfazione e un riconoscimento del duro lavoro svolto.

Non vorrei sembrare ingrato (e secchione), ma c’è anche l’altra faccia della medaglia: l’anno scorso abbiamo speso molto tempo in viaggi, cerimonie, discorsi, ringraziamenti, e non siamo riusciti a pubblicare tutto quello che abbiamo scoperto. Quindi, in questo momento la nostra priorità è di, per così dire, rimettersi in pari e pubblicare tutte le storie che erano rimaste incompiute. Mi sembra che stiamo andando bene perché dall’inizio dell’anno, oltre ad aver lanciato il gioco online, abbiamo pubblicato una serie di testi sugli appalti pubblici; un’inchiesta che rivela come lo stato, ovvero il comune di Belgrado privilegi l’agenzia di stampa Tanjug [formalmente chiusa, ndt] e la tv Pink; poi una storia su come l’Azienda elettrica della Serbia (EPS) e il padrino del presidente Aleksandar Vučić e i suoi partner d’affari, in quanto produttori di energia privilegiati, traggano maggior profitto dalla costruzione di piccole idrocentrali; diverse inchieste che parlano di magistratura, media, elezioni. A tal proposito, posso annunciare che nel prossimo periodo pubblicheremo altre storie interessanti, quindi seguite CINS.

Quanto si fida l’opinione pubblica serba dei giornalisti investigativi? Come conquistare la fiducia del pubblico in un contesto caratterizzato da crescente tabloidizzazione e sensazionalismo dei media, nonché da censura e autocensura?

Il pubblico per il giornalismo investigativo esiste e mi sembra che stia crescendo, anche se molto lentamente. Tuttavia, il problema è che il più delle volte ci rivolgiamo a persone che la pensano come noi. Non mi riferisco alle preferenze politiche, o di qualsiasi altro tipo, bensì al fatto che ci sono delle persone che non si occupano di giornalismo ma che comunque vogliono sapere come vengono spesi i soldi dei contribuenti, cosa fanno le istituzioni statali e i politici, perché non vengono risolti i casi di criminalità organizzata, perché si continua a inquinare l’ambiente, ecc. È come ritrovarsi in una specie di bolla, ad esempio sui social network, dove a volte ci sembra di aver fatto qualcosa di grande e importante, poi incontriamo persone che non usano molto i social e sono completamente all’oscuro delle vicende portate a galla dai giornalisti investigativi.

Vista la riluttanza dei media mainstream a dare spazio ai risultati delle nostre inchieste, dobbiamo lottare per raggiungere un pubblico più ampio, senza comprometterci moralmente e professionalmente. Per fare un esempio, ogni volta che abbiamo ricevuto un premio, ne hanno parlato i media più seguiti in Serbia, tutte le emittenti televisive… Ma quegli stessi media non hanno riportato nessuna delle inchieste per le quali siamo stati premiati. Anche il gioco online è un passo verso l’ampliamento del nostro pubblico, perché con esso abbiamo raggiunto persone che probabilmente non hanno mai sentito parlare di CINS prima.

Recentemente è stata avviata la nuova edizione della “Scuola di giornalismo investigativo di CINS”. Cosa vi proponete di insegnare ai partecipanti, e cosa potete imparare da loro? Pensate che tra i partecipanti possa esserci qualche futuro giornalista investigativo?

Cerchiamo di trasmettere ai partecipanti, quanto più possibile, le competenze di cui disponiamo nel relativamente breve lasso di tempo che abbiamo a disposizione. Bisogna tuttavia tener conto che il giornalismo investigativo non è una scienza, ciò che conta di più sono la prassi e la dedizione alla professione. È impossibile imparare tutto in pochi giorni, lavorando su una storia con un tutor. È solo un inizio. Non si può sopravvivere in questa professione senza perfezionarsi continuamente. Credo che non sia passato un giorno in cui io non abbia imparato qualcosa dalle persone con cui lavoro. Questo è sicuramente uno dei vantaggi dell’essere giornalista investigativo, e di far parte della squadra di CINS.

Per quanto riguarda la Scuola, cerchiamo di dimostrare ai partecipanti come funzionano le cose nella pratica e di offrire loro le conoscenze di cui disponiamo. Sta ad ogni partecipante decidere come userà le conoscenze acquisite. Capita che, una volta finita la Scuola, i partecipanti capiscano che il giornalismo investigativo non è la strada giusta per loro, perché ne avevano un’idea diversa, o per qualche altra ragione, e non vi è nulla di male.

Dall’altro lato, la maggior parte dei membri della nostra redazione ha finito questa stessa scuola qualche anno fa, e molti altri ex partecipanti alla scuola collaborano regolarmente con noi o lavorano per altri centri di giornalismo investigativo. Quindi, la nostra scuola, se non altro, è un’opportunità per i giovani di sviluppare un atteggiamento nei confronti del giornalismo investigativo.

Se oggi fosse studente dell’ultimo anno delle superiori, quale professione sceglierebbe?

Se fossi all’ultimo anno delle superiori sceglierei una professione che mi permetterebbe di accumulare un notevole patrimonio senza un solo giorno di lavoro; di governare senza dover assumere alcuna responsabilità; di essere prepotente e spudorato senza pagarne alcuna conseguenza; di promettere cose irreali e fare sempre la vittima; di aiutare i miei padrini, fratelli, zie, mia moglie e, quando serve, essere aiutato da loro; di urlare contro i giornalisti e chiamare i caporedattori quando non mi piace quello che hanno scritto su di me; di fare scandalo e ricorrere alla retorica nazionalista ogni volta che qualcosa va male. Quindi, sarei un politico balcanico medio. Sto scherzando, naturalmente. Non volevo dire subito qualcosa del tipo “non cambierei nulla”… Ma è davvero così. Se oggi potessi scegliere, probabilmente farei la stessa scelta, con l’unica differenza che avrei dedicato più tempo alla formazione nell’ambito delle nuove tecnologie, perché si tratta di competenze di cui oggi i giornalisti praticamente non possono fare a meno.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 03, 2018, 01:23:01 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bulgaria/I-media-in-Bulgaria-euforia-crisi-e-corruzione-187302

Citazione
I media in Bulgaria: euforia, crisi e corruzione

Intervista alla Prof.ssa Lada Trifonova Price dell’Università di Sheffield Hallam sullo stato di salute dell’informazione in Bulgaria, paese d’origine su cui ha concentrato anche i suoi studi
02/05/2018 -  Valentina Vivona   

Lada Trifonova Price si è laureata in giornalismo all’Università di Sofia, in Bulgaria, poco dopo il crollo del regime comunista. Ha costruito la sua carriera nel Regno Unito, lavorando prima come freelance, iniziando poi a insegnare giornalismo presso l’Università di Sheffield Hallam e diventando, infine, responsabile della formazione presso il Centro per la Libertà dei Media (CFOM). Il suo ambito di ricerca è la libertà d’informazione nell’Europa Orientale e, in particolare, nel suo paese d’origine. L’ingresso nell’Unione Europea non sembra aver migliorato la salute del giornalismo in Bulgaria, anzi: la professoressa Price, in questa intervista, spiega perché.

Si può parlare di ‘liberalizzazione’ dei media in Bulgaria, dopo il 1989?

Il processo di democratizzazione è stato lungo e doloroso, ma nei primi anni ‘90 si è percepita una forte volontà di cambiamento. La cosiddetta “Terza Ondata” democratica, a cui la Bulgaria appartiene, ha investito anche il mercato mediatico. Il panorama è completamente cambiato in pochi anni: il controllo è passato dallo stato ai privati, con la sola eccezione dei canali radio-televisivi rimasti di proprietà pubblica. La concorrenza era feroce perché erano numerosissime le testate apparse in quegli anni. I gruppi stranieri sono entrati nel mercato a metà anni Novanta, un po’ più lentamente rispetto ad altri paesi del blocco orientale. Hanno inizialmente puntato sulla stampa, come l’editore tedesco WAZ, ma hanno poi spostato i loro investimenti nella televisione.

Un’euforia dissipata dalla crisi economica globale che in Bulgaria si è sentita a partire dal 2009...

Il tradizionale modello economico dei media è in crisi, non solo in Bulgaria. È sempre più difficile sopravvivere con i soli proventi derivanti dalla pubblicità e dalle vendite. La crisi globale del 2008 - 2009 ha reso tutto ancora più difficile e, in Bulgaria, ha permesso agli oligarchi di acquisire più potere. WAZ, l’editore tedesco di cui parlavo prima, ha disinvestito nel 2010 principalmente perché non poteva più sostenere le pressioni causate dal groviglio tra economia e politica - sono stati gli stessi proprietari a dichiararlo. Purtroppo la Bulgaria è il paese più corrotto dell’Unione Europea e questo ha un impatto negativo sull’informazione e sul giornalismo. Uno dei problemi principali è la mancata trasparenza: nessuno sa chi c’è dietro ai media, chi li finanzia. Non deve allora sorprendere che la popolazione bulgara abbia una scarsissima fiducia nei mezzi d’informazione. Ironicamente, nel 2010 il Parlamento bulgaro ha approvato un dispositivo legale speciale a garanzia della trasparenza della proprietà dei media: una splendida iniziativa, rimasta solo sulla carta.

C’è spazio per i media indipendenti?

Questa è una domanda a cui è difficile rispondere. Difficile perché i giornalisti che provano ad indagare - per esempio - sulla corruzione, sono spesso vittime di intimidazioni, aggressioni o minacce. Lo strumento più usato dai politici e dalle altre figure pubbliche è la denuncia per diffamazione o calunnia. Per fortuna, i tribunali si muovono di solito a favore dei giornalisti per cui raramente si arriva a una condanna. Rispondendo alla domanda: ci sarebbe molto spazio per l’informazione indipendente in Bulgaria, ma sopravvivere è davvero difficile in un contesto così ostile.

Quanto sono forti le interferenze politiche nel giornalismo?

Probabilmente non le suona nuovo il nome del New Bulgarian Media Group, di proprietà del deputato Delyan Peevski: una società tramite cui gestisce diversi quotidiani e riviste e, soprattutto, controlla l’80% della distribuzione della carta stampata. L’autonomia dei media è progressivamente erosa dalla propaganda statale. Emittenti pubbliche come BNT (Televisione Nazionale Bulgara) e BNR (Radio Nazionale Bulgara) sono considerate neutrali, tuttavia dipendono al 100% dai sussidi statali e, inoltre, il direttivo è solitamente a nomina politica. I mezzi d’informazione privati e, ancora di più, locali dipendono dai finanziamenti pubblici, essenziali anche se minimi. Solo alcuni mezzi d’informazione online stanno cercando di eludere questi meccanismi, ma devono ancora trovare una loro sostenibilità economica.

Sembra un paradosso che l'ingresso nell’Unione Europea e il declino della libertà d’informazione abbiano coinciso in Bulgaria.

Dopo aver soddisfatto i criteri d’accesso, le riforme in Bulgaria hanno proceduto a un ritmo molto più lento. Le istituzioni europee non hanno il potere di punire le violazioni della libertà d’informazione nei paesi membri e, in effetti, solo l’OSCE ed il Consiglio d’Europa hanno alzato la voce in un paio di occasioni. Eppure l’UE dovrebbe indagare su come sono usati i fondi strutturali perché il governo compra l’assenso dei media essenzialmente con i soldi delle campagne informative comunitarie. Questa prassi prende il nome di ‘sussidio selettivo’ o ‘tangente legale’.

È il turno della Bulgaria alla presidenza dell’UE: un’ottima occasione per parlare di libertà d’informazione?

Cinque anni fa l’UE ha tenuto un incontro sulla libertà d’informazione dove evocava ciò che dovrebbe essere ripetuto a gran voce oggi: le istituzioni comunitarie devono diventare competenti in materia di tutela della libertà d’informazione e costringere al rispetto della Carta dei Diritti Fondamentali, specialmente l’Articolo 11. Nuove procedure legislative di carattere vincolante devono essere approvate ed applicate al più presto. È l’unico modo per mettere pressione a quegli stati membri che non hanno alcun riguardo della professione giornalistica e della salute dell’informazione, vitali per la democrazia.

Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Red- - Maggio 03, 2018, 21:36:06 pm
aspetta stavamo parlando di altro.
Parlavamo di giovani spaventati e sottomessi all'autorità,io ho fatto notare che i giovani di oggi tante cose hanno ma non il timore per l'autorità.
I giovani io li vedo manifestare spesso in maniera anche esagerata e violenta(cosa che capitava anche negli anni 70) ,se poi le loro battaglie siano inutili o meno è un altro discorso.
Qui però si incomincia a parlare,in un certo senso,di opinioni politiche(nel senso più ampio del termine).
Ad esempio io penso che oltre a tante cose positive gli anni 70 hanno portato anche tanta merda di cui paghiamo le conseguenze anche oggi.
Però ripeto,si rischia di scivolare in discorsi politici.
Comunque mi è chiaro il tuo punto di vista.
Premessa: non sono più un ventenne e quindi ho le classiche difficoltà a comprendere quelli di oggi; ma è un dato oggettivo che sono mal messi, hanno grosse difficoltà nel formarsi una famiglia; nel trovare un lavoro e se lo trovano è precario (quindi sono schiavizzati), avranno una pensione da fame -ma gli dicono di puntare su quella integrativa (ma gli danno 800 euro al mese per campare e pagare la suddetta pensione  :D :D :lol: il danno e la beffa )
Insomma, sono mal messi, probabilmente la generazione che sta peggio dal dopoguerra ad oggi, quella che ha meno prospettive, quella che più viene presa in giro in tempo di pace ; ebbene, chiedo a te che probabilmente ne sai più di me su questo aspetto:
perchè i giovani non si mettono in gruppo e protestano?
...Cortei per strada, voce grossa, panchine divelte, casino. l'unico modo per farsi ascoltare.
Perchè non lo fanno?
La mia non è una domanda retorica.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 04, 2018, 01:41:35 am
Sai, Red, è quello che mi chiedo anch'io quando parlo con certi muratori albanesi* o rumeni, che a casa loro "guadagnano" 300-350-400 euro: perché non spaccano tutto ? Perché non rompono le ossa ai politici ed ai banchieri ?
Perché (al pari di molti giovani - e meno giovani - italiani) seguitano ad emigrare, anziché cercare di cambiare la situazione a casa loro ?

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https://exit.al/it/2017/12/in-francia-limmigrazione-e-la-criminalita-albanese-sono-diventati-un-problema-nazionale/

Citazione
In Francia l’immigrazione e la criminalità albanese sono diventati un problema nazionale
17/12/2017 @ 20:40

Il Ministro dell’Interno francese ha espresso al Governo albanese una visione critica della situazione della criminalità e dell’emigrazione albanese in Francia.

Fonti diplomatiche francesi hanno riferito a Exit che Collomb si è dimostrato fermamente convinto che se non ci sarà un cambiamento della situazione attuale, non ci sarà alcuna apertura dei negoziati per l’adesione e l’Albania rischia di tornare al regime del visto.

Nel 2016, secondo l’Ufficio francese per la protezione dei rifugiati e degli apolidi (OFPRA), 7432 albanesi hanno fatto richiesta di asilo in Francia.

Mentre, nei primi nove mesi di quest’anno, c’è stato un notevole incremento delle richieste di asilo e l’Albania resta il primo Paese al mondo per il numero di richiedenti asilo in Francia.

Come riferito da Slate, l’emigrazione albanese è stata uno dei problemi più importanti che il nuovo Governo francese ha incontrato da quando si trova al potere. La situazione è così importante che il Ministro degli Interni Collomb ha minacciato di ritornare al regime dei visti per gli albanesi.

Il Ministro degli Esteri Bushati era stato urgentemente convocato a Parigi nel luglio 2017. In quell’occasione aveva promesso la piena collaborazione dell’Albania al problema della criminalità e dell’immigrazione, presentando un piano d’azione.

Ma dato che le promesse non hanno prodotto risultati, il Ministro degli Interni francese è venuto a Tirana con obiettivi chiari: concordare con il Governo una serie di misure tecniche e legali per vietare l’emigrazione albanese e per la lotta contro la criminalità in Francia.

I punti principali che sono stati concordati sono:

– istituzione di un coordinamento tra i due paesi nella lotta contro la criminalità organizzata, compreso il traffico di esseri umani;

– inviare agenti di polizia albanese in Francia per aiutare nella loro lotta contro le organizzazioni criminali albanesi operanti in Francia.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: CLUBBER - Maggio 04, 2018, 19:36:27 pm
Premessa: non sono più un ventenne e quindi ho le classiche difficoltà a comprendere quelli di oggi; ma è un dato oggettivo che sono mal messi, hanno grosse difficoltà nel formarsi una famiglia; nel trovare un lavoro e se lo trovano è precario (quindi sono schiavizzati), avranno una pensione da fame -ma gli dicono di puntare su quella integrativa (ma gli danno 800 euro al mese per campare e pagare la suddetta pensione  :D :D :lol: il danno e la beffa )
Insomma, sono mal messi, probabilmente la generazione che sta peggio dal dopoguerra ad oggi, quella che ha meno prospettive, quella che più viene presa in giro in tempo di pace ; ebbene, chiedo a te che probabilmente ne sai più di me su questo aspetto:
perchè i giovani non si mettono in gruppo e protestano?
...Cortei per strada, voce grossa, panchine divelte, casino. l'unico modo per farsi ascoltare.
Perchè non lo fanno?
La mia non è una domanda retorica.
a differenza tua vedo i ventenni del 2018 protestare più di quelli del 2000 e più di quelli del 1990.
Ribadisco che buona parte delle ideologie più schifose di oggi sono nate proprio nel '68.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: CLUBBER - Maggio 04, 2018, 19:48:50 pm
Sai, Red, è quello che mi chiedo anch'io quando parlo con certi muratori albanesi* o rumeni, che a casa loro "guadagnano" 300-350-400 euro: perché non spaccano tutto ? Perché non rompono le ossa ai politici ed ai banchieri ?
Perché (al pari di molti giovani - e meno giovani - italiani) seguitano ad emigrare, anziché cercare di cambiare la situazione a casa loro ?
per non parlare degli africani.

Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Red- - Maggio 04, 2018, 23:11:40 pm
Proviamo a mettere un pò di ordine:
Su un forum si generalizza, per forza di cose, visto che non si potrebbe ogni volta puntulizzare, escludere le eccezioni, eccetera. Inoltre penso che non si dovrebbe prenderla sul personale, altrimenti muore ogni discussione.
non sto dicendo che rumeni o albanesi siano meglio degli italiani, dico che la loro cultura è diversa e probabilmente non hanno assorbito una certa mentalità tipicamente femminile che spinge i giovani uomini all'inazione anche in momenti in cui l'azione sarebbe auspicabile. Dico, sarò fissato, che sono stati annichiliti dal neofemminismo. Si tratta di un'ipotesi, non di una certezza.

L'italia è (per quanto appaia strano) tra le 8-10 nazioni economicamente più forti sul pianeta. Dovremmo essere prima della Russia e del Canada, ma potrei ricordare male. Partecipiamo al G8.
Romania e Albania se non ricordo male stanno intorno alla 60esima posizione. Probabilmente se facessero cortei non servirebbe a nulla, se non a passare il tempo e fare esercizio.
Da noi la situazione è un pò diversa, da noi i soldi ci sono, ma vanno sempre più verso l'alto. Se qualcuno chiedesse che tornassero un pò verso il basso, probabilmente la cosa non sarebbe tempo perso. Purchè lo chiedessero con la giusta forza.
Ma non volevo tranciare giudizi inappellabili, io infatti ho fatto una domanda, cioè come mai i giovani d'oggi evidentemente ritengono che sia meglio non fare e non dire nulla di importante su certi argomenti, di non farlo in gruppo, con una certa forza, come è praticamente quasi sempre avvenuto nella storia, in tempo di pace.
Questo non avviene, semplicemente. (Sempre escludendo i centri sociali, che non si capisce -o almeno io non capisco- a che cacchio servano). Mi chiedevo solo il perchè. Non ho occasione di frequentare molti giovani non so bene come la vedono, cosa pensano come ragionano.  magari sul forum potevo avere qualche parere, magari interessante.
Nulla di più.
Saluti
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 05, 2018, 01:54:03 am
per non parlare degli africani.

Appunto.
Tra l'altro, gli africani, al pari di albanesi* e rumeni, quando sbarcano in Italia fanno soventemente finta di non ricordare da quale merda provengono, oltre ad avere il "vizietto" di criticare ferocemente il Paese che li ospita e di occultare costantemente le magagne dei loro rispettivi Paesi di provenienza.

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* Un imprenditore di mia conoscenza, ormai in pensione, una ventina di anni fa picchiò un suo dipendente albanese che aveva un atteggiamento a dir poco arrogante, sia nei suoi confronti che di altri dipendenti.
Come tanti altri albanesi dell'epoca, del resto.
Certo, rispetto agli anni Novanta sono un po' migliorati, ma certi "vizietti" seguitano comunque a portarseli dietro.
Anzi, siccome oggi la loro realtà è migliore rispetto a quella di 20-25 anni fa (cioè quando l'Albania era il terzo Paese più povero al mondo), in molti casi si permettono pure di fare delle ironie nei confronti dell' Italia e degli italiani.
Tipici atteggiamenti di chi è fortemente complessato e pertanto ha necessità di sminuire chi gli ha permesso di uscire dalla merda in cui nuotavano fino a non molto tempo fa.
Guarda, se dessi retta al mio "lato oscuro" ne manderei all' ospedale uno al giorno, perché se c'è una cosa che trovo insopportabile e inaccettabile, è uno straniero che sputa nel piatto in cui mangia o ha mangiato per lustri o decenni.

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Un mio operaio, invece, non molto tempo fa ha minacciato di botte un rumeno che aveva definito l' Italia "un Paese di merda", invitandolo tra l' altro a tornare "nella sua Romania di merda" e ricordandogli che alla prossima cazzata lo avrebbe letteralmente massacrato.
Tanto con questi stronzi non esiste altra medicina.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 05, 2018, 16:08:28 pm
Ma non volevo tranciare giudizi inappellabili, io infatti ho fatto una domanda, cioè come mai i giovani d'oggi evidentemente ritengono che sia meglio non fare e non dire nulla di importante su certi argomenti, di non farlo in gruppo, con una certa forza, come è praticamente quasi sempre avvenuto nella storia, in tempo di pace.
Questo non avviene, semplicemente. (Sempre escludendo i centri sociali, che non si capisce -o almeno io non capisco- a che cacchio servano). Mi chiedevo solo il perchè. Non ho occasione di frequentare molti giovani non so bene come la vedono, cosa pensano come ragionano.  magari sul forum potevo avere qualche parere, magari interessante.
Nulla di più.
Saluti


Nemmeno io frequento i giovani, per ovvi motivi anagrafici, essendo del '71.
Perciò non ho una risposta precisa al riguardo, ma soltanto delle idee personali, che in quanto tali son sicuramente discutibili.
Tu fai spesso riferimento al neofemminismo, e in merito alla questione credo anch'io che c'entri qualcosa con la "paralisi" di tanti giovani; anche se son del parere che le cause siano molteplici.
Al tempo stesso, però, non ricordo una maggiore energia da parte degli uomini della mia generazione, né da coloro che hanno qualche anno in più.


Citazione
L'italia è (per quanto appaia strano) tra le 8-10 nazioni economicamente più forti sul pianeta.

Non è strano, è la realtà.
Se no perché mi incazzerei con i tanti stranieri che fanno finta di non ricordare da dove provengono ?

Tuttavia, in Paesi come la Romania qualche protesta pacifica la fanno; poi che non ottengano i risultati sperati è un altro paio di maniche.
http://www.eastjournal.net/archives/87662
http://www.eastjournal.net/archives/81151

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In passato delle pacifiche ma ferme proteste ci furono anche in Bosnia, che però resta un Paese con tante rogne da risolvere, dove lo stipendio medio è di 440 euro mensili.*
https://www.eastjournal.net/archives/32786

Citazione
BOSNIA: Il successo della bebolucija, protesta che supera il nazionalismo

Chiara Milan 10 luglio 2013   

A quasi un mese dall’inizio della bebolucija, la rivoluzione dei bambini, a Sarajevo le transenne bianche circondano la piazza ormai vuota di fronte al parlamento nazionale. Dopo ben venticinque giorni le proteste sono terminate, ma non hanno spento l’entusiasmo di chi vi ha preso parte.

Quasi un mese di manifestazioni, assemblee e gruppi di lavoro hanno lasciato nelle persone la speranza che questo non sia stato che l’inizio.Come racconta ad East Journal Valentina Pellizzer, attivista italiana residente a Sarajevo dal 1999 che ha partecipato fin dall’inizio alla bebolucija, “i venticinque giorni di protesta pacifica sono stati un incredibile atto di resistenza civile da parte dei cittadini bosniaco-erzegovesi. I cittadini e le cittadine che hanno manifestato la propria indignazione lo hanno fatto come persone nei confronti di una classe politica che si è dimostrata incapace di fare il proprio lavoro, e che pur di garantire la propria sopravvivenza ha calpestato i diritti della categoria più indifesa, i bambini”.

I casi di Belmina e Berina, le due bambine prive di numero di identificazione personale (Jedinstveni matični broj građana, JMBG – una sorta di codice fiscale) e pertanto impossibilitate ad uscire dalla Bosnia per farsi curare all’estero, hanno provocato una reazione emotiva tale da portare in piazza non solo i sarajevesi, ma “tutti quegli esseri umani che si sono rifiutati di considerare l’impasse sui numeri personali come l’ennesima questione etnopolitica, ponendosi una domanda fondamentale: Chi sono io come individuo? Come posso permettere che una bambina muoia solamente perché è nata in un paese in cui i politici sono etno-bestie?”.

Nonostante il paragone con gli indignados e gli altri movimenti modello Occupy che hanno preso piede negli ultimi anni in tutto il mondo, la Bosnia-Erzegovina rimane un caso a sé, e come tale dev’essere trattato. Spiega sempre Valentina: “Non bisogna dare per scontato che i cittadini bosniaci siano scesi in piazza in massa, considerando che l’ultima volta che l’hanno fatto, nel 1992, hanno sparato loro addosso. Così come non è da sottovalutare il valore simbolico della riappropriazione dello spazio pubblico, collettivo, in un paese in cui la regola è che la mia presenza è la negazione della tua. Facendosi fotografare a sostegno della JMBG i bosniaci ci hanno messo la faccia, hanno riaffermato il diritto alla vita, mentre nessun politico si è dimesso per vergogna”.

La mancanza di ONG e partiti politici tra gli organizzatori della protesta è stata considerata una delle debolezze del movimento. Eppure è frutto di una scelta consapevole, presa per evitare strumentalizzazioni e protagonismi di parte. In un tessuto sociale frammentato come quello della Bosnia, infatti, la società civile può riprodurre ed addirittura esacerbare le divisioni etniche e politiche che ci sono al suo interno. Il messaggio trasmesso dalla bebolucija, invece, è che il fondamento del senso civico è la singola individualità, l’essere umano in quanto tale, senza il bisogno di bandiere. Questo hanno ricordato i cittadini che si sono riuniti la sera della morte di una delle due bambine, Berina: il bisogno di restare umani.

Cosa rimane della bebolucija? “Innanzitutto i risultati tangibili: il giorno successivo all’assedio non violento del parlamento, il 6 giugno, Belmina ha ricevuto il suo numero di identificazione personale, assieme al passaporto che le ha permesso di uscire dalla Bosnia per essere curata. I manifestanti hanno ottenuto un altro risultato: per sei mesi i bambini bosniaci riceveranno un numero di identificazione personale permanente. È stato riaffermato il loro diritto ad esistere come cittadini bosniaci, ma soprattutto è stata restituita loro la dignità di esseri umani.

Grazie alle proteste dei cittadini, i politici bosniaci hanno dovuto riconoscere l’esistenza di un problema reale e di una massa critica di cittadini che reclama la propria dignità. Infine, la protesta non è sfociata nella violenza in nessun caso, anche nei momenti di maggiore tensione, come durante l’assedio del parlamento. Va riconosciuto il comportamento corretto delle forze di polizia, ma anche il senso responsabilità di organizzatori e partecipanti alle proteste che si sono impegnati a pulire la piazza anche dopo il concerto del 1 luglio”.

La bebolucija è conclusa, e i tentativi di sminuirla sembrano affermare, al contrario, la scomodità di questo movimento. Rimangono orgoglio per non aver messo a tacere l’ennesimo sopruso e la voglia di continuare.

Per informazioni: www.jmbg.org twitter @JMBGzasve

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https://www.albanianews.it/notizie/economia/stipendio-medio-balcani-2018-01

Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 05, 2018, 16:20:55 pm
https://www.albanianews.it/statistiche/salario-mensile-315-euro

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Instat Albania: più della metà dei lavoratori percepisce un salario mensile inferiore ai 315 euro
Gli ultimi dati pubblicati dall'Istituto di Statistica Albanese hanno evidenziato che circa il 60% dei lavoratori albanesi guadagna meno di 315 euro (40.000 leke) lordi mensili, mentre il 30% guadagna 189 euro (24.000 leke)

Gli ultimi dati pubblicati dall’Istituto di Statistica Albanese (Instat) mostrano che circa 1,2 milioni di cittadini albanesi hanno un’occupazione nel paese.

Più della metà di questi lavoratori guadagna meno di 315 euro (40.000 leke) lordi al mese (il 60%), mentre solo il 10% ne guadagna 750 euro (95.000) o più.

Il 30% di coloro che hanno occupazione, invece, guadagna 189 euro (24.000 leke) lordi al mese, ovvero il valore di salario minimo esistente legalmente nel paese.

Questi sono gli ultimi dati pubblicati dall’Instat con l’aiuto della direzione generale delle imposte. Lo stipendio medio del 2017, in relazione a tutti i cittadini con occupazione, si aggirava sui 387 euro (49.000 leke) lordi mensili.

Il valore lordo, ovviamente, considera oltre al salario netto, l’assicurazione sociale e medica e tutte le imposte che vengono pagate dal lavoratore stesso e quindi detratte di conseguenza dallo stipendio. Quindi considerando tutto ciò, il valore reale del salario minimo del paese è di circa 166 euro (21.000 leke) come evidenzia il giornale albanese reporter.al .

l paradosso del salario medio

Il salario lordo medio era di 371 euro (47.000 leke) mensili nel 2014; valore che è sceso nel 2016 raggiungendo i 363 euro (46.000) per poi salire nuovamente lo scorso anno e raggiungere la cifra di 387 euro (49.000 leke) lordi mensili. In questo periodo quadriennale il salario lordo medio ha registrato una crescita del 2,7%.

Tuttavia, in termini reali e quindi considerando l’inflazione, i dipendenti stipendiati di oggi sono più poveri rispetto a quelli del 2014 poichè i prezzi di consumo sono aumentati del 5,2% mentre i salari, come detto, solo del 2,7%. Durante il 2016 – anno che ha registrato un calo nel valore medio lordo mensile del salario – l’unico settore che ha registrato una crescita è stato quello pubblico.

Prima delle elezioni dello scorso anno, infatti, il governo ha aumento gli stipendi dei dipendenti pubblici del circa 12,8%. Un contesto, quello dei salari pubblici nettamente superiore rispetto a quelli privati, che caratterizza da tempo l’Albania come dimostrato dai dati: solo l’anno scorso i dipendenti pubblici aveva un salario lordo medio di 486 euro (61.600 leke) mensili, di gran lunga superiore rispetto ai 387 euro (48.967 leke) mensili dei dipendenti privati (circa -20%).
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 05, 2018, 16:31:17 pm
https://www.albanianews.it/notizie/economia/eurostat-albania-salario-minimo-europa

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EconomiaStatistiche
Eurostat, Albania ha il salario minimo più basso d’Europa
Albania detiene il primato europeo del salario minimo più basso con soli 180 euro al mese

Come viene riportato da Eurostat, l’Albania detiene il primato europeo del salario minimo più basso (tra i paesi UE e quelli candidati all’adesione), con soli 180 euro al mese.

Le statistiche pubblicate, si riferiscono ai salari minimi nazionali. Ovvero il salario che di solito si applica a tutti i dipendenti, o almeno alla grande maggioranza di essi. Viene applicato per legge, spesso da un accordo intersettoriale nazionale.

Se osserviamo, invece, la classifica dall’alto troviamo al primo posto il Lussemburgo, con un salario minimo di 1998.5 euro al mese. Dato quello del salario minimo che, come fa notare Eurostat, ha a che fare con la posizione geografica: nel raggio est europeo (in paesi come Romania, Lituania, Slovacchia ed Estonia) lo stipendio varia dai 400 ai 500 euro.

Gli stati nord-orientali, invece, hanno un salario minimo di oltre 1.400 euro, tra cui il sopracitato Lussemburgo, la Francia, il Belgio, i Paesi Bassi, il Regno Unito e l’Irlanda. Tra i 600 e i 900 euro se si parla di Europa Meridionale (Spagna e Portogallo).

Eurostat riporta anche un confronto extra-europeo con gli Stati Uniti: negli USA il salario minimo è di 1048 euro al mese.
Grafico dei salari per Paese Salario Minimo Albania

Rispetto a dieci anni fa, quindi Febbraio 2008, oggi i salari minimi espressi in euro sono più alti in tutte le nazioni dell’Europa, con eccezione della Grecia dove attualmente sono inferiori addirittura del 14% rispetto a dieci anni fa (tasso di variazione annuo di -1,5% circa).

L’Albania, nonostante non fosse all’ultimo posto nel 2008 (c’era la Bulgaria con 112.49 euro/mese), è andata anche lei in crescendo registrando un +27% nel corso degli anni, seppur con un lieve ribasso in questo inizio di 2018. Si è passati infatti, dai 181.01 euro/mese (valore più alto di sempre) di media dello scorso anno ai 180.52/mese dell’inizio del nuovo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 11, 2018, 20:00:51 pm
https://www.balcanicaucaso.org/Media/Gallerie/Mondo-rurale-in-Romania-bello-da-vedere-duro-da-vivere

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Mondo rurale in Romania: bello da vedere, duro da vivere
7 maggio 2018


Un rumeno su due vive in campagna. La fotografa Ioana Moldovan ha esplorato la quotidianità di questo mondo rurale fatto di infrastrutture carenti, disoccupazione massiccia, agricoltura di sussistenza

(Pubblicato originariamente da Le Courrier des Balkans il 2 maggio 2018)

La Romania ha circa 20 milioni di abitanti di cui la metà vive in campagna. Qui vengono preservate le tradizioni ed i paesini rumeni possono sembrare pittoreschi. La vita rurale può certo attrarre, con i suoi tempi lenti che non si trovano più nelle grandi città.


Ma è proprio nei villaggi che le grandi promesse elettorali della politica rumena non vengono mai rispettate.

L'accesso alle cure di base è molto più difficile che in città: i medici di famiglia sono la metà e lo stato delle infrastrutture limita spesso l'accesso delle ambulanze in caso di emergenze. Il 40% delle abitazioni rurali inoltre non ha neppure l'acqua corrente. Poi vi è poco lavoro e la maggior parte delle persone vive di agricoltura di sussistenza, con aziende troppo piccole per produrre cibo oltre quello di cui ha bisogno una singola famiglia.

Durante l'estate molti lavorano all'estero come stagionali, per mettere qualcosa da parte e sopravvivere all'inverno.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 11, 2018, 20:06:46 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Montenegro/Montenegro-attacco-alla-giornalista-Olivera-Lakic-187885

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Montenegro: attacco alla giornalista Olivera Lakić

La giornalista investigativa del quotidiano montenegrino Vijesti Olivera Lakić è stata ferita a colpi di pistola davanti alla sua abitazione, nello stesso luogo dove era stata picchiata sei anni fa. Il difficile mestiere del giornalista in Montenegro
11/05/2018 -  Damira Kalač   Podgorica

Martedì, 8 maggio 2018, Podgorica. Su un lato del viale Svetog Petra Cetinjskog si sente della musica: circa un migliaio di persone si sono radunate per assistere a un concerto organizzato in occasione del Giorno della vittoria sul fascismo. Sul lato opposto, ad un certo punto, si sente uno sparo.
L'attrice e la scrittrice

Cittadini sveglia!

Appresa la notizia dell’aggressione a Olivera Lakič, l’attrice Katarina Krek ha invitato i politici montenegrini ad assumersi le proprie responsabilità, criticando inoltre i cittadini perché continuano a ignorare la realtà.

“Se continuate a fidarvi di (Mevludin) Nuhodžić [ministro dell’Interno] che è sempre ‘sbalordito’, o di (Duško) Marković [primo ministro] che come un pappagallo non fa altro che ‘condannare fortemente’, o del procuratore che ‘farà tutto il possibile per identificare i responsabili’, sprofonderemo nell’abisso sul cui orlo ci troviamo ormai da molto tempo. Un mese fa, le persone sopracitate hanno creato una squadra speciale con il compito di prevenire episodi come questo. Poi l’attuale presidente del Montenegro democratico ha pronunciato la parola fascismo, associandola alla libertà di parola e alle informazioni basate sui fatti che la procura a tutt’oggi non ha né contestato né confermato, anzi non se n’è nemmeno occupata…”, ha scritto l’attrice sul suo profilo Facebook.

Ha inoltre ricordato ai cittadini che sono loro a pagare gli stipendi dei funzionari statali e che non basta che questi ultimi, dopo “tanti omicidi irrisolti”, rilascino dichiarazioni, dicendo quello che ormai è chiaro a tutti.

“Ci vuole responsabilità amici, e non parole vuote”, ha scritto Krek.

Attenzione internazionale

“Sono delusa dal fatto che siamo finiti sui media internazionali per questo episodio violento. Il Montenegro si trova ancora nella lista degli stati dove la professione giornalistica e la parola pronunciata pubblicamente possono costare la vita”, ha detto Lidija Perović, giornalista e scrittrice che dal 1999 vive in Canada.

Quando a Toronto le chiedono da dove viene e com’è il paese in cui è cresciuta, Lidija vorrebbe poter rispondere parlando di cose positive.

“Mi piacerebbe poter dire che siamo un paese dove la libertà di parola e di pensiero viene rispettata, dove la criminalità e la corruzione vengono sanzionate, un paese con un forte settore culturale che potrebbe suscitare grande interesse, un paese che possiede un enorme patrimonio ambientale e lo sta salvaguardando per le generazioni future. Purtroppo, ormai da anni non posso farlo”, lamenta Perović.

Stando alle sue parole, l’attacco alla giornalista Olivera Lakić è un’occasione per dimostrare le capacità del sistema giudiziario montenegrino.

“Saremo una società dove i cittadini temono di essere sparati quando escono sulla strada? O saremo un paese serio? Il mondo ci guarda”.

Al momento è ancora ignota l’identità della persona che lo scorso 8 maggio, intorno alle 21:00, ha sparato a Olivera Lakić , giornalista del quotidiano Vijesti. Quello stesso quotidiano che il nuovo-vecchio presidente del Montenegro Milo Đukanović ha recentemente accusato di promuovere il fascismo .

“Felice Giorno della vittoria sul fascismo. Il regime lo ha già omaggiato sparando a Olja! Del fascista Vijesti“, ha scritto sui social la giornalista Ratka Jovanović una volta appresa la notizia dell’attacco alla collega.

Olivera Lakić è stata ferita davanti alla sua abitazione, nello stesso posto dove, sei anni fa, era stata picchiata.

Recentemente ha pubblicato una serie di articoli sul contrabbando di sigarette, un argomento di cui si era già occupata in passato.

Nel 2011 Lakić aveva indagato sull'azienda “Tara“ a Mojkovac, dove si sospettava che venissero prodotte sigarette contraffatte, poi stoccate in un magazzino a Donja Gorica e contrabbandate. Nei suoi articoli aveva denunciato il coinvolgimento di alcuni funzionari di polizia e dell’Agenzia per la sicurezza nazionale in questo business illecito.

Lakić già in passato è stata bersaglio di diverse minacce e intimidazioni. Dopo essere stata aggredita fisicamente nel 2012, ha vissuto sotto scorta per quasi tre anni. In quel periodo si era temporaneamente ritirata dal giornalismo.

A tutt’oggi rimangono ancora ignoti i mandanti dei precedenti attacchi a Olivera Lakić.
La mancata tutela dei giornalisti

Dal 2004, quando è stato ucciso il caporedattore del quotidiano Dan Duško Jovanović, in Montenegro sono stati registrati 76 casi di attacchi contro giornalisti, di cui 43 hanno avuto un epilogo giudiziario, 25 sono ancora oggetto di indagini, mentre nei restanti 8 casi le indagini non sono nemmeno state avviate.

L’opinione pubblica montenegrina ha recentemente avuto modo di rinfrescare la memoria sugli attacchi contro i giornalisti grazie a un documentario intitolato Silom na sedmu , andato in onda lo scorso 10 aprile.

Nel documentario, realizzato dalla ong “35mm” e da tv Vijesti, viene ricordato che i dipendenti statali che, ostruendo le indagini, hanno garantito l’impunità ai responsabili dei più gravi attacchi contro i giornalisti – compromettendo seriamente lo stato di diritto in Montenegro – , non sono mai stati processati, e che le dimissioni di chi ha commesso errori nell’esercizio della propria professione sono una vera rarità nella società montenegrina.

Commentando l’attacco a Olivera Lakić, il caporedattore del quotidiano Vijesti Mihajlo Jovović ha dichiarato che la polizia non ha mai indagato su quello che la giornalista ha scoperto. “Non ho parole. Fino a quando queste cose continueranno ad accadere nel nostro meraviglioso Montenegro? Nessun attacco contro di lei ha avuto un epilogo giudiziario. Molti crimini che ha denunciato nei suoi articoli non sono mai stati indagati. Fino a quando dovremo temere questi vigliacchi?”

Secondo il giornalista e blogger serbo Nebojša Vučinić, “watchdog della democrazia” è il termine che meglio descrive l’essenza della professione giornalistica, per cui non c’è da stupirsi se i giornalisti sono bersaglio di attacchi anche nelle democrazie sviluppate. “A maggior ragione lo sono nei piccoli quasi-stati semicoloniali e postsocialisti. Per intenderci, queste cose succedevano anche prima, ma gli operatori dell’informazione godevano di una certa tutela ed erano motivati a occuparsi di problematiche sociali”, spiega Vučinić.

Aggiunge inoltre che i giornalisti, e gli operatori dei media in generale, vengono attaccati in vari modi, ma lo scopo è sempre quello di impaurirli e incutere timore nella popolazione. “Questo seme della violenza attecchisce facilmente nelle società dove tradizionalmente nessun problema viene risolto in modo democratico e attraverso il dialogo”, afferma Vučinić.
Đukanović, l’UE e gli USA...

A seguito dell’attacco a Olivera Lakić, si è fatto sentire  anche Milo Đukanović.

“L’attacco alla giornalista Olivera Lakić è la conferma che lo stato deve contrastare l’arroganza delle strutture criminali”, ha detto il leader del Partito democratico dei socialisti e neoeletto presidente del Montenegro.

Quando il regime esprime indignazione per l’attacco a Olja, per Vijesti, o per qualsiasi altro giornalista indipendente in Montenegro, si tratta, secondo Ratka Jovanović, editorialista di Vijesti, di pura insolenza.

Oltre a condannare la classe politica montenegrina Ratka Jovanovićnon risparmia critiche nemmeno ai funzionari europei e statunitensi.

“Non so come definire quello che stanno facendo i funzionari e i diplomatici europei e statunitensi: ipocrisia, immoralità o puro commercio. Pronunciano due, tre banalità sull’importanza del giornalismo, dicono che gli attacchi sono inaccettabili, e poi ritornano tra le braccia di qualche esponente del regime. Sanno esattamente chi picchia e chi spara, e continuano a collaborare con i picchiatori e gli assassini. Io non mi fido più dell’Occidente già da quando ha contribuito a distruggere la Bosnia Erzegovina, ma questo popolo smarrito si fida dei politici occidentali”, ha scritto la Jovanović.

A suo parere, chi ha sparato a Olivera Lakić lo ha fatto seguendo gli ordini del regime, ma a mettere la pistola nelle sue mani sono stati l’Ue e gli Stati Uniti.

La giornalista ha invitato a non pubblicare “le loro dichiarazioni ipocrite sull’aggressione a Olja”.

“Non abbiamo bisogno del loro cordoglio. Sono ormai 30 anni che stanno a guardare come il regime ci sta uccidendo, e dopo ogni tornata elettorale macchiata da frodi e compravendite di voti dicono che è stato compiuto un ulteriore passo verso l’Europa. Io non voglio avere nulla a che fare con una tale Europa, nemmeno indirettamente, attraverso i media”.

Željko Ivanović, direttore di Vijesti (foto PR Centar)
Il silenzio dei cittadini

All’indomani dell’aggressione a Olivera Lakić è stata organizzata una manifestazione di protesta davanti alla sede del governo a Podgorica.

Il concerto del giorno prima ha attirato circa un migliaio di cittadini, mentre alla protesta hanno partecipato poche centinaia di persone, gli stessi volti che si vedono sempre nei raduni di questo tipo.

“Non deve stupire l’apatia popolare, perché ognuno si preoccupa solo di se stesso”, dice Vučinić, aggiungendo che, pur essendo consapevoli che anche a loro può succedere la stessa cosa, i cittadini continuano ad essere inerti, conformisti e disinteressati.

“Le proteste contro gli attacchi ai giornalisti e media il più delle volte vengono organizzate, non tanto per chiedere protezione, quanto per contribuire al cambiamento della leadership politica, anche se ogni nuova leadership si comporta nello stesso modo nei confronti dei media. Ne sono la prova i cambiamenti politici avvenuti in Serbia dopo l’omicidio di Zoran Điniđić e il fatto che il seme di quello che sta accadendo oggi nel paese è stato gettato all’epoca in cui al governo c’era il Partito democratico”, spiega Vučinić.

“Il giornalismo e i giornalisti sono la prima vittima di un sistema degenerato. Quando questo sistema crolla – e per farlo crollare non basta l’impegno dei giornalisti e media, deve mobilitarsi l’intera società – il giornalismo e i giornalisti avranno la possibilità di ‘guarire’”.

Olivera Lakić è stata ferita ad una gamba e non è in pericolo di vita.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 11, 2018, 20:10:10 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Slovenia/Sfruttamento-e-precariato-lavoratori-serbi-in-Slovenia-187301

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Sfruttamento e precariato: lavoratori serbi in Slovenia

La Slovenia ha bisogno di manodopera e Lubiana sta firmando accordi bilaterali con i paesi della regione che però rischiano di ridurre ancora i diritti dei lavoratori immigrati
11/05/2018 -  András Juhász   

(Pubblicato originariamente da Mašina, selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans e OBCT)

Centinaia di migliaia di serbi lavorano all'estero e prendere in considerazione o decidere di lasciare il proprio paese fa parte del quotidiano della gente di qui, come di tutti i Balcani. Ma ciò che la gente conosce sulle condizioni di lavoro all'estero si riduce spesso ai soli racconti dei conoscenti e dei familiari emigrati. Vi sono poche informazioni sulla legislazione in materia di lavoro negli altri paesi, su come funzionano le agenzie interinali o su accordi bilaterali inerenti ai diritti dei lavoratori all'estero.

È in questo contesto che il primo febbraio 2018 Belgrado e Lubiana hanno sottoscritto un accordo sul distaccamento di lavoratori serbi in Slovenia. Pochi media ne hanno parlato e hanno affrontato i contenuti dell'accordo. Secondo Zoran Đorđević, ministro serbo del Lavoro, l'accordo garantirà ai lavoratori serbi gli stessi diritti di quelli sloveni. A due mesi dalla firma però il testo dell'accordo non è ancora a disposizione sul sito del ministero. Alla nostra richiesta di vederne copia ci è stato risposto che il documento era ancora in corso di ratifica e che sarebbe poi stato pubblicato sul Gazzettino ufficiale della Repubblica di Serbia.
Ue e lavoratori all'estero

Uniformare la disciplina europea sul distacco dei lavoratori è un tema cruciale per un equo mercato interno del lavoro. Le esigenze – almeno in parte contrapposte – sono quelle di garantire la libera circolazione dei servizi e quella di combattere il dumping sociale, soprattutto negli ambiti a maggior intensità di manodopera. Nel 1996 la direttiva n° 71 cominciò a circoscrivere la materia prevedendo tre categorie per distinguere il lavoratore distaccato da quello che lavori stabilmente in uno stato diverso dal proprio. La direttiva prevede che, in ogni caso, le condizioni del lavoratore distaccato devono essere conformi a quelle dello Stato in cui svolge la sua prestazione. Questa previsione è stata nei fatti difficile da applicare, soprattutto per mancanza di coordinamento tra gli organi di controllo. Di conseguenza, nel corso degli anni si è verificato uno squilibrio tra i principi che si intendevano tutelare a favore delle libertà del mercato, conducendo a un abuso di pratiche sleali nei confronti dei lavoratori. Nel 2016 la Commissione europea ha proposto una revisione sulla normativa, per coprire le zone d’ombra e assicurarne maggiore efficacia. La commissione Occupazione e Affari sociali (EMPL) del Parlamento europeo ha esaminato la materia e ha presentato un rapporto, che ha poi intrapreso l’iter decisionale. Il voto sull’esito del negoziato è previsto il 25 aprile.

La versione slovena del documento, a disposizione, è stata analizzata da Delavska Svetovalnica, un'organizzazione che si occupa di diritti dei lavoratori e lavoratrici immigrate in Slovenia. I suoi collaboratori ci hanno spiegato cosa si dovranno aspettare i lavoratori serbi in Slovenia nel caso il testo del documento venga effettivamente ratificato dal parlamento. Il nostro interlocutore, Goran Zrnić, ha cominciato a lavorare in Slovenia 10 anni fa, in alcuni cantieri edili. Ha poi subito un infortunio sul lavoro con una lesione alla colonna vertebrale che ne ha causato l'invalidità. Da quel momento ha avviato una lotta lunga e ardua contro la burocrazia per far valere i suoi diritti. Da sei anni lavora come consulente per i lavoratori immigrati in Slovenia.

“Attualmente i lavoratori serbi hanno il diritto di dare le dimissioni e di cambiare datore di lavoro quando desiderano”, sottolinea Goran Zrnić. “Con il nuovo accordo non avranno più questo diritto durante il primo anno di lavoro in Slovenia. Questo sarebbe l'avere uguali diritti ai lavoratori sloveni? Mi piacerebbe che qualcuno me lo spiegasse!”.

Il diritto a cambiare datore di lavoro nel corso del primo anno viene soppresso dall'articolo 10 dell'accordo. Come spiegato dai membri di Delavska Svetovalnica, questa clausola non sarebbe altro che un copia incolla di un accordo già in vigore con la Bosnia Erzegovina che permette lo sfruttamento dei lavoratori immigrati.

“Un lavoratore che nel proprio paese era più o meno libero non può concepire di dover passare un anno intero con un datore di lavoro che, a quel punto, lo sfrutterà dicendogli che se non è contento può benissimo dare le dimissioni e rientrare nel proprio paese. Se uno dà le dimissioni, questo significa che torna alla casella di partenza e deve ricominciare da zero... E questo accade spesso”, continua Goran Zrnić.

Secondo i membri di Delavska Svetovalnica, quest'impossibilità di fatto di cambiare datore di lavoro nel corso del primo anno ha come conseguenza ore in più richieste e non pagate, contributi sociali non versati e a volte anche salari non corrisposti.

Anche se, formalmente, il lavoratore immigrato potrebbe ricorrere a una procedura di dimissioni eccezionali in base al diritto del lavoro sloveno, in pratica accade raramente, essendo i lavoratori poco informati e la procedura complessa. “Immaginatevi una persona da qualche parte in Slovenia, i cui genitori gli hanno raccontato che questa repubblica era tra quelle che stavano meglio nell'ex Jugoslavia: buoni salari, buone leggi... Arrivato pieno di sogni si risveglia in un ingranaggio che lo schiaccia. Senza contare il fatto che spesso i lavoratori immigrati pagano per arrivare sino a qui. Si sono indebitati e poi lavorano 250-300 ore al mese. Il datore di lavoro versa loro un salario di non più di 600 euro dicendo loro che 'contributi e congedi malattia da lui non esistono'”.

Il salario medio in Slovenia è di 1077 euro e il salario minimo di 638. Da sole, le spese di alloggio, rivelano il vero valore del salario degli immigrati. “In generale per un posto letto in una camera da quattro si spendono 120-140 euro. E affittare un monolocale a Lubiana costa tra i 250 e i 300 euro, spese non incluse ovviamente. Gli affitti degli appartamenti fuori Lubiana sono di un 10-30% in meno. Ma in quel caso aumentano i costi di trasferimento verso il posto di lavoro”.

Secondo Goran Zrnić se l'accordo sottoscritto in febbraio sarà ratificato, i lavoratori serbi in Slovenia saranno destinati a condividere la misera esperienza dei lavoratori provenienti dalla Bosnia Erzegovina. A suo dire, vista la mancanza di manodopera in Slovenia, la Serbia potrebbe negoziare condizioni migliori per i propri lavoratori. “In questo momento la Slovenia sta tranquillamente aspettando che la Serbia cada nella stessa trappola della Bosnia Erzegovina. A mio avviso Belgrado ha più pedine a suo vantaggio rispetto a Lubiana e potrebbe ottenere condizioni migliori per i propri cittadini. Ma se le giocherà o meno è una domanda da un milione di dollari. Servirebbe che i lavoratori serbi si mobilitassero, meglio se insieme a noi, è ovvio che occorre lavorare assieme”.

Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 20, 2018, 19:32:41 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/L-Albania-di-oggi-al-di-la-dei-falsi-miti-187967

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L’Albania di oggi, al di là dei falsi miti
Albania - Ivo Danchev

Un'intervista rilasciata al portale Pangea dal nostro collaboratore Nicola Pedrazzi. Un ampio, appassionato e disincantato sguardo sull'Albania
18/05/2018 -  Pangea   

(Pubblicata originariamente da Pangea News il 15 maggio 2018)

Ci sono date da ricordare e miti da sfatare. 8 agosto 1991. Ricordate. La nave si chiamava ‘Vlora’, era stata costruita ad Ancona, varata a Genova, venduta a una società marittima di Durazzo. Quel giorno arriva al porto di Bari. Sbarcarono in 20mila. Albanesi. L’evento ebbe la natura assoluta di un simbolo, e diventò un docufilm, La nave dolce, diretto nel 2012 da Daniele Vicari.

La popolazione albanese in Italia conta, ad oggi, poco meno di mezzo milione di unità (stando al “Rapporto annuale sulla presenza dei migranti” del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali): sostanzialmente, non possiamo non conoscere un albanese. Il successo pubblico di Ermal Meta narra, a essere ottimisti, di una integrazione riuscita; dal punto di vista culturale, invece, tolti alcuni, rari nomi (Ismail Kadare, Ornela Vorpsi), la conoscenza italiana del patrimonio letterario albanese è ancora sporadica (citiamo il decisivo numero di In forma di parole dedicato ai Poeti della terra d’Albania, del 2002, e Il funerale senza fine, opera poematica di Visar Zhiti, edita lo scorso anno da Rubbettino).

In realtà, di Albania sappiamo quasi nulla. Ne sappiamo, per lo più, tramite claim promozionali, per così dire. Ci viene detto, ad esempio, di un ‘miracolo economico’ albanese, e di un primo ministro, Edi Rama, confermato al secondo mandato nel 2017, con il vizio d’artista – ha esposto alla Biennale di Venezia – e il carisma da capopopolo, che piace a tutti, soprattutto ora che l’Albania è in ‘odore d’Europa’. Dal vero, però, le condizioni di vita in Albania sono molto difficili, i giovani continuano a lasciare il loro paese, gli stipendi medi oscillano tra i 200 e i 300 euro, i libri hanno prezzi inaccessibili ai più e la corruzione – che ha come contraltare l’indifferenza civica verso i fatti politici – è ancora dominante.

Per capire l’identità dell’Albania oggi, una terra storicamente legata all’Italia – ma adesso i legami preferenziali sono con Stati Uniti e Turchia, e la Cina continua a fare affari – dove si sta costruendo la moschea più grande dei Balcani, abbiamo parlato con Nicola Pedrazzi, che collabora con l’Osservatorio Balcani e Caucaso da Tirana, e conosce il territorio albanese come le sue tasche (l’anno scorso, tra l’altro, ha firmato il libro L’Italia che sognava Enver. Partigiani, comunisti, marxisti-leninisti: gli amici italiani dell’Albania Popolare. 1943-1976). Sarà Nicola a toglierci l’utopia dalla testa e la réclame dagli occhi.

Dunque: Albania in Europa. I negoziati sono ufficialmente aperti. Come vive questa possibilità la società civile? Con disinteresse, con orgoglio, come una nuova possibilità di sviluppo?

I negoziati per l’adesione all’Ue, in realtà, non sono ufficialmente aperti. Nell’ultimo progress report la Commissione ha raccomandato al Consiglio europeo l’apertura dei negoziati, elogiando i progressi del paese; come sempre, spetta ora ai capi di stato e di governo decidere all’unanimità, il che significa che qualora anche solo un governo Ue non fosse d’accordo, l’apertura dei negoziati verrebbe rimandata. È quanto accade alla Macedonia per la questione del veto greco sul nome, nonostante sia candidata dal 2005; non è dunque detto che i negoziati con l’Albania verranno aperti quest’anno (d’altronde lo stesso balletto si è già visto per la concessione dello status di ‘paese candidato’, due volte raccomandato dalla Commissione, due volte negato dal Consiglio, fino all’estate del 2014). Sul tema, il Consiglio europeo dovrebbe riunirsi quest’estate.


Anche in Albania vige grande confusione sulle istituzioni e sul funzionamento dell’Ue. Un fatto che non aiuta la comprensione di dove si stia andando, e in quali tempi. Ciò premesso, tutte le forze politiche del paese e la schiacciante maggioranza dei cittadini albanesi sono convintamente ‘europeisti’: il che non stupisce, perché solamente tra Grecia e Italia vive più di un milione di cittadini albanesi. Non c’è un solo albanese di Albania che non abbia almeno un parente o un amico in Ue. Conseguentemente, il benessere e i vantaggi dell’Europa unita sono ben noti, e l’Europa è vista come la via maestra per lo sviluppo, come prima porta per una vita migliore. E qui viene la frustrazione: se l’Europa è un desiderio forte, gli albanesi lo soddisfano a livello personale, con la migrazione. La fiducia sul fatto che la politica albanese sia in grado di guidare il paese in Europa è bassa, così come è basso l’interesse per la politica, che in Albania come in altri paesi della regione è sinonimo di potere.



A tal proposito, è bene precisarlo: in Albania ancor più che in altri paesi balcanici è molto difficile parlare di ‘società civile’. Se, con riferimento a nuovi, embrionali, fermenti sociali, si sceglie di adottare quell’espressione, lo si deve fare sapendo che la ‘società civile albanese’ non è ancora assimilabile a una società civile ‘europea’. Infine, orgoglio e disinteresse/disillusione, citati nella sua domanda, sono in effetti due sentimenti che gli albanesi conoscono molto bene: il primo in relazione alla propria appartenenza nazionale, il secondo in relazione alle istituzioni del proprio Stato. Diciamo che questa mentalità diffusa mal si concilia con il progetto di integrazione politica avviato a ovest nel dopoguerra. Un processo, quello della ‘federazione’ degli stati e degli interessi europei, che ha conosciuto innumerevoli battute d’arresto, ma che ancora oggi è reso credibile proprio dalla pulsione al superamento dei nazionalismi deflagrati per l’ultima volta nel secondo conflitto mondiale. Un processo (e un racconto) cui i Balcani occidentali approdano solamente nei primi anni Duemila, non dobbiamo dimenticarlo.


Edi Rama rieletto lo scorso anno. Chi lo sostiene? Come è riuscito a consolidare la crescita dell’Albania? Ha davvero lavorato bene?

Domande difficili. Come prima cosa va detto che in Albania Edi Rama non gode della fama scintillante di cui dispone all’estero e tra gli albanesi della diaspora. Questo gli osservatori stranieri tendono a trascurarlo, soprattutto in Italia, dove negli ultimi anni la stampa ha largamente contribuito all’elaborazione del mito dello sviluppo albanese. Una narrazione giornalistica che non è politicamente innocua, perché la politica albanese utilizza (e talvolta sponsorizza direttamente) recensioni estere per legittimarsi (il 60% degli albanesi conosce e legge l’italiano, e qualora si concedesse il voto agli albanesi all’estero il consenso elettorale di Rama aumenterebbe ancora).



Al contempo, è un fatto che alle ultime elezioni il Partito Socialista di cui Rama è segretario è andato oltre le più rosee previsioni: avendo ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi il governo è monocolore, e non ha il problema del ricatto di forze minori in maggioranza (come LSI) che aveva nella scorsa legislatura. Dall’altra parte, il Partito Democratico (che Sali Berisha ha lasciato all’incolore Lulzim Basha) è in grave crisi. Buona parte dell’ascesa di Rama si spiega dunque anche con la mancanza di concorrenza politica, perché dopo il crollo del “sistema Berisha” nel 2013 la destra albanese è rimasta senza leader e organizzazione. Va poi detto che alle ultime elezioni, nel giugno scorso, ha votato solamente il 46% degli aventi diritto: il primo partito è dunque quello degli astenuti, perché, come dicevo sopra, verso il sistema politico in Albania vige il disincanto, indipendentemente da chi governa. Perché anche se di elezione in elezione migliora, il sistema di consenso rimane ampiamente clientelare.

Fatte tutte queste premesse, Rama è innegabilmente un leader capace e di grande carisma; ed è indubbio che nel corso dell’ultimo suo governo tante cose si siano ottenute: dalla candidatura all’Ue alla riforma universitaria, fino alla riforma della giustizia per ottenere un potere giudiziario finalmente indipendente dalla politica; una riforma votata due estati fa grazie alle pressioni internazionali, ma che è lungi dall’implementazione. In generale, in paesi così piccoli e in fase di accesso il cammino delle riforme è disegnato dalle delegazioni internazionali e dalla Commissione europea. Al contempo, il paradigma dello ‘sviluppo’ albanese non è sostanzialmente cambiato dall’era Berisha: apertura alle delocalizzazioni e attrazione degli investimenti esteri grazie al basso costo del lavoro e alla bassa tassazione, il tutto per riassorbire una disoccupazione che rimane alta. C’è stata senza dubbio una stretta su alcune disfunzioni croniche dello stato (segnali banali dal quotidiano: le bollette della luce ora le pagano tutti, a Tirana i parcheggi cominciano a essere a pagamento, si pensa all’inserimento di caselli autostradali…) ma la grande domanda degli albanesi a questo punto è: come faccio a pagare tutte queste nuove ‘tasse’, come faccio a rispettare le leggi e vivere nella “legalità europea” se il mio salario medio rimane di 200/300 euro al mese? In questo dilemma c’è il cortocircuito politico che potrebbe cominciare a intaccare lo strapotere del primo ministro artista (nonché l’‘europeismo’ degli albanesi).

Un argine alla creativa solitudine del premier sarebbe anche auspicabile, visto che ormai il paese si sta trasformando in una galleria d’arte all’aria aperta, a immagine e somiglianza del leader. Cosa che da vedere è inquietante, soprattutto conoscendo il recente passato del paese, e considerando l’area in cui si trova l’Albania e il peso dell’ ‘esempio’ turco (che oggi, di fatto, si pone come concorrente all’Ue). Sullo sfondo, gigante, rimane il problema della commistione tra potere politico e criminalità. Un dato su tutti: il ministro degli Interni del primo governo Rama (Saimir Tahiri) è risultato coinvolto in indagini avviate dalla Guardia di Finanza italiana sul narcotraffico tra i due paesi. Prima delle scorse elezioni Rama ha esiliato il suo imbarazzante ministro, ma di fatto poi in parlamento i socialisti hanno difeso il proprio affiliato con l’immunità parlamentare. Quindi anche l’immagine di Rama come campione della legalità, forgiatore di una statualità finalmente europea, è ampiamente propagandistica, e non corrisponde nemmeno alla sua storia politica, perché già negli anni in cui era sindaco di Tirana, Rama permise una speculazione edilizia di cui la caotica capitale, cresciuta senza criteri che non fossero dettati dal crudo denaro, è testimone vivente. Insomma, stiamo parlando innanzitutto di un personaggio complesso e controverso, anche se poi espone le sue opere alla biennale di Venezia e la Rai gli dedica servizi appiattiti sulla retorica del cambiamento arcobaleno, con la leggerezza e la compiacenza che in genere si dedica alla cronaca rosa, non a governanti in carica.

Esiste, immagino, una classe intellettuale albanese, case editrici, un sistema dell’informazione. La libertà di espressione intellettuale è reale? Ricordo di aver intervistato il poeta Visar Zhiti, ora ambasciatore albanese a Washington DC, che sotto il governo di Hoxha, 35 anni fa, ha patito la prigione per il solo fatto di essere poeta. Ora, ovviamente, la situazione è cambiata, ma, i giornali sono davvero liberi? I libri hanno un prezzo compatibile per tutti?

Se pensiamo al regime di Enver Hoxha è evidente che è cambiato tutto: pluralismo politico, libere elezioni, libertà di parola sono novità recenti, cui gli albanesi che hanno vissuto metà della vita ‘in un altro mondo’ devono ancora abituarsi. Se la situazione è completamente, positivamente, cambiata dai tempi del confino politico e delle brutalità di cui Zhiti e tanti altri testimoni conservano memoria preziosa (una memoria che in Albania fatica ancora a divenire pubblica, perché alla ricerca storica si preferisce il mito), nel paese la libertà d’espressione non è ancora garantita a tutto tondo. Il sistema mediatico nel suo complesso è sostanzialmente al servizio della politica – come detto, nella sua dimensione clanica e clientelare più che ideologica – e le voci veramente indipendenti rimangono poche, per il semplice fatto che la libertà ha un prezzo che chi vive nel paese non può sempre permettersi di pagare.

Dal punto di vista della classe intellettuale, pesa ancora il deserto lasciato dal regime comunista, che in mezzo secolo ha ucciso e perseguitato chiunque esercitasse una minima libertà di pensiero e di giudizio, uniformando il lessico e la didattica delle scuole e delle università (libri e dipartimenti universitari ne portano ancora i segni, visitarli per credere…). Esistono nuove case editrici, soprattutto dedite alla traduzione in albanese di volumi stranieri, ma il prezzo di un libro rimane proibitivo per la grande maggioranza delle famiglie albanesi, che non possono ancora concedersi beni che non siano di primissima necessità. La Fiera del Libro di Tirana che si tiene ogni autunno è molto partecipata e affollata, senza dubbio il trend è positivo. Ma il paese non è Tirana, nelle periferie la tivù rimane l’unica finestra sul mondo e i giovani albanesi che desiderano una formazione di qualità se ne vanno in Europa subito dopo il liceo, se non prima.

In Italia, lo sappiamo, da oltre vent’anni c’è una nutrita presenza di albanesi. Che rapporti ci sono tra gli albanesi d’Albania e quelli italiani?

Domanda molto interessante, alla quale non sono in grado di rispondere in maniera esaustiva. In generale, ho notato che la diaspora italiana (che come noto sta assumendo un suo profilo ‘storico’) mitizza volentieri il proprio paese d’origine, nel quale sa che non tornerà a vivere. Gli albanesi che in Albania ci vanno una volta all’anno, magari d’estate in vacanza, e commentano entusiasti i cambiamenti del loro paese d’origine, suscitano spesso e volentieri risposte infastidite negli albanesi d’Albania, che nel paese ci vivono e che di questo ‘miracolo economico’ sopportano le contraddizioni. Al contempo, gli albanesi integrati in Italia, e che magari nel frattempo sono divenuti cittadini italiani, continuano a fornire un appoggio per nuove migrazioni (il caso classico è quello delle matricole, che si fanno ospitare da parenti o amici per studiare in qualche ateneo italiano…).

Per collegarmi al discorso di prima, senza dubbio un premier con il carisma e i contatti internazionali di Edi Rama ha cambiato l’immagine della diaspora albanese, soprattutto in Italia. È come se agli stereotipi negativi degli anni Novanta si fossero sostituiti nuovi stereotipi positivi (che però rimangono stereotipi!). Rama tiene in grande considerazione gli albanesi all’estero, soprattutto quelli di successo, non è un caso che nel suo governo sia stato istituito un ministero apposito per le relazioni con la diaspora, che nel novembre del 2016 ha organizzato a Tirana il primo Summit degli albanesi nel mondo. Insomma questa relazione è senza dubbio cruciale da diversi punti di vista, bisognerebbe studiarla meglio.


Come si vive in Albania, oggi? Intendo: che tenore di vita c’è, che possibilità economiche e di sviluppo culturale? I giovani albanesi restano in Albania o emigrano?

Dipende. Con un passaporto europeo e uno stipendio in euro può essere un paradiso, tanti imprenditori stranieri si innamorano sinceramente del paese e non tornerebbero indietro. Ma per chi vive dentro l’economia nazionale può essere durissima. Il tenore di vita è in crescita, ma rimane basso e tale rimarrà se la politica non si pone il problema dei salari e del lavoro. Fuori Tirana per un giovane (e soprattutto per una giovane) le possibilità di sviluppo culturale rimangono estremamente basse. Istruzione e sanità pubbliche hanno standard non europei e rimangono due forti motivazioni alla migrazione, lungi dall’essersi arrestata (nel 2017 in Francia la prima comunità di asilanti è stata quella albanese, mentre i servizi sociali italiani continuano a denunciare il fenomeno dei minori non accompagnati abbandonati nel nostro paese).

In generale: si sta incomparabilmente meglio rispetto ai difficilissimi anni della caduta del regime, ma si sa che ci vorrà tanto tempo perché l’Albania possa offrire quello che offrono vicini paesi europei. ‘Meglio non aspettare e andare via subito’, è il ragionamento che fanno tanti giovani. A mio giudizio, la tragedia numero uno dell’Albania odierna è che continua a perdere le sue giovani forze. Da questo punto di vista poco è cambiato dagli anni Novanta, anche se ora la migrazione avviene in aereo.

Con quali Stati l’Albania ha il legame economico più forte? Che rapporti persistono con l’Italia?

Certamente con i paesi Ue, Italia in testa. Nei primi anni Novanta l’Italia è stata un paese importantissimo per l’Albania, non solo per la migrazione, ma per le missioni militari, gli aiuti, la penetrazione linguistica e culturale, gli scambi commerciali. In parte questo rimane valido ancora oggi (l’interscambio commerciale ci vede attori di prima importanza), ma va detto che nell’Albania appena uscita dal comunismo l’Italia godeva di un credito di fiducia e che non ha paragoni storici: un patrimonio su cui a mio giudizio non siamo stati assolutamente in grado di costruire una sana egemonia culturale, e che oggi, complice la concorrenza di altri paesi e l’apertura del paese verso altre aree, si sta progressivamente esaurendo.

Com’è noto, nella cerniera balcanica la partita geopolitica rimane aperta: a Tirana pesano come ovvio gli Stati Uniti, ma comincia ad assumere un ruolo rilevante anche la Cina (che in Albania in realtà investe dagli anni Settanta, ma quella è un’altra storia…) e ovviamente la Turchia. Per cinque secoli, fino al 1912, l’Albania è stata una provincia dell’Impero ottomano, il paese e la capitale sono a maggioranza musulmana: è evidente che la Turchia di Erdoğan anche in Albania fa egemonia culturale, specialmente dopo la svolta autoritaria. Di fianco al parlamento albanese, nel pieno centro di Tirana, soldi pubblici turchi stanno costruendo quella che diventerà la prima moschea di tutti i Balcani. Forse non è un caso che nel 2014 il primo viaggio europeo di papa Francesco fu proprio a Tirana. Senza scadere nelle dietrologie, è evidente che in un paese misto, dove convivono musulmani, cattolici e ortodossi (parimenti perseguitati durante l’ateismo di stato) anche l’identità religiosa assume una sua valenza politica. Un fattore su cui un paese come la Turchia gioca senza farne mistero la sua strategia di penetrazione.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 03, 2018, 12:19:17 pm
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ROMANIA: L’assist della Corte Costituzionale a Liviu Dragnea

Francesco Magno 2 giorni fa   

Nella giornata di mercoledì la Corte Costituzionale romena ha emesso una sentenza che, di fatto, obbliga il presidente della Repubblica Klaus Iohannis a firmare il decreto di rimozione di Laura Codruta Kovesi dal ruolo di procuratore capo della Divisione Nazionale Anticorruzione (DNA). La decisione dei giudici ha sorpreso l’opinione pubblica del paese: proteste si sono registrate a Bucarest e a Sibiu

I fatti

A febbraio il ministro della Giustizia Tudorel Toader aveva avviato la procedura di rimozione della Kovesi dalla carica di procuratore capo, a causa di presunti abusi da parte della DNA nello svolgimento delle sue indagini. Iohannis ha bloccato l’iter, rifiutando di firmare il decreto. Di fronte allo scontro istituzionale creatosi è intervenuta la Corte, che ha dato ragione al ministro. Le motivazioni della sentenza verranno pubblicate ufficialmente entro un mese, ma un comunicato stampa dei giudici costituzionali ha già reso note le ragioni della decisione. Secondo i togati, il presidente non avrebbe potuto ostacolare un atto che rispettava la formalità e la procedura legale. In altre parole, i giudici rimproverano a Iohannis il fatto di essersi opposto per ragioni di opportunità politica ad un’azione, quella intrapresa dal ministro, che rispettava tutte le formalità giuridiche. Quando le motivazioni della sentenza verranno pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale, la decisione diventerà immediatamente esecutiva.

Iohannis all’angolo

Il verdetto della Corte ha scatenato la reazione dei settori dell’opinione pubblica romena più ostili al partito social-democratico (PSD). Non vi è dubbio che, nell’imperitura battaglia tra PSD e presidente della Repubblica, i giudici costituzionali hanno fornito un assist al bacio a Liviu Dragnea il quale, consapevole della situazione di vantaggio acquisita, ha evitato dichiarazioni incendiarie. Stessa linea seguita dall’altro grande vincitore della vicenda, Toader. Cosa farà Iohannis adesso? Il presidente è con le spalle al muro: opporsi alla sentenza dei giudici porterebbe ad una crisi istituzionale e ad uno scontro tra poteri dello Stato che la Romania attualmente non può permettersi. I tassi di crescita economica del paese sono tra i più elevati dell’UE, e una crisi di sistema potrebbe vanificare quanto di buono sin qui fatto. Anche da un punto di vista propagandistico, scagliarsi contro i giudici dopo averne difeso per anni l’indipendenza dalle ingerenze del potere politico, potrebbe essere controproducente. Difficilmente tra un mese vedremo la Kovesi seduta sul suo scranno. La DNA ha reagito alla sentenza con un comunicato ufficiale, in cui i procuratori si dichiarano: “preoccupati per l’attacco alla loro indipendenza, garanzia essenziale per un’efficace lotta alla corruzione”.

Futuro incerto

La decisione della Corte, volontariamente o no, ha posto i giudici sotto il pieno controllo del ministro della Giustizia. A Iohannis rimane comunque un’arma: resta a lui il potere di nomina del nuovo procuratore capo della DNA, sempre su proposta del ministro. Tuttavia, di fronte a un nuovo conflitto istituzionale tra ministro e presidente, bisogna chiedersi quanta incidenza avrà la sentenza dello scorso mercoledì, che ha chiaramente rafforzato la posizione del governo a scapito di quella di Iohannis. L’autorevole commentatore Cristian Tudor Popescu ha addirittura paragonato la posizione di Iohannis a quella del re Michele nel 1947; un capo di stato impossibilitato a svolgere delle sue funzioni a causa di un governo dispotico che, contando sul sostegno di una magistratura compiacente, ha imbrigliato l’intero sistema costituzionale. In questo marasma istituzionale, bisogna chiedersi quale sarà il ruolo della piazza: buona parte dell’opinione pubblica è apertamente a favore della Kovesi e dei suoi metodi duri di lotta alla corruzione, e la sua rimozione potrebbe scatenare nuove grosse ondate di proteste.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 03, 2018, 12:21:00 pm
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ALBANIA: Droga e intercettazioni, è scontro tra il governo Rama e l’opposizione

Riccardo Celeghini 3 giorni fa   

Due scandali legati al traffico di droga hanno investito i livelli più alti della politica albanese. Proprio mentre l’ex-ministro dell’Interno finisce agli arresti domiciliari, il suo successore è nell’occhio del ciclone per un caso giudiziario che riguarda il fratello. Le vicende, che coinvolgono due figure chiave del Partito socialista (PS), hanno scatenato l’attacco dell’opposizione, guidata dal Partito democratico (PD), che è scesa in piazza per chiedere le dimissioni del premier Edi Rama. Le dinamiche giudiziarie, politiche e mediatiche intorno ai due casi sono tutt’altro che limpide, ma quel che certo è che il riemergere di pericolosi intrecci tra la politica e la criminalità, nonché di un clima di tensione tra le forze politiche, getta un’ombra sul paese proprio nelle settimane decisive per ottenere il via libera all’apertura dei negoziati di adesione all’Unione europea.

Il caso Xhafaj

Nelle ultime settimane, l’attuale ministro dell’Interno, Fatmir Xhafaj, artefice di importanti riforme della giustizia, è finito al centro di uno scandalo. Ad inizio maggio, il Partito democratico ha reso pubblica una sentenza di un tribunale italiano risalente al 2002 in cui il fratello del ministro veniva condannato a 7 anni di carcere per “associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti”, un verdetto confermato dalla Corte suprema di cassazione nel 2012. Pochi giorni dopo, lo stesso PD ha diffuso delle intercettazioni, dalle quali sembrerebbe emergere che il fratello del ministro, rimasto in Albania per scampare alla condanna in Italia, sarebbe ancora impegnato in traffici illeciti e rapporti criminali. L’opposizione accusa inoltre il ministro di aver protetto il fratello, arrivando a far modificare una legge sull’estradizione per favorire la sua permanenza in Albania. Le accuse sono state rispedite al mittente dal ministro e dal Partito socialista: secondo il premier Rama, l’intercettazione sarebbe un falso costruito per danneggiare il governo e l’immagine esterna dell’Albania.

La campagna intrapresa dall’opposizione è però molto decisa. Il 24 maggio il leader del PD, Lulzim Basha, ha occupato il podio del parlamento per lanciare le sue invettive, prima che tutti i deputati dell’opposizione lasciassero l’aula, rifiutando di votare una mozione di sostegno all’adesione europea del paese. Pochi giorni dopo ha fatto seguito una manifestazione di piazza per chiedere le dimissioni di Xhafaj e di Rama. Si tratta di fatto della continuazione di quella strategia di muro contro muro portata avanti dal PD negli ultimi anni, sotto la regia del vecchio leader del partito, premier e presidente dell’Albania per buona parte degli anni ’90 e 2000, Sali Berisha.

La questione è particolarmente scottante e sono attesi nuovi colpi di scena. Non sono pochi gli analisti che parlano di una campagna creata ad arte per far saltare la poltrona del ministro, autore di riforme coraggiose. Dubbi riguardano inoltre la tempistica della campagna dell’opposizione: perché proprio ora vengono messi in giro audio e documenti su fatti di molti anni fa?

Il caso Tahiri

Il caso Xhafaj avviene negli stessi giorni in cui il suo predecessore al ministero, Saimir Tahiri, è agli arresti domiciliari per traffico di droga e corruzione. Tahiri è stato ministro dell’Interno del primo governo Rama dal 2013, protagonista di importanti riforme nel settore della polizia e dello smantellamento del villaggio di Lazarat, considerato il centro della produzione di cannabis diretta in tutta Europa. In quella fase, molti vedevano in lui un possibile successore di Rama. Dopo esser stato rimosso dall’incarico nel corso del rimpasto di governo avvenuto a marzo 2017, nel pieno della crisi politica tra maggioranza e opposizione che ha segnato i mesi prima del voto di giugno, è stato rieletto come deputato.

Il caso Tahiri è scoppiato lo scorso ottobre, a seguito dell’arresto in Italia di un gruppo criminale italo-albanese responsabile del traffico di circa 3.5 tonnellate di marijuana. Dalle conversazioni di due degli arrestati, membri della famiglia Habilaj, già nota alle cronache giudiziarie, emerge il nome di Tahiri, che avrebbe coperto gli illeciti e finanziato la sua campagna con i soldi del traffico della droga. I due, si è poi scoperto, sarebbero due lontani cugini del deputato socialista. In realtà, già durante il suo incarico di ministro Tahiri era finito più volte sotto accusa da parte dell’opposizione, soprattutto a causa dell’aumento delle coltivazioni di marijuana nel paese e di controverse vicende giudiziarie.

A seguito dell’indagine, la procura albanese ha richiesto l’arresto del deputato, una richiesta respinta in parlamento dalla maggioranza socialista. Da allora, però, gli attacchi dell’opposizione contro Tahiri sono continuati, fino alla decisione di inizio maggio, quando Tahiri ha annunciato le dimissioni da parlamentare per affrontare la giustizia senza alcuna immunità. Pochi giorni dopo, è stato arrestato e si trova ora ai domiciliari, in attesa del processo.

L’obiettivo europeo di Rama

L’intreccio di queste complesse vicende giudiziarie ha fortemente colpito il governo Rama, anche perché esplose nel momento meno opportuno. L’Albania è difatti in attesa della decisione del Consiglio europeo di giugno, quando gli Stati membri dovranno decidere se accettare o meno la richiesta della Commissione europea di aprire i negoziati di adesione. A tal fine, Rama è impegnato in un tour delle cancellerie europee per vincere le resistenze. In particolare l’Olanda, la Francia e la Germania hanno mostrato una certa reticenza ad appoggiare la richiesta della Commissione, facendo leva proprio sull’eccessivo peso nel paese di corruzione e criminalità organizzata. Senza l’unanimità tra gli Stati membri, l’apertura dei negoziati verrebbe nuovamente rimandata. La piaga della diffusa criminalità nel paese e l’aspra battaglia politica interna, dunque, rischiano di avere pesanti ripercussioni sul futuro europeo dell’Albania.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 09, 2018, 17:40:36 pm
https://www.eastjournal.net/archives/90765

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La desertificazione demografica dei Balcani
Vittorio Filippi 2 giorni fa   

“Sconvolgimento demografico in Europa” titola Le Monde diplomatique di giugno. Nel 1900 in Europa risiedeva un abitante della terra su quattro, oggi uno su dieci, nel 2050 saremo a malapena il 7% del mondo. Un’Europa che non cresce demograficamente dal 1993, pur con velocità differenti. C’è infatti un’Europa del nord-ovest vitale sia come saldo naturale che come saldo migratorio. C’è poi un’Europa tedesca e meridionale in cui il saldo naturale insufficiente è compensato da quello migratorio. C’è infine l’Europa centrale ed orientale (Russia esclusa) in cui giocano gli effetti perversi di denatalità ed emigrazioni.

I Balcani sono l’epicentro di questa desertificazione demografica (ed umana in senso antropologico) europea che già negli anni settanta Pierre Chaunu aveva predetto chiamandola “peste blanche”. Della ex Jugoslavia da questa “peste” si salva per ora solo la Slovenia, anche se le ultime elezioni, com’è noto, hanno premiato gli anti-immigrati. Per il resto è un disastro condensabile in quel 20% (cioè un quinto della popolazione!) di abitanti perduto dalla Bosnia negli ultimi trent’anni.

E’ vero che già nella Jugoslavia socialista l’emigrazione era una realtà rilevante ed il gastarbajter era sinonimo di emigrato. Poi le guerre degli anni novanta, le pulizie etniche e lo sfacelo dell’economia hanno accelerato denatalità ed esodi (i due fenomeni sono notoriamente connessi). Anche in Croazia, eccetto la capitale e la zona costiera baciata dal turismo, la desertificazione demografica corre ed investe aree come la Slavonia in cui la presenza di piccole imprese austriache, italiane ed ungheresi non riesce comunque a trattenere i giovani. Dall’indipendenza del 1991 la Croazia ha perso 627 mila abitanti, cioè il 13% della popolazione dell’epoca. Va messo in conto anche l’esodo forzato di 200 mila serbi durante l’operazione “Tempesta” del 1995, per cui – se le tendenze denatalistiche e migratorie dovessero continuare – il paese potrebbe veder sparire un quarto della sua popolazione in un decennio. E lo stesso avviene dall’altra parte del confine, in quella Posavina bosniaca in cui i salari da 200 euro ed una flessibilità che rende del tutto teorici i diritti lavorativi risultano ben poco attrattivi nei confronti della domanda di lavoro delle imprese tedesche o scandinave.

I flussi migratori balcanici seguono rotte tortuose, in cui – specie per le professioni sanitarie, edili, alberghiere e dei servizi – bosniaci, macedoni e serbi vanno a lavorare in Croazia ed in Slovenia mentre croati e sloveni prendono la strada per la vicina Germania. Naturalmente l’emorragia dei giovani qualificati non solo mette in difficoltà le economie locali, ma affossa ulteriormente la natalità.

Solo nell’inverno 2014-2015 centomila persone – cioè il 7% del paese – hanno lasciato il Kosovo dirigendosi verso la Vojvodina serba da cui entrare poi illegalmente in Ungheria e da qui in Germania; addirittura il 7 settembre dello scorso anno le autorità kosovare bloccarono la stazione delle corriere di Pristina per “eccesso” di emigranti in fuga. Gli stessi movimenti migratori investono anche il nord depresso del Montenegro ed il sud-est povero della Serbia; da questa repubblica 160 mila persone se ne sono andate tra i censimenti del 2002 e del 2011.

Per ora le uniche politiche demografiche messe in cantiere da Croazia e Serbia per combattere spopolamento ed invecchiamento si limitano ad accorati e patetici inviti pro-life antiabortisti, mentre le delocalizzazioni industriali presenti (spesso all’insegna del dumping sociale) non appaiono in grado di correggere il disastro demografico dei Balcani. Un quarto di secolo dopo gli esodi violenti degli anni novanta, un’altro esodo – silenzioso e non cruento – sembra voler mantenere i Balcani in un perenne destino di Europa sempre marginale, di eterna “altra Europa”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 14, 2018, 19:57:37 pm
I commenti sono in rumeno mai i video provengono dall' Ucraina.

https://www.facebook.com/toateamestecate/videos/1954562934809529/?hc_ref=ARSeOO7ILjM64dFBmIRKU46eUM_f0MFAXnPx7aCLqrj8FkPF-IGT5JYALktCG9w2FKE

Scrive una rumena:
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Consuela Siea N-ai sa vezi așa ceva in România !! Populația este prea ipocrita sa facă așa ceva!! Ei nu sunt uniți ... celor cu bani ,celor care au cu ce își plăti dările nu le pasa de cei care dorm pe strada și celor ce duc grija zilei de maine !!!

In sostanza dice che non si vedrà mai una cosa del genere in Romania, perché la popolazione è troppo ipocrita per fare una cosa del genere; ed inoltre i rumeni non sono uniti.

... mi sembra di sentire un italiano.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 18, 2018, 20:44:45 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Bosnia-Erzegovina-il-kolo-e-il-prezzo-della-benzina-188532

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Bosnia Erzegovina: il kolo e il prezzo della benzina

Come in Serbia anche in Bosnia Erzegovina i cittadini hanno protestato per l’aumento del prezzo del carburante, bloccando il traffico sulle principali strade del paese. Anche in BiH però le proteste non sono riuscite ad incidere sulla leadership al potere

15/06/2018 -  Ahmed Burić Sarajevo
Il barlume di speranza che le proteste contro l’aumento del prezzo della benzina organizzate in diverse città della Bosnia Erzegovina potessero scuotere le autorità, ed eventualmente risvegliare il senso di responsabilità dei politici in vista delle elezioni parlamentari previste per il prossimo ottobre, è svanito non appena i media hanno riportato la notizia che alcuni manifestanti mentre bloccavano il traffico si erano messi a ballare il kolo. Il kolo è una danza popolare diffusa in molti paesi dei Balcani che assomiglia più al su ballu tundu sardo (ballo tondo) che alla tarantella, e di solito si balla in occasione delle feste.

Così i bosniaco-erzegovesi, la cui ingenuità è proverbiale, ancora una volta si sono liberati delle loro preoccupazioni ballando ed hanno perso un’altra occasione per costringere la leadership politica a riflettere sulle proprie mosse, una leadership che ormai sembra divenuta inamovibile.

Clima di tensione
Due mesi fa, intervenendo davanti al Congresso americano, Kurt Bassuener, già consigliere dell’ex Alto rappresentante della comunità internazionale in Bosnia Erzegovina Paddy Ashdown e membro del Democratisation Policy Council, aveva detto tutto quello che c’è da dire sulla Bosnia Erzegovina di oggi. “La criminalità organizzata fa parte del DNA di questo paese. Devo dire che l’élite politica bosniaco-erzegovese funge da punto di connessione tra politica, business, criminalità organizzata e media. Non mi riferisco qui a nessun gruppo etnico in particolare, vale per i politici di tutti e tre i gruppi etnici. Il loro obiettivo principale è di tenere per sé tutto quello che rubano e di rimanere al potere per poter continuare a rubare e sottrarsi ad ogni responsabilità, sia politica che giuridica. Il sistema che vige nel paese glielo permette. Per loro, nulla di quello che l’Ue potrebbe offrire al paese è meglio della situazione attuale. Perciò è comprensibile perché la metà degli elettori non vada più a votare, perché le elezioni non cambiano nulla”, ha dichiarato.

Per poi concludere: “Il principale punto di forza delle odierne élite politiche bosniaco-erzegovesi consiste nella capacità di creare un clima di paura e di comprare la pace sociale per poter continuare a disporre delle risorse finanziarie, che permettono loro di proseguire con i loro piani. L’unica salvezza per la Bosnia Erzegovina è che gli Stati Uniti e l’Ue pongano fine a questa tendenza”.

Parole chiare e concise. Ci sono voluti ventidue anni – tanti quanti ne sono passati dalla fine della guerra – affinché un analista statunitense dicesse quello che era chiaro già nei primi anni dopo la guerra: organizzazione tribale dei partiti, corruzione, clientelismo e diverse forme di associazione criminale hanno determinato lo sviluppo di un paese che sta crollando sotto il peso di un accordo di pace imposto. Quattro livelli di governo, un apparato statale assurdamente grande, partiti politici che si assicurano il consenso piazzando i loro sostenitori nelle istituzioni statali, mentre al contempo si battono per l’aumento della pressione fiscale sulle imprese private… Tutto questo ha avuto come conseguenza una profonda depressione sociale, alto tasso di disoccupazione e la fuga di molte persone dal paese, soprattutto dei giovani.

L’incapacità della comunità internazionale di assicurare che la magistratura rimanga indipendente dal potere politico ha portato all’attuale status quo. O meglio, alla creazione di un clima di paura in cui ogni minaccia alla pace, persino meramente retorica, e ogni tintinnio delle armi diventano un ostacolo alla costruzione di un futuro comune e alla promozione dei valori democratici.

Potere e denaro
Dal momento che il prezzo del petrolio sui mercati internazionali è stabile o in lieve calo, non vi è alcuna spiegazione ragionevole del perché le autorità bosniache abbiano recentemente deciso di aumentare i prezzi del carburante, fissando il prezzo di un litro di benzina a 1,20 euro, un prezzo vicino a quelli vigenti in Ungheria, Romania e Macedonia.

Dopo lo scoppio delle proteste in molte città della Bosnia Erzegovina contro l’ennesimo aumento del prezzo della benzina, il Partito dell’azione democratica (SDA), principale promotore della Legge sulle accise – che avrebbe dovuto rendere possibile la realizzazione di nuovi progetti infrastrutturali – , ha chiesto che i prezzi della benzina venissero ridotti. Ovviamente lo ha fatto sotto la pressione dell’opinione pubblica e dei propri avversari politici. Il Partito socialdemocratico (SDP) ha accusato l’SDA di aver fatto false promesse, sostenendo che le entrate derivanti dalle accise sui carburanti non saranno - come annunciato - destinate alla costruzione di strade.

Non è difficile supporre dove finiranno questi soldi.

Ecco un esempio emblematico del fatto che in Bosnia Erzegovina chi sta al potere ha le mani libere per fare qualsiasi cosa: nel 2008, quando il prezzo di un barile di petrolio era di 145,2 dollari, in Bosnia Erzegovina un litro di benzina costava 2,4 marchi convertibili (circa 1,2 euro). Oggi un barile di greggio costa 75 dollari, e in Bosnia il prezzo della benzina è pari a 2,3 marchi. È chiaro quindi che l’intera questione delle accise è solo un pretesto per derubare il popolo e prolungare l’agonia del paese alla quale, secondo Kurt Bassuener, gli Stati Uniti e l’Ue dovrebbero porre fine.

Ma sappiamo che questo non accadrà. Al contrario, la società bosniaco-erzegovese continuerà a sprofondare sempre più nell’abisso. Il presidente della Republika Srpska Milorad Dodik ha definito i manifestanti come “hooligan”, dicendo che gli organi competenti sapranno come trattarli. Anche in Serbia, dove in questi giorni i cittadini hanno protestato contro l’aumento del prezzo della benzina, le autorità si sono comportate in modo simile, accusando l’opposizione di aver organizzato le proteste.

Così il prezzo della benzina è diventato un tema dell’agenda pre-elettorale. In un paese come la Bosnia Erzegovina, dove letteralmente tutto è manipolabile, il dibattito sulle accise e sul prezzo dei carburanti non è che un’altra goccia in un mare di menzogne e false promesse. Nel frattempo continuano a mancare strade decenti e, visto come stanno andando le cose, a breve non ci sarà più nessuno a percorrere quelle esistenti.

Le elezioni di ottobre dimostreranno, in modo inequivocabile, qual è lo stato reale delle cose.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 18, 2018, 20:47:42 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-a-tutto-blocco-188483

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Serbia: a tutto blocco

Centinaia di cittadini hanno deciso di bloccare la strade della Serbia per protestare contro l’aumento del prezzo del carburante. Il governo accusa l’opposizione di aver strumentalizzato i cittadini, in realtà è il malcontento il vero motore delle proteste

14/06/2018 -  Dragan Janjić   Belgrado
All’inizio di questa settimana, le autorità serbe hanno iniziato a intraprendere azioni per porre fine ai blocchi stradali organizzati in diverse città del paese in segno di protesta contro il prezzo troppo elevato della benzina. La polizia ha cominciato a sanzionare i proprietari dei veicoli che bloccavano il traffico, mentre i più alti funzionari statali, compreso il presidente serbo Aleksandar Vučić, hanno condannato duramente le proteste, annunciando il proseguimento degli interventi di polizia. Nel frattempo i media filogovernativi hanno avviato una campagna denigratoria contro i partecipanti alla protesta, accusandoli di bloccare la Serbia per ragioni politiche e di voler rovesciare il governo.

I blocchi stradali sono iniziati venerdì 8 giugno, quando molti cittadini hanno raccolto l’invito alla mobilitazione lanciato sui social network, e si sono conclusi martedì 12 giugno dopo i primi interventi delle forze di polizia. Gli esponenti del governo continuano a sostenere che dietro alle proteste vi sia l’opposizione, senza tuttavia fornire alcuna prova a sostegno di tale ipotesi, limitandosi a citare i tweet con cui alcuni leader dell’opposizione hanno espresso il loro appoggio ai manifestanti. Accusando l’opposizione, il governo sta cercando di dare all’intera vicenda una connotazione politica e di convincere l’opinione pubblica che la protesta non è motivata dal malcontento popolare bensì da intenzioni malevole degli oppositori al governo che agiscono contro gli interessi della Serbia.

Martedì 12 giugno il presidente Vučić ha dichiarato che le proteste non sarebbero durate ancora a lungo e che “la violenza non sarà tollerata”, aggiungendo che la responsabilità della situazione creatasi grava anche su di lui perché ha chiesto al governo serbo di non ostacolare lo svolgimento delle proteste. “Chi vi credete di essere per limitare la libertà di movimento?”, ha affermato il presidente Vučić, avvertendo che le competenti autorità statali avrebbero intrapreso tutte le misure previste dalla legge.

Oltre a non essere sostenute da alcuna prova concreta, le affermazioni secondo cui dietro alle proteste ci sarebbe l’opposizione non trovano riscontro negli attuali rapporti di forza sulla scena politica serba. Se l’opposizione fosse davvero capace di organizzare il blocco delle principali strade del paese, l’egemonia della coalizione di governo sarebbe seriamente minacciata. La verità è che la maggior parte dei partiti d’opposizione faticano a superare la soglia di sbarramento del 5%, non hanno accesso ai media mainstream, non dispongono di sufficienti risorse finanziarie per promuovere i loro programmi, e non hanno né la volontà politica né la capacità di dare vita a un’alleanza che sarebbe in grado di sfidare la leadership al potere.

L’opposizione serba non è sufficientemente forte né influente per poter difendere il diritto dei cittadini a manifestare il proprio dissenso, figuriamoci per organizzare proteste di massa. Se le cose stessero diversamente, ovvero se le recenti proteste fossero davvero organizzate da una forza politica seria, non si sarebbero esaurite in pochi giorni. Sarebbe una vera sorpresa se i blocchi stradali, di cui si parla ancora sui social network, guadagnassero nuovo slancio. E anche se ciò dovesse accadere, di certo non accadrà per volontà dell’opposizione bensì come conseguenza di un crescente malcontento dei cittadini.

Malcontento popolare
Lo slancio che ha caratterizzato la fase iniziale delle proteste dimostra che tra la popolazione, e soprattutto tra i membri della classe media, è diffuso un latente malcontento che può essere facilmente mobilitato. La polizia è riuscita a fermare le proteste, sanzionando i conducenti di veicoli che bloccavano la circolazione stradale, ma ciò non significa che il malcontento sia sparito. È emerso ancora una volta che le questioni sociali ed economiche sono il principale punto di debolezza dell’attuale governo, tenendo conto anche del fatto che la stabilità economica della Serbia dipende soprattutto dalle relazioni commerciali con l’Unione europea e con i paesi della regione.

La principale minaccia per la coalizione al governo non è quindi l’opposizione, bensì l’attuale situazione economica e sociale del paese. Essendone consapevoli, Vučić e i suoi più stretti collaboratori continuano ad annunciare l’aumento di stipendi e pensioni, parlando costantemente di crescita economica, bassa inflazione, grandi investimenti, tasso di disoccupazione ai minimi storici… Ciononostante, a volte capita che l’aumento dei prezzi susciti, del tutto inaspettatamente, forti reazioni tra i cittadini, come successo nel caso dell’aumento della benzina.

Negli ultimi anni alcuni movimenti civici, dimostratisi capaci di guidare e canalizzare il malcontento popolare, hanno organizzato numerose proteste di massa a Belgrado e in altre città della Serbia a cui hanno partecipato diverse migliaia di persone, ma non sono riusciti a contrastare seriamente il potere. Le iniziative civiche, come “Ne davimo Beograd” (“Non affondiamo Belgrado”), non sono riuscite a trasformarsi in organizzazioni serie, con obiettivi politici chiari e ben definiti. Essendo nati dalle rivolte spontanee dei cittadini, profondamente delusi dal comportamento dei partiti politici, questi movimenti non hanno cercato di unirsi in un unico fronte con l’opposizione, già debole e costantemente demonizzata dai media, perdendo col tempo l’energia e l’entusiasmo iniziale.

È chiaro, quindi, che la compagine di governo per ora non ha ragione di temere l’opposizione, che è ormai da anni demonizzata nel discorso pubblico e che, come si è visto, può essere facilmente screditata agli occhi dell’opinione pubblica. È altrettanto chiaro che i movimenti civici non sono ancora sufficientemente maturi da poter sfidare la leadership al potere. Tuttavia, il governo ha buoni motivi per temere che il malcontento popolare possa portare alla nascita di una nuova forza politica in grado di danneggiare seriamente la coalizione al governo, o che alcuni partiti dell’opposizione possano rivitalizzarsi e rafforzarsi.

Accise sui carburanti
In Serbia i prezzi della benzina sono tra i più alti della regione e le accise e altre tasse gravano notevolmente sul costo finale. Il segretario generale dell’Associazione delle compagnie petrolifere della Serbia Tomislav Mićović spiega che diverse imposte incidono per oltre il 54% sul costo della benzina e che negli ultimi due anni il governo non ha voluto prendere in considerazione la riduzione delle accise. La Serbia si colloca al sesto posto tra i paesi della regione per il prezzo al consumo della benzina, dopo Grecia, Croazia, Albania, Montenegro e Slovenia.

In Serbia, dallo scorso 3 gennaio, il prezzo della benzina al dettaglio è aumentato del 6.1% e quello del diesel del 7.5%.

All'inizio del mese di giugno un litro di benzina costava 1,240 euro e il diesel 1,316 euro.

Il presidente Vučić ha accusato i governi precedenti di aver introdotto troppe imposte sui carburanti, tuttavia i dati dimostrano che l’incremento delle accise ha subito un’accelerazione a partire dal 2016.

Stando alle parole di Mićović, la Serbia si colloca al secondo posto tra i paesi della regione per l’incidenza delle imposte sul prezzo della benzina, dopo la Croazia dove l’incidenza delle imposte si attesta al 56,55%, mentre ad esempio in Macedonia è pari al 46,14%. La Serbia è invece al primo posto per l’incidenza delle tasse sul prezzo al consumo del gasolio, attestata al 53,49% (in Macedonia l’incidenza è del 39,31%), e sul prezzo medio del GPL, pari al 49,10%, seguita dall’Ungheria (il 36,29%) e dalla Croazia (il 21,13%).

Tenendo conto di questi dati, c’è da aspettarsi che il governo serbo decida di ridurre le accise sui carburanti, almeno per una percentuale simbolica. Questa riduzione potrebbe innanzitutto riguardare il gasolio e altri carburanti agricoli, il cui costo incide sui prezzi dei prodotti alimentari. Riducendo i prezzi dei carburanti usati in agricoltura il governo eviterebbe il rischio che gli agricoltori comincino a protestare bloccando le strade. Un’eventuale riduzione delle accise potrebbe avvenire solo dopo la conclusione definitiva delle attuali proteste, perché il governo non vuole che le sue decisioni vengano interpretate come un cedimento alle pressioni. La riduzione probabilmente sarà irrisoria, ma basterà per placare temporaneamente il malcontento sociale.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 23, 2018, 12:59:57 pm
https://www.facebook.com/myrecorder/videos/1667931089989427/?hc_ref=ARSreecvrvqBHcNWDHOh8yVDs61VAy32MQTHMsYg2ONacgjRzh6NlYJyWamv4xwpbDM

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Baricadați în instituțiile de stat, demnitarii sunt tot mai puțin dispuși să asculte vocea protestatarilor. În stradă, furia crește cu fiecare amendament adoptat și cu fiecare gest de aroganță din partea celor care ar trebui să reprezinte poporul. La mijloc sunt jandarmii, bine înzestrați din bugetul public și hotărâți să nu mai tolereze nicio abatere. Ieri a fost o zi cu care România nu are niciun motiv să se mândrească și în care nicio tabără nu și-a mai păstrat luciditatea. Nu doar jandarmii au fost violenți, ci și protestatarii care au îmbrâncit un parlamentar în timp ce se îndrepta spre metrou.


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https://www.facebook.com/OriundeAmFiSuntemRomani/videos/218205335463769/?hc_ref=ARQF4aTJrOtg-n6V27QlESFEbfvwQB5LEuNpmH6FIMOcOwNXF6BxPy1cIX8evHQZH1k

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Mafia patronata de Liviu Dragnea!

Suntem romani oriunde am fi

Mafia patronata de Liviu Dragnea!
Urmariti cu atentie acest clip despre mafia patronata de Liviu Dragnea!
Dati share, se merita!

Parole di una mia conoscenza rumena, scritte altrove.

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I mafiosi sono diventati delle guardie del corpo nel parlamento! In che mondo viviamo?

Il solito italiano medio, affetto e afflitto da esterofilia cronica, ora risponderebbe:
<<Non è possibile, perché certe cose accadono solo in Italia>>

Sì, infatti.
...
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Giugno 23, 2018, 13:37:40 pm
Quindi parli rumeno :)
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 24, 2018, 11:19:09 am
Mi arrangio.
In particolar modo lo capisco.
Sai, le mie frequentazioni (femminili) passate.
E aggiungiamo pure gli operai rumeni con i quali ho avuto, ed ho a che fare, ormai da lustri.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 22, 2018, 16:28:04 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Croazia-calcio-e-politica-189152

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Croazia: calcio e politica

Un paese in trance, con i prelievi bancomat saliti in pochi giorni del 30%: è così che la Croazia ha seguito l'avventura della sua nazionale ai mondiali in Russia. Tra birre e i politici a sgomitare per arrampicarsi sul carro dei vincitori, dove però è salito il cantante ultranazionalista Thompson

20/07/2018 -  Giovanni Vale
Più di mezzo milione di persone sono scese in strada a Zagabria, lunedì 16 luglio, per festeggiare il ritorno della nazionale di calcio. I «Vatreni», gli undici ardenti con la maglietta a scacchi, hanno conquistato a Mosca una medaglia d’argento, il miglior risultato mai raggiunto dalla Croazia in una Coppa del Mondo. Sono tornati a casa da eroi, accolti dalla popolazione e celebrati dalla stampa, malgrado la sconfitta in finale contro la Francia (4–2). Una sconfitta prevista dai bookmakers ma che ha definitivamente spento il sogno di una rivincita dopo la semifinale persa nel 1998, sempre contro i francesi.

Un paese in trance
«Siete il nostro oro», «Avete perso una partita, ma avete conquistato il mondo». Sono questi i titoli con cui i quotidiani croati hanno presentato il rientro dalla Russia della nazionale di calcio. Durante tutta la coppa del Mondo, man mano che la Croazia incassava una vittoria dopo l’altra, uno stato di euforia ha invaso il paese, contagiando tutti, dai cittadini alle istituzioni e occupando gli spazi pubblici. Il centro di Zagabria ha visto più di 10mila persone riunirsi ogni sera sulla piazza Ban Jelačić per seguire in diretta le partite della nazionale, mentre le bandiere sporgevano dalle finestre e sventolavano dai finestrini delle auto.

Attorno ai maxi-schermo installati in tutte le corti interne, le viuzze e i parchi di Zagabria, si è sviluppata inoltre per giorni una fiorente economia, che ha fatto dimenticare ai croati i problemi della quotidianità. La banca austriaca Erste Bank ha registrato un aumento del 30% dei prelievi ai bancomat, il salumificio “Pik Vrnovec” ha venduto più di 9 milioni di ćevapčići, mentre fiumi di birra si sono riversati nei bar della capitale. Non era raro, poi, incontrare dei bambini con un taglio di capelli “a scacchiera”. Per 25 kune (3,50€ circa), infatti, i parrucchieri hanno colorato a quadratini bianchi e rossi i capelli dei giovani tifosi più convinti.

Quest’euforia è esplosa dopo ogni partita. Al fischio finale di Croazia-Inghilterra, Zagabria è stata scossa da ore di festeggiamenti. La stessa cosa, in misura maggiore, è successa al termine della finale con la Francia. Fumogeni, petardi, fuochi d’artificio, caroselli di auto in giro per il centro… i tifosi si sono abbandonati ai gesti più insoliti, salendo sui lampioni della luce e gettandosi nelle fontane. Veljko, uno zagabrese, ha persino modificato la sua macchina per infilarci all’interno due enormi spiedi ed uno strato di carboni ardenti: in pieno centro, ha cotto un maialino ed un agnello che ha distribuito a fine partita ai passanti.

La politica sul treno dei vincitori
Quest’entusiasmo generalizzato non ha lasciato indifferenti i politici. Fin dalle prime partite, la presidente Kolinda Grabar-Kitarović è volata in Russia per seguire le avventure della nazionale. La si è vista entrare negli spogliatoi subito dopo gli incontri, salutare ed abbracciare i giocatori. Si è presentata sempre con la maglietta della nazionale, anche quando sedeva a fianco dei suoi omologhi internazionali. L’esecutivo non è stato da meno. Se, inizialmente, il Primo ministro Andrej Plenković ha mantenuto un profilo più basso, dopo la vittoria con l’Inghilterra si è lasciato andare.

Il consiglio dei ministri, premier compreso, si è riunito con addosso la divisa della nazionale. Sull’onda dell’euforia, Plenković ha inoltre promesso maggiori investimenti nello sport e persino la costruzione di un nuovo stadio, capace di ospitare eventi di portata internazionale e che oggi manca in Croazia. Il suo comportamento, così come quello della capo di Stato, ha suscitato reazioni opposte sia nell’opinione pubblica che tra gli organi di stampa. I politici croati hanno approfittato dei successi della nazionale per guadagnarsi un po’ di popolarità o si è trattato di un sincero amor di patria?

In un momento in cui i sondaggi indicano  che in Croazia il politico più popolare è “nessuno”, appare evidente che sia la presidente che il premier hanno un problema di relazioni col pubblico. E non si tratta solo di una questione di immagine. Il prossimo anno, si terranno le elezioni presidenziali e Kolinda Grabar-Kitarović non è ancora stata confermata dal suo partito, l’Hdz, come futura candidata. Il Primo ministro, invece, è sostenuto da una maggioranza risicata in aula, ha recentemente dovuto sacrificare la sua vice-premier e ministra dell’Economia e deve costantemente tenere a bada l’ala più conservatrice del suo partito. Insomma, un po’ di popolarità non guasta.

Il ruolo del nazionalismo popolare
Sarebbe un errore, tuttavia, sostenere che gli unici aspetti politici da considerarsi, in relazione alla partecipazione della Croazia ai mondiali, siano quelli legati al comportamento del premier e della presidente. Ciò che ha fatto più di discutere in Croazia, infatti, è stata una scelta che non è dipesa né da Grabar-Kitarović, né da Plenković. Al ritorno dei calciatori da Mosca, il cantante ultra-nazionalista Marko Perković “Thompson” è stato invitato a salire sul bus dei giocatori, a sfilare con loro per ore nel centro cittadino e, infine, a cantare in una piazza Ban Jelačić gremitissima di gente.

Si capisce l’inopportunità del gesto solo se si considera brevemente il percorso e il profilo di Thompson. Il cantante, che deve il suo soprannome ad un tipo di mitra, si è visto vietare molti dei suoi concerti in Europa (in Olanda, Svizzera, Austria, Slovenia…) per il contenuto nazionalista delle sue canzoni. Basti pensare che una delle sue hit, “Bojna Čavoglave” (dedicata ad una battaglia durante la guerra d’indipendenza croata nel villaggio di origine di Thompson, Čavoglave), inizia con il saluto ustascia “Za dom spremni!”, usato dal regime di Ante Pavelić durante la Seconda guerra mondiale.

Perché allora associare in modo così marcato la squadra di calcio croata ad un cantante tanto controverso e nazionalista? Gli undici Vatreni non rappresentano forse tutta la Croazia? Oppure Thompson è così popolare da renderlo un simbolo del paese intero, al pari di Modrić, Mandžukić e Perišić? Una consultazione online realizzata dalla televisione regionale N1 rende difficile rispondere a questa domanda. “E’ stato giusto coinvolgere Thompson nelle celebrazioni dei Vatreni?”, chiede la tv, partner della CNN, ai suoi ascoltatori. Il pubblico si spacca letteralmente a metà. Alla mezzanotte di mercoledì sera, il 53% degli oltre 12mila votanti dice “sì, lui è un grande patriota e i Vatreni lo amano”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 28, 2018, 16:20:20 pm
http://www.eastjournal.net/archives/91424

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ARMENIA: Il rapporto tra donne e politica nell’era Pashinyan
Emanuele Cassano  5 giorni fa

L’avvocato Diana Gasparyan è stata recentemente nominata sindaco di Echmiadzin, cittadina situata nella provincia di Armavir, alle porte di Yerevan, nota soprattutto per essere il centro spirituale della Chiesa apostolica armena, in quanto sede del quartier generale del Catholicos e della cattedrale più antica del paese, fatta costruire da Gregorio l’Illuminatore nel IV secolo.

L’ex funzionaria del Ministero della Giustizia ha preso il posto di Karen Grigoryan, dimessosi lo scorso giugno dopo che il padre Manvel, deputato in parlamento tra le fila del Partito Repubblicano ed ex vice-ministro della Difesa, è stato arrestato dai Servizi di Sicurezza Nazionali per possesso illegale di armi da fuoco. Il nuovo sindaco guiderà Echmiadzin per i prossimi tre mesi, dopodiché si terranno nuove elezioni.

La nomina di Gasparyan costituisce un primato per la giovane repubblica: si tratta infatti del primo sindaco donna della storia dell’Armenia; paese dove fino ad ora alle donne era sempre stata preclusa la possibilità di ambire a ruoli di vertice in politicanti, in quanto figlie di una società fortemente stereotipizzata che le vedrebbe inadatte a ricoprire incarichi di comando. Eppure, negli ultimi anni il numero delle donne che scelgono di dedicarsi alla vita politica o alle questioni sociali appare in continua crescita, come testimonia il progressivo aumento dell’attivismo femminile a livello nazionale.

Tali attiviste hanno salutato con entusiasmo la recente salita al potere di Nikol Pashinyan, leader delle proteste di piazza che lo scorso aprile hanno portato alle dimissioni del primo ministro ed ex presidente Serzh Sargsyan, nelle quali proprio le donne hanno avuto un ruolo attivo, mosse da quella stessa voglia di cambiamento tanto cara al leader di Yelk.

Cambiamento che per le donne armene significa soprattutto modifica dei ruoli di genere e acquisizione di maggiori diritti, così come di una maggiore tutela e considerazione a livello sociale; obiettivi la cui realizzazione dovrà passare anche dall’ottenimento di una più larga rappresentanza a livello politico.

Abbiamo discusso di questi temi con Mary Matosyan, direttrice esecutiva del Centro di Supporto per le Donne di Yerevan:

Cosa rappresenta per un paese come l’Armenia, dove politica e società sono fortemente dominate dagli uomini, la nomina del primo sindaco donna? È stato dato un segnale di cambiamento?

Nelle ultime settimane sempre più donne sono state scelte per ricoprire incarichi governativi e non solo. Per esempio molti dei vice-ministri recentemente nominati sono donne; il nuovo Comandante dell’Aviazione è una donna, così come un certo numero di consiglieri. Inoltre la stessa first lady ha appena rilasciato dichiarazioni molto positive, promettendo di lavorare per la promozione dei diritti delle donne e per il loro empowerment. Ultimamente si sta parlando anche della nomina di una donna come sindaco di Yerevan. Tutti questi cambiamenti sono importanti poiché inviano il messaggio giusto alle donne armene, contribuendo a creare nuovi ruoli di genere e aprire un nuovo dibattito nel paese.

Qual è stato il ruolo delle donne nel movimento di protesta che ha recentemente portato il leader di Yelk Nikol Pashinyan dalla piazza alla guida del paese?

Il ruolo delle donne è stato abbastanza importante, sia prima che durante la rivoluzione. In Armenia, le donne sono sempre state in prima linea nei movimenti sociali. Su questo argomento sono stati scritti diversi articoli, ed è stato proprio grazie alla loro presenza e alla loro pressione se ora abbiamo sempre più nomine femminili per i ruoli di governo.

All’interno del nuovo governo Pashinyan su un totale di diciassette ministeri solo due sono guidati da donne; percentuale che riflette la composizione dell’attuale Parlamento, eletto, tuttavia, quando il “vecchio ordine” era ancora al potere. Vi aspettavate di più, in questo senso, dalla cosiddetta “Rivoluzione di Velluto”?

Sì, per noi è stata un’enorme delusione, tanto che sui social media Pashinyan ha ricevuto fin da subito severe critiche per questa decisione. Credo che sia stata proprio questa grande rabbia e reazione da parte della comunità femminile ad aver spinto la nuova leadership a decidere di assegnare alle donne un maggior numero di posizioni governative.

Cosa dobbiamo aspettarci dal prossimo futuro? Saremo in grado di vedere delle donne raggiungere ruoli di primo piano all’interno della politica e della società armena?

In questo momento il governo sta discutendo il Codice elettorale, e noi attiviste stiamo facendo forti pressioni per introdurre nuove quote rosa superiori al 25%. Stiamo incontrando molta resistenza, ma continuiamo a insistere, sperando in seguito alle prossime elezioni di vedere più donne in parlamento; e ci aspettiamo non solo maggiori nomine, ma anche nuove leggi e misure governative in favore dei diritti delle donne.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 07, 2018, 01:19:30 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Macedonia/Invisibili-le-donne-albanesi-nella-politica-macedone-188811

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Invisibili: le donne albanesi nella politica macedone
aree   Macedonia ita

Nessuna donna è mai stata a capo di nessun partito albanese in Macedonia e non è andato meglio per le colleghe della comunità macedone, sono infatti solo due i casi in cui una donna ha guidato un partito

05/07/2018 -  Lumi Bekiri
(Originariamente pubblicato da Kosovo 2.0  )

Sin dalla sua indipendenza dalla Jugoslavia, 27 anni fa, in Macedonia vi sono stati 12 governi e solo 18 donne ministro. Solo due di queste erano albanesi: Merie Rushani, del Partito democratico degli albanesi (DPA) come ministro per la Scienza (1998-2002) e Teuta Arifi dell'Unione democratica per l'integrazione (DUI), che è stata vice-primo ministro per gli Affari europei (2011-13).

Attualmente, nel parlamento macedone, che ha 120 poltrone, solo cinque sono occupate da donne albanesi, due del DUI e rispettivamente una a testa dei socialdemocratici (SDSM), del movimento Besa e del DPA.

Una situazione simile la troviamo a livello locale dove delle 80 municipalità macedoni solo sei sono governate da sindaci donna, due albanesi: la sindaca di Tetovo, Teuta Arifi e la sindaca di Aracinovo, Milikije Halimi.

Ciononostante, l'11,5% dell'intera popolazione della Macedonia è composto da donne albanesi.

Anche quando sono al potere le donne albanesi tendono a rimanere in secondo piano nei processi di decisione politica per evitare di entrare in rotta di collisione con i propri partiti politici di appartenenza, anche quando si discute di tematiche che riguardano in particolare le donne.

Uno di questi casi riguarda la Legge sull'aborto del 2013, una legge che restringe la libertà di scelta delle donne e votata senza alcuna discussione dalle donne albanesi che erano in parlamento in rappresentanza del DUI.

Machocrazia nei Balcani
Dal 2012 la Macedonia ha una nuova legge su “Pari opportunità per donne e uomini” che garantisce un'equa partecipazione di donne e uomini nella sfera pubblica e politica. La legge prevede anche una percentuale del 40% garantita a candidate donne per le elezioni locali e parlamentari.

La legge dovrebbe assicurare pari opportunità nel partecipare al processo elettorale. Ma nella realtà non funziona così.

La maggior parte delle candidate viene messa in fondo alle liste elettorali e questo abbassa la possibilità che loro vengano elette in parlamento o nei consigli comunali. Questa è una pratica diffusa in particolare tra i partiti politici che rappresentano la comunità albanese.

Karolina Ristova-Aasterud è professoressa presso la Facoltà di Legge Iustinianus Primus presso l'Università Ss. Cirillo e Metodio di Skopje ed è una teorica del femminismo. Ritiene che i partiti albanesi in Macedonia siano uno degli esempi più estremi di quello che lei chiama la “machocrazia dei Balcani”.

“Dei veri campioni, ve lo assicuro” dice “non hanno di fatto alcuna politica sui diritti individuali e collettivi delle donne o politiche che riguardino gli interessi o i problemi delle donne in generale, e nemmeno nello specifico delle donne albanesi”.

Aggiunge che le donne albanesi in Macedonia hanno parte della responsabilità per questa situazione, standosene in silenzio senza opporre alcuna resistenza quando si tratta di questioni che le riguardano. “Questo va mano nella mano con l'ancora esiguo numero di donne attive nei partiti politici, e quindi parte del problema è proprio lì. Devono lottare per loro stesse in modo più aggressivo e più apertamente, in modo che la loro voce critica e il voto che raccolgono cambi le cose”.

Democratizzare i partiti
Anita Latifi, è una manager del marketing del Teatro albanese di Skopje ed è un'attivista per i diritti umani. Ritiene che le donne albanesi, in Macedonia, non abbiano le stesse opportunità in politica dei propri colleghi maschi aggiungendo che a suo avviso i partiti politici non hanno alcuna intenzione di intaccare quest'ineguaglianza.

“Una vera ed adeguata inclusione delle donne può avvenire solamente attraverso una piena democratizzazione dei soggetti politici. Sino a quando questo non avviene, le donne continueranno ad essere il 'male necessario' o solo un numero con cui adempiere alla normativa”, afferma Latifi.

La situazione non è molto migliore per quanto riguarda le donne in generale e la politica macedone, anche se rappresentano circa la metà della popolazione. Non vi è mai stata una donna ad occupare le principali tre cariche del paese: presidente, primo ministro o presidente del parlamento.

L'unica donna che ha osato tentare la corsa alla presidenza del paese è stata l'intellettuale albanese Mirushe Hoxha, che si è presentata per il DPA alle elezioni del 2009. È finita al settimo posto.

Nessuna donna è mai stata a capo di nessun partito albanese nel paese e non è andato meglio per le colleghe della comunità macedone. Lì è accaduto due volte: Radmila Sekerinska è stata a capo dell'SDSM tra il 2006 e il 2008 e Liljana Popovska, attualmente leader del partito di matrice verde Rinnovamento democratico.

Vlora Rechica, scienziata politica e attivista femminista sottolinea che la società albanese in Macedonia è conservatrice e non molto aperta: “La luce in fondo al tunnel è rappresentata dal fatto che non ci si impegna in politica solo attraverso i partiti politici e che le donne albanesi cercano altri modi per essere socialmente attive e trovano altri metodi per prendere parte al miglioramento dei problemi sociali”.

Albanesi e macedoni
Ristova-Aasterud chiarisce che sia le donne della comunità albanese che di quella macedone sono nella stessa posizione per quanto riguarda la loro posizione sociale, nella matrice del patriarcato balcanico ma che, comunque, vi sono anche delle differenze significative.

“Il processo d'emancipazione femminile all'interno della comunità etnica albanese è ancora molto lento, in parte anche perché lo stato macedone non l'ha affrontato da un lungo periodo, non avendo il coraggio o l'interesse – o entrambi - di affrontarlo”, spiega.

Ma, argomenta la Ristova-Aasterud, vi sono fardelli molto rilevanti da ritrovarsi sotto l'ombrello della cultura, della moralità, della religione e un gran numero di donne albanesi sono sotto il loro peso.

“Sono fattori che andrebbero affrontati in modo onesto e coraggioso e dovrebbero essere riformati all'interno della stesa comunità albanese, se vogliamo vedere progressi che siano genuini”, afferma la Ristova-Aasterud. “Non riguarda solo l'educazione, l'occupazione o l'emancipazione economica di queste donne. Ma riguarda anche il loro ruolo nelle relazioni, nel matrimonio, nella famiglia, riguarda anche la sessualità maschio-femmina e l'idea stessa di femminilità”.

Kristina Lelovac, attrice e attivista di Tiiiit! Inc  , un'organizzazione femminista della Macedonia, crede che le più grandi regressioni in termini di diritti delle donne in Macedonia siano avvenute negli scorsi 11 anni mentre Nikola Gruevski e il suo partito, VMRO-DPME governavano il paese. Lelovac dice che durante questo periodo le donne erano viste esclusivamente come casalinghe e madri. Non vede dei grandi cambiamenti rispetto al governo presente.

“Il governo della destra conservatrice precedente è la principale causa del degrado dell'immagine della donna in Macedonia”, dice Lelovac. “Tutti i benefici riguardanti l'uguaglianza di genere che abbiamo ereditato dal socialismo, sono stati rimossi dalla sfera pubblica. La più grande sfida per le donne albanesi che vogliono partecipare direttamente alla vita politica, consiste nel vincere la loro partecipazione politica 'decorativa'. I numeri sono importanti per garantire la partecipazione, ma la partecipazione sostanziale è ciò che conta davvero”.

Una società veramente conservatrice
L'attivista Latifi crede che la Macedonia sia una società veramente conservatrice e che le donne albanesi abbiano a che fare con stereotipi che vedono la donna ancora legata alla sfera privata, alla cura della casa e dei bambini, non può avere un ruolo nella vita pubblica né nelle decisioni riguardanti gli interessi di tutta la nazione, cosa che è compito degli uomini.

“Puoi notare facilmente che quando una donna parla, le persone tendono sempre a non essere d'accordo con quello che dice. Non si parla delle sue opinioni ma di lei”, racconta Latifi. “Le critiche alla vita pubblica variano moltissimo a seconda che si tratti di critiche rivolte a uomini o a donne”. Ristova-Aasterud crede che si tratti di una mancanza di forza d'animo e di coraggio intellettuale che impedisce di gestire o anche solo di parlare di questi temi. Questa è la principale ragione per cui le politiche albanesi rimangono in silenzio.

“Si può anche parlare di una sindrome per cui le donne sarebbero anche fiere del loro status di 'persone speciali' in un campo di gioco dominato completamente da uomini”, continua Ristova, aggiungendo che parlare di donne albanesi continua a sembrare un tabù.

“Credo che i media debbano fare la loro parte nel cambiare questo approccio”. Nel paese in cui Ibe Palikuca, una partigiana antifascista albanese che ha sacrificato la sua vita a soli 17 anni nel nome degli ideali in cui credeva, le donne albanesi adesso rimangono in silenzio. Il cambiamento è possibile. Karolina Ristova-Aasterud sostiene che ci siano stati grandi sviluppi a partire dal 2000 in termini legislativi e politici, il passo successivo dovrà essere l'implementazione.

“Il processo è ormai iniziato e voglio credere che le generazioni più giovani approfitteranno di questo vantaggio. Molte delle mie alunne sono donne albanesi forti ed eccezionali, ti mangerebbero viva. Spero che questo possa dire molto a proposito del loro futuro”, conclude la professoressa.
...
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Agosto 07, 2018, 02:22:55 am
A quel che ne so le albanesi sono piuttosto cozze* quindi non abbiamo alcuna ragione di avere a che fare con loro.

* Sempre meglio le montenegrine comunque.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 08, 2018, 00:47:13 am
A quel che ne so le albanesi sono piuttosto cozze* quindi non abbiamo alcuna ragione di avere a che fare con loro.

* Sempre meglio le montenegrine comunque.

Ma infatti non ho mica postato quell' articolo per invitare implicitamente chi legge a farsi piacere le albanesi...
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 10, 2018, 00:35:57 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-la-finta-guerra-alla-mafia-189613

Citazione
Serbia: la finta guerra alla mafia

Da quando i vertici dello stato hanno dichiarato di voler combattere la criminalità organizzata, in Serbia sono stati commessi 37 omicidi a sfondo mafioso e il numero di morti è in costante aumento

09/08/2018 -  Stevan Dojčinović   Belgrado
(Originariamente pubblicato dal portale investigativo Krik  , il 2 agosto 2018)

Da quando, sul finire del 2016, lo stato ha dichiarato guerra alla mafia, gli scontri tra gruppi criminali sono diventati sempre più frequenti e brutali, comportando anche la morte di persone innocenti. La guerra alla mafia è stata dichiarata a seguito dell’omicidio di Aleksandar Stanković, soprannominato Sale Mutavi, leader di un gruppo criminale che – come è emerso dopo la sua morte – ha stretti legami con il potere politico.

I dati dimostrano che questa guerra finora non ha prodotto alcun risultato. I gruppi criminali non sono stati indeboliti, e gli scontri tra di essi hanno subito un’escalation. Da quando i vertici dello stato hanno dichiarato di voler combattere la criminalità organizzata, in Serbia sono stati commessi 37 omicidi a sfondo mafioso, e il numero di morti è in costante aumento. Solo nell’ultimo mese sono state uccise sei persone (il database degli omicidi di mafia è consultabile qui  ). Gli omicidi commessi da gruppi criminali raramente vengono risolti.

Gli scontri tra clan mafiosi diventano sempre più brutali, e ad esserne vittime sono spesso le persone non direttamente coinvolte nell’attività criminale, come dimostra l'omicidio dell'avvocato Dragoslav Ognjanović  , che ha difeso, tra gli altri, Luka Bojović, ex leader del clan di Zemun [attualmente detenuto in Spagna]. Negli ambienti criminali, l’omicidio di un avvocato non è considerato un delitto qualunque, bensì una trasgressione dei limiti. L’omicidio di Ognjanović è solo uno dei tanti casi  di omicidi di avvocati verificatisi in Serbia negli ultimi anni. Oltre agli avvocati, anche i familiari dei criminali spesso rimangono vittime degli scontri tra clan rivali, come dimostra il caso di Teodora Kaćanski, fidanzata di un criminale di Novi Sad, uccisa qualche anno fa.

Capita che rimangano feriti e uccisi anche dei semplici passanti trovatisi per caso sul luogo dello scontro. In altre parole, nessuno è più al sicuro, chiunque può essere vittima di uno scontro tra gruppi criminali nel centro di Belgrado, o in qualsiasi altra città della Serbia. Non bisogna dimenticare che tra i criminali uccisi ci sono molti giovani, ragazzi addentratisi ingenuamente nel mondo della malavita. Non si tratta di “criminali qualsiasi”, bensì dei ragazzi del nostro vicinato. È chiaro quindi che la situazione è allarmante e che chiunque può rimanere vittima degli scontri tra gruppi mafiosi che già hanno portato via fin troppe vite: dal 2012 in Serbia sono state uccise 87 persone e in Montenegro 44.

La risposta dello stato a questa situazione consiste nel negare l’esistenza del problema. Mentre si stanno moltiplicando i morti nelle automobili date alle fiamme, davanti ai ristoranti, nei garage, davanti ai palazzi residenziali, il presidente serbo Aleksandar Vučić continua a manipolare i dati  sulla criminalità organizzata, sforzandosi di convincere l’opinione pubblica che non c’è nessun motivo di preoccuparsi.

Così, ad esempio, cerca di smentire l’aumento di omicidi a sfondo mafioso citando statistiche sul numero complessivo degli omicidi commessi in Serbia (tra i quali ci sono molti omicidi in famiglia), oppure fa paragoni tra la situazione attuale e il periodo tra il 2001 e il 2002, dicendo che in quegli anni la situazione era peggiore. Il che è vero: erano anni in cui il clan di Zemun assassinava a sangue freddo i membri dei clan rivali, cercando di conquistare il sottobosco criminale serbo, e Vučić di certo ne sa qualcosa dato che all’epoca era uno dei più stretti collaboratori di Vojislav Šešelj, che intratteneva stretti rapporti con questo famigerato gruppo criminale. Il clan di Zemun è stato messo in ginocchio nel 2003 durante l’operazione “Sablja” (Sciabola), e quell’anno va considerato l’anno zero. Se volessimo paragonare l’attuale stato di cose con il periodo immediatamente successivo al 2003, dovremmo ammettere che oggi la situazione è peggiore. Quello che preoccupa è proprio il fatto che la situazione attuale sia molto simile a quella che ha caratterizzato il periodo precedente all’operazione “Sablja”.

Ci sono alcune questioni che impediscono allo stato di confrontarsi effettivamente con il fenomeno della criminalità organizzata.

Il primo problema è di carattere generale: in Serbia persiste la tendenza a piazzare nelle posizioni chiave delle istituzioni, comprese la polizia e la procura, persone che sono mere pedine al servizio del partito al governo, invece di affidare questi incarichi a professionisti. Si apprezza la lealtà piuttosto che la competenza. È chiaro che la lotta alla mafia non può essere vinta se affidata alle istituzioni guidate da persone incompetenti.

Un altro problema, ancora più preoccupante, è che lo stato, a quanto pare, appoggia almeno uno dei gruppi criminali coinvolti nello scontro attualmente in corso. Ci sono diverse prove che dimostrano che la leadership al potere intrattiene stretti legami con il gruppo del sopracitato Aleksandar Stanković. In parole povere, lo scontro principale è tra due clan montenegrini, il clan di Škaljari e il clan di Kavač, che hanno i loro alleati in Serbia. Il gruppo di Luka Bojović  è vicino al clan di Škaljari, mentre il gruppo di Sale Mutavi è legato al clan di Kavač.

Uno dei membri del gruppo di Sale Mutavi è stato impegnato a garantire la sicurezza dei sostenitori di Vučić durante la sua cerimonia di insediamento da presidente della Repubblica, mentre il figlio di Vučić è stato visto al campionato di calcio in Russia in compagnia di alcuni membri dello stesso gruppo criminale  . Questo gruppo gode del sostegno di uno dei più potenti uomini della gendarmeria serba Nenad Vučković Vučko  , il quale intrattiene stretti rapporti con il segretario di stato presso il ministero dell’Interno Dijana Hrkalović.

I leader di questo gruppo criminale, che si cela dietro al paravento del gruppo di ultras “Janjičari”, riescono quasi sempre a evitare la condanna per i delitti commessi, omicidi compresi. Le accuse contro di loro cadono per motivi poco chiari, e anche quando vengono condannati non scontano nemmeno un giorno di carcere  per via delle “cattive condizioni di salute”. È chiaro che godono di un trattamento privilegiato: possono vendere droga o commettere omicidi senza temere alcuna conseguenza.

In queste circostanze, è impossibile combattere la criminalità organizzata, perché lo stato e la mafia sono strettamente interconnessi.

Al fine di creare i presupposti per una vera lotta alla criminalità organizzata lo stato deve innanzitutto ammettere che il problema esiste. Invece di mascherare il reale stato delle cose e di nasconderlo dietro a statistiche e a paragoni insensati, lo stato deve dichiarare che la guerra tra gruppi criminali rappresenta una delle principali minacce per il paese che mette a repentaglio la sicurezza nazionale; deve ammettere la propria inefficacia nell’affrontare la situazione e promettere all’opinione pubblica una pronta risoluzione del problema.

È importante, inoltre, che vengano destituiti coloro che avrebbero dovuto occuparsi di questo problema, ma si sono dimostrati incapaci di farlo. Tanto per cominciare, bisognerebbe fare un repulisti tra le fila della polizia, compresa la destituzione del ministro dell’Interno Nebojša Stefanović, nonché la rimozione di una serie di funzionari, tra cui il segretario di stato Dijana Hrkalović, il gendarme Vučković, il direttore della polizia Vladimir Rebić e il capo della polizia di Belgrado Veselin Milić (Milić è stato nel frattempo destituito e assegnato ad un altro incarico). Al loro posto devono venire persone competenti e professionali, che non hanno nessun legame con i gruppi criminali né con i politici.

Inoltre, bisogna rompere tutti i legami tra lo stato e la criminalità organizzata, compreso il gruppo che protegge il presidente. Lo stato che collabora con i criminali non può al contempo combattere la mafia. Sarebbe opportuno destituire anche quei ministri che in passato hanno intrattenuto stretti rapporti con la criminalità organizzata, come il ministro della Salute Zlatibor Lončar  e il ministro degli Esteri Ivica Dačić , per evitare che venga messa in discussione la credibilità dello stato nella lotta alla mafia.

Un altro passo da intraprendere è il miglioramento della cooperazione con le autorità di altri paesi, soprattutto con quelle dei paesi del sud-est Europa. In teoria, le forze di polizia dei paesi della regione collaborano tra di loro, ma in pratica questa collaborazione non funziona: non c’è alcuno scambio di informazioni a causa della reciproca sfiducia. E questo è dovuto proprio al fatto che i criminali mantengono stretti rapporti con i funzionari statali. Le autorità di un paese non trasmettono le informazioni ai loro colleghi di altri paesi perché temono che potrebbero finire nelle mani dei criminali. Tuttavia, non può esserci una vera lotta alla mafia senza cooperazione internazionale perché la criminalità non conosce frontiere. I gruppi criminali, compresi quelli attivi nel nostro paese, operano a livello internazionale: gli stupefacenti vengono contrabbandati dall’America Latina verso l’Europa; il denaro proveniente da attività illecite viene riciclato in vari paesi; un omicidio può essere organizzato in un paese ed eseguito in un altro.

Pertanto è indispensabile affidare gli incarichi chiave all’interno della polizia e della procura a persone “pulite” e integre, in grado di intraprendere una vera lotta contro la mafia, nella quale avranno bisogno di aiuto dei colleghi di altri paesi.

Ed è solo l’inizio.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 10, 2018, 00:39:31 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Armenia/Armenia-come-combattere-la-disoccupazione-nelle-aree-rurali-189575

Citazione
Armenia: come combattere la disoccupazione nelle aree rurali

Secondo i dati dell’Agenzia nazionale del lavoro, in Armenia ci sono oltre 82mila di disoccupati. Il numero di disoccupati nelle aree rurali rappresenta il 18,3% del totale, segnando un incremento del 2,66% rispetto all’anno scorso

08/08/2018 -  Armine Avetisyan   Yerevan
Gayane Sargsyan, abitante del villaggio di Aygek, nella regione di Armavir, svolge ormai da dieci anni lavori stagionali nel settore dell’agricoltura. Il suo anno lavorativo dura dall’inizio della primavera fino alla metà dell’autunno.

“Non appena inizia la stagione dei raccolti, comincio a lavorare. Vengo impiegata nella raccolta di diversi tipi di colture: fagioli, fragole, albicocche… Il mio anno lavorativo inizia con la raccolta dei fagioli, poi raccolgo vari tipi di verdura e di frutta, compresi i frutti di bosco. Non è un lavoro facile, ma non ho nessuna alternativa. È molto difficile trovare lavoro nel villaggio. Se non avessi questi impieghi stagionali, sarei senza alcun reddito”, dice Gayane.

La sua giornata lavorativa dura otto ore, durante le quali ha diritto a una pausa. Guadagna 5000 dram (circa 9 euro) al giorno.

“Il mio datore di lavoro e io di solito raggiungiamo un accordo verbale, senza firmare alcun contratto di lavoro, e finora non ci sono mai stati problemi. Lavoro per la stessa persona ormai da anni. Mi ha sempre pagato regolarmente e io svolgo il mio lavoro in modo responsabile”, spiega Gayane, aggiungendo che col suo lavoro provvede al sostentamento dell’intera famiglia, composta da cinque persone.

“Nei villaggi è molto difficile trovare un altro lavoro, oltre a quello stagionale. Molti abitanti delle zone rurali, soprattutto gli uomini, vanno a lavorare all’estero. Le donne che restano nei villaggi non hanno molta scelta: possono stare a casa o trovare un lavoro stagionale, oppure eventualmente avviare un’attività in proprio, ma questo è molto difficile. Conosco davvero poche donne che ci sono riuscite (imprenditrici di successo)”, dice Gayane.

Stimolare lo spirito di iniziativa
La trentenne Hripsime Petrosyan vive nel villaggio di Krashen, nella regione di Shirak. Era considerata una ragazza molto timida fino a quando, tre anni fa, non aveva intrapreso un’attività che, oltre a permetterle di mantenersi, porta benefici anche agli altri abitanti del villaggio.

“Circa 6 anni fa avevo partecipato a un corso di formazione organizzato nel nostro villaggio dall’ong Women for Development, dopodiché avevo deciso di frequentare un altro corso, cominciando a uscire fuori dal villaggio e a impegnarmi in vari progetti. Pian piano le mie vedute sono cambiate, e di conseguenza anche la mia vita”, spiega Hripsime. Grazie alla partecipazione a diversi progetti, Hripsime ha ottenuto un contributo di 2 milioni di dram (circa 3600 euro) nell’ambito di un programma promosso dalla Fondazione KASA, decidendo di utilizzarlo per acquistare un trattore.

“Il programma prevedeva che i finanziamenti erogati venissero utilizzati a vantaggio dell’intera comunità. E io ho deciso di comprare un trattore. Molti abitanti del villaggio se ne sono rallegrati, perché prima facevano tutti i lavori agricoli a mano, e il trattore per loro era una vera salvezza. Anch’io ero felice per il fatto di essere riuscita a procurarmi un lavoro. A dire il vero, all’inizio non mi sentivo del tutto a mio agio alla guida del trattore, perché in Armenia, che è ancora un paese molto tradizionale, è opinione diffusa che il posto di una donna sia in cucina. Ma ora non riesco a immaginarmi senza il trattore”, dice Hripsime.

Il fatto che Hripsime abbia deciso di guidare il trattore non ha sorpreso molto gli abitanti del villaggio, perché già da tempo guidava un fuoristrada UAZ. “Quando ho cominciato a guidare la macchina di mio papà molti nel villaggio mi guardavano strano, perché era una cosa insolita. Ma poi pian piano si sono abituati e quando mi sono seduta al volante del trattore hanno solo sorriso”, ricorda Hripsime, che con il suo trattore fornisce servizi anche agli agricoltori dei villaggi circostanti.

Hripsime dice di essere contenta della sua vita attuale. Ha un lavoro che le garantisce un reddito fisso, cosa che prima poteva solo sognare.

“Con i soldi che avevo risparmiato ho finanziato la costruzione di un campo da gioco nel nostro villaggio. Lo sognavo fin da quando ero bambina. Anche i miei compaesani auspicavano la creazione di un campo da gioco. Adesso i bambini del nostro villaggio giocano in quel campo, e un domani ci giocherà anche mio figlio”, dice Hripsime, che non è ancora sposata, ma desidera creare una famiglia e avere un figlio.

Oltre a guidare il trattore, Hripsime è anche impegnata in diverse attività sociali. “Le donne del nostro villaggio sono molto passive. Cerco di coinvolgerle in varie attività, ma anche di portare altri progetti nel villaggio, che ci permetterebbero di creare nuovi posti di lavoro e di condurre una vita attiva. La vita nei villaggi è molto triste. Dobbiamo aggiungere un po’ di colore alle nostre vite, ma dobbiamo anche crearci nuove opportunità di lavoro”, dice Hripsime. Aggiunge inoltre che bisogna rompere lo stereotipo secondo cui le donne che vivono nei villaggi devono occuparsi solo della casa e della famiglia.

La disoccupazione come fattore di spinta all’emigrazione
La mancanza di opportunità di lavoro nelle aree rurali spinge all’emigrazione. Molti giovani uomini decidono di recarsi all’estero in cerca di lavoro. Non esistono dati certi sul numero di cittadini armeni che lavorano all’estero, ma durante certi periodi dell’anno alcune zone rurali dell’Armenia praticamente si svuotano di giovani uomini.

“Nel nostro villaggio non c’è nessun lavoro. Ogni anno, a gennaio, mio marito va all’estero a lavorare e torna a dicembre. Quindi, praticamente lo vedo un mese all’anno”, dice Rima, abitante di un villaggio situato nella regione di Gegharkunik.

Ad essere maggiormente colpite dal fenomeno dell’emigrazione sono le regioni di Shirak, Lori, Gegharkunik e Kotayk. “Ho sempre sognato che mi sarei svegliata una mattina, avrei portato i figli a scuola, dopodiché sarei andata al lavoro. E poi la sera, durante la cena, i figli ci avrebbero raccontato com’è andata a scuola e io avrei raccontato la mia giornata di lavoro. Ma quello è rimasto solo un sogno. Nella zona in cui si trova il nostro villaggio non c’è nemmeno una piccola fabbrica dove potrei trovare un impiego”, dice Rima.

Rima vorrebbe trasferirsi a Yerevan con la famiglia. Dice di averne già parlato con suo marito e lui è d’accordo.

“Invece di andare a lavorare a Mosca, mio marito lavorerà a Yerevan. Prima era molto difficile trovare un impiego nella capitale, bisognava corrompere qualcuno o avere buone conoscenze. Ma recentemente c’è stato il cambio di potere e penso che ora riusciremo a trovare lavoro”, dice Rima.

Interventi istituzionali
La disoccupazione è una delle principali preoccupazioni del governo armeno, che negli ultimi anni ha implementato una serie di interventi volti a combattere questo problema, tra cui il progetto “Dare sostegno all’agricoltura attraverso la promozione del lavoro stagionale”.

Inoltre, con l’appoggio di alcune organizzazioni internazionali, è stato avviato un programma volto a favorire lo sviluppo di piccole imprese in diverse regioni del paese, che dovrebbe contribuire ad arginare il fenomeno della disoccupazione.

Dopo il cambio di potere, avvenuto nella primavera 2018, la questione della disoccupazione è stata affrontata nel programma del nuovo governo, nel quale viene precisato: “La rivoluzione di velluto, popolare e nonviolenta, avvenuta in Armenia tra aprile e maggio 2018, ha portato alla ripresa degli investimenti e al miglioramento delle prospettive di crescita economica. Il governo intende investire nelle regioni e incoraggiare gli investimenti volti a creare nuovi posti di lavoro”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 11, 2018, 11:43:06 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Grecia/Grecia-dopo-il-fuoco-si-abbattono-le-costruzioni-abusive


Citazione
Grecia, dopo il fuoco si abbattono le costruzioni abusive
8 agosto 2018


Tremila e duecento costruzioni abusive verranno abbattute con una procedura d'emergenza solo nella regione dell'Attica. Il governo greco, guidato dalla sinistra radicale di Alexis Tsipras ha così annunciato le prime misure dopo i devastanti incendi dello scorso 23 luglio, che hanno provocato la morte di 91 persone e centinaia di feriti.

Alla base del provvedimento c'è il tentativo di mettere in sicurezza un territorio segnato da diffuso abusivismo, figlio di corruzione e burocrazia inefficiente, che è stato tollerato in Grecia per decenni, per essere poi spesso “legalizzato” da parte delle autorità attraverso sanatorie, che secondo i critici hanno assicurato consenso politico alle élite di governo a scapito della sicurezza.



Leggi tutto su Grecia

Nelle aree costiere, come a Mati, il centro più colpito dalle fiamme, molto spesso le costruzioni illegali hanno di fatto ostruito l'accesso al mare, nonostante gli espliciti divieti.

“Il caos dell'abusivismo non può più essere tollerato”, ha dichiarato Tsipras, il cui esecutivo è sotto il fuoco incrociato dell'opposizione, che accusa il governo di aver dato una risposta del tutto inadeguata alla situazione di emergenza.

Venerdì scorso Nikos Toskas, ministro per l'Ordine pubblico e la Protezione civile, ha rassegnato le dimissioni, pur rigettando le accuse rivolte nei suoi confronti. Nei giorni seguenti i capi di polizia e vigili del fuoco sono stati rimossi, mentre il direttore della protezione civile ha rassegnato le proprie dimissioni lunedì.

Lo stesso Tsipras ha però rispedito al mittente la responsabilità di quanto accaduto, ricordando che l'abusivismo ha profonde radici in Grecia, negli anni in cui l'attuale opposizione di centro-destra e di sinistra ha governato il paese.

Alle critiche verso le istituzioni elleniche, si sono unite anche quelle verso l'Unione europea e la Troika, che nei lunghi anni della crisi economica hanno imposto tagli draconiani alla spesa pubblica ad Atene. “Caserme dei pompieri, centri per la protezione civile, ambulanze ed ospedali sono a corto di personale”, ha scritto su “The Globe and Mail” Yannis Varoufakis, già ministro delle Finanze e leader del movimento DiEM25.

“L'UE non ha contribuito a combattere le fiamme – cosa che non rientra nei suoi compiti – e non è certo responsabile di settant'anni di abusi sull'ambiente da parte della società greca. Ma è fuor di dubbio che nel decennio appena trascorso la Troika, costituita da UE, FMI e Banca centrale europea, ha attivamente privato lo stato ellenico delle risorse e capacità necessarie in situazioni di emergenza”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 11, 2018, 21:10:37 pm
http://www.eastjournal.net/archives/91673

Citazione
ROMANIA: La protesta della diaspora termina in violenza
Francesco Magno  9 ore fa

Notte di tensione e violenza quella di ieri per le strade di Bucarest. La manifestazione anti-governativa dei romeni all’estero si è trasformata in un violentissimo scontro tra una parte dei manifestanti e la gendarmeria. Fonti giornalistiche riportano più di 400 feriti; l’atmosfera nel paese è estremamente tesa.

Le premesse

Il meeting della diaspora romena, già da tempo in programma, ha richiamato nella capitale oltre 100.000 persone. Sono circa 5 milioni i romeni che vivono all’estero, buona parte emigrati durante gli anni della transizione, tra il 1990 e il 2000. L’Italia è il paese che ne ospita il maggior numero (circa un milione), seguita a ruota dalla Spagna. Gli expat romeni sono tutt’altro che avulsi dalla vita politica del paese d’origine; tradizionalmente ostili al partito social-democratico (PSD), nel 2014 hanno di fatto sancito la vittoria alle presidenziali di Klaus Iohannis sul candidato socialista Victor Ponta, molto forte in Romania ma privo di qualsiasi presa sugli emigrati. Essi vedono nel PSD l’erede del vecchio partito comunista e, soprattutto, di quel Fronte di Salvezza Nazionale guidato da Ion Iliescu che ha governato il paese negli anni Novanta, proprio nel periodo più caldo dell’emigrazione. Da ciò nasce l’ostilità verso i socialisti, visti quasi come causa della loro partenza. Sfruttando le vacanze estive e il tradizionale ritorno a casa, i romeni della diaspora si son dati appuntamento a Bucarest, per protestare contro il governo. In un primo momento l’amministrazione della capitale, guidata dal sindaco Gabriela Firea, esponente di punta del PSD, non si era mostrata entusiasta all’idea della manifestazione di massa. Tuttavia, sull’onda della pressione mediatica, ha concesso l’autorizzazione allo svolgimento della dimostrazione. I primi scontri si sono registrati intorno alle 16.00, quando alcuni manifestanti hanno cercato di forzare le barricate che proteggevano Palatul Victoriei, la sede del governo. La situazione sembrava essersi rasserenata, almeno fino alle 23.00, quando il vaso di Pandora è stato scoperchiato.

Provocatori e gendarmeria

Intorno alle 23.00, in risposta alle provocazioni di uno sparuto gruppo di manifestanti (con ogni probabilità provocatori giunti col preciso scopo di causare disordini) la gendarmeria ha risposto lanciando gas lacrimogeni in maniera indiscriminata anche sui partecipanti pacifici, aumentando il caos. I facinorosi hanno approfittato del disordine per attaccare le forze dell’ordine: due gendarmi, tra cui una ragazza di vent’anni, sono stati privati delle pistole e malmenati, prima di essere salvati da un gruppo di manifestanti che ha fatto da scudo umano. Nel frattempo, il resto delle forze dell’ordine ha continuato ad usare i gas e a picchiare anche uomini innocenti, colpevoli soltanto di essersi trovati al posto sbagliato al momento sbagliato. Risultato: circa 400 feriti, alcuni anche gravi. Com’è stato possibile tutto questo?

Dipanare la matassa

Chi è anche solo minimamente avvezzo ai fatti romeni sa che l’infiltrazione di provocatori violenti all’interno di proteste pacifiche è tutto tranne che inusuale. Era già successo nel febbraio 2017, all’epoca delle prime grandi manifestazioni contro il governo PSD. Tuttavia, non è semplice identificare questi gruppi e i loro mandanti. I media anti-governativi ritengono che siano ambienti vicini al partito social-democratico a muovere questi huligani, al fine di macchiare le proteste davanti all’opinione pubblica etichettandole come violente. Di contro, risulta difficile credere che un governo già ampiamente mal visto sia sul piano interno che internazionale possa adottare una strategia talmente suicida, che ha come solo esito quello di infangare ancora di più l’esecutivo e il suo principale partito. Non è così peregrino immaginare che alti circoli dell’amministrazione pubblica e dei servizi, fortemente ostili al PSD, possano aver mosso le fila dei disordini proprio per screditare Liviu Dragnea e i suoi fedelissimi. Ogni ipotesi è plausibile, ma non ci sono elementi che possano avvalorare l’una o l’altra opzione. La terza variante, la più tristemente auspicabile, è la completa impreparazione e inadeguatezza delle forze dell’ordine e delle istituzioni competenti, del tutto incapaci di gestire situazioni di tale complessità. L’unico fatto concreto sono i feriti che da ieri notte popolano gli ospedali di Bucarest.

E adesso?

Il presidente della Repubblica Klaus Iohannis, con un post su Facebook, ha immediatamente condannato i fatti di ieri, scagliandosi contro la gendarmeria, la cui azione è stata definita “non proporzionata alle azioni della maggior parte delle persone di Piata Victoriei”. Liviu Dragnea e il premier Viorica Dancila tacciono, guardinghi. La situazione è in evoluzione continua. Prevedere cosa accadrà adesso è impossibile. I fatti di ieri hanno ulteriormente dimostrato che la democrazia romena è in crisi. L’autunno si prospetta caldissimo; tra un anno si terranno le elezioni presidenziali, e il rischio di una svolta autoritaria non è così remoto.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 17, 2018, 16:21:01 pm
Non è un paese dell' Europa dell' est; ma si trova comunque ad oriente...


Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Agosto 17, 2018, 16:30:06 pm
Video molto interessante (sveglia al collo del protagonista a parte), lo metterei in evidenza dopo aver sentito l'opinione di DarkSider che potrebbe postare una breve guida sull'Asia.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Settembre 02, 2018, 18:40:33 pm
https://www.balcanicaucaso.org/Tutte-le-notizie/Quando-a-chiedere-asilo-sono-gli-europei-189641

Citazione
Quando a chiedere asilo sono gli europei

Ogni anno quasi 100.000 europei fanno domanda d’asilo nei paesi UE, e il numero di richieste accolte tende ad aumentare. Eppure questo fenomeno rimane ai margini del dibattito sul diritto d’asilo – e di quello sull’allargamento

22/08/2018 -  Lorenzo Ferrari
Tutte le discussioni che si sono scatenate in Europa sul diritto d’asilo negli ultimi anni – e il razzismo che le accompagna – si basano sull’idea che i richiedenti asilo siano quelli che arrivano attraverso il Mediterraneo o la Turchia, provenienti dall’Africa e dall’Asia. In realtà lo scorso anno tra coloro che hanno fatto domanda d’asilo nei paesi dell’Unione europea c’erano quasi 100.000 cittadini europei  : albanesi, turchi, russi, georgiani, ucraini, armeni e così via.

Questa massa di persone tende a sfuggire all’attenzione dell’opinione pubblica e delle forze politiche, forse perché tra loro ci sono moltissimi minorenni, con cui è più difficile prendersela, ma probabilmente perché questi richiedenti asilo hanno la pelle bianca. Ormai vengono percepiti come meno minacciosi rispetto alle presunte orde di giovani uomini dell’Africa subsahariana che avrebbero invaso le nostre città – e dunque si prestano meno a essere strumentalizzati in chiave xenofoba.

La Francia ha rappresentato una delle poche eccezioni a questo generale atteggiamento di disattenzione, perché lo scorso anno gli albanesi sono risultati in assoluto la più corposa comunità di richiedenti asilo nel paese, e la stampa e la politica hanno dovuto accorgersene  . Gli albanesi in effetti hanno un peso notevole nel complesso delle domande di asilo presentate da europei in Europa: nel 2017 sono stati in più di 22.000 a chiedere asilo – di gran lunga il numero più alto rispetto a tutte le altre nazionalità, sia in termini assoluti, sia in proporzione alla popolazione (quasi l’1% dei cittadini albanesi lo scorso anno ha chiesto asilo nell’Unione europea).

Albania, 22099
Turchia, 14638
Russia, 12681
Georgia, 9934
Ucraina, 8950
Armenia, 6792
Kosovo, 5323
Serbia, 5086
Macedonia, 4254
Azerbaigian, 4183
Bosnia Erzegovina, 1775
Moldavia, 1423
Bielorussia, 914
Montenegro, 513
Numero di domande d’asilo presentate nel complesso dei paesi UE nel 2017, per paese d’origine (dati Eurostat)
Diffidenza e scoraggiamento
La grande maggioranza degli europei che fanno domanda d’asilo nell’Unione europea si rivolge alla Germania o alla Francia. Negli ultimi anni entrambi i paesi hanno però adottato una politica sempre più rigida nei loro confronti, in conseguenza del picco di domande ricevute anche da parte degli europei nel 2015. E dunque inserimento dei paesi di provenienza nell’elenco dei “paesi sicuri”  , procedure rapide di valutazione delle domande e percentuali molto basse di accoglimento  , rimpatri forzati, accordi  coi governi dei paesi d’origine per limitare i flussi in uscita e minacce  di reintrodurre i visti per l’area Schengen.

“In Francia le autorità ormai partono dal presupposto che domande come quelle presentate dagli albanesi siano infondate, e dunque a questi richiedenti asilo non viene nemmeno offerto un alloggio. L’idea di fondo è che non si debba essere troppo gentili con loro”, sostiene Oliver Peyroux  , che studia l’immigrazione europea in Francia. “Manca del tutto una riflessione sulle cause che spingono queste persone a partire, e su cosa si potrebbe fare per aiutarli. Ma molto spesso manca anche una conoscenza di base, per moltissimi francesi ad esempio gli albanesi rimangono piuttosto misteriosi”.

È vero che, anche prima della recente stretta, i paesi dell’UE respingevano la maggioranza delle domande di asilo presentate da cittadini europei, ed è vero che in molti casi a chiedere l’asilo non sono persone esposte a pericoli e minacce specifiche, bensì migranti economici con poche altre opzioni a disposizione per riuscire a trasferirsi all’estero. Come conferma la giornalista albanese Fatjona Mejdini, tra i suoi connazionali che partono molti sono giovani e famiglie che non riescono a trovare lavoro nel loro paese.

Sempre più domande accolte, nonostante tutto
Anche se le autorità tendono a considerare strumentali le domande d’asilo presentate dagli europei, i numeri raccontano una storia un po’ diversa. Nel 2017 i paesi dell’Unione europea hanno accolto circa il 18% di queste domande  , mentre cinque anni prima avevano concesso l’asilo solo all’8% di coloro che ne avevano fatto richiesta. Il minore tasso di rigetto delle domande d’asilo non è certo da attribuirsi a una maggiore generosità dei governi, quanto a un riconoscimento dell’oggettiva precarietà delle condizioni di vita in vari paesi europei. A trovare più spesso un esito positivo non sono solo le richieste di asilo di turchi e ucraini – esposti evidentemente a gravi rischi – ma anche quelle presentate da quasi tutte le altre nazionalità.

Ad esempio, anno dopo anno i richiedenti asilo albanesi vedono accolte sempre più domande: all’interno dell’UE nel suo complesso, le concessioni di asilo per loro sono passate da 500 a 1600 in cinque anni. Le motivazioni alla base dell’accoglimento delle richieste di asilo sono perlopiù legate ai pericoli costituiti dalla vendetta di sangue, alla violenza domestica, alle discriminazioni contro le persone LGBT e la comunità rom  . Come hanno evidenziato anche alcuni casi di cronaca, si tratta di  pericoli concreti e reali – anche se il governo e la stampa albanese tendono a non parlarne o a negare la specificità dei richiedenti asilo.


Non è insomma possibile ignorare il fatto che in molti paesi europei esistono problemi seri di violazione dei diritti umani – e dunque i paesi UE non dovrebbero partire dal presupposto che le decine di migliaia di domande d’asilo che ricevono ogni anno da cittadini europei siano solo strumentali. Per governare il fenomeno, ed eventualmente ridurre i numeri degli arrivi, servirebbe piuttosto una riflessione sulle ragioni che spingono così tante persone a lasciare paesi che nel nostro immaginario sono ormai spesso delle gradevoli mete turistiche e dei futuri partner all’interno dell’Unione europea.


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https://www.lexpress.fr/actualite/monde/europe/pourquoi-les-albanais-quittent-leur-pays-en-masse-et-cherchent-asile-en-france_1974304.html

Citazione
Pourquoi les Albanais quittent leur pays en masse et cherchent asile en France
Actualité Monde  Europe
 Par Catherine Gouëset, publié le 08/01/2018 à 18:02
Des migrants albanais sont renvoyés vers Tirana et Pristina depuis l'aéroport de Munich, le 18 novembre 2015.  La France a remplacé l'Allemagne comme destination des demandeurs d'asile albanais.Des migrants albanais sont renvoyés vers Tirana et Pristina depuis l'aéroport de Munich, le 18 novembre 2015. La France a remplacé l'Allemagne comme destination des demandeurs d'asile albanais. Reuters/Michaela Rehle
L'Albanie est le premier pays d'origine des demandeurs d'asile en France en 2017. Pourquoi fuient-ils ce pays considéré comme "sûr" par l'Union européenne?
Qu'est-ce qui pousse les Albanais à chercher refuge en France? L'Albanie a été le premier pays d'origine des demandeurs d'asile en 2017, avec 7630 demandes répertoriées dans l'hexagone, soit une hausse de 66%, selon les chiffres de l'OFPRA publiés ce lundi. Devant l'Afghanistan, Haïti, et le Soudan. Le pays des Aigles, pourtant épargné par la guerre, est considéré comme un pays "sûr" par la France. Comment expliquer cet afflux?

"L'instinct de survie est plus fort que le pouvoir de la raison, observe le sociologue Roland Lami interrogé par le site Balkan Insight. Les gens vivent en dessous des conditions minimales de survie. Ils sont prêts à tout pour fuir les difficultés économiques de l'Albanie, même s'ils savent que leurs chances de succès pour obtenir l'asile sont proches de zéro". 

"Les Albanais fuient la pauvreté et le chômage", confirme Nathalie Clayer, spécialiste de l'Albanie à l'EHESS. Ce petit pays montagneux et rural est l'un des plus pauvres en Europe, avec un salaire moyen de moins de 350 euros par mois. Le taux de chômage des jeunes dépassait les 33% en 2017 selon la Banque Mondiale. 

Un pays qui se vide de sa jeunesse
Le pays a l'un des taux d'émigration les plus importants en Europe: un tiers de la population a quitté l'Albanie au cours des 25 dernières années, selon le site Migration Policy. Résultat, l'Albanie qui comptait 3,5 millions d'habitants au début des années 1990, en compte moins de 3 millions aujourd'hui. Et la moyenne d'âge qui dans les années 1990 était parmi les plus basses d'Europe (28 ans), est désormais à plus de 37 ans.

L'exode des Albanais est loin d'être nouveau. "L'Albanie a toujours été un pays d'émigration", poursuit Nathalie Clayer. Le phénomène a été interrompu pendant les 45 ans de régime communiste -l'un des plus fermés en Europe. "Le régime contrôlait même les migrations intérieures, limitant ainsi l'exode rural vers les villes", note la chercheuse. La chute de la dictature en 1991 a aussitôt entraîné un afflux de migrants hors du pays, vers l'Italie et la Grèce principalement.

Depuis les années 1990, environ 600 000 Albanais se sont établis en Italie, 500 000 en Grèce, d'après les chiffres de Migration Policy. Une partie de ceux qui s'étaient installés en Grèce sont revenus au pays en raison de la crise qui a frappé ce pays à partir de 2008.

LIRE >> A Lyon, le préfet, les maires et les demandeurs d'asile albanais

Outre la crise de 2008 qui a enrayé un début d'amélioration de la situation économique de l'Albanie, l'immobilisme politique contribue probablement à la poursuite de l'exode, avance Nathalie Clayer. "L'alternance politique, il y a quatre ans, n'a pas apporté de changement à la situation dans le pays. La corruption et le clientélisme sont toujours aussi élevés".

La fermeté allemande pousse les demandes d'asile en France
Après la Grèce et l'Italie, l'Allemagne était ces dernières années le troisième pays de destination des Albanais en quête d'un meilleur avenir. L'arrivée des Albanais s'y est accélérée à partir de 2010, quand l'obligation de visa pour circuler dans l'espace Schengen a été levée pour eux. La crise des migrants de 2015 a réenclenché un cycle de départs, selon le site Balkan Insight. En 2016, quelque 50 000 Albanais ont déposé une demande d'asile outre-Rhin. Mais après que Berlin a multiplié les rapatriements, les candidats au départ se sont retournés vers les autres pays européens, à commencer par l'Hexagone. La France dépassait déjà l'Allemagne fin 2016. 

Ce qui a motivé le déplacement de Gérard Collomb à Tirana, à la mi-décembre. La France fait pression depuis plusieurs mois sur ce pays candidat à l'entrée dans l'UE pour que soient renforcés les contrôles à la sortie du pays. Depuis août, plus de 9700 départs ont ainsi été bloqués depuis l'Albanie.

REPORTAGE >> Au coeur d'un foyer expérimental pour le retour des déboutés du droit d'asile

Depuis 2003, la France a établi une liste des pays "sûrs" dont l'Albanie fait partie. Mais la convention de Genève s'applique à tous les "réfugiés sans discrimination quant à la race, la religion ou le pays d'origine." Ce principe contraint chaque pays signataire à traiter tous les dossiers de demande d'asile, qu'ils viennent d'un pays considéré comme "sûr" ou non. 

Le label de pays sûr n'élimine pas la possibilité d'accorder l'asile pour des faits de violences faites aux femmes, de discrimination envers les LGBTI ou les minorités ethniques, notamment. Pour les ressortissants de ces pays "sûrs", la procédure d'examen du dossier de demande d'asile est toutefois accélérée. "Elle ne dépasse pas les trois mois, fait valoir Pascal Brice, directeur de l'OFPRA, contre sept à huit mois il y a deux ans. Aujourd'hui, les chances d'un Albanais d'obtenir l'asile en France se sont réduite comme peau de chagrin: seuls 6,5% des demandeurs albanais l'ont obtenu en 2017.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Settembre 02, 2018, 19:00:31 pm
Alcuni passaggi non li condivido minimamente; ma riporto ugualmente l'articolo.


https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Se-vuoi-governare-gli-albanesi-manipola-gli-internazionali-189840

Citazione
Se vuoi governare gli albanesi, manipola gli internazionali

Alimentare il mito dell'Albania da paese di emigranti a paese in grado di accogliere, nonostante gli albanesi continuino a lasciare il proprio paese. È questo che ha spinto il premier Rama a dichiarare di voler accogliere 20 migranti della Diciotti

31/08/2018 -  Fatos Lubonja
(Pubblicato originariamente da Panorama  il 27 agosto 2018)


Lo stesso giorno in cui abbiamo appreso che il nostro premier, dopo aver chiuso velocemente la riunione del governo, ha preso un elicottero a Valona per raggiungere Rinas e subito dopo si è imbarcato su un volo charter diretto a Torino per vedere la partita Juventus-Lazio e fare una foto con Ronaldo, abbiamo saputo anche che il governo ha deciso di diventare parte della risoluzione della crisi italo-europea sui migranti della nave "Diciotti". Ha deciso insomma di prendere in Albania 20 dei 170 migranti lasciati in mare dal ministro dell'Interno italiano Salvini, attualmente indagato sul caso dalla procura di Agrigento.

Salvini è stato il primo a darne notizia, ringraziando l'Albania, che in questo modo si è opposta a un'Europa che, a suo dire, "fa schifo". "Brava Albania", hanno detto anche molti italiani. Ma a sentire gli analisti sulla crisi causata da Salvini sono in molti a concordare che in Italia non c’è un allarme immigrazione, sottolineando che ci sono più sbarchi sulle coste greche e spagnole e che Salvini ha fatto di questa faccenda il suo cavallo di battaglia elettorale. Secondo Il Fatto Quotidiano, anche per rubare la scena mediatica ai partner di governo, i Cinque Stelle, che a loro volta gliela avevano rubata con la tragedia del ponte Morandi. Molti analisti seri italiani convergono nel ricordare che i veri problemi dell'Italia sono altri e che esigono un lavoro serio da parte del governo, non campagne elettorali permanenti, che servono soltanto a nascondere l’incapacità di affrontare e di risolvere quelle che sono le vere questioni.

E qui arriviamo al nostro primo ministro e al nostro paese. Come si è arrivati a questa decisione? In Italia non è certo noto, ma per noi che conosciamo Rama come gli italiani conoscono Salvini, è chiaro che la mossa serve anche a coprire gli allarmi dell'Albania, tra i quali, paradossalmente, l’aumento drammatico del numero di albanesi che abbandonano il paese. Così come Salvini manipola il dramma dei migranti eritrei. Ma tra le manipolazioni di Salvini e Rama c'è una differenza interessante. Salvini manipola in modo diretto, mentre Rama lo fa di traverso. Salvini ha come scopo di manipolare gli italiani contro l'Europa, utilizzando il malcontento sedimentato negli anni, mentre Rama ha come scopo di manipolare italiani ed europei per poi manipolare soprattutto gli albanesi, secondo il principio: se vuoi governare gli albanesi devi manipolare gli internazionali.

Cosa intendo con questo? Seguendo nella pagina Facebook di Bushati [ministro degli Esteri albanese, ndr] i commenti alla notizia, colpiva la separazione tra italiani e albanesi. Gli italiani ringraziavano per la solidarietà, mentre la maggior parte degli albanesi lo considerava un atto di "ipocrisia". Un commentatore ha scritto: "È privo di qualsiasi logica fornire assistenza ai migranti stranieri mentre dozzine di connazionali lasciano l'Albania ogni giorno. E non dite che sono scelte personali. Sapete bene che fuggono perché l'Albania ha strappato loro le speranze, perché hanno un futuro senza prospettive, annegato nella povertà, nell’oppressione e nell’ingiustizia".


Qualcun altro ricordava invece a Bushati i minori albanesi, che i genitori abbandonano intenzionalmente in Italia dove poi sono ospiti delle Caritas Italiane, sottolineando: "Lasciate le facciate e guardate negli occhi la realtà... non diventate ridicoli!"

Numerosi anche gli inaccettabili commenti razzisti e, tenendo in considerazione che gli albanesi sono più razzisti degli italiani a questo riguardo, non è difficile pensare che al di fuori di Facebook siano ancora più numerosi. Comunque sia, Rama non tiene conto dell’elettorato rappresentato da tutti questi commentatori.

Qualcuno si potrebbe chiedere come sia possibile. Perché Edi Rama continua ad applicare il principio: se vuoi governare gli albanesi devi manipolare gli internazionali, che lo ha portato al più alto scalino del successo. Lui continua a pensare che il complesso di inferiorità del provinciale, combinato con la mancanza di fiducia nelle istituzioni e nell'élite del paese, fa sì che gli albanesi si inchinino davanti alle valutazioni degli stranieri, zittisce gli avversari e inclina gli indecisi dalla parte degli internazionali. Rama pensa dunque che questo atto aiuterà ad alimentare in Italia l'immagine a cui sta lavorando da tempo, cioè che da paese di emigranti, l'Albania sia diventata paese ospitante (anche di italiani stessi). L’indomani della notizia, il Corriere della Sera ha dimostrato che il principio della citata manipolazione funziona, anche se i media francesi, tedeschi, olandesi, e non solo, scrivono da tempo di innumerevoli richiedenti asilo albanesi (“che schifo” davvero questi media italiani). Inoltre, l’immagine illusoria che l'Albania è cambiata può essere utile per l’apertura dei negoziati e quella valutazione servirà a nascondere ulteriormente gli allarmi reali dell’Albania, i quali, il manipolatore non è che non può, ma non vuole risolverli, visto che la soluzione richiederebbe la sua ritirata dal potere e quella della gente attorno a lui legata alla criminalità.

Funzionerà la manipolazione con questi sfortunati che, invece dell’Occidente, si ritroveranno in uno dei paesi con il maggior numero di richiedenti asilo nei paesi occidentali (i quali avranno così un motivo in più per respingere le richieste di asilo degli albanesi), ancora più razzista contro le persone di pelle nera e completamente fuori dagli standard europei? Potrebbe essere, ma ne dubito perché ormai il citato principio di Rama ‘’manipola gli internazionali per governare gli albanesi’’ fa acqua sia in Albania che all’estero.

Tuttavia, il deretano del Premier rimane sempre asciutto, almeno questo è quello che gli dicono tutti quelli che lo circondano, i quali corrono ad asciugargli i pantaloni ogni volta che vengono bagnati, perché il loro interesse è strettamente legato con la lunga tenuta di questa bugia. Altrimenti, non avrebbe avuto il coraggio di prendere decisioni di questo genere, che è lo stesso irresponsabile coraggio che per la sua mente rende normale il fatto di prendere un elicottero, e poi un aereo, per vedere la partita Juventus-Lazio e fare una foto con Ronaldo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Settembre 12, 2018, 00:37:05 am
http://www.eastjournal.net/archives/91816

Citazione
SLOVENIA: L’estrema destra costituisce una milizia armata
Amedeo Amoretti  4 giorni fa

Sabato 1° settembre, circa cinquanta uomini con il viso coperto, armati di asce e fucili, si sono ritrovati nei pressi di Pohorje, vicino a Maribor, per quello che sembrerebbe un giuramento solenne. A capo di questo gruppo vi è l’ex candidato alle presidenziali slovene Andrej Sisko. Il video del giuramento si è diffuso velocemente e molti politici, tra cui il presidente Borut Pahor e il primo ministro Miro Cerar, sono intervenuti denunciando l’accaduto e richiedendo l’intervento delle forze di polizia.

I militanti

Il gruppo si fa chiamare “la Guardia di Stajerska”, evidenziando il proprio presunto potere di difesa dell’omonima regione indipendentista slovena. La guardia sarebbe composta, secondo quanto affermato dal leader del gruppo, da “parecchie centinaia di volontari” – ma l’esperto di sicurezza nazionale Iztok Prezeli ha affermato che si tratterebbe di una vera e propria milizia, a giudicare da caratteri distintivi come la bandiera, l’uniforme e l’emblema posto sulla maglietta.

La formazione di tale unità sarebbe stata concepita con lo scopo di mantenere l’ordine nella regione e Sisko, pur avendo ammesso che le armi impugnate dai volontari non sono state registrate presso le autorità slovene, ha dichiarato che non vi è alcuna infrazione della legge. Il presidente Pahor, invece, ha voluto sottolineare che “la Slovenia è un paese sicuro nel quale nessuna persona non autorizzata ha bisogno (né le è permesso) […] di interessarsi illegalmente per la sicurezza del paese e dei suoi confini”.

Le indagini delle autorità

La polizia ha immediatamente avviato le indagini e nel corso di una conferenza stampa Robert Munda, il capo della polizia criminale di Maribor, ha dichiarato che alcuni uomini potrebbero essere stati tratti in inganno a partecipare e ha richiesto la loro collaborazione nello svolgimento delle indagini. Intanto, giovedì 6 settembre due uomini sono stati arrestati dalle forze dell’ordine e uno dei due parrebbe essere Sisko.

Sisko è conosciuto principalmente per essere alla guida del partito di estrema destra Slovenia Unita, che alle presidenziali del 2017 ha ottenuto soltanto il 2,2% (raggiungendo appena lo 0,6% alle parlamentari dello scorso giugno). Dopo aver fondato l’organizzazione anti-comunista slovena, successivamente giudicata illegale, nel 1992 Sisko fu accusato di tentato omicidio e venne condannato a ventidue mesi di carcere. In seguito ai fatti di sabato scorso, inoltre, Sisko è sospettato di istigazione all’odio, alla violenza e all’intolleranza – nonché di traffico di armi e di crimini contro l’umanità, contro la sovranità statale e contro l’ordine costituzionale democratico sloveno.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Settembre 12, 2018, 00:44:03 am
Dice l'italiano medio:
<<Certe cose succedono solo in Italia>>.

Sì, infatti.

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Montenegro/Montenegro-anche-uno-scoglio-vittima-della-speculazione-189931

Citazione
Montenegro: anche uno "scoglio" vittima della speculazione
aree   Montenegro ita

Il litorale del Montenegro è saturo di hotel e di complessi turistici e gli speculatori si stanno lanciando ora sugli ultimi spazi liberi: le oasi naturalistiche

11/09/2018 -  Branka Plamenac   Podgorica
(Pubblicato originariamente da Monitor (Monténégro), selezionato da Le Courrier des Balkans  e OBCT)


Situata al largo di Budva, l'isola di San Nicola, la più grande della costa montenegrina, è stata individuata come “area prioritaria per lo sviluppo turistico” nel Piano urbanistico speciale della zona del litorale del Montenegro (PPPNOB), che copre sei municipalità del litorale. Difficile spiegarsi perché quest'isola inabitata e coperta da una fitta vegetazione mediterranea e conosciuta con il nome di Školj (dall'italiano scoglio), sia divenuta “zona prioritaria di sviluppo”.

Da anni il litorale, area eccezionale, viene devastato dalle costruzioni e sembra ora che agli investitori manchino siti sufficientemente attraenti sulla costa. Poco a poco i cantieri stanno infatti abbandonando le zone urbane per devastare le rare riserve naturali ancora intatte. L'urbanizzazione viene portata avanti sotto gli ordini del governo e del ministro dello Sviluppo sostenibile e del Turismo, al beneficio di alcuni grossi investitori. Sino ad oggi aree protette, alcune oasi come Školj sono evidentemente finite nel mirino di potenti uomini d'affari come è accaduto per Sveti Stefan, Miločer o il monte Spas che domina Budva.

Il nuovo piano urbanistico prevede sull'isola di San Nicola la costruzione di strutture che potranno ospitare sino a 500 persone, la costruzione di un porto turistico e di un complesso residenziale con inclusi 50 pontoni per imbarcazioni da diporto. Il testo del progetto non chiarisce dove si intendano situare i cantieri ma l'intera isola si San Nicola è, per ora, ritenuta “zona turistica”. L'isola appartiene ad alcuni abitanti della regione ma anche a uomini d'affari montenegrini e stranieri, in particolare a Thaksin Shinawatra, ex primo ministro della Thailandia, divenuto cittadino montenegrino.

L'anno scorso Thaksin Shinawatra ha acquistato un terreno di circa 37.000 metri quadrati appartenente a Stanko Subotić che a sua volta l'aveva acquistato dall'uomo d'affari serbo Nenad Đorđević. Il terreno è quindi passato dalle mani di numerosi nuovi ricchi sia serbi che montenegrini per un valore si stima di svariati milioni di euro. Infine la Prva Banka di Aco Đukanović [il fratello del presidente montenegrino Milo Đukanović, ndr] ha posto un'ipoteca del valore di 15 milioni di euro sul terreno di Shinawatra. L’ex primo ministro thailandese si è indebitato presso la Prva Banka? Di sicuro c'è solo che questo terreno è per ora sotto ipoteca.

L'isola di San Nicola ha una superficie di 47 ettari e la sua costa di estende per due chilometri. Contornata da baie e spiagge deserte è da sempre destinazione delle escursioni degli abitanti di Budva e dei turisti. L'isola deve il nome ad una piccola chiesa consacrata a San Nicola, santo patrono dei marinai. Gli abitanti del posto la soprannominano «Havaji», dal nome di un ristorante ormai scomparso che ha caratterizzato la storia dell'isola.

Le autorità locali ed alcuni gruppi di cittadini si sono opposti all'urbanizzazione di Školj. In un rapporto ufficiale firmato da Dragan Krapović, sindaco di Budva, si legge: "Si prevede che l'isola di San Nicola divenga zona speciale per il turismo. Riteniamo che la costruzione di infrastrutture per ospitare 500 persone sia inaccettabile e che occorra prevedere uno sviluppo diverso per l'isola, senza la costruzione di appartamenti. Il consiglio comunale di Budva si oppone fermamente a questo progetto. Tutti gli indicatori economici indicano che si tratta di un investimento non sostenibile. Date le condizioni meteorologiche questo complesso turistico non potrà che essere attivo solo per tre mesi all'anno. Anche la gran parte degli abitanti della città si oppongono al progetto".

Anche Slobodan Bobo Mitrović, rinomato architetto di Budva, ha inviato una lettera di protesta diretta al ministero dello Sviluppo sostenibile e del Turismo: "E' inammissibile costruire hotel da 500 posti letto e una marina con 50 pontoni sull'unica isola del Montenegro. Chi propone il progetto ha preso in considerazione che San Nicola è la sola oasi verde dell'intero spazio marittimo di Budva? Il comune non ha né foreste protette né luoghi adatti alle escursioni e non può offrire alcuno spazio natuarale né ai suoi abitanti né ai turisti di passaggio".

L’architetto ricorda inoltre che l'isola ospita una foresta protetta dal 1952 e che deve essere preservata. Accusa inoltre la Horwath HTL di Zagabria, tra le aziende che hanno concepito il progetto, di non rispettare le norme attualmente in vigore in Croazia: "Horwath HTL ha scelto di non rispettare la natura dell'isola mentre più di 1000 isole sono protette in Croazia". Secondo i dati del ministero del Turismo croato il paese ha 1244 isole registrate come terreni agricoli sui quali non è possibile costruire.

Slobodan Bobo Mitrović ricorda infine che lavori sono stati fatti senza alcuna autorizzazione sull'isola di San Nicola sin dal 1997. Il proprietario dell'epoca, Nenad Đorđević, aveva con alcune dighe allargato l'isola di circa 10.000 metri quadri. "Occorre salvare San Nicola, farne una riserva naturale e trasformarla in giardino botanico, come è stato fatto per Mljet e Lokrum in Croazia", conclude l'architetto.

Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Settembre 12, 2018, 20:47:16 pm
http://www.eastjournal.net/archives/91865

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RUSSIA: La riforma delle pensioni che i russi non vogliono
Martina Napolitano  4 ore fa

Domenica 9 settembre 2018, durante le elezioni locali e regionali russe, importanti manifestazioni si sono registrate nelle maggiori città russe. Quella di domenica è stata l’ennesima giornata di proteste in Russia dopo le molte che si sono susseguite a partire da fine giugno in seguito alla proposta di legge avanzata dal governo inerente all’innalzamento dell’età pensionabile.

La proposta di legge

Il 14 giugno il premier Dmitrij Medvedev ha presentato alla Duma un progetto di legge che prevedrebbe l’innalzamento dell’età pensionabile per gli uomini da 60 a 65 anni e per le donne da 55 a 63 anni (oppure, rispettivamente, a 45 e 40 anni di contributi). Questa manovra dovrebbe garantire, secondo il ministro delle Finanze Anton Siluanov, delle pensioni più alte a tutti: entro il 2024 la pensione media passerà, secondo le sue stime, da 14000 (175 euro ca.) a 20000 rubli (250 euro ca.).

Questo progetto è stato, secondo le procedure costituzionali, sottoposto prima di tutto al vaglio delle regioni: se più di un terzo dei soggetti federali si fosse detto contrario, allora si sarebbe dovuta creare una commissione apposita per il vaglio della proposta. Tuttavia, così non è stato: nonostante le vicine elezioni di settembre e la probabile insoddisfazione dell’elettorato, le amministrazioni regionali hanno scelto una via mesta ed evitato di compromettere la propria fedeltà alla linea del Cremlino. Il ministro del lavoro Topilin a metà luglio ha affermato che ben 61 regioni avevano presentato alla Duma opinioni positive in merito al progetto di legge.

Il 19 luglio la Duma di Stato ha così approvato in prima lettura il progetto sull’innalzamento dell’età pensionabile, nonostante le molte proteste e manifestazioni delle settimane precedenti e nonostante i sondaggi sull’apprezzamento del partito del presidente in caduta libera. Dei quattro partiti che siedono alla Duma, solo i 328 deputati di Russia Unita hanno votato compattamente a favore – un numero comunque sufficiente perché la proposta passasse.

Verso la seconda lettura

Considerato il malcontento, il 20 agosto – in previsione dell’audizione parlamentare dedicata al progetto – il partito al governo ha presentato la propria variante di modifica allo stesso, che comprende l’accesso a tariffe agevolate e sconti per “pensionati” già alle over-55 e agli over-60, la pensione dopo 37 e 42 anni di contributi rispettivamente per donne e uomini, pensione anticipata per professioni usuranti e per chi vive in zone artiche.

Questa apertura a una variante più dolce della proposta di legge potrebbe suggerire che il governo avesse all’inizio alzato troppo l’asticella consapevolmente, in modo da far passare poi in maniera più liscia una misura che anche in termini meno drastici sarebbe difficilmente stata accolta.

Il 29 agosto in un video ad ampia diffusione il presidente Putin si è rivolto ai cittadini, invitandoli a ragionare con calma e obiettività sulla necessità della misura. Assicurando di parlare “in maniera obiettiva, dettagliata e assolutamente sincera”, il presidente ha, in circa mezz’ora, riassunto la situazione demografica e storica della Russia sovietica e post-sovietica. Putin ha ricordato di aver egli stesso ritenuto non necessaria in passato una riforma delle pensioni, ma ha sottolineato come i tempi siano cambiati.

Il compito fondamentale delle modifiche proposte al sistema pensionistico è quello di “garantire la stabilità finanziaria del sistema per molti anni a venire”, ha dichiarato, “e non solo una conservazione, ma anche una crescita dei redditi, delle pensioni per gli attuali e futuri pensionati”.

Stando ai dati che il presidente ha portato a proprio sostegno, se nei primi anni 2000 l’aspettativa di vita era poco al di sopra dei 65 anni, oggi si è alzata di 7,8 anni; l’obiettivo è raggiungere quota 80 entro il prossimo decennio, “e faremo di tutto perché le persone nel nostro paese vivano a lungo e in salute”. Proprio uno degli slogan delle proteste è #Dožit’DoPensii, ovvero #ArrivareAllaPensione: le stime sulle aspettative di vita in Russia presentate da Putin non trovano infatti tutti d’accordo.

Putin ha inoltre spiegato che alternative a queste misure sono state prese in considerazione e scartate in quanto “essenzialmente, non risolvono nulla, al massimo tappano buchi”.

Un’attenzione particolare il presidente l’ha poi rivolta alle donne – per le quali apre le porte verso un abbassamento dell’età pensionabile a 60 anni, e addirittura a 50 anni nel caso si parli di madri con più di cinque figli – e ai lavoratori anziani, per i quali promette di adottare delle misure che garantiscano loro di restare con garanzie e stabilità sul mercato del lavoro fino al raggiungimento della nuova età pensionabile.

Stando ai sondaggi del centro CIPKR, dopo il video del presidente, i contrari al progetto di legge sono passati dal 71% al 51%; tuttavia, ora il 26% (e non più il 15%) vede nel presidente l’iniziatore principale di queste modifiche impopolari.

La seconda lettura del progetto di legge alla Duma è prevista nei prossimi mesi autunnali.

Breve storia delle pensioni in Russia

La pensione per anzianità venne introdotta in Russia, o meglio Unione Sovietica, per la prima volta nel 1928 e da allora l’età pensionabile non è mai stata ritoccata: 55 anni d’età per le donne, 60 per gli uomini.

Nel 1997 venne per la prima volta discussa alla Duma la possibilità di portare l’età pensionabile a 60 anni per le donne e 65 per gli uomini, ma allora il progetto di legge non venne approvato.

Di nuovo durante la presidenza Medvedev (in particolare tra 2010 e 2012) si tornò a parlare di pensioni, ma la maggior parte dei ministri – compreso l’allora premier Putin – rigettarono la proposta.

Nel 2015 il ministro dell’economia Uljukaev reintrodusse l’idea, visto il deficit pensionistico raggiunto in quel momento, e Putin questa volta si mostrò possibilista, sottolineando tuttavia come la Russia non fosse pronta a una modifica repentina del sistema.

Dopo la rielezione di Vladimir Putin di quest’anno, in maggio Medvedev dichiarò apertamente che il suo governo avrebbe al più presto inviato alla Duma delle proposte relative all’età pensionabile. Nel farlo, ricordò che l’età di 55 e 60 anni venne sancita ancora in Unione Sovietica nel 1928 quando l’aspettativa di vita si attestava attorno ai 40 anni. Stando ai dati ROSSTAT, nel 2017 l’aspettativa di vita è di 67,5 anni per gli uomini e 77,6 anni per le donne.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Settembre 19, 2018, 19:50:37 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/BiH-le-elezioni-storiche-che-non-cambieranno-nulla-190097

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BiH: le elezioni “storiche” che non cambieranno nulla

La Bosnia Erzegovina sembra sprofondare nel buio più pesto e l’imminente tornata elettorale non pare possa migliorare la situazione

19/09/2018 -  Ahmed Burić   Sarajevo
A prescindere dall’esito delle imminenti elezioni politiche in Bosnia Erzegovina, previste per il prossimo 7 ottobre, sembra evidente che neanche questa tornata elettorale segnerà un punto di svolta. Questo soprattutto a causa di un clima di apatia generale che regna nel paese ormai da 23 anni – quanti ne sono passati dalla fine della guerra – e in cui per raggiungere un “successo” politico è sufficiente mantenere vive le tensioni tra i popoli costituenti, ovvero tra i partiti politici che li rappresentano.

Basta sentire o leggere una volta sola le affermazioni di Bakir Izetbegović, Milorad Dodik o Dragan Čović, per capire che, pur non essendo mai d’accordo su nessuna delle questioni chiave per il paese, i leader politici sono accomunati dalla stessa retorica imperniata sulla minaccia di guerra e di ridefinizione dei confini nazionali, motivo per cui tra di loro c’è “armonia”. O meglio, una cacofonia in cui l’unico obiettivo di chi sta al potere è quello di preservare la ricchezza accumulata. Invece di costruire una società democratica, è stato creato un sistema di caste, un paese che non è governato da istituzioni bensì da pochi individui potenti, che spesso non si presentano nemmeno alle elezioni, ma continuano a governare nell’ombra, decidendo la sorte di uno dei paesi più poveri d’Europa.

Vi chiederete da dove viene questo pessimismo. È tutto così nero che tra i circa 7500 candidati, quanti si presenteranno alle prossime elezioni, in 800 liste elettorali, in circa 100 seggi elettorali, non vi è nessuno che rappresenta gli interessi dei cittadini, e che per questo meriterebbe di essere votato? Si potrebbe rispondere con un sì e no, ma è più che evidente che gli impegni, relativi al rispetto dei valori democratici, presi con l’Unione europea, in pratica vengono trasformati in ripetute offese alla coscienza civile: corruzione, nepotismo, clientelismo, sono queste le principali malattie che affliggono la giovane democrazia bosniaco-erzegovese, ma alle quali non è immune nessun paese in transizione.

Il principale problema con cui attualmente si scontra la società bosniaca è la svalutazione del lavoro, ovvero l’impossibilità di trovare un impiego per chi non appartiene a uno dei principali partiti politici, che decidono la sorte di un paese dal quale i giovani continuano ad andarsene, o meglio a fuggire. In questo senso, i partiti nazionali si sono trasformati in veri e propri cartelli, che continuano a piazzare i loro “quadri” nella pubblica amministrazione, assicurandosi in tal modo i voti. Quello che non conquistano legittimamente, se lo prendono in un altro modo: esercitando pressioni, o semplicemente falsificando le schede elettorali.

L’Agenzia per la sicurezza nazionale (SIPA) non ha ancora reso noti i risultati delle indagini sulla scomparsa di 10 tonnellate di carta per le schede elettorali dalla sede della Commissione elettorale centrale. Un’operazione come questa, di stampo mafioso, può essere organizzata solo da qualcuno che ha forti legami all’interno della stessa Commissione elettorale e del ministero dell’Interno, di certo non da piccoli partiti di opposizione. Compiere un furto all’interno di un’organizzazione che ha il compito non solo di organizzare le elezioni ma anche di assicurare che siano effettivamente democratiche, è possibile solo con l’aiuto della criminalità, profondamente radicata nelle strutture statali.

In questo senso, è meno importante – seppur non del tutto irrilevante – chi dopo questa tornata elettorale arriverà a ricoprire i più alti incarichi nelle istituzioni statali. Per quanto riguarda la Presidenza della Bosnia Erzegovina, il più alto organo dello stato, composta da tre membri dei popoli costitutivi, è quasi certo che Milorad Dodik, attuale presidente della Republika Srpska, diventerà il rappresentante serbo della Presidenza, e parliamo di un politico che nega la Bosnia Erzegovina come stato sovrano. Alcuni analisti vedono in questo scenario l’inizio della dissoluzione della Bosnia Erzegovina e una possibile escalation del conflitto. A dire il vero, Dodik ha già da tempo oltrepassato ogni limite ed è difficile immaginare che possa collaborare allo sviluppo della Bosnia Erzegovina.

La corsa per la carica di membro croato della Presidenza potrebbe rivelarsi più incerta. Il presidente dell’Unione democratica croata della Bosnia Erzegovina (HDZ BiH) Dragan Čović, che attualmente ricopre questo incarico, dà quasi per scontato che sarà rieletto, ma a guastargli la festa potrebbe essere Željko Komšić, ex membro del Partito socialdemocratico (SDP), che conta sul voto dei bosgnacchi.

Il principale favorito per ricoprire la carica di membro bosgnacco della Presidenza è Fahrudin Radončić, leader dell’Alleanza per un futuro migliore (SBB), anch’egli molto abile a combinare la retorica populista con metodi manipolatori. Uscito dall’ombra di Bakir Izetbegović, Radončić ha accumulato una notevole ricchezza come proprietario del quotidiano Dnevni avaz, mentre la sua popolarità deriva dalla sua capacità di presentarsi al contempo come un altruista che aiuta i poveri e disagiati e un grande uomo d’affari.

Quest’ultima cosa non si può negare, anche se il suo debito ipotecario è davvero enorme. Accusato di traffico di influenze illecite e di ostruzione alla giustizia, e noto per il suo coinvolgimento, (solo?) come testimone, nel processo a carico di Naser Kelmendi (imputato di omicidio e traffico di droga), Radončić è lo specchio della “politica” bosniaca. Immersa in un buio denso e puro, senza tracce di luce, formato da strati sovrapposti di memoria storica non elaborata e di una mentalità egoista, spinta da avidità e guidata dalla logica dell’accumulazione di capitale.

Non bisogna però dimenticare che questo scenario buio è in parte colpa della comunità internazionale, che si astiene dall’intervenire di fronte a quanto sta accadendo in Bosnia Erzegovina. Senza un rafforzamento della magistratura e la destituzione di decine di funzionari che continuano a ricoprire alti incarichi istituzionali, mentre avrebbero dovuto essere dietro le sbarre già da molto tempo, è irrilevante quanti voti si aggiudicherà l’opposizione.

La comunità internazionale si aspettava che in Bosnia avvenisse un “cambiamento organico”, come lo definiscono alcuni funzionari europei e statunitensi. Invece, si sono moltiplicati i rifiuti politici non riciclabili, che mostreranno la loro vera faccia forse già all’inizio dell’anno prossimo, alla scadenza del mandato dell’attuale ambasciatrice degli Stati Uniti in Bosnia Erzegovina Maureen Cormack. Il prossimo ambasciatore statunitense dovrà essere accreditato dal nuovo presidente della Presidenza tripartita, che probabilmente sarà Milorad Dodik, il cui nome figura sulla “lista nera” degli Stati Uniti.

In quell’occasione la democrazia mostrerà uno dei suoi lati più grotteschi, un’inquietante smorfia ghignante, e non sarà l’ultima volta che assisteremo a cose del genere. Ma al momento nessuno se ne preoccupa.

Perché si stanno avvicinando le ennesime “elezioni storiche”, che non porteranno grandi cambiamenti. Perché il problema non riguarda solo i quadri della politica ma l'intera società.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Sardus_Pater - Settembre 20, 2018, 13:00:07 pm
I popoli dei Balcani stavano meglio quando erano uniti in un unico paese. Il tanto disprezzato Tito ne era cosciente e riuscì senza forzare troppo la mano a tenere insieme diverse etnie.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Ottobre 16, 2018, 19:24:25 pm
Molti (e molte) dei romeni e albanesi che conobbi in passato, provenivano da luoghi poveri come quelli descritti nel video, ed è anzitutto per questo che non gliene passo una quando i suddetti (e le suddette) elencano i difetti dell'Italia e degli italiani (che son tanti, ok), occultando però i difetti ancor più grossi dei loro rispettivi paesi di provenienza.


https://www.balcanicaucaso.org/Media/Multimedia/Est-Europa-poverta-e-campagna


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Per dire: qualcuno di voi ha mai visto lavorare in qualche bar italiano delle donne inglesi, tedesche, svizzere, austriache o francesi ?
Vi è mai capitato di vedere dei muratori olandesi, danesi, svedesi, norvegesi o finlandesi ?
Ovviamente no e il motivo è ancor più ovvio: costoro stanno bene a casa loro, ragion per cui non hanno bisogno di emigrare altrove.

Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Ottobre 22, 2018, 02:20:51 am
Non condivido tutto quel che dice; ma è comunque una testimonianza interessante.


Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Ottobre 22, 2018, 06:56:34 am
Per me tutto vero: l'inglese non lo parla nessuno, i negozi di fiori ovunque, muj platit (l'uomo paga, è tra le prime cose che impari al corso di russo :lol:) - anche se a S. Pietroburgo il ristorante "armeno" non costa 10 Euro :cry:
E poi: nessuna risorsa :w00t: solo russi e russe sempre cortesi e amichevoli persino con gli sconosciuti :yahoo:. Ricordo una niente male che mentre riprendevo un'ottima band di strada mise davanti all'obiettivo un gattino* di pochi giorni :wub:, alla fine ci ritrovammo con tutto il gruppo ad assistere a uno spettacolo teatrale all'aperto.

Unico neo che, a S. Pietroburgo almeno, le russe non sono in media niente di che, livello contadine siberiane spesso con la cellulite a vent'anni.

* Non sono mica le gattare di cui parliamo qui.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Ottobre 28, 2018, 12:09:15 pm
Non condivido in pieno ciò che dice (ma in gran parte sì) e non è un video che riguarda la realtà dei paesi dell'Europa dell'est: ma lo posto ugualmente qui, per non aprire un'altra discussione.




Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Novembre 04, 2018, 18:04:34 pm
Dice l'italiano medio:
"Certe cose succedono solo in Italia!"
Sì, infatti.

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Sarajevo-ghetto-alla-periferia-dell-Ue-190974

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Sarajevo, ghetto alla periferia dell’Ue

I recenti fatti di cronaca, culminati con la morte di due agenti di polizia, portano a pensare che la capitale della Bosnia Erzegovina stia lentamente diventando un ghetto, preda di omicidi e furti sullo sfondo di una rassegnazione collettiva

02/11/2018 -  Ahmed Burić   Sarajevo

Lo scorso venerdì mattina due poliziotti, Adis Šehović e Davor Vujinović, sono stati brutalmente uccisi a Sarajevo da un gruppo di criminali a colpi d’arma da fuoco. Per la morte dei due agenti è stata proclamata una giornata di lutto nazionale e la capitale della Bosnia Erzegovina ha reso omaggio alle vittime con cerimonie commemorative e con una massiccia partecipazione ai funerali. Tuttavia, concluse le cerimonie, l’impressione è che la situazione nella città, comprese le condizioni di sicurezza dei suoi cittadini e dei membri delle forze dell’ordine, non sia destinata a migliorare.


Sarajevo, ogni giorno e sotto ogni punto di vista, somiglia sempre di più ad un ghetto, una città dove ci si può aspettare di tutto: di vedere i propri figli aggrediti dai criminali di strada e derubati di soldi e cellulari sotto la minaccia delle armi, oppure di rimanere vittima di una sparatoria, come quella in cui hanno tragicamente perso la vita i due poliziotti.

Limitandosi ai semplici fatti, possiamo dire che i due agenti sono stati uccisi mentre cercavano di impedire un furto d’auto. Tuttavia, andando più in profondità, risulta che ha perdere la vita sono stati due uomini nel fiore degli anni, di nazionalità diversa, che cercavano di impedire un delitto contro un bene appartenente a una persona recatasi in visita a Sarajevo. L’automobile presa di mira aveva infatti una targa croata.

La forzatura delle portiere e il furto dell’auto è la “disciplina preferita” dai criminali sarajevesi sin dai tempi della guerra. Lo scenario è sempre più o meno uguale: chi arriva in città con un’auto nuova e la lascia all’aperto, può aspettarsi, nella migliore delle ipotesi, di ritrovare il finestrino rotto e l’auto saccheggiata. Nella peggiore delle ipotesi, l’auto viene rubata e, nella maggior parte dei casi, portata in Republika Srpska, da dove viene contrabbandata all’estero, oppure i criminali contattano il proprietario per richiedere un riscatto.

Un sistema che funziona quasi perfettamente e vede coinvolti praticamente tutti i livelli della criminalità: dai pesci piccoli a quelli più grossi che hanno forti legami con la polizia e la controllano con la corruzione. Ovviamente, nulla di tutto questo sarebbe possibile senza il coinvolgimento del potere politico. Questa situazione giova esclusivamente a quei politici che amano pescare nel torbido.

Forse nulla illustra meglio il cinismo e l’inefficacia della leadership al potere di una recente dichiarazione del leader del Partito di azione democratica (SDA) Bakir Izetbegović. Resosi conto che l’opposizione è determinata a formare il governo del cantone di Sarajevo senza il suo partito, Izetbegović ha dichiarato: “Dicono che l’SDA fa una cattiva politica da vent’anni, e invece noi abbiamo trasformato Sarajevo in una metropoli”.

Quanto sono ciniche le dichiarazioni di questo tipo lo dimostra il fatto che nessun rappresentante del governo ha espresso le proprie condoglianze ai familiari dei due poliziotti uccisi. Pochi giorni prima dell’omicidio dei poliziotti, nel centro di Sarajevo, a un centinaio di metri dal palazzo dove abita Bakir Izetbegović, è stato trovato il corpo senza vita di un uomo, probabilmente, per un’overdose.

A Sarajevo le morti improvvise e violente accadono quotidianamente e, a quanto pare, né il potere politico né le autorità giudiziarie, né tanto meno le forze dell’ordine sono in grado di porre fine a questa situazione.

Stando alle informazioni divulgate finora, i due membri delle forze dell’ordine (che operano sotto la direzione del ministero dell’Interno del cantone di Sarajevo) stavano svolgendo il regolare servizio di controllo del territorio, quando si sono imbattuti in un gruppo di criminali che hanno subito aperto il fuoco contro di loro. Adis Šehović è morto sul colpo, mentre il suo collega Davor Vujinović è deceduto per le ferite riportate nel pomeriggio dello stesso giorno al Centro clinico universitario di Sarajevo.

Un commento postato sui social network da una nota conduttrice televisiva esprime forse meglio di qualsiasi altra cosa il senso di impotenza, amarezza e paura che regna a Sarajevo. “Sono infinitamente triste. Ci hanno portato via tutto. La dignità, l’orgoglio, l’identità e, alla fine, la vita. Questo mondo è fatto per gli assassini e i criminali, piccoli e grandi; un mondo di vendite e acquisti; un mondo senza morale, obiettivi e direzione. Siamo smarriti, sia come individui sia come società”.

Parole che possono sembrare pesanti, ma che sono assolutamente veritiere. È proprio così che si sente la maggior parte delle persone che conosco. Alla manifestazione a sostegno della polizia di Sarajevo, organizzata da alcune organizzazioni non governative davanti al centro commerciale BBI nel centro città, hanno partecipato poche persone, circa 300, e questo la dice lunga sul clima di rassegnazione e avvilimento che si respira a Sarajevo.

La capitale della Bosnia Erzegovina, che sarebbe potuta diventare una metropoli, sta lentamente ma inesorabilmente diventando un ghetto. Un paese composto da una moltitudine di cantoni, diviso in due entità, corrotto e lasciato a sanguinare alla periferia dell’Unione europea, semplicemente non può funzionare né garantire un livello minimo di sicurezza. Questa situazione potrebbe spingere i cittadini a prendere l’iniziativa e ad auto-organizzarsi per combattere la criminalità, e questa strada porta inevitabilmente al caos che, il più delle volte, arriva dopo la disperazione.

Se dovesse verificarsi un simile scenario, le morti diventeranno un evento quotidiano e ad esserne vittime saranno le persone innocenti, come nel caso dell’omicidio di Adis Šehović e Davor Vujinović. Ma chi ha tempo di pensare alle vite umane? Il governo di certo non ce l’ha, mentre la comunità internazionale si comporta come se non le importasse più nulla di Sarajevo e della Bosnia Erzegovina.

Lasciata a se stessa, la società bosniaca non ha alcuna possibilità di progredire. Perché il ghetto è sempre sinonimo di isolamento e pericolo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 04, 2018, 19:51:40 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Il-governo-serbo-e-il-genocidio-di-Srebrenica-191518

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Il governo serbo e il genocidio di Srebrenica
Di recente la premier serba Ana Brnabić ha negato apertamente che a Srebrenica sia stato commesso un genocidio. L’affermazione ha avuto conseguenze regionali ed anche a livello dell’Ue

04/12/2018 -  Dragan Janjić   Belgrado
La dichiarazione della premier serba Ana Brnabić, secondo la quale a Srebrenica non è avvenuto un genocidio bensì un grave crimine, per giorni è stata citata sulle prime pagine dei giornali di tutta la regione, ma anche di quelli internazionali, ed è stata oggetto di commenti e condanna da parte di alcuni politici e organizzazioni non governative. È stata invece accolta con favore dai sostenitori nazionalisti della coalizione di governo, tra i quali sicuramente contribuirà all’aumento della popolarità della premier, ma non porterà alcun beneficio alla società serba. Anzi, danni sembrano già inevitabili.

Le affermazioni pronunciate dalla premier serba, in un'intervista rilasciata alla Deutsche Welle  a metà novembre, hanno avuto una forte eco non solo in Serbia, bensì nell’intera regione e nell’Unione europea, e le prime conseguenze si sono fatte sentire già a fine novembre quando il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione  in cui si condanna “la negazione del genocidio” di Srebrenica da parte delle autorità di Belgrado. Nella risoluzione, relativa al percorso verso l'Ue della Serbia, si afferma che quest'ultima ha compiuto alcuni progressi nelle riforme economiche ma, al contempo, si sottolinea che è di fondamentale importanza che vengano raggiunti risultati tangibili anche nella riforma del sistema giudiziario, nella lotta alla corruzione e nel migliorare la libertà dei media. A seguito ad un emendamento al testo iniziale nella lista delle mancanze nell’operato delle autorità serbe è stata aggiunta anche la negazione del genocidio di Srebrenica.

Nell’emendamento su Srebrenica, presentato dall’europarlamentare sloveno Igor Šoltes, si afferma che il Parlamento europeo “deplora la continua negazione del genocidio di Srebrenica” da parte delle autorità serbe e ricorda loro che “la piena cooperazione con il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, e con il suo meccanismo residuale che gli è succeduto, implica anche il pieno riconoscimento e l’attuazione delle loro sentenze e decisioni”. Nell’emendamento si sottolinea inoltre che “il riconoscimento del genocidio di Srebrenica è un passo fondamentale sulla strada della Serbia verso l’UE”.

Così il cambiamento dell’atteggiamento delle autorità serbe nei confronti del genocidio di Srebrenica è formalmente diventato un aspetto importante per l’adesione della Serbia all’UE. E questa non è una buona notizia per il governo serbo che ha posto l’ingresso nell’UE come principale obiettivo della sua politica estera. Non è dato sapere se il presidente serbo Aleksandar Vučić, che è uno dei più accesi sostenitori dell’integrazione europea, abbia parlato con la premier Brnabić in merito alla controversa intervista, ma di sicuro non ha pubblicamente condannato le sue dichiarazioni su Srebrenica, ampiamente riportate dai media mainstream serbi. Inoltre, i principali media serbi hanno completamente ignorato la risoluzione del Parlamento europeo, oppure si sono limitati a citarla brevemente tra le notizie meno importanti.

La negazione del genocidio
L’ossatura dell’attuale coalizione di governo è costituita dai partiti che erano al potere all’epoca del genocidio di Srebrenica, o che sono eredi o stretti alleati dei partiti al governo all’epoca. La loro riluttanza ad accettare le sentenze del Tribunale dell’Aja sul genocidio di Srebrenica non è per nulla sorprendente, ma non ci si aspettava che la premier esplicitamente negasse il genocidio. La Brnabić non ha fatto un’affermazione ambigua bensì, quando il giornalista che la intervistava ha insistito affinché riconoscesse che a Srebrenica è stato compiuto genocidio, ha detto che per la Serbia quanto avvenuto a Srebrenica non è stato un genocidio, negando in tal modo la sentenza del Tribunale dell’Aja.

“La persona responsabile di questo terribile crimine di guerra è stata consegnata all’Aja e la Serbia ha fatto tutto ciò che doveva fare”, ha dichiarato la Brnabić. La risoluzione del Parlamento europeo dimostra tuttavia che molti politici europei ritengono che questo argomento non sia ancora chiuso. Le autorità bosniaco-erzegovesi si aspettano dalla Serbia non solo di riconoscere l’esistenza del genocidio di Srebrenica, ma anche di riconoscere il proprio ruolo nell’incitamento e compimento del genocidio, e questa posizione è sostenuta anche da altri paesi della regione, in primis la Croazia.

In Serbia, e tra la maggior parte dei serbi che vivono in altri paesi della regione, è diffusa la convinzione che tutte le parti coinvolte nelle guerre combattute negli anni Novanta sul territorio dell’ex Jugoslavia abbiano commesso dei crimini e debbano assumersi le proprie responsabilità, senza dare particolare rilevanza solo ad alcuni crimini. Il fatto che il massacro di Srebrenica sia stato definito genocidio mina le fondamenta di questa idea. Le autorità di Belgrado ritengono che sia sufficiente che la Serbia si sia scusata per quanto avvenuto a Srebrenica e considerano ogni altra azione come un’inutile auto-umiliazione che potrebbe arrecare loro danni politici e mettere a repentaglio il futuro della Serbia e del popolo serbo.

Questo atteggiamento si è ulteriormente rafforzato dopo la decisione della Corte d’appello di Sarajevo di assolvere Naser Orić, ex comandante della difesa di Srebrenica, dalle accuse di crimini contro la popolazione civile serba nei dintorni di Srebrenica. La sentenza è stata emessa all’indomani dell’approvazione della risoluzione sulla Serbia da parte del Parlamento europeo, e in Serbia è stata percepita come un’offesa al popolo serbo e un’umiliazione delle vittime serbe, ma anche come l’ennesima prova dell’ingiustizia subita dal popolo serbo, ed è stata fortemente criticata dai più alti funzionari statali, compreso il presidente Vučić.

Lo stato d’animo
È possibile che la premier serba abbia fermamente respinto l’idea della necessità di riconoscere il genocidio di Srebrenica e di confrontarsi criticamente col passato a causa della sua scarsa esperienza politica, ma l’assenza di qualsiasi reazione alle sue dichiarazioni da parte dei rappresentanti del potere riflette lo stato d’animo della coalizione al governo. Le forze nazionaliste alla guida del paese alimentano la convinzione che il popolo serbo sia la maggiore vittima delle guerre degli anni Novanta e che l’idea sulla necessità di confrontarsi criticamente con il passato sia solo un’altra fregatura ideata dai “nemici della Serbia” e dalla comunità internazionale.

Vučić e il suo Partito progressista serbo (SNS) hanno conquistato una parte dell’elettorato con la promessa che avrebbero portato la Serbia nell’Unione europea, per cui le mosse che mettono a repentaglio la prospettiva europea del paese potrebbero portare alla diminuzione del sostegno da parte degli elettori, anche se per Vučić la priorità resta quella di non perdere il sostegno dei nazionalisti. Una netta presa di posizione su Srebrenica, che ci si aspetta dalle autorità di Belgrado (ora anche sotto forma di un documento ufficiale), è ulteriormente ostacolata dal fatto che gran parte dell’élite intellettuale e politica serba, i principali esponenti della coalizione di governo e la Chiesa ortodossa serba sono restii a confrontarsi con il passato. Nel 2010, quando il presidente della Serbia era Boris Tadić, il parlamento serbo ha approvato una risoluzione su Srebrenica in cui però quanto accaduto a Srebrenica non è stato definito come genocidio, bensì come un crimine.

Alcuni partiti di opposizione sono favorevoli al confronto con i crimini compiuti negli anni Novanta e al pieno riconoscimento delle decisioni del Tribunale dell’Aja, ma evitano di esprimersi pubblicamente sul tema. Alla domanda su cosa pensa della dichiarazione della premier, Borko Stefanović, leader della Sinistra serba (LS, partito di opposizione membro dell’Alleanza per la Serbia), ha risposto che anche lui avrebbe detto la stessa cosa. Quindi, un eventuale cambio ai vertici dello stato potrebbe creare i presupposti per il cambiamento dell’atteggiamento nei confronti del genocidio di Srebrenica, ma non sarebbe sufficiente a garantire che ciò accada.

A differenza di molti esponenti dell’opposizione, il settore non governativo non esita a criticare apertamente l’atteggiamento della leadership al potere nei confronti dei crimini commessi negli anni Novanta. “Il fatto che in Serbia le giovani generazioni crescano con una narrazione basata sulla negazione del genocidio è pericoloso a lungo termine”, ha dichiarato al portale Vijesti la direttrice del Comitato di Helsinki per i Diritti Umani in Serbia Sonja Biserko, aggiungendo che da quando l’SNS è salito al potere “la tendenza a negare il genocidio di Srebrenica si è intensificata”.

Stando alle sue parole, questa tendenza negativa ha raggiunto il punto in cui vengono umiliati, oltre alle vittime, tutti i cittadini della Bosnia Erzegovina. “Penso che l’attuale governo abbia contribuito a umiliare la Serbia a livello internazionale più di chiunque altro, tranne magari il regime dei primi anni Novanta, e che in un certo senso abbia fatto naufragare il tentativo di aprire un dialogo interno su quanto avvenuto nel passato”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 04, 2018, 19:53:05 pm
http://www.eastjournal.net/archives/94141

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UNGHERIA: La criminalizzazione dei senzatetto targata Orban
Stefano Cacciotti  5 giorni fa

Lo scorso 15 ottobre è entrato in vigore in Ungheria un emendamento del codice penale che prevede sanzioni severe, tra cui anche l’arresto e l’incarcerazione, per chi dorme o staziona abitualmente nei luoghi pubblici. La decisione del governo guidato da Viktor Orbán si scaglia contro le condizioni di vita già precarie dei cittadini magiari che vivono in strada. Secondo stime recenti, in Ungheria i senzatetto sono circa 30.000, lo 0.3 % della popolazione totale. Un esercito di donne e uomini che si concentra per un terzo nella capitale del paese, Budapest. Nella città danubiana, come in molte altre capitali europee, i senzatetto sono infatti una presenza costante tra le vie del centro.

Le tappe dell’azione governativa contro la povertà

La scelta del partito del premier, FIDESZ, porta a compimento un processo di criminalizzazione della povertà che Orbán ha avviato nel 2011 con la legge sui reati minori, successivamente cancellata dalla Corte Costituzionale, che inseriva fra i reati quello di utilizzare lo spazio pubblico come rifugio. Questo processo ha poi raggiunto un’altra tappa fondamentale nel 2013, quando, grazie all’approvazione della nuova Costituzione, i governi locali hanno acquisito il potere di emanare ordinanze dirette contro i clochard.

Il governo ha giustificato le nuove sanzioni facendo appello ai 19.000 posti letto presenti negli alloggi messi a disposizione dallo stato. Secondo l’associazione A Város Mindenkié (AVM – La città è per tutti), che dal 2009 si batte per l’attuazione di politiche abitative inclusive e popolari in Ungheria, questi dati non hanno una fonte attendibile mentre il numero di posti letto disponibili è fermo da anni a 11.000 unità.

Nei giorni precedenti l’entrata in vigore dell’emendamento, la polizia ha distribuito dei volantini di avvertimento e pattugliato le zone dove si concentrano baracche e ripari di fortuna di molti senzatetto. I membri dell’associazione AVM denunciano che durante i mesi invernali le strutture di ospitalità statali presenti nella capitale non riescono ad accogliere tutte le richieste, andando in sovraffollamento. Il risultato di questa azione governativa costringerà quindi molti senzatetto ad abbandonare le zone centrali, marginalizzandoli ulteriormente senza risolvere i loro problemi.

Stato sociale vs stato caserma

Di fronte a questo dramma, che accomuna tutte le società postindustriali, sono principalmente tre le strade che le autorità politiche possono percorrere. La prima è quella di affrontare il problema in modo solidale e responsabile, riattivando lo stato sociale e mettendo in pratica politiche abitative che avviino al riutilizzo e alla riqualifica degli stabili e delle case abbandonate o sfitte. La seconda è quella di rimuovere artificiosamente il problema negando la sua gravità, ostinandosi a considerare le comunità di emarginati che si aggirano nelle strade delle nostre città come una normale e sopportabile conseguenza del sistema economico capitalista.

La terza via intensifica invece la repressione e il controllo sulle vite dei senzatetto, promuovendo leggi volte alla criminalizzazione della loro miseria. Declinare il problema in questi termini significa avvicinarsi al modello di “stato caserma” definito dal pedagogista Henry A. Giroux, dove gli emarginati diventano dei cittadini di serie B, un elemento di disturbo da tenere sotto controllo per evitare che venga minacciata la salute e l’ordine della società. In questo caso il cinismo, la negazione e la repressione vanno a sostituire i principi di solidarietà, dignità umana e opportunità di riscatto sociale, che sono il collante e il leitmotiv di qualsiasi società democratica che voglia sopravvivere a se stessa.

Purtroppo per i cittadini magiari, e in particolare per quelli che vivono in strada, l’Ungheria di Orbán sembra presentarsi come un interprete piuttosto fedele del modello elaborato da Giroux, in chiara contraddizione con i principi di cui abbiamo oggi disperato bisogno in Europa.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 10, 2018, 20:57:51 pm
http://www.eastjournal.net/archives/94289

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Serbia e Kosovo, continua il circo della politica balcanica
Giorgio Fruscione  4 giorni fa

Da BELGRADO – Un altro giorno di protesta per i serbi del Kosovo delle città di Mitrovica Nord, Gracanica e Strpce. Sono in strada contro l’aumento dei dazi del 100% per le merci importate da Bosnia-Erzegovina e Serbia. Un aumento contrario agli accordi di libero scambio CEFTA fortemente voluto dal governo kosovaro presieduto da Ramush Haradinaj, in reazione all’opposizione di Belgrado all’ingresso di Pristina nell’INTERPOL.

Il tendone

Seguire gli eventi in corso tra i due paesi è piuttosto complicato, la situazione è in continua evoluzione e gli atteggiamenti delle autorità dei due schieramenti ricordano tanto due bambini che si fanno i dispetti e poi si lagnano. Se si pensa poi che sono due stati che, teoricamente, si sono impegnati per la pace e per il futuro dei propri popoli, vien da dire che come spettacolo ricorda molto il circo.

Funamboli, magie e pagliacci. Nel circo balcanico di Kosovo e Serbia c’è tutto. Persino la suspence del pubblico, anch’esso parte dello spettacolo, da ormai decenni diviso sulle opposte tribune ad assistere al ludico show in atto tra due paesi che prima si impegnano a Bruxelles con strette di mano e foto imbronciate “col nemico”, per poi tornare nel tendone circense della politica balcanica. Dove ci si sente al sicuro a fare tutto il contrario di quel che si è promesso a quell’Europa che ingenuamente investe per la stabilità della regione, e in cambio riceve false promesse.

Andiamo con ordine e ripercorriamo le ultime tappe. Prima, a inizio novembre, il ministro degli Esteri serbo Ivica Dacic convince le Isole Comore a ritirare il riconoscimento del Kosovo (come avrebbero già fatto altri stati africani); successivamente, Pristina alza i dazi sulle importazioni serbe al 10%; poi, il 20 novembre scorso, la Serbia convince i due terzi dell’assemblea generale dell’INTERPOL a votare contro l’ingresso del Kosovo; che quindi aumenta i dazi al 100%, genera la protesta dei sindaci serbi del nord, che si dimettono, invocano la protesta di piazza, nonché quella dei rappresentanti serbi al parlamento di Pristina, dove vi si barricano in attesa di parlarne con il commissario europeo per l’allargamento Johannes Hanh, ricevuto in visita ufficiale lo scorso 3 dicembre.

Il commissario europeo ha sostanzialmente fatto la parte della maestra che chiede ai bambini che litigano di darsi la mano, rimproverando soprattutto Pristina per la tassazione delle importazioni. Così, quando la merce serba potrà tornare sul mercato kosovaro si potrà letteralmente dire “pace, carote e patate”.

Il funambolo e il pagliaccio

Ma lo spettacolo non si ferma alla diplomazia e alla politica, e coinvolge anche la criminalità.
All’alba del 23 novembre, infatti, le forze speciali kosovare hanno compiuto un’operazione di polizia a Mitrovica Nord, principale città serba del Kosovo. L’operazione ha portato all’arresto di quattro persone indagate per l’omicidio del leader serbo-kosovaro Oliver Ivanović, freddato a colpi di pistola lo scorso gennaio. A sfuggire all’arresto, invece, Milan Radoicic, personaggio noto e decisamente controverso.

Di Radoicic, il capo dell’ufficio per il Kosovo Marko Djuric – intemediario tra Belgrado e i serbi dell’ex provincia – aveva detto esser “un uomo d’affari”. Tuttavia, come emerge da recenti inchieste condotte dai giornalisti di KRIK, Milan Radoicic ha diversi precedenti penali in tutta la regione, che vanno dalla falsificazione di documenti al sequestro di persona, passando per l’appropriazione indebita.

Ma soprattutto, Radoicic è il vice-presidente della Lista Serba, partito di maggioranza dei serbi del Kosovo telecomandato da Belgrado e dal presidente serbo Aleksandar Vucic. Nonostante Vucic abbia smentito di aver mai incontrato Radoicic, esistono sue precedenti dichiarazioni in cui lo omaggiava pubblicamente “per essersi preso cura della vita dei bimbi serbi del Kosovo”. Esistono inoltre alcune fotografie in cui Vucic e Radoicic compaiono assieme. E di foto di Radoicic ne esistono anche in compagnia del premier kosovaro Haradinaj – che, ricordiamo, è sempre sotto mandato di arresto emesso da Belgrado. Non va poi dimenticato che la Lista Serba è il fondamentale alleato del governo di Pristina – quello stesso governo che ha imposto l’aumento dei dazi – con ben tre ministri, di cui uno è anche vice-premier.

Eppure, l’alleanza di governo era stata interrotta dopo il teatrino dell’arresto di Marko Djuric lo scorso marzo. Ma il ritiro dall’esecutivo non è mai stato ratificato, la maggioranza non è mai mancata e non si è mai tornati al voto. In altre parole, la Lista Serba del fuggitivo Radoicic continua a sostenere il primo ministro Haradinaj – che è a sua volta un fuggitivo, almeno stando a Belgrado.

Milan Radoicic è quindi uno di quei funamboli di questo circo balcanico. Fuggito in Serbia in quanto le forze di polizia dello stato governato anche dal suo partito “vorrebbero ammazzarlo”, sembra essere il personaggio chiave per risolvere il caso dell’omicidio di Ivanovic, e forse altre questioni kosovare. Il suo tentato arresto è uno dei motivi, insieme ai dazi, che ha portato alle dimissioni dei quattro sindaci del nord, tutti in quota Lista Serba.

D’altronde, era stato lo stesso Oliver Ivanovic – in un’intervista rilasciata a BIRN pochi mesi prima di essere ammazzato – a fare il nome di Radoicic sostenendo come questi fosse il vero padrone del buono e cattivo tempo nel nord del Kosovo. Nella stessa intervista, aggiungeva di temere per la propria sicurezza molto di più per colpa dei suoi connazionali serbi che per gli albanesi. Inoltre, va detto che Ivanovic si era precedentemente rifiutato di aderire alla Lista Serba, preferendo restare all’opposizione. Insomma, Oliver Ivanovic era un politico scomodo.

A quasi un anno dal suo omicidio, il caso è ancora lontano dall’essere chiuso. Ma anche a questo sembra averci pensato Vucic.
Dopo la fuga in Serbia, Radoicic è infatti stato ascoltato dalla polizia serba, ma non come indagato, e sarebbe stato sottoposto alla macchina della verità. Lo ha detto lo stesso Vucic in un’intervista esclusiva per l’emittente nazionale RTS: “Radoicic ha passato positivamente il test della macchina della verità. Non solo non ha ucciso Ivanovic, ma non ha nemmeno partecipato all’organizzazione dell’omicidio. E quindi ora che si fa? Eh, che si fa?”. Il tono quasi minaccioso con cui il presidente si è rivolto al giornalista sembra chiudere il caso così, senza necessità di indagare oltre.
Se non altro, è strano che un capo di stato difenda in modo così strenuo un fuggitivo indagato per omicido – che per altro aveva dichiarato di non conoscere – quasi come se stesse difendendo sé stesso, rendendo per un attimo quasi realistiche le teorie che sostengono che una caduta di Radoicic possa comportare anche una caduta dell’uomo forte di Belgrado.

Al momento, Radoicic si trova nella capitale serba insieme al presidente della Lista Serba e sindaco di Mitrovica Nord Milan Rakic. I due hanno avuto un incontro con Vucic sulla situazione in Kosovo, ma Radoicic ha seminato i giornalisti e ha fatto sapere di non voler rilasciare dichiarazioni.

Magia: “E ora che si fa?”

Al presidente serbo che chiede “e ora che si fa?” – che ricorda quei maghi che gridano “non c’è trucco, non c’è inganno” – bisognerebbe rispondere che la macchina della verità non si sostituisce ai processi e al regolare percorso della giustizia. Un indagato non può essere scagionato da un test di cui nessuno ha prova.

Infine, mentre succedeva tutto questo, lo scorso primo dicembre Vucic ha ricevuto a Venezia il “Leone d’oro per la pace”. Anche se il suo doppiogiochismo politico gli avrebbe dovuto portare piuttosto quello per il miglior attore protagonista, va detto che, tuttavia, il premio non ha nulla a che fare col rinomato festival del cinema di Venezia. E’ un riconoscimento che in molti ignorano, nonostante prima di lui l’abbia vinto il re dei tortellini Giovanni Rana e che, al posto del presidente, il premio sia stato ritirato dall’ambasciatore serbo in Italia. D’altronde, Vucic era impegnato a salvaguardare la pace nei Balcani, non poteva certo assentarsi.

Il circo balcanico continua, condito dagli stacchetti di walzer tra criminalità e politica, rigorosamente inter-etnici. Nelle attività criminali, infatti, il nazionalismo non ha posto, mentre le tensioni etniche sembrano sempre di più un’efficace arma di distrazione di massa.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 10, 2018, 21:04:09 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Europa/Gli-ostacoli-al-contrasto-della-violenza-sulle-donne-191542

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Gli ostacoli al contrasto della violenza sulle donne

In Europa gli stereotipi sessisti ostacolano la diffusione di efficaci strumenti di contrasto alla violenza di genere. Nel 2018 la ratifica della Convenzione di Istanbul è stata respinta da Bulgaria e Slovacchia. Ma anche dove la ratifica c'è stata, l'applicazione spesso procede a rilento

07/12/2018 -  Gina Pavone
In Lituania una donna vittima di violenza maschile non saprebbe dove andare a stare, nel caso non avesse modo di sottrarsi autonomamente agli abusi subiti per esempio in famiglia. In questo paese non esistono infatti rifugi per l’accoglienza di donne vittime di violenza ed eventuali figli. Questo vuol dire che non vi è nessuno dei posti letto che sarebbero stabiliti dalla Convenzione di Istanbul, che il paese ha firmato nel 2013 ma mai ratificato.

Nei paesi dell’Unione europea la Lituania è l’unico dove si registra la totale assenza di uno dei servizi considerati basilari per il contrasto alla violenza di genere: la disponibilità di luoghi protetti e accessibili gratuitamente, dove una donna che ha subito violenza può trovare riparo, protezione e assistenza per uscire dalla condizione di vittima. Tuttavia numerosi paesi sono ancora troppo vicini a questo vuoto: in Polonia manca il 99% dei posti letto attesi, nella Repubblica Ceca ne manca il 91%, in Bulgaria il 90%, mentre l’Italia è ferma all’89%.


È un momento, quello attuale, in cui le politiche di parità e antidiscriminazione, comprese le azioni per il contrasto alla violenza contro le donne, registrano attacchi anche notevoli e azioni organizzate di contrasto. Come quello che comincia a essere noto come “Agenda Europe  ”, un piano transnazionale per la restaurazione di una visione conservatrice e religiosa della società, e per il contrasto di politiche antidiscriminatorie, tra cui viene inclusa la tanto paventata “ideologia gender”.

La situazione nell’est Europa
La parola “gender” è oggetto del contendere anche in molti paesi dell’Est Europa in cui si sta dibattendo la ratifica o meno della Convenzione di Istanbul. È proprio su questo termine che in Slovacchia  la ratifica è stata rigettata e in Bulgaria  la Convenzione è stata dichiarata incostituzionale. Anche in Lituania la ratifica risulta impantanata per il rifiuto di accettare l’articolo 3.c della Convenzione, in cui il genere viene definito come un insieme di regole, comportamenti, attività e attributi che una società considera accettabili per uomini e donne. Un passaggio centrale nella Convenzione, indispensabile per mostrare che alla base della violenza spesso agiscono lo squilibrio di potere e i rapporti di forza e sottomissione tra uomini e donne radicati nella società. In altre parole, per indicare che la violenza di genere è perpetrata contro le donne proprio in quanto tali (art. 3.d).

In totale i paesi che hanno ratificato la Convenzione di Istanbul sono 33, con Croazia, Grecia, Islanda, Lussemburgo e Macedonia che si sono uniti nel 2018. Ma nonostante le ratifiche sottoscritte da molti paesi est europei, in quest’area dell’Unione ci sono stati anche molti contrasti. Campagne di opposizione alla Convenzione sono state organizzate in diversi paesi: in Croazia ci sono state manifestazioni in piazza, in Bulgaria e Slovacchia si è arrivati al rifiuto della ratifica, mentre in Lituania non si riesce a portare avanti la discussione parlamentare.

In generale nel paesi dell’est Europa si registra una scarsa conoscenza dei servizi rivolti alle donne vittime di violenza, come riporta un sondaggio 2016 di Eurobarometro sulla violenza di genere. Nel sondaggio tra le altre cose emerge che, considerando tutta l’Europa, un intervistato su cinque condivide punti di vista che tendono a colpevolizzare le vittime stesse - “se la sono cercata” è una narrazione che si sente spesso, persino in sede processuale  - o ancora l’idea che quella sulla violenza maschile è una ricostruzione spesso esagerata se non inventata. Punti di vista largamente diffusi nell’Est Europa, sottolinea lo stesso sondaggio, così come è diffusa una certa ritrosia a denunciare gli episodi di violenza: nell’Europa orientale le persone sono generalmente propense a considerare la violenza domestica una questione privata che va gestita all’interno della famiglia; ad esempio si trova d’accordo con questa affermazione il 34% dei bulgari che hanno risposto al sondaggio e il 32% dei romeni.


E ancora in un recente sondaggio nella Repubblica Ceca emerge che il 58% degli intervistat  i pensa che lo stupro possa essere in qualche modo giustificabile da atteggiamenti della vittima stessa, come per esempio camminare da sole di notte o vestire in un modo piuttosto che in un altro. Una mentalità che tende a scoraggiare le denunce: secondo le stime, sempre nella Repubblica Ceca solo tra il 5 e l’8% dei casi di violenza finisce per essere riportato alla polizia, e ancora meno sono poi le storie che da lì finiscono in tribunale.

Le dimensioni del problema
In realtà però non si conosce ancora la reale dimensione del problema, le statistiche ufficiali  sulle donne vittime di violenza sono ancora molto lacunose, e se si guarda a ciò che arriva nei tribunali si entra nel vivo di una mancanza di informazioni che comprende molti aspetti, dalla grande disomogeneità nel modo in cui sono raccolti i dati - per esempio nel conteggio delle violenze stesse o dei femminicidi - fino all’assenza di statistiche complete su esposti, denunce, cause intentate ed effettive condanne. La notevole varietà dei dati esistenti  lascia ipotizzare sia differenze metodologiche di raccolta ed elaborazione, sia marcate differenze di mentalità tra i vari paesi per quanto riguarda la concezione stessa di violenza di genere.

In generale in Europa sul fronte della fiducia delle donne vittime verso le istituzioni non va molto bene, se si pensa che solo una donna su 3 (il 33%) vittima di violenza grave da parte del partner si rivolge alla polizia o a strutture e organizzazioni dedicate. Percentuale che scende al 26% quando l’aggressore non è il proprio partner.

Anche nei paesi dove l’emancipazione femminile è generalmente considerata più avanzata, la violenza non è affatto scomparsa, anzi. Spesso ha solo cambiato modalità o situazioni in cui si presenta. Un rapporto europeo pubblicato nel 2007 su violenza di genere e indipendenza economica  rileva una situazione molto articolata quando si mettono in relazione emancipazione femminile e violenza. L’avere un lavoro fa registrare una lieve diminuzione della violenza subita in casa, ma solo se non ci sono di mezzo dei figli. E se da un lato le donne con livelli avanzati di istruzione risultano un po’ più al riparo da violenza sessuale e violenza da parte del partner, questa condizione espone maggiormente a molestie sessuali. Da notare inoltre che anche il livello di indipendenza economica conta: quando le donne guadagnano di più del partner, si segnala un consistente aumento della violenza da parte del partner; all’opposto quando la donna guadagna meno, risulta più esposta ad abusi psicologici.

Molto resta ancora da fare, dunque. Non solo per agevolare firme e ratifiche della Convenzione di Istanbul, ma anche per garantire l’effettiva applicazione dei suoi contenuti. Non a caso la Convenzione stessa prevede un’attività di monitoraggio e valutazione ex post, che proprio quest’anno è stata condotta in Italia. Nel rapporto  da poco pubblicato dall’associazione “Dire” si legge di numerosi ostacoli che le donne incontrano sia con le forze dell’ordine sia in ambito sanitario “dovuti ancora a scarsa preparazione e formazione sul fenomeno della violenza, ma soprattutto al substrato culturale italiano, caratterizzato da profondi stereotipi sessisti e diseguaglianze tra i generi, oltre che pregiudizi nei confronti delle donne che denunciano situazioni di violenza, cui ancora si tende a non credere”.

Il rapporto definisce irrisori i fondi stanziati per contrastare la violenza sulle donne: secondo un dato ripreso dalla Corte dei Conti italiana ai centri antiviolenza e alle case rifugio arriverebbero circa 6.000 € annui, una cifra largamente insufficiente per ottenere gli standard di protezione da garantire alle vittime, e tanto più per pianificare azioni di prevenzione e contrasto di più ampio respiro. Risorse di cui il rapporto segnala anche una costante diminuzione negli anni e una distribuzione “a macchia di leopardo”, che si traduce nella presenza di strutture quasi solo al centro nord e una grave carenza strutturale nel sud e nelle isole.

Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network  ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 13, 2018, 19:32:52 pm
http://www.eastjournal.net/archives/94458

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BALCANI: Le città più inquinate al mondo
Pietro Aleotti  1 giorno fa

Sarajevo è stata, il primo dicembre scorso, la città più inquinata del mondo, perlomeno per ciò che attiene alle emissioni delle famigerate polveri sottili. Peggio persino di Pechino e Lahore, che storicamente si contendono i primi posti di questa poco lusinghiera classifica. L’indice di qualità dell’aria calcolato per quel giorno è stato, infatti, di oltre 300 (su una scala di 500), con un valore di polveri sottili pari a 750 microgrammi, quasi il doppio rispetto a quello ammesso a Sarajevo, ma addirittura 15 volte superiore a quello consentito in una città come Milano. Un problema non nuovo per la capitale bosniaca, al punto che la sua risoluzione è stata posta tra i punti centrali del documento di programma appena sottoscritto dalla nuova maggioranza di governo del Cantone di Sarajevo.

Nei giorni immediatamente successivi, a Pristina, capitale del Kosovo, l’indice di qualità dell’aria ha raggiunto il valore-monstre di 456, similmente a quanto osservato a fine novembre in un’altra capitale, Skopje, in Macedonia.

Un problema generale nei Balcani

Se la questione non fosse seria e non riguardasse la salute delle persone, si potrebbe sottolineare, con quell’ironia tanto cara ai sarajevesi, che l’inquinamento è probabilmente l’unico elemento unificante dei Balcani, accomunando non solo le capitali, ma anche i centri minori, sede di diversi insediamenti industriali (realizzati perlopiù nel periodo jugoslavo e mai ammodernati) e delle centrali elettriche a carbone. Sono conosciutissimi per le emissioni di anidride solforosa gli impianti Nikola Tesla B e Kostolac, in Serbia, e quello di Ugljevik, in Bosnia Erzegovina: quest’ultimo considerato dall’Agenzia europea per l’ambiente il più inquinante di tutti (150 mila tonnellate l’anno di anidride solforosa).

E’ forse meno noto, invece, che secondo quanto emerso dagli studi condotti nell’ambito del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), sarebbero addirittura 27 le zone che, in Kosovo, hanno un livello di inquinamento ad alto rischio per la salute umana. E secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale per la Salute (OMS) del 2016, sono tre le città macedoni tra le prime dieci per emissioni di polveri sottili: Tetovo, Skopje e Bitola. Per non dire della centrale a carbone di Pljevlja, in Montenegro, regolarmente oltre i limiti di emissioni.

Le cause

Un refrain, quello dell’inquinamento atmosferico, che si presenta sempre uguale a se stesso alla vigilia di ogni inverno. Oltre al già ricordato ricorso al carbone per alimentare le centrali termoelettriche, le cause di questa situazione risiedono sia nell’impiego del carbone stesso o della nafta nel riscaldamento domestico, sia nella moltitudine di veicoli circolanti alimentati a gasolio, spessissimo risalenti agli anni ’80 e ’90.

Non un problema stagionale, dunque, ma un problema strutturale, come sottolineato da Khaldoun Sinno, vicecapo della delegazione UE in Bosnia Erzegovina, nel corso di una conferenza stampa tenutasi a Sarajevo all’indomani della diffusione dei dati choc sull’inquinamento cittadino.

Le conseguenze

Il problema è, dunque, vitale e percorre da nord a sud tutti i Balcani. Il World Health Statistics del 2018 ha sancito che sono proprio i paesi dell’est Europa a far registrare i tassi di mortalità legati all’emissione di polveri sottili più alti dell’intero continente. E i dati dell’OMS del 2016 sono in linea con questa conclusione: la situazione peggiore si ha in Bosnia Erzegovina dove si stima siano almeno 8000 le morti premature per cause legate all’inquinamento dell’aria, 231 ogni centomila abitanti. Appena meglio in Serbia dove si scende a 5400, ma è significativo, se rapportato alla popolazione, anche il dato di Macedonia e Kosovo, con 1300 e 800, rispettivamente.

Non solo un problema sociale, però, ma anche economico: stando a uno studio di Bank Watch, un’organizzazione no profit, i costi direttamente collegati all’inquinamento dell’aria ammonterebbero, in tutti i Balcani, a 8,5 miliardi di euro l’anno, tra morti premature e costi sanitari, il 13% del loro PIL totale.

Lontani dalla soluzione

Da parte della politica sembra esserci mancanza di consapevolezza o, peggio, indifferenza a trovare una soluzione. Prova ne è il fatto che in Bosnia si continua a investire sul carbone: dopo l’inaugurazione di una nuova centrale a carbone a Stanari nel 2016 (560 milioni di euro, il più grande investimento in campo energetico degli ultimi 30 anni), sono ora al via i lavori per l’espansione della centrale di Tuzla, in Bosnia.

Più in generale, in tutti i Balcani occidentali sono svariati i progetti di nuovi impianti termoelettrici allo studio, con la sola eccezione dell’Albania. Nel frattempo si gestisce alla bene e meglio l’emergenza mettendo in atto misure palliative, dal blocco del traffico, alle mascherine. Davvero troppo poco.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 13, 2018, 19:35:47 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Armenia/Il-dilemma-del-femminismo-nella-Nuova-Armenia-191639

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Il dilemma del femminismo nella "Nuova Armenia"
aree   Armenia ita

Mentre sempre più donne scelgono di entrare in politica nella "Nuova Armenia" rivoluzionaria, il movimento femminista è di fronte a un dilemma: trasformare il sistema patriarcale dall'interno o dall'esterno?

13/12/2018 -  Knar Khudoyan
(Pubblicato originariamente da OC Media  il 29 novembre 2018)

"Sono stati i metodi della Rivoluzione di velluto, cioè la de-centralizzazione, l'orizzontalità, che hanno permesso alle donne di partecipare. Nessuno ha dovuto spingere le donne a fare politica: è successo naturalmente. Perché la strada, se non era anarchica, non era nemmeno gerarchica". Così l'attivista femminista Maria Karapetyan, fra gli organizzatori del movimento "Reject Serzh", che ha rovesciato decenni di dominio del Partito Repubblicano nel paese, riassume il ruolo delle donne nella rivoluzione.

Mentre molte donne e ragazze hanno ancora la pelle d'oca quando sentono il famoso discorso "Viva le sorelle", pronunciato da Karapetyan in piazza della Repubblica a Yerevan il 18 aprile scorso, l'attivista ha preso la decisione – che definisce dura – di unirsi al Partito del "Contratto civile" e candidarsi per il parlamento.

Karapetyan non è l'unica donna che pensa che la Rivoluzione di velluto debba continuare nelle istituzioni statali e nei governi locali. Le prime elezioni post-rivoluzionarie nel paese, le elezioni per il sindaco e il consiglio comunale del 23 settembre a Yerevan, hanno visto la partecipazione di alcune attiviste che hanno aderito all'alleanza "Il mio passo", sostenuta dal primo ministro Nikol Pashinyan.

Con uno schiacciante 81%, "Il mio passo" ha ottenuto 57 dei 65 seggi in ballo, fra cui 15 donne.

Elezioni parlamentari
Il premier uscente armeno Nikol Pashinyan, ha ottenuto una schiacciante vittoria alle elezioni parlamentari tenutesi domenica 9 dicembre in Armenia.

L'alleanza da lui guidata, 'Il mio passo', che include il suo partito 'Contratto civile', ha ottenuto il 70,4% dei voti.

Addirittura fuori dal parlamento l'ex partito di governo, il Partito repubblicano dell'Armenia, che non è riuscito a superare il 5%, quota di sbarramento, fermandosi al 4,7% dei voti. Uniche forze all'opposizione parlamentare saranno 'Armenia prospera' e 'Rinascimento armeno', che hanno raccolto rispettivamente l'8,27% e il 6,37% delle preferenze.

A seguito del voto Nikol Pashinyan ha scritto sulla propria pagina Facebook: "Cittadini forti, forti, forti. Vi amo e sono fiero di voi e mi inchino a tutti voi!".

Dal canto suo, Eduard Sharmazanov, portavoce del Partito Repubblicano, all'uscita dei risultati preliminari che dichiarato che il 9 dicembre è un "Giorno di resurrezione per il partito che non è affatto 'finito' come dicono alcuni ma che ha 60.000 sostenitori fedeli".

Il 10 ottobre, Diana Gasparyan ha vinto le elezioni a Vagharshapat (Ejmiatsin), una città appena ad ovest di Yerevan, diventando la prima donna sindaco dell'Armenia. Le elezioni parlamentari previste per dicembre [tenutesi lo scorso 9 dicembre, ndr] vedranno ancora più donne candidate.

Ciò porterà ad una maggiore presenza femminile negli organi decisionali del paese, ma alcuni si chiedono se ciò porterà automaticamente ad una maggiore protezione dei diritti delle donne.

Una fascia del femminismo armeno considera infatti in contraddizione con l'obiettivo della liberazione delle donne lavorare con lo stato, protettore della proprietà privata e della famiglia (la proprietà appartiene agli uomini e la famiglia è il principale luogo di sfruttamento delle donne).

Sostengono invece che la lotta per le donne come "classe" deve passare attraverso l'empowerment delle comunità femminili, creando modelli cooperativi per le relazioni sociali, e non attraverso individuali storie di successo di ragazze che sono riuscite a rompere il soffitto di vetro.

Il patriarcato gentile
Il nuovo primo ministro Nikol Pashinyan ha espresso le sue opinioni sull'uguaglianza di genere. Sottolineando il ruolo delle donne nel suo discorso dell'8 maggio, il giorno del suo insediamento, Pashinyan ha affermato che "la partecipazione massiccia delle donne è un fattore che ci ha permesso di chiamare ciò che è accaduto una rivoluzione di 'Amore e solidarietà'".

Tuttavia, ha poi aggiunto qualcosa che ha fatto trasalire le femministe in tutto il paese. "La rivoluzione ha dimostrato che la partecipazione attiva delle donne [in politica] è compatibile con la nostra identità nazionale, la nostra percezione nazionale della famiglia".

La maggior parte delle femministe è conscia che il nuovo governo non è molto informato sui movimenti delle donne. Molte sono state comprensive, almeno per ora, nella convinzione che sia prioritario combattere il rischio di controrivoluzione.

"In epoca pre-rivoluzionaria, abbiamo dovuto infrangere la legge per partecipare, ad esempio, ad una discussione sulla legge sulla violenza domestica al ministero della Giustizia", ​​ricorda Lara Aharonyan, co-fondatrice del Women's Resource Center di Erevan. "Sì, i membri del nuovo governo sono prodotti della stessa società patriarcale. Sono anche persone dalla mentalità patriarcale. La differenza è che sono pronti ad ascoltare, a educare se stessi, a collaborare con la società civile, a differenza dei loro predecessori".

Aharonyan pensa che, per ottenere la partecipazione delle donne, lo stato deve prima fare alcuni passi avanti. Uno di questi, afferma, sarebbe aumentare le quote per alleviare lo squilibrio di genere in parlamento. Nel parlamento sciolto il primo novembre solo il 18% dei deputati erano donne.

"Le donne devono essere presenti per parlare dei propri bisogni. E se più della metà della popolazione è composta da donne, per giustizia e per una pari rappresentanza, le donne dovrebbero costituire il 50% del parlamento", sostiene Aharonyan.

Dall'attivismo alla politica di partito
Membro di lunga data del partito della Federazione Rivoluzionaria Armena, Sevan Petrosyan concorda sul fatto che il sistema dei partiti è un compromesso per le femministe convinte.

"Come raccontava Simone de Beauvoir in quanto donna nel Partito comunista francese, doveva combattere su due fronti; all'interno del partito e al di fuori di esso. Questa è l'unica soluzione. Non mi illudevo che questa rivoluzione avrebbe portato le donne in politica a tutta forza. Non era la priorità. A differenza di molte altre femministe, non sono rimasta delusa dal fatto che Pashinyan abbia nominato solo due ministri donne, perché non nutrivo grandi aspettative".

"Il mio problema era che questo non era un movimento dei poveri. Era un movimento per liberarsi del Partito Repubblicano, della corruzione, della mancanza di trasparenza, e basta. Sì, lo stato si è fatto più vicino a me, posso scrivere una breve domanda al mio amico, che ora è vice ministro. Ma non si può dire lo stesso per un abitante di un villaggio della provincia", dice Sevan Petrosyan.

Molto prima della Rivoluzione di velluto, un'alleata chiave di Pashinyan, Lena Nazaryan, fu una delle prime donne a lasciare l'attivismo per la politica di partito. Attivista ambientalista e giornalista critica per molti anni, Nazaryan è fra i fondatori del Partito del "Contratto civile" di Pashinyan nel 2015.

Nazaryan è ora alla guida della fazione Way Out in parlamento. Modello per molte giovani donne, è spesso tormentata da adolescenti in cerca di selfie.

"Non mi piace quando le donne vengono presentate come deboli, come se dovessero essere spinte ad essere attive. No, le donne dovrebbero essere presenti perché sono necessarie. E quando lo sono, dovrebbero provarlo nel loro lavoro", dice Nazaryan.

"Personalmente preferisco collaborare con le donne, se ne ho la possibilità, perché giocano meglio in squadra, sono interessate al risultato, non a gareggiare".

Trasformare le relazioni sociali, non le singole donne
Le attiviste che si rifiutano di scendere a compromessi con lo stato lo fanno senza condannare le donne che lo fanno.

"Non dico che le donne non dovrebbero impegnarsi in politica, ma la loro partecipazione non dovrebbe essere fine a se stessa", dice Anna Shahnazaryan.

"Se una donna entra in parlamento, dovrebbe mettere in discussione il modo in cui le decisioni vengono prese lì. Se una donna entra in un'istituzione per smantellarla dall'interno, per renderla più democratica e centrata sulla persona, è una cosa che incoraggio".

"Personalmente non mi interessa se il sindaco di Ejmiatsin è una donna se non rappresenta il suo genere [...] Il ministro del Lavoro e degli Affari Sociali è una donna, Mane Tandilyan, ma per me è un problema che lei non parli del lavoro domestico non retribuito delle donne".

Shahnazaryan e la sua collega Arpine Galfayan sono coinvolte nell'attivismo su molti fronti, tra cui la creazione di movimenti di resistenza collettiva nelle comunità per combattere progetti minerari come quello di Teghut, Amulsar.

Galfayan mette in guardia dalla "trappola" di essere usate come pedine in politica.

"Le donne vengono utilizzate per riempire le quote, per dare la falsa speranza che stia andando meglio", dice.

"Credo che le istituzioni della democrazia rappresentativa abbiano la logica di mantenere il pieno controllo e non condividere il potere con gli altri", sostiene Galfayan.

Dice che, a livello globale, il sistema "promuove gli interessi delle élite aziendali più ricche e più inumane. In definitiva è gerarchico; gli uomini (specialmente gli uomini eterosessuali benestanti) hanno da sempre posizioni privilegiate in queste gerarchie, e quindi le donne faticano a diventare parte del 'club'. Infine, anche quelle poche donne che raggiungono il vertice devono comunque fare gli interessi di questo sistema gerarchico e ingiusto".

"Preferisco lavorare per smantellare questo sistema piuttosto che renderlo più accattivante. Preferisco sostenere e rafforzare sistemi che ritengo equi e liberatori", dice Galfayan.

Shahnazaryan sostiene che il punto sia se una donna è consapevole della subordinazione che affronta a causa del suo genere.

"Una donna non deve essere in parlamento per fare politica. Se una casalinga protegge la sua vicina, ostacolando e prevenendo la violenza domestica, sta facendo un'azione politica".

Smantellare il patriarcato a tutti i livelli
Tuttavia, la maggior parte delle femministe in Armenia concorda sul fatto che non vi è una dicotomia fra "riformismo e femminismo radicale" e che il cambiamento è sempre arrivato da una combinazione delle due forze. Ad esempio, nel movimento delle suffragette nell'Inghilterra del primo Ottocento secolo, i movimenti militanti delle donne hanno lavorato in parallelo con i gruppi femministi conservatori.

Poche donne politicamente attive in Armenia negherebbero che la rivoluzione debba continuare, e che il famoso slogan femminista "il personale è politico" sia ancora valido. Alcune si concentrano sul "personale" della frase; lavorare sodo su di sé per vincere in una battaglia impari con uomini privilegiati, mentre altre lottano per trasformare le relazioni sociali esistenti.



Citazione
"Le donne devono essere presenti per parlare dei propri bisogni. E se più della metà della popolazione è composta da donne, per giustizia e per una pari rappresentanza, le donne dovrebbero costituire il 50% del parlamento", sostiene Aharonyan.

Fanno gli stessi identici discorsi delle femmine occidentali.
Questo per chi ancora credesse che al di fuori dell'Occidente le donne... "son diverse".
Sì, come no.
Tornando nel merito, sarebbe interessante conoscere la percentuale delle armene interessate e impegnate nella politica.
Molto probabilmente la suddetta percentuale somiglierà moltissimo a quella di casa nostra e di tanti altri paesi, occidentali e non...

https://questionemaschile.forumfree.it/?t=8366653

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seiper1
view post Inviato il 21/5/2006, 11:19

Ok. Andiamo per ordine.
Tu dici che la percentuale di donne in politica attiva dipende da un complotto (più o meno oscuro) della parte maschile (segreterie di partito, classi dirigenti etc.) per garantirsene il monopolio.
Ma prima di fare un'affermazione così banale, che è quella che sentiamo tutti i giorni dai media, sapresti dirmi quello che non viene mai detto?
Ossia, quale sia la percentuale di donne che frequentano la politica e partecipano attivamente nelle sezioni, nelle segreterie, sul territorio, nelle circoscrizioni, nei comuni e in tutti quei luoghi dove la politica si svolge?
Io, pur senza avere dati certi (che nessuno dice esplicitamente, perché, questa sì, è una realtà occultata) so che in molti partiti (molti, non tutti) la semplice percentuale delle iscritte non va oltre il 15/20 percento, ad essere generosi. E questo dato ancora non dice quanta parte di queste abbia un impegno effettivo o possegga solo una semplice tessera. A questo riguardo, sarebbe utile ed importante se qualcuno di noi (io non ho tempo sufficiente per farlo) svolgesse una piccola ricerca sul web per raccogliere questi dati sin dove possibile. Sono convinto che ne uscirebbe un quadro significativo.
Poi, chiunque conosca minimamente la politica sa perfettamente che la carriera e la sua ascesa sono garantite solamente dal seguito personale dell’attivista, dal numero di tessere che riesce a far sottoscrivere e dal suo bacino di consenso.
Se una segreteria di partito dovesse sostituire a questi criteri per formare le candidature quelli del sesso di appartenenza, pregiudicherebbe il rapporto effettivo con l’elettorato perdendo voti e rappresentanza. E’ quello che sta succedendo ai DS che, privilegiando in astratto la componente femminile, ad ogni tornata perdono quote di elettorato.
Secondo: tu dici che un ulteriore impedimento alle donne sarebbe dato dal dover crescere i figli.
Intanto, io non riesco più a capire come si faccia seriamente ad invocare, da un lato, la maternità come valore aggiunto della donna e, dall’altro, ad additarla come fattore di impedimento al suo sviluppo sociale. Da questa contraddizione, secondo me, si stanno producendo quei guasti psicologici individuali, che hanno il loro sintomo più drammatico nelle ormai numerose madri che sopprimono i figli a calci nella schiena o infilandoli nella lavatrice. Neanche questo aspetto viene mai considerato dai media, che preferiscono parlare, invece, di astratte depressioni post-partuum…….
Ma, a parte questo (che meriterebbe un approfondimento a parte), secondo te e molti altri, data questa evidenza biologica bisognerebbe alterare le regole del gioco democratico e della rappresentanza, nonché dei criteri meritocratici di selezione, solo per consentire alle donne una maggiore partecipazione sine titulo alla vita politica. E’ un punto di vista; sicuramente non il mio che lo considero una pericolosa falsificazione della rappresentanza politica.
Ma ci si dimentica di osservare, soprattutto, che questa eventualità poggia, in ultima analisi, sul sacrificio di altrettanti uomini che si guadagnano la carriera sul campo e non sull’appartenenza di genere e che si vedrebbero scavalcati da altrettante donne con la semplice giustificazione che “sono donne”.
Le chiamano esplicitamente “discriminazioni positive”, quindi ben comprendendo l’intimo aspetto discriminatorio che comportano, che sarebbe reso accettabile, chissà perché, dall’aggettivo positive. Naturalmente la positività della cosa non è estesa a tutti i cittadini, unico fattore che la renderebbe tollerabile, ma solo ad una parte di essi: quella femminile.
Io credo che qualunque discriminazione, anche a mente del dettato Costituzionale che tu stesso hai ricordato, non abbia mai alcun aspetto positivo, ma sia solo la legittimazione di un nuovo sistema di privilegi di una parte a danno dell’altra.
Se per te questo è progresso e civiltà siamo ben lontani dal comprenderci.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Sardus_Pater - Dicembre 14, 2018, 19:36:07 pm
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"Sono stati i metodi della Rivoluzione di velluto, cioè la de-centralizzazione, l'orizzontalità, che hanno permesso alle donne di partecipare.

A me puzza tanto di simil-rivoluzione arancione come quello dietro cui c'è stata la longa manus di Soros. Guarda caso, il PR armeno aveva il beneplacito di Putin.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Dicembre 14, 2018, 23:47:20 pm
Il femminismo sembra proprio uno strumento indispensabile alla governabilità globale, nella misura in cui dà al tessuto sociale la consistenza della gelatina.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 24, 2018, 18:43:33 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Sarajevo-aria-irrespirabile-191807

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Sarajevo, aria irrespirabile
aree   Bosnia Erzegovina ita

Nei giorni tra il 2 e il 4 dicembre, Sarajevo è stata la capitale più inquinata al mondo, almeno secondo i dati forniti dalle ambasciate statunitensi che monitorano abitualmente la situazione ambientale delle città in cui hanno sede

21/12/2018 -  Alfredo Sasso Sarajevo
Era una domenica invernale come tante, quelle in cui i sarajevesi normalmente attendono le ore più calde per fare due passi nella centralissima Ferhadija o nel rilassante Vilsonovo, il viale pedonale che costeggia la Miljacka. Ma nel pomeriggio del 3 dicembre, alcuni numeri iniziavano a rimbalzare sui social di tutta la Bosnia Erzegovina e nelle agenzie di mezza Europa, invitando a rinviare la passeggiata. Numeri sparsi tra il 300 e il 400, fino a raggiungere, in tarda serata, il valore-record di 428  . Si tratta dell’AQI (Air Quality Index), un valore che indica  su una scala da 1 a 500 la quantità di PM 2.5. Queste ultime sono il cosiddetto “particolato fine”, prodotto da ogni tipo di combustione, in grado di penetrare più profondamente nelle vie respiratorie rispetto al PM 10 e dunque più dannoso ancora per la salute, potenziale causa di malattie polmonari, cardiache e del sangue.

Per dare un’idea, un valore AQI è “accettabile” fino a 100, per poi diventare “malsano”, “molto malsano” e, oltre i 300, “allarmante”, un dato che di fatto costringe l’intera popolazione a non uscire di casa e prendere precauzioni.

Sul profilo Twitter “Kvaliteta zraka - Sarajevo  ” (“Qualità dell’Aria”), un bot che segnala ad ogni ora l’AQI della capitale bosniaca attraverso una scala di emoticon, dalle faccine sorridenti a quelle più disperate, in quelle ore compariva stabilmente l’immagine corrispondente al valore più allarmante: un teschio.

È così che, nei giorni tra il 2 e il 4 dicembre, Sarajevo è stata la capitale più inquinata al mondo, almeno secondo i dati  offerti dalle ambasciate statunitensi che monitorano abitualmente la situazione ambientale delle città in cui hanno sede.

È un altro riconoscimento indesiderato per la Bosnia Erzegovina che è tradizionalmente nei primissimi posti per mortalità da inquinamento atmosferico secondo i rapporti dell’Organizzazione Mondiale della Salute. È stata infatti quinta nel 2016  (peggio solo Ucraina, Bulgaria, Bielorussia e Russia) e seconda nel 2017  , dietro la Corea del Nord.

Nel giro di pochi giorni, le mascherine nelle farmacie andavano quasi esaurite, mentre gli ospedali registravano un deciso aumento di pazienti per infezioni respiratorie. Nei giorni immediatamente successivi, il vento e le precipitazioni facevano abbassare i livelli, che tuttavia sono tornati a salire negli ultimi giorni.

Al momento in cui scriviamo questo articolo, il 20 dicembre, l’AQI è tornato sopra i 300, e il teschio fa nuovamente capolino su Kvaliteta Zraka.

Le cause
Negli ultimi anni, il picco d’inquinamento invernale è sempre più ricorrente. In una città come Sarajevo, chiusa in una conca tra colline e montagne con scarsa circolazione d’aria, il fenomeno dell’inversione termica aggrava ulteriormente la situazione. Ma le cause sono naturalmente artificiali e, se si guarda al panorama della Bosnia Erzegovina, molto diversificate. In alcune città bosniache le emissioni industriali rappresentano una parte consistente del problema, come nel caso della centrale termoelettrica a carbone di Tuzla, o dell’acciaieria Arcelor-Mittal di Zenica, con emissioni totalmente fuori scala di diossido di azoto e diossido di solforo.

A Sarajevo, invece, si considerano come fattori principali d’inquinamento il riscaldamento, l’inefficienza energetica delle abitazioni e il traffico automobilistico. Dall’ultimo dopoguerra, a causa delle difficoltà economiche diffuse e delle distorsioni dei prezzi, si è assistito a un rapido ritorno ai combustibili solidi, ovvero legna e carbone. Quest’ultimo è il materiale più conveniente, ma anche di gran lunga il più inquinante. Da anni le associazioni ambientaliste, seguendo le richieste dell’OMS, ne chiedono il divieto. Secondo i dati del censimento 2013, nel cantone di Sarajevo le abitazioni sono suddivise così per fonte di riscaldamento: 146.000 abitazioni a legna, 69.000 a gas, 21.000 a carbone, 16.000 a elettricità e altrettante con oli combustibili. Gli esperti denunciano che non esistono certificazioni energetiche e controlli di emissioni, e che si permette la vendita di materiali di scarsa qualità.

Su questo tema spesso si invocano gli alibi dell’industria pesante e della scarsa cultura ecologica ereditati dal comunismo jugoslavo, ma è un argomento valido solo in parte. Negli anni ’70, dopo un periodo di allarmanti crisi con gravi ripercussioni sulla salute pubblica, l’amministrazione di Sarajevo fornì diversi incentivi per la conversione a gas del riscaldamento domestico. Si ottenne così una drastica riduzione delle emissioni. Oggi la politica non mostra la stessa attenzione, anzitutto per lo spezzatino tra i diversi livelli di governo, fattore notoriamente onnipresente in Bosnia Erzegovina. Non esiste un ministero dell’Ambiente statale, essendo una materia gestita interamente dalle due entità (Federazione di BiH e Republika Srpska) e, nel caso della Federazione, è prevalentemente delegata al livello dei cantoni.

In verità, anche a livello locale, le risorse non mancherebbero. Il cantone di Sarajevo è spesso definito “il più ricco del paese” per l’ampio gettito fiscale di cui dispone. Ma nessuna forza politica ha mai mostrato volontà di operare misure strutturali, che potrebbero essere impopolari e difficili da gestire. Una delle poche proposte in questo senso, arrivata il mese scorso dal ministro dell’Ambiente cantonale Lukić, è quella di un piano per estendere i sistemi centralizzati a gas. Sarebbe la soluzione più efficace per ridurre l’inquinamento atmosferico. Tutto sembra però procedere lentamente, e senza una parallela politica di incentivi sui prezzi è difficile aspettarsi risultati tangibili.

Traffico
L’altro grande problema di Sarajevo è quello delle auto, di norma vecchie e inquinanti. In Bosnia Erzegovina ogni veicolo ha un’età media di 17 anni. Il 69% è diesel, dunque con maggiori emissioni (dati ufficiali dell’Agenzia statistica bosniaca 2016). Solo nel cantone di Sarajevo, il 21% delle auto è euro 0  , risalente a prima del 1991. Peraltro le crescenti limitazioni alle auto diesel in molti paesi europei potrebbero dare un’ulteriore spinta alla già florida importazione in Bosnia Erzegovina di auto usate, aumentando ancora di più l’impatto dei veicoli inquinanti se non si prenderanno misure di restrizione.

Anche in questo ambito si agisce molto lentamente. Il test sui gas di scarico (eko-test) diventerà vincolante per la revisione solo dal 2020. Ma sarà valido solo in Federazione BiH, non in Republika Srpska. Le targhe alterne, nonostante a Sarajevo fossero sul tavolo da sempre, sono state applicate per la prima e ultima volta il giorno di Natale del 2016, causando un mare di polemiche. D’altra parte, l’attuale condizione del trasporto pubblico nella capitale sarebbe inadeguata e insufficiente ad assorbire la riduzione del traffico privato.

App e ćevapi
Secondo i soggetti che maggiormente seguono i problemi ambientali, ciò che manca in Bosnia Erzegovina non è solo la volontà politica, ma il suo presupposto precedente: risorse per l’analisi, monitoraggio dei dati e degli effetti sulla salute, cifre più attendibili che stimolerebbero una vera presa di coscienza della popolazione e una più forte pressione verso le istituzioni. “Ci manca una diagnosi precisa della situazione”, dice a OBCT Anes Podić, il coordinatore di “Eko Akcija”, una delle organizzazioni ambientaliste più attive, la prima a creare una pagina web e una app per smartphone che fornisce informazioni sulla qualità dell’aria nelle principali città bosniache. Sono stati attivisti e cittadini comuni a lanciare questi strumenti, di fronte all’inazione, e talvolta alla deliberata indifferenza, delle istituzioni. “Ma il governo cantonale a chi ha dato la colpa dei problemi? A noi che abbiamo creato l'app, diffondendo panico e notizie false”, ricorda sarcasticamente Podić.

La pagina twitter Kvaliteta zraka Sarajevo, quella che traduce in faccine, teschi e grafici l’indice di qualità dell’aria misurato dall’ambasciata statunitense, è stata creata spontaneamente da Imer Muhović, un sarajevese ricercatore in ingegneria che lavora all’estero, a Barcellona. Muhović non è nuovo a iniziative di questo tipo. È diventato noto nell’ambiente mediatico bosniaco all’indomani delle elezioni di ottobre, quando aveva creato di propria iniziativa proiezioni e mappe dei risultati, sostituendosi di fatto alla Commissione Elettorale Statale. Mentre questa si era distinta per una serie impressionante di ritardi e inettitudine nel fare circolare le informazioni, Muhović incarnava uno spirito di riscossa civica, lo stesso che si può intravedere in questa nuova iniziativa.

Contattato da OBCT, Muhović spiega: “La gente comune usava poco il sito dell’ambasciata americana. Le emoticon e la traduzione in bosniaco sono più efficaci per la comunicazione, e il grafico dà una visione completa del ciclo di 24 ore”. Ma quale è stata la reazione della gente, soprattutto dopo il 3 dicembre? “Inizialmente c’è stata molta preoccupazione, è stata fatta una petizione online [su change.org, ndA] con grande diffusione per chiedere provvedimenti al governo, ma poi nei giorni successivi quando l’AQI è sceso è calata anche la reazione. E il governo cantonale ha dimostrato di non sapersi confrontare con quanto accaduto”.

La reazione del potere locale è stata infatti, ancora una volta, quella di minimizzare, di auspicare il bel tempo nei giorni successivi che risolverà tutto, di trovare spiegazioni poco plausibili. All’indomani del primato mondiale, un consulente scientifico del parlamento cantonale aveva affermato che il misuratore della qualità dell’aria non sarebbe stato attendibile, perché sarebbe stato alterato dal camino di una vicina ćevabdžinica (un ristorante dove si vendono i ćevapi, le tipiche salsicce di carne macinata). L’affermazione fuori luogo ha immancabilmente scatenato l’ironia di molti sarajevesi e l’irritazione dell’ambasciata statunitense, presa in causa perché il sensore si trova sul suo edificio. Soprattutto, ha nutrito l’ennesimo pregiudizio e acceso l’ennesima indignazione verso un ceto di politici e tecnici pronto a scaricare le responsabilità su qualunque cosa, anche sul camino di una ćevabdžinica, pur di non affrontare i problemi reali. Viene proprio da dire: tutto fumo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 24, 2018, 18:47:44 pm
http://www.eastjournal.net/archives/94849

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UNGHERIA: La protesta è un complotto della sinistra
Gian Marco Moisé  3 giorni fa

L’Ungheria protesta, oggi, ieri, da giorni. L’Ungheria è in piazza, vandalizza le sedi del partito di maggioranza, occupa le sedi della TV nazionale, che da giorni ignora le richieste dei rappresentanti dell’opposizione.

L’ignoranza è forza

Ieri, giovedì 20 dicembre, la sera della firma del presidente della repubblica sulla legge che è stata soprannominata dai sindacati e dalle opposizioni “legge schiavitù”, la folla è scesa ancora una volta in piazza. Le manifestazioni si tengono da mercoledì 12 dicembre, giorno dell’approvazione della legge, e cercano di scuotere l’anima profonda di un paese che si sta abituando alla fine delle sue libertà.

D’altra parte, non nutrivano per gli eventi pubblici neanche quell’interesse minimo per capire che cosa stava succedendo. L’incapacità di comprendere salvaguardava la loro integrità mentale. Ingoiavano tutto, senza batter ciglio, e ciò che ingoiavano non le faceva soffrire perché non lasciava traccia alcuna, allo stesso modo in cui un chicco di grano passa indigerito attraverso il corpo di un uccello.

1984, Geoge Orwell

“È tutto un complotto. Tutto queste proteste di cui parla distrattamente la televisione, non sono l’Ungheria. La vera Ungheria, quella che conta, si è espressa democraticamente ad aprile, ha dato al Capitano il mandato per fare ciò che tutti noi volevamo facesse, mettere alla porta i migranti, gli sfruttatori, i criminali. Quelle persone che marciano sono marce, pagate dalle élite mondialiste, da una sinistra allo sbando, da quell’ebreo traditore che specula sulla pelle degli ungheresi, quelli veri. Vero come il Capitano. Noi ce lo ricordiamo il Capitano. Abbiamo sconfitto i comunisti insieme. Eravamo giovani allora, Capitano, ma adesso che siamo più vecchi, abbiamo capito che avevano ragione loro. Questi giovani non hanno vissuto quello che abbiamo vissuto noi. Questi giovani che parlano di libertà, non hanno capito che la libertà è schiavitù. Eppure, il ministero della verità lo ripete su tutti i canali: la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza.” È questa la coscienza ungherese? O l’Ungheria è composta anche dalle migliaia di persone che protestano da giorni?

La libertà è schiavitù

Il presidente della repubblica, János Áder, ha firmato con un giorno d’anticipo la legge che è stata soprannominata dai sindacati e dalle opposizioni “legge schiavitù”. Dopo aver constatato che l’ammontare delle ore di lavoro straordinario istituite dall’emendamento al codice del lavoro è previsto anche dalle legislazioni di Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca e Repubblica Ceca, e che tali ore di lavoro non potranno essere imposte dal datore di lavoro, ma solo concordate col lavoratore, il presidente ha ritenuto la normativa non lesiva dei diritti del lavoratore. Nel concludere il suo intervento, Áder ha aggiunto che questa modifica non deve turbare le celebrazioni del Santo Natale, augurando buone vacanze ai suoi concittadini.

Eppure, il diavolo sta nel dettaglio. La normativa crea problematiche perché depotenzia l’efficacia contrattuale dei sindacati con le imprese, mettendo i lavoratori in una situazione potenzialmente ricattatoria. Infatti, i datori di lavoro potranno proporre individualmente un aumento delle ore di straordinario, e qualora i lavoratori rifiutassero, cosa impedirebbe a un datore di lavoro di poter scegliere tra un lavoratore più, e uno meno disposto a lavorare più ore, in presenza di questa legge? Forse lo sciopero di una sola persona? Infine, la possibilità concessa al datore di lavoro di pagare le ore di straordinario fino a 36 mesi di distanza, non sembra una delega allo sfruttamento dei lavoratori? Il primo ministro Viktor Orbán in persona ha detto che la normativa è nell’interesse dei lavoratori e lui rispetta i sindacati, ma hanno torto a protestare.

Ma il governo Orbán non era un esecutivo sovranista disposto a difendere la nazione dalle forze mondialiste? Non era Capitan Ungheria in persona, l’eroe che avrebbe dovuto salvare gli ungheresi dal nemico esterno? Il governo ha ammesso che questa norma è necessaria agli stabilimenti automobilistici tedeschi che da anni sono in carenza di personale. Con l’aumento dei giovani che lasciano il paese in cerca di opportunità lavorative all’estero, e il blocco di qualsiasi migrante economico ai confini, come si possono convincere le imprese tedesche a non delocalizzare gli stabilimenti? Qual è la nazione difesa da Capitan Ungheria? Di certo non i lavoratori, non i sindacati, e dopo la stretta sulle università dei mesi scorsi, neanche i giovani. D’altronde in questo consiste il bipensiero, nel dire tutto e il suo contrario, senza vederci contraddizione.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 02, 2019, 20:25:18 pm
http://www.eastjournal.net/archives/94920

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BOSNIA: Arresti e divieti, la repressione contro i manifestanti per la giustizia
Giorgio Fruscione  6 giorni fa

Sono state due giornate di alta tensione a Banja Luka, capoluogo della Republika Srpska – una delle due entità autonome che compongono la Bosnia Erzegovina. I genitori di David Dragicevic, ventiduenne ammazzato a marzo e per il quale da allora ogni giorno ininterrottamente chiedono giustizia, sono stati arrestati il giorno di Natale. Durante il loro fermo, molti cittadini si sono recati in piazza per esprimere solidarietà, scatenando la repressione della polizia. Il movimento “Giustizia per David” ha quindi ricevuto il divieto di radunarsi, ma ha affermato che le proteste continueranno.

I fatti

Davor Dragicevic è stato arrestato la mattina di martedì 25 dicembre poco dopo esser uscito di casa. Ufficialmente, l’arresto è dovuto al rifiuto di Davor di recarsi alla polizia per rispondere della protesta – considerata illegale – condotta lo scorso 17 dicembre davanti al parlamento della Republika Srpska. Quel giorno si nominava il governo dell’entità e veniva confermato al ministero degli Interni Dragan Lukac, che Davor continua a ritenere responsabile politico dell’uccisione del figlio. Poco dopo, nella centralissima piazza Krajina, punto di ritrovo delle proteste del movimento “Giustizia per David”, veniva fermata anche Suzana Radanovic, madre del giovane, nonché diversi attivisti. Mentre la madre di David è stata rilasciata poche ore dopo, Davor Dragicevic – che in occasione dell’arresto ha riportato una frattura alla mano – è stato trattenuto fino al giorno dopo.

La polizia ha arrestato anche alcuni esponenti dell’opposizione, tra cui Branislav Borenovic e Drasko Stanivukovic del Partito del Progresso Democratico, Vojin Mijatovic dei socialdemocratici, così come l’ex deputato del parlamento regionale Adam Sukalo.

Gli arresti e le cariche – le cui immagini testimoniano la prova di forza messa in atto dalla polizia – sono stati effettuati da reparti speciali  ben equipaggiati e hanno scatenato l’indignazione di molti cittadini contro le autorità, accusate di arrestare i genitori del giovane ammazzato invece che i suoi assassini. Nella serata del 25 dicembre, la folla di cittadini si era radunata davanti alla chiesa del Cristo Salvatore per poi essere dispersa da un fitto cordone di polizia in tenuta antisommossa. Nel corso della giornata, inoltre, la polizia ha fatto rimuovere tutti i ricordi, le fotografie e gli oggetti che da quasi 300 giorni caratterizzavano il sit-in permanente in piazza Krajina (rinominata “piazza David”) – un’azione dall’alto valore simbolico con cui le autorità della Republika Srpska e il suo ex presidente Milorad Dodik (oggi alla presidenza collegiale bosniaca) hanno “ripulito” Banja Luka da qualunque dissenso, nonostante questo sia sempre stato pacifico.

Protesta a oltranza

Come c’era da immaginarsi, appena rilasciato Davor Dragicevic ha espresso la sua intenzione di protestare ad oltranza. Tuttavia, nelle stesse ore il ministro Lukac ha vietato al movimento “Giustizia per David” di radunarsi in piazza, affermando come per nove mesi la protesta sia stata “tollerata” nonostante il suo carattere illegale. Davor Dragicevic non si è fatto intimorire e ha quindi organizzato un corteo: la “marcia di David”, ripercorrendo la strada compiuta dal giovane poco prima di scomparire lo scorso 18 marzo. Alla fine, in modo altamente simbolico, Davor si è sdraiato sul punto esatto in cui una settimana dopo venne rinvenuto il corpo del figlio, completamente ricoperto di ematomi, abbandonato sulle rive del torrente Crkvena.

Non ci sono dubbi sul fatto che Davor, Suzana e tutti i cittadini che chiedono giustizia per David continueranno la loro protesta. All’indomani dell’arresto, la solidarietà è arrivata da tutta la Bosnia, a partire da Sarajevo, dove la causa di David Dragicevic è sostenuta da Muriz Memic, padre di Dzenan, giovane ammazzato nel 2016 in circostanze oscure. Muriz e Davor, che l’appartenenza etnica vorrebbe divisi, sono uniti dalla  tragica sorte toccata ai loro giovani figli e da marzo rappresentano la lotta trasversale contro l’ingiustizia e l’impunità in Bosnia-Erzegovina. Anche a Belgrado, all’indomani degli arresti, è stata organizzata davanti all’università la manifestazione “un cuore per David”, e una manifestazione simile si terrà  oggi anche a Zagabria.

Davor Dragicevic – che per tutti questi mesi ha sostenuto di conoscere i mandanti dell’omicidio – aveva anche precedentemente dichiarato che ad aprile, qualora non si arrivasse alla verità, andrà personalmente a dissotterrare il corpo del figlio.

Il vero volto di Dodik

La repressione poliziesca nel giorno del Natale cattolico sembra aver mostrato il vero volto autocratico dell’entità autonoma amministrata per anni da Milorad Dodik, che lo scorso ottobre è stato eletto a membro della presidenza tripartita della Bosnia. Pochi giorni prima del voto Dodik aveva profeticamente annunciato che dopo le elezioni Davor Dragicevic – “che si crede un figo” – non sarebbe più stato in piazza.

“La gente porterà in piazza nuovi cimeli, i lividi dei manganelli passeranno. Quello che invece non passerà e non verrà ignorato così facilmente è l’immagine vergognosa che le istituzioni [di Banja Luka, ndr] hanno mandato al mondo intero, che ha visto come la polizia picchi vecchi e bambini. Grazie a queste immagini terribili il caso Dragicevic è tornato sui media internazionali”, ha dichiarato per East Journal Vanja Stokic, direttrice del portale eTrafika.net, che aggiunge: “Le istituzioni hanno lanciato un boomerang che gli è subito ritornato indietro”.

La protesta per chiedere verità e giustizia per David continuerà, come sempre, ogni giorno alle 18, sfidando il divieto delle autorità. Quello che non è dato sapere, invece, è fino a che livello si spingerà la repressione.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 02, 2019, 20:31:19 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Croazia-quel-cazzuto-trio-del-Feral-191825

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Croazia: quel cazzuto trio del Feral

Due giornalisti di punta e un famoso caricaturista. Sono tra i fondatori dello storico settimanale satirico croato Feral Tribune. In questa intervista, il trio commenta senza peli sulla lingua la situazione in Croazia, lo stato di salute dei media e altro ancora

31/12/2018 -  Giovanni Vale,    Srđan Sandić Zagabria
I giornalisti Boris Dežulović e Viktor Ivančić e il caricaturista Alem Ćurin sono tra i fondatori della celebre rivista satirica Feral Tribune. Li abbiamo incontrati a Pola, al Festival del libro, per una chiacchierata sulla libertà di espressione e la politica in Croazia.

Il Festival del libro di Pola è dedicato quest’anno al lavoro di Predrag Lucić, vostro collega e amico, recentemente scomparso. Com’è iniziata l’avventura del Feral Tribune?

Boris: Questa è una domanda per Viktor. È lui il colpevole di tutto.

Viktor: (ride) Ho cominciato a collaborare con Predrag ancora prima che il Feral nascesse all’interno di Nedjeljna Dalmacija [un settimanale legato a Slobodna Dalmacija, oggi scomparso, ndr]. Lui lavorava come giovane studente (aveva vent’anni), mentre io lavoravo per una rivista studentesca presso la mia facoltà. Abbiamo iniziato a scrivere assieme al Feral per un po’ di tempo, poi, nel 1987, sono dovuto partire per il servizio di leva obbligatoria. Boro [Boris Dežulović, ndr] gestiva intanto una fenomenale rubrica satirica all’interno della rivista Omladiska Iskra [una rivista giovanile locale, ndr] e così ci siamo in qualche modo incrociati. Ci siamo come riconosciuti, c’era la stessa poetica e lo stesso spirito. E così, finché io ero nell’esercito loro hanno continuato a lavorare assieme e io li ho raggiunti non appena ho finito la leva. Dal Nedjeljna siamo passati a Slobodna Dalmacija, ma l’HDZ era già attivo e nel 1993, quando l’HDZ si è preso anche Slobodna Dalmacija, ce ne siamo andati e abbiamo creato il Feral Tribune, con un gruppo più ampio: c’era Alem e un paio di giornalisti provenienti da altre redazioni. Alem era presente dal primo numero.

Qual era l’accordo iniziale di collaborazione? Potevi fare quello che volevi in quanto alle vignette?

Alem: Loro mi piacevano molto, ma erano più giovani di me, per cui io non li ascoltavo, mentre loro ascoltavano me (ride). Non mi hanno mai censurato, in generale avevo carta bianca.

Il fatto che il Feral sia nato a Spalato significa qualcosa? C’è chi dice che solo lì poteva nascere una cosa del genere..., è vero?

Boris: No, no, si tratta di un mito. A Spalato siamo stati un incidente.

Viktor: È come se fossimo atterrati da Marte.

Boris: Davvero, è successo per caso.

Alem: E solo a Spalato hanno bruciato le copie del Feral!

Boris: Posso capire che la gente abbia creduto a questa storia della Spalato ribelle, è una storia che seduce, ma non è la verità. Noi non siamo nati da quella tradizione, ma al contrario dalla ribellione contro la tradizione di Spalato. Il Feral non è mai stato tanto odiato ed ignorato come a Spalato. Conosco per nome gli spalatini a cui piaceva il Feral. Non esagero. Era una setta, non era Spalato.

Viktor: Quando uscivo per strada per andare alla redazione a Bačvice, passavano meno di dieci minuti prima che qualcuno mi dicesse “vaffanculo”. E ricevevo due o tre attacchi del genere ogni giorno.

Boris: Detto questo, quello non era niente rispetto a quanto succede oggi.

Oggi è peggio?

Viktor: È una cosa dettata dall’alto. Ci sono stati degli anni tranquilli.

Boris: Gli anni 1998, 1999, 2000, 2001… sono stati anni comodi all’opposizione. Diciamo fino a che è arrivato Sanader, poi è iniziato il casino. Oggi, è peggio che mai.

Si può dire davvero che c’era più libertà di espressione nella Croazia degli anni Novanta che oggi?

Boris: La risposta breve sarebbe “sì”. Perché allora c’erano dei media e quindi poteva esserci una “libertà dei media”. Oggi non ci sono più media veri e propri. Tuttavia, quando si dice che c’era più libertà di espressione negli anni Novanta, questo suona bene, ma la verità è che c’era libertà di espressione al Feral. E per puro caso, il Feral era un media e per puro caso era croato. Il fatto che fosse pubblicato in questo paese ci fa dire che la Croazia autorizzava allora una certa libertà di espressione, ma è l’unico motivo. Oggi, il Feral sarebbe impossibile, infatti siamo qui in un bar di Pola a parlare del suo passato. Gli altri media non sono neanche lontanamente liberi, non sono nemmeno media o comunque non nel modo in cui li intendiamo, ovvero come mediatori tra la realtà socio-politica e i lettori. Oggi i media sono dei volantini di marketing.

Oggi lavorate tutti e tre al Novosti, il settimanale della minoranza serba in Croazia. Come mai?

Boris: Il motivo è più semplice di quel che potrebbe sembrare in una gloriosa storiografia: stando alle regole dell’Unione europea, la Croazia è obbligata a dare dei soldi alle minoranze nazionali e noi abbiamo occupato quello spazio mediatico.

Viktor: Siamo un errore nel sistema. E non siamo nemmeno serbi, cazzo!

Boris: Per la prima volta in 30 anni di carriera, siamo riconosciuti come croati e sentiamo la gente dire: “Come possono dei croati lavorare per una rivista serba?!”. Ma com’è che fino a un attimo fa ci dicevate che eravamo dei cetnici, porca puttana? (ride). Le autorità cercano in continuazione di interrompere questo finanziamento [al Novosti, ndr] ma vogliono farlo senza dispiacere a Bruxelles. Una cosa che, se pensiamo a come le cose evolvono nella storia, diventerà sempre più possibile. Penso che con questo tipo di Unione europea, troveranno un modo per interrompere il finanziamento al Novosti.

Da un lato, il Novosti è stato bruciato diverse volte nel centro di Zagabria, dall’altro voi siete costantemente sotto attacco. Per non parlare delle azioni legali nei vostri confronti…

Viktor: Abbiamo smesso di contare le multe dopo aver superato i due milioni di marchi ai tempi del Feral.

Boris: I tribunali e le azioni legali fanno parte del lavoro, anche se si fa giornalismo in Finlandia. È un meccanismo efficiente per far chiudere il becco alla gente. Qui, se ne sono accorti e lo usano contro chiunque metta in discussione, anche lontanamente, l’ordine esistente. Non è per forza di cose l’alta politica a farlo, i croati, i serbi, l’HDZ, può bastare anche un giudice locale o un piccolo mafioso. E quando anche i giudici cominciano a farti causa, allora sei davvero fregato. È un sistema chiuso, in cui diventa sempre più difficile parlare ad alta voce, senza pagarne il prezzo e sparire.

Cosa rispondete a chi dice che c’è bisogno di un nuovo Feral Tribune in Croazia?

Viktor: Il Feral era uno spazio creativo, diverso da ciò che è il Novosti oggi. Sono dei grandi al Novosti, ma l’infrastruttura è cambiata. I media hanno cominciato a vivere di pubblicità e quello è stato un errore strutturale. È come se tu facessi un lavoro, ma vivessi di qualcos’altro. Quello ci trascina in una rete di obbedienza. Se cominciassimo oggi un nuovo Feral, non riceveremmo neanche una pagina di pubblicità e faremmo subito bancarotta. Molto più in fretta che in passato.

Boris: Se qualcuno mi avesse detto 30 anni fa, che 30 anni dopo io avrei detto che lo Stato deve finanziare la stampa, l’avrei mandato a cagare. Che lo Stato mi finanzi, mi sembrava un insulto di per sé. Ma l’informazione è diventata un bene pubblico, come l’acqua corrente o l’aria pulita: è un servizio pubblico che dev’essere protetto. L’unico giornalismo possibile in futuro sarà quello finanziato dai soldi dei cittadini, che pagheranno per il proprio diritto all’informazione e alla critica. Così come si paga per l’acqua.

Alem, cos’è cambiato negli anni nel tuo modo di disegnare il potere?

Alem: Beh, il fatto che sono arrivato in prima pagina. Non ho più la libertà che avevo quand’ero nelle pagine interne. Prima, potevo fare di tutto. Ma sulla prima pagina, cazzi e fighe non sono più permessi. Ecco che ora più che mai, tante delle mie vignette sono rifiutate dal Nacional (una rivista croata, ndr.).

Qual è il rapporto, oggi, tra satira e fake news? Spesso chi è vittima della satira, l’accusa di essere semplicemente una “fake news”…

Viktor: Quello è fascismo. Una delle caratteristiche del fascismo è quella di confondere le categorie di verità e menzogna. Oggi, fanno passare le balle per della satira. L’obiettivo, mi pare, è quello di togliere senso a queste categorie e creare uno spazio pubblico che sarà semplicemente fatto di pazzia e manipolazione. Dopodiché, lo si potrà giustificare come libertà di espressione o come satira. E poi le fake news diventeranno vere e tutto andrà a puttane.

Ma la gente ha ancora voglia di satira? O il politicamente corretto ci ha intontiti?

Alem: Personalmente, non me ne frega niente del politicamente corretto. È aria fritta. Io sono stato politicamente incorretto fin dall’inizio. È una definizione che proprio non riconosco.

Avete mai pensato di lasciare la Croazia?

Boris: Se potessi tornare indietro con le conoscenze di ora al 1989 o al 1990, probabilmente non mi passerebbe nemmeno per la testa di restare. Perché non potrei tollerare l’idea di aspettare la pensione scrivendo gli stessi testi. Sono trent’anni che scriviamo le stesse cose… Ma all’epoca no, non ci siamo posti la domanda.

Alem: Io sono rientrato subito prima che la guerra scoppiasse…

Boris: Abbiamo ricevuto delle offerte, ma la nostra decisione di restare era motivata dal fatto che non volevamo accettare la sconfitta. Non volevamo dare quel piacere a quei figli di puttana. Era il rifiuto di arrendersi di fronte a un nemico che ci sovrastava. “Non ce ne andiamo, che si fottano!”, ci sentivamo così. Ora potremmo anche andarcene…

Alem: Ma ora non serve a un cazzo partire. Io sono in pensione!

Parliamo di politica, cosa pensate della sinistra di oggi in Croazia?

Boris: In Croazia, la sinistra non c’è mai stata, se parliamo della Croazia moderna. Quello che chiamiamo SDP è nato dal programma machiavellico di Ivica Račan e dei suoi compagni nel 1990. È un altro partito dell’establishment, ma con un simbolo diverso e un’altra retorica. L’unica differenza con l’HDZ è che nell’SDP non ci sono criminali di guerra, ma la vera sinistra non esiste. Tuttavia, non si tratta di un problema unicamente croato. Sinistra e destra sono vecchie creature dell’establishment, dei modelli usati per dividere il mondo. E oggi più che mai, perché il capitalismo è più brutale che mai. Oggi, tuttavia, la destra è diventata mainstream, mentre la sinistra non la si vede nemmeno all’orizzonte.

Quindi qual è la via d’uscita? Che si può fare?

Boris: All’età di 54 anni ho capito delle cose che a 25 non si capiscono, ovvero che non si può cambiare il mondo. Trent’anni dopo, quello che ho capito è che devo creare la mia piccola oasi personale. L’ho trovata in un piccolo paesino, dove le persone più belle, intelligenti ed importanti dell’ex Jugoslavia vengono a trovarmi. Passiamo del tempo assieme, parliamo, io faccio la grappa e il vino e quella è la nostra piccola isola di libertà. Purtroppo, non si può liberare il mondo o l’Europa e nemmeno questa cazzo di Croazia. Però, puoi liberare i tuoi 500 metri quadri. Diciamo che questo mondo è andato a puttane e che l’ultima speranza che abbiamo è quella di investire nei bambini, di piantare in loro il seme del dubbio, della critica e della libertà.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Gennaio 03, 2019, 00:11:09 am
Citazione
Boris: All’età di 54 anni ho capito delle cose che a 25 non si capiscono, ovvero che non si può cambiare il mondo. Trent’anni dopo, quello che ho capito è che devo creare la mia piccola oasi personale. L’ho trovata in un piccolo paesino, dove le persone più belle, intelligenti ed importanti dell’ex Jugoslavia vengono a trovarmi. Passiamo del tempo assieme, parliamo, io faccio la grappa e il vino e quella è la nostra piccola isola di libertà. Purtroppo, non si può liberare il mondo o l’Europa e nemmeno questa cazzo di Croazia. Però, puoi liberare i tuoi 500 metri quadri. Diciamo che questo mondo è andato a puttane e che l’ultima speranza che abbiamo è quella di investire nei bambini, di piantare in loro il seme del dubbio, della critica e della libertà.
Parole sacrosante, è il tempo dell'Arca di Noè. Come suggerisce questo film su una civiltà abbandonata al suo destino, in cui le donne appaiono irrecuperabili senza eccezioni.

Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 05, 2019, 19:26:30 pm
Come direbbe il solito italiano medio, perennemente impegnato a prendersi a martellate i genitali:
"Certe cose accadono solo in Italia", bla bla bla...

Sì, infatti.
...

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Montenegro/Montenegro-la-devastazione-del-Tara-191610

Citazione
Montenegro: la devastazione del Tara

Con la costruzione dell’autostrada del Montenegro si sta devastando un’area protetta dall’Unesco: l’alveo del fiume Tara. Mentre il governo tiene segreti documenti relativi al progetto l’ong MANS rivela i danni ambientali che causerebbe

03/01/2019 -  Zoran Radulović
(Originariamente pubblicato dal settimanale Monitor  )

Chi crede di più ai propri occhi che alle parole dei politici, vede che lungo corso superiore del fiume Tara è successo qualcosa di, a dir poco, strano e brutto.

“Io non vedo nulla di strano per un cantiere di questo tipo”, ha dichiarato il ministro dello Sviluppo sostenibile Pavle Radulović dopo aver visitato il cantiere nell’alveo del fiume Tara, che dal 1976 è protetto dall’UNESCO nell’ambito del programma “L’uomo e la biosfera”.

“I lavori di costruzione dei ponti Tara 1 e Tara 2 procedono in piena conformità al Progetto definitivo revisionato sulla base del quale è stato rilasciato il permesso di costruire”, ha precisato il ministro, giustificando i controversi interventi col fatto che vengono eseguiti in una “zona transizionale del fiume Tara” dove presumibilmente è possibile distruggere e costruire “allo stesso modo in cui sul territorio di Mojkovac e Kolašin venivano costruiti viali e fortezze lungo il fiume”.

L’espressione “zona transizionale del fiume” il ministro l’ha sentita dal geologo Mihailo Burić, professore dell’Università di Podgorica. “Il tratto dell’autostrada in questione si trova lontano dal canyon del fiume Tara rigorosamente protetto”, sostiene Burić. “Dal punto di vista della tutela, il bacino del fiume Tara è suddiviso in tre grandi aree: l’area di confluenza dei fiumi Veruša e Opasnica [da cui nasce il Tara], poi la parte del bacino che ricade nel territorio dei comuni di Mateševo, Kolašin e Mojkovac (che rappresenta una zona di transito), e infine il canyon del Tara protetto dall’UNESCO. Il corso del fiume Tara a monte della zona rigorosamente protetta costituisce un’area transizionale, con un regime di tutela meno rigoroso, dove si può costruire alle condizioni stabilite dalla legge”, ha spiegato Burić, dando una lezione a tutti quei malinformati che hanno alzato la propria voce in difesa del fiume.

Ha ragione?
“Il parlamento del Montenegro rifiuta qualsiasi intervento nel canyon del fiume Tara. Come cittadini, siamo consapevoli del fatto che il Tara è il nostro futuro e ciò per cui siamo conosciuti”, si legge nella Dichiarazione sulla difesa del fiume Tara, approvata dal parlamento montenegrino nell’agosto 2004. “Qualsiasi tentativo di modificare il Tara richiede che tutti i cittadini del Montenegro si esprimano liberamente in merito e l’unico modo corretto per prendere una decisione sul destino del fiume sarebbe attraverso un referendum, sia oggi che in futuro”, si constata nella Dichiarazione, precisando inoltre che “la costruzione della centrale idroelettrica di Buk-Bijela, così come altri eventuali interventi lungo l’intero corso del fiume Tara rappresenterebbero un fattore di disturbo, non solo nella parte di canyon che verrebbe sommersa, ma nell’intera regione che per il suo sviluppo dipende dal canyon”.

L’approvazione della Dichiarazione sulla difesa del Tara ha segnato l’abbandono del progetto di costruzione della centrale idroelettrica di Buk-Bijela e una sconfitta dell’allora premier Filip Vujanović che aveva (segretamente) firmato, a nome del Montenegro, un documento che prevedeva la sommersione di quello che è probabilmente il tratto più bello del canyon del Tara, lungo circa 14 chilometri. È stata una grande vittoria dei cittadini contro la cosiddetta mafia dell’energia.

Una decina di anni più tardi, la cosiddetta mafia delle costruzioni non ha voluto rischiare. La decisione di costruire un’autostrada attraverso il bacino del fiume Tara è stata quindi presa senza alcun coinvolgimento del parlamento e dell’opinione pubblica.

“Non ricordo che il fiume Tara sia mai stato menzionato in parlamento durante le discussioni sui contratti relativi alla costruzione e al finanziamento dell’autostrada”, dice Mladen Bojanić, allora deputato di opposizione. “All’epoca non era ancora stato deciso il tracciato dell’autostrada, per cui non era possibile sapere con certezza se e in quale misura avrebbe interferito con il fiume. Successivamente, il governo ha reso note alcune informazioni relative al progetto, ma nonostante tutti i tentativi di nascondere i principali punti di questo affare, è emerso che i nostri negoziatori erano dei dilettanti. Ora sappiamo con quanta ignoranza e improvvisazione si erano avventurati in questo progetto. Quello che ancora non si sa è quanto ci costerà la loro ignoranza”, spiega Bojanić.

I rappresentanti del potere continuano a essere riluttanti nel rendere note le informazioni sui lavori progettati, eseguiti e ancora da fare. Capita che anche i presunti esperti si trovino aggrovigliati in una rete di mezze verità e bugie, proprie e altrui.

Dopo che l’organizzazione non governativa MANS (Rete per l’affermazione del settore non governativo) ha pubblicato alcuni video  che testimoniano la devastazione  (ir)reparabile dell’alveo del fiume Tara nel punto dove sono in corso i lavori di costruzione dello svincolo di Mateševo (per ragioni ignote, due dei quattro svincoli previsti su questo tratto dell’autostrada sono stati progettati negli alvei dei fiumi: lo svincolo di Smokovac sul fiume Morača, e quello di Mateševo sul fiume Tara), il ministro Radulović ha dichiarato che non c’è stata alcuna deviazione del corso del fiume.

Ma i rappresentanti dell’impresa CRBC (China Road and Bridge Corporation), esecutrice dei lavori, lo hanno smentito: “Nella zona dello svincolo di Mateševo l’alveo del fiume Tara è stato spostato, come previsto dal Progetto definitivo e dal tracciato dell’autostrada. Si tratta di spostamenti provvisori e, una volta conclusi i lavori, il fiume verrà riportato nel suo alveo naturale”.

Allora il ministro si è detto “convinto” che tutto sia stato fatto secondo le regole: “Se il progetto prevede uno spostamento provvisorio [del fiume] e se l’elaborato progettuale è stato realizzato da esperti, non posso che confermare le informazioni contenute nei rapporti che ricevo”, ha dichiarato il ministro.

Nel frattempo si è saputo che i rapporti che il ministro riceve, e nasconde all’opinione pubblica, dimostrano che molte cose non vanno bene. A quel punto il ministro ha cercato di difendere la sua posizione e quella della coalizione al governo affermando che l’esecutore dei lavori si è più volte discostato dal Progetto definitivo. “Problemi simili c’erano anche prima. L’anno scorso i lavori sono rimasti bloccati per 154 giorni”, ha precisato il ministro.

Quindi, non c’è nessun problema particolare, solo quelli che “c’erano anche prima”, e non c’è nulla di strano nel fatto che i lavori siano stati bloccati per quasi sei mesi, nonostante siano già in ritardo di quasi un anno. Il quotidiano di Podgorica Dan è venuto in possesso di documenti dai quali emerge che gli ispettori ambientali hanno presentato 16 richieste di avvio del procedimento sanzionatorio nei confronti dell’impresa CRBC per “irregolarità accertate”.

“Il Tara rimarrà la lacrima d’Europa, non c’è alternativa”, ha dichiarato il ministro schiacciato sotto il peso delle prove che suggeriscono che la vicenda potrebbe non finire bene.

Non è però riuscito a convincere la direttrice di MANS Vanja Ćalović-Marković e i suoi collaboratori. “L’attenzione suscitata dalle immagini del Tara pubblicate da MANS la dice lunga sul fatto che l’opinione pubblica era pressoché all’oscuro di quello che stava succedendo nei cantieri di CRBC”, dice la Ćalović. “Solo ora abbiamo saputo che ci sono dei problemi relativi al mancato rispetto da parte di CRBC di quanto previsto nella documentazione progettuale. Finora l’opinione pubblica era al corrente solo di poche informazioni sulla costruzione dell’autostrada, perché i rapporti di monitoraggio della documentazione tecnica e dell’esecuzione dei lavori sono stati dichiarati segreti dal governo. Questo è uno dei principali motivi per cui l’opinione pubblica non ha saputo prima che il Tara viene devastato, ed è uno dei principali ostacoli che impediscono un’adeguata vigilanza pubblica sui lavori di costruzione dell’autostrada”.

Anche Mladen Bojanić è dello stesso parere. “È quasi impossibile, ormai da tempo, polemizzare con le posizioni del governo su molte questioni, perché l’arroganza dei suoi esponenti cresce in assenza di argomenti che potrebbero giustificare le loro posizioni rigide. Questo è particolarmente evidente in relazione alla costruzione e al finanziamento dell’autostrada, ed è ancora più palese nel caso della devastazione del Tara. Quando il ministro tira fuori, come ultimo asso nella manica, alcuni documenti dichiarati segreti dal governo, allora è chiaro che la situazione è molto grave. Purtroppo non c’è responsabilità e i cittadini si sono ormai rassegnati al fatto di dover pagare ogni errore del governo”, spiega Bojanić.

Le argomentazioni del governo sono ulteriormente indebolite dal fatto che il professor Burić, uno dei più accesi sostenitori del progetto dello svincolo di Mateševo, è autore di uno studio, commissionato da CRBC, intitolato “Proposta di misure di rimedio e progetto di monitoraggio dello stato ambientale del fiume Tara”.

Da questo documento siamo venuti a sapere che il professor Burić si aspetta che la futura autostrada, compreso lo svincolo di Mateševo, renda più bello l’ambiente. “Questo progetto stradale porterà a un miglioramento del paesaggio, che sarà più bello di quello attuale. Un ambiente caotico diventerà un paesaggio coltivato”, afferma Burić, per poi concludere che “il paesaggio incontrollato e caotico di un corso d’acqua impetuoso non è da ritenersi piacevole”.

Ma non tutti sono d’accordo
“L’attuale stato idrologico del fiume Tara nel tratto compreso tra Jabuka e Mateševo, lungo più di 5 chilometri, è catastrofico”, dice Nataša Kovacević dell’associazione ambientalista Green Home. “Vediamo l’alveo del fiume devastato, l’area intorno al fiume devastata, la perdita di quella biodiversità a cui siamo abituati, la meccanizzazione pesante…”.

Ad esprimere preoccupazione è anche un gruppo di professori della Facoltà di Scienze naturali e matematiche dell’Università di Podgorica che dal 2016 monitora lo stato di salute della fauna dei fondali del fiume Tara. “La popolazione di animali che abitano il fondale si è notevolmente ridotta rispetto al 2017. Anche la diversità è diminuita in modo considerevole e la maggior parte dei gruppi di specie non è stata rilevata durante la nostra ricerca svolta nel 2018”, ha dichiarato il professor Vladimir Pešić al quotidiano Vijesti, commentando i risultati dell’ultimo monitoraggio effettuato. “Il ripristino della popolazione di fauna del fondale su questo tratto sarà un processo lungo, potrebbe durare fino a 10 anni. Tuttavia, rimane aperta la domanda se le popolazioni di alcune specie rare ed endemiche riusciranno mai a riprendersi”.

“Il canyon del fiume Tara gode di una tutela particolare in quanto parte del patrimonio mondiale dell’umanità. Su questo tratto del Tara sono consentite alcune attività, ma quello che abbiamo visto in loco non può essere definito come sviluppo economico sostenibile secondo i criteri dell’UNESCO”, dice Vanja Ćalović-Marković. E sottolinea: “Assistiamo a un totale cambiamento del paesaggio, ad interventi che hanno completamente modificato l’alveo del Tara, e i rapporti dei professori universitari parlano di devastazioni della flora e della fauna di grandi dimensioni. È allarmante il fatto che il governo sia stato informato in tempo che i lavori previsti potrebbero danneggiare quest’area protetta, e ha fatto ben poco per evitare che accadesse quello che sta accadendo”.

Poteva andare diversamente?
Abbiamo chiesto ai nostri interlocutori se l’autostrada avrebbe potuto essere realizzata senza interferire con il fiume.

“La risposta a questa domanda si nasconde nel progetto dell’autostrada, un altro documento coperto da segreto che il governo da anni tiene nascosto ai cittadini”, dice la Ćalović, aggiungendo: “Penso che oggi nel settore delle costruzioni quasi nulla sia impossibile, è solo questione di prezzo. Perché si è deciso che il Tara deve pagare questo prezzo, insieme a tutti i cittadini del Montenegro, è una domanda a cui le autorità prima o poi dovranno rispondere”.

Mladen Bojanić dice: “Non mi intendo di tracciati autostradali. Ma allo stesso modo in cui chiedo al muratore di non costruire un muro inclinato, anche se non so come si costruiscono i muri, così ho il diritto di chiedere al ministro di proteggere il Tara pur non essendo né ecologo né ingegnere. Ho il diritto di esigere il meglio per quello che pago, sia che si tratti di un muratore o di un ministro”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 07, 2019, 00:27:18 am
http://www.eastjournal.net/archives/94717

Citazione
UNGHERIA: Quarto giorno di proteste contro la “legge schiavitù”
Gian Marco Moisé  21 giorni fa

Dopo mercoledì, giovedì e venerdì, domenica 16 dicembre Budapest ha visto il suo quarto giorno di proteste. Con la più alta partecipazione di persone finora, 10 mila secondo le stime, un corteo di manifestanti ha marciato da Piazza degli Eroi, nel sesto distretto della città, fino di fronte al parlamento ungherese al grido di: “Buon Natale signor primo ministro”.

Le ragioni della manifestazione

Le proteste sono iniziate mercoledì 12 dicembre, quando il parlamento ungherese ha approvato una legge per la riforma delle condizioni lavorative, soprannominata dai manifestanti “legge schiavitù”. La normativa propone un aumento delle ore di straordinari da 250 a 400 l’anno, e la possibilità del pagamento ritardato delle stesse fino a tre anni, aumentando di ben due anni il precedente limite. Secondo i manifestanti questa modifica è pensata a favore delle case automobilistiche tedesche, ma peggiora la condizione dei lavoratori ungheresi.

La seconda legge, approvata durante la stessa sessione parlamentare, riguarda l’adozione di corti amministrative che avranno funzioni di revisione giudiziaria rispetto a decisioni governative riguardanti tasse, permessi di costruzione, proteste, scioperi e divulgazione di informazioni di pubblico interesse. Il sistema non è nuovo per l’Ungheria, che ne ha avuto uno simile fino al 1949, con la successiva abolizione da parte del regime comunista. Ciò che crea problematiche è che il ministero della giustizia avrà influenza diretta rispetto: al budget delle corti, alla nomina dei giudici e dei presidenti di corte, alle loro promozioni e aumenti di stipendio. Questa normativa compromette definitivamente l’indipendenza del potere giudiziario in Ungheria.

La protesta

I manifestanti hanno indossato sciarpa e cappello bianchi per segnalare la natura non-violenta della protesta, si sono riuniti alle tre del pomeriggio in Piazza degli Eroi e hanno marciato fino a piazza Kossuth, sede del parlamento. Lì, membri di tutti i partiti d’opposizione, un ex giudice e il vicepresidente della federazione ungherese dei sindacati hanno fatto discorsi caratterizzati dal richiamo all’unità per la difesa della democrazia. La manifestazione è stata organizzata come un evento Facebook dai partiti d’opposizione MSZP, DK e Momentum. Oltre a Budapest, le proteste hanno avuto luogo a Győr, Debrecen, Békéscsaba, Szeged, Nagykanizsa, ed Eger. Le richieste dei manifestanti includono:

L’abolizione della “legge schiavitù”
Meno straordinari per la polizia
L’indipendenza del potere giudiziario
L’adesione dell’Ungheria alla Procura europea
L’indipendenza dei mass media statali
M1, primo canale della televisione pubblica ungherese, ha dato la notizia delle proteste bollandole come l’espressione di un’opposizione ai governi sovranisti anti-migranti e promosse da sostenitori delle idee di George Soros.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 07, 2019, 00:31:20 am
http://www.eastjournal.net/archives/93172

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BALCANI BALCANI ORIENT. RUSSIE BALTICO MEDIO ORIENTE CAUCASO ASIA CENTRALE EUROPA(e)
BALCANI: Come i media serbi insultano gli albanesi (e vengono condannati)
Pietro Aleotti  12 Novembre 2018

Utilizzare il termine “šiptar”, termine dispregiativo per definire gli albanesi, è qualificabile come incitamento all’odio e, pertanto, da considerarsi offensivo. Lo ha stabilito la corte di Belgrado in una sentenza di primo grado per l’uso a mezzo stampa di questo termine.

La decisione arriva nell’ambito del processo intentato da Anita Mitić, all’epoca dei fatti direttrice della Youth Initiative for Human Rights (YIHR, un’associazione attiva in tutti i Balcani occidentali nel campo della difesa dei diritti umani), contro Dragan J. Vučićević, direttore dell’Informer, il più diffuso tabloid belgradese, assai vicino al presidente serbo Aleksandar Vučić. La corte ha sanzionato Vučićević, peraltro non nuovo a queste condanne, al pagamento di un risarcimento per aver leso l’immagine e la reputazione della Mitić e dell’intera organizzazione. Il direttore del tabloid in passato era già stato accusato dall’autorità garante per l’uguaglianza per aver violato la legge sul divieto di discriminazione impiegando il termine šiptar sulle prime pagine del giornale.

Sebbene si tratti solo di un giudizio di primo grado, la sentenza potrebbe essere destinata a fare giurisprudenza come raro esempio di sanzione contro l’impiego di termini discriminatori e ingiuriosi – quel discorso d’odio che trova spazio giornaliero sui tabloid serbi. Anche se Vučićević non sembra aver appreso la lezione; Informer ha già fatto una nuova copertina definendo nello stesso modo il calciatore svizzero Shaqiri.

I fatti

I fatti risalgono al gennaio 2017, quando alcuni membri della YIHR irruppero nel corso di una manifestazione organizzata nella cittadina di Beška dal Partito Progressista Serbo (SNS) di governo: a parlare era stato invitato anche Veselin Šljivančanin, ex ufficiale dell’esercito jugoslavo (JNA) già condannato a 17 anni di reclusione (poi ridotti a 10) dal Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia per crimini di guerra durante l’assedio di Vukovar. Gli attivisti tentarono di interrompere il discorso di Šljivančanin srotolando uno striscione di protesta con la frase “i criminali di guerra dovrebbero essere zittiti cosicché la voce delle vittime possa essere ascoltata” ma furono attaccati dal servizio d’ordine e malmenati.

All’indomani dell’episodio, l’Informer aveva pubblicato un articolo sprezzante in cui qualificava la Mitić e i membri della YIHR come fascisti, nemici della Serbia e sostenitori degli šiptari. Non una novità, dato che il termine in questione è ampiamente utilizzato da molta stampa e l’Informer stesso l’avrebbe impiegato per ben 196 volte nei primi nove mesi del 2017, secondo una ricerca dell’OSCE sulle percezioni reciproche tra serbi e albanesi. A tale definizione ricorrono spesso anche i siti internet dei gruppi di estrema destra per indicare con disprezzo un albanese.

La retorica nazionalista (e, spesso, razzista) permea molta parte della stampa serba, specie quella filo-governativa: non è confinata al solo Informer, non si limita all’uso di qualche termine dispregiativo e, ancora, non si rivolge ai soli albanesi. E, soprattutto, viene impiegata nella sostanziale impunità e, con rare eccezioni, nell’ignavia delle élite culturali e politiche serbe.

E’ anche per questa ragione che la sentenza della corte di Belgrado assume un significato simbolico ancora più rilevante: non è un caso, infatti, che la stampa kosovara l’abbia accolta come una sentenza storica dandole un certo risalto mediatico. Se è vero, infatti, che si sta parlando di un singolo caso, è altresì vero che essa costituisce un precedente importante con il quale d’ora in poi la stampa serba dovrà fare i conti.

Le origini e l’uso del termine

L’Albania in albanese è Shqipëria, termine che deriva verosimilmente da shqiponja, ovvero aquila, animale molto rappresentato nella simbologia delle antiche dinastie albanesi al punto da essere raffigurato, bicefala, sulla bandiera nazionale. Per questa ragione gli albanesi si autodefiniscono shqip(ë)tar – da cui il termine šiptar nelle lingue slave meridionali.

Ma la parola šiptar, pronunciata con accento slavo volutamente calcato, assume oggi una connotazione pesantemente razzista alludendo a una presunta inferiorità culturale degli albanesi, immaginati caricaturalmente alla stregua di cavernicoli, anzi di “moderni trogloditi, che come gli antenati dell’uomo, dormivano sugli alberi e vi si attaccavano con la coda” come già a fine ‘800 li descriveva Vladan Đorđević, politico e scrittore serbo.

All’atto della formazione della federazione jugoslava, il termine šiptar veniva, anche formalmente, impiegato per indicare gli appartenenti alla comunità albanese, perlopiù kosovari, come inserito nei censimenti del 1948, del 1953 e del 1961. Solo successivamente, su pressione della dirigenza kosovara albanese desiderosa di enfatizzare in questo modo una sorta di autonomia nazionale piuttosto che etnica, il termine šiptari fu sostituito da albanci nei censimenti del 1971, del 1981 e nel 1991. Nella Serbia post-jugoslava la definizione albanci  è stata mantenuta ed è tuttora utilizzata ufficialmente.

E’ così che l’impiego di šiptar assume, oltre alle prerogative negative anzi dette, anche una valenza sottilmente politica: utilizzarlo, oggi, significa negare una qualsivoglia connotazione nazionale rimarcando, al contrario, l’appartenenza ad un gruppo minoritario.


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3 commenti

Marco 12 Novembre 2018 at 14:01
Vi basta fare un giro sui social e su diversi gruppi per vedere come agisce si manifesta il nazionalismo albanese: odio per Greci, serbi e croati; manipolazione della storia, revisionismo e sciovinismo terribile. La narrazione che vede solamente i serbi come i cattivoni nei balcani mi è particolarmente indigesta (anche se ovviamente è principalmente dalla loro parte che avvengono le maggiori provocazioni). Da un sito cosi autorevole come il vostro mi aspetto una copertura a 30 gradi delle vicende. Grazie

Giorgio Fruscione
Giorgio Fruscione 13 Novembre 2018 at 12:29
caro Marco, su nazionalismo albanese e temi correlati abbiamo scritto in passato. Tuttavia, questo non è un articolo sui “serbi cattivoni dei Balcani” e sarebbe meglio non dare queste letture troppo generalizzate su singoli articoli. Il tema è molto specifico: il modo in cui si esprime un quotidiano – il più venduto nel paese – che è stato condannato per incitamento all’odio. L’articolo non contiene quindi accuse contro il popolo serbo.


Rifat 15 Novembre 2018 at 12:01
Mi sembra una buona azione di liberazione e giustissima del tribunale di Belgrado. Incitamento all’odio e disprezzo verso gli altri popoli e un gesto di una scarsa cultura e ignoranza politica. Non esistono popoli * nemici * sono i governi,politici,che fanno * nemici * i popoli,e dietro di loro giornali e media. Amicia e rispetto verso i altri popoli porta in pace e stabilità.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 07, 2019, 00:38:05 am
http://www.askanews.it/esteri/2019/01/05/serbia-sabato-di-proteste-contro-il-presidente-vucic-autocrate-pn_20190105_00309/

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SERBIA Sabato 5 gennaio 2019 - 21:48
Serbia, sabato di proteste contro il presidente Vucic “autocrate”

Belgrado, 5 gen. (askanews) – Migliaia di persone hanno manifestato per il quinto sabato consecutivo a Belgrado contro lo strapotere del presidente Aleksandar Vucic, accusato di autoritarismo, il quale a sua volta accusa l’opposizione di voler “prendere il potere”. “La Serbia insorge lentamente, l’intera città sta insorgendo (…) saremo sempre più numerosi”, ha detto l’attore Branislav Trifunovic, uno dei leader del movimento, alla televisione privata N1. Come sabato scorso, i manifestanti hanno sfilato per le strade della capitale dietro un grande striscione con il nome del movimento: “1 su 5 milioni”. Questo slogan si riferisce a una dichiarazione del presidente Vucic che aveva detto dopo la prima manifestazione che non avrebbe ceduto alle richieste dell’opposizione “anche se cinque milioni di persone fossero scese in piazza”. (segue) (fonte Afp)
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 07, 2019, 14:46:23 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Banja-Luka-assedio-al-movimento-Pravda-za-Davida-191876

Citazione
Banja Luka, assedio al movimento Pravda za Davida
In Republika Srpska, una delle due entità della Bosnia Erzegovina, il passaggio dal vecchio al nuovo anno si è svolto all'insegna di arresti e tentativi di repressione del movimento Giustizia per David

07/01/2019 -  Alfredo Sasso
La mattina del 25 dicembre, nelle ore in cui una parte del mondo celebra il Natale cattolico, la piazza centrale di Banja Luka si tinge di scuro. Prende forma una specie di presepe all’incontrario: una coppia di genitori arrestata, un altare di fiori smontato rapidamente, una piazza svuotata e circondata, persone sbattute a terra da agenti antisommossa, altri arresti e scontri nel corso delle ore e nei giorni successivi, fino a un’inquietante sparizione su cui a tutt’oggi non si è fatta luce.

Dopo 275 giorni di occupazione ininterrotta di Piazza Krajina viene così sgomberato manu militari il presidio di Pravda za Davida, il movimento che chiede giustizia e verità per David Dragičević, ragazzo di 21 anni ucciso in circostanze irrisolte nel marzo 2018. La serie impressionante di depistaggi e omissioni da parte delle istituzioni della Republika Srpska (una delle due entità che compongono la Bosnia Erzegovina) aveva subito indotto il sospetto che alcuni membri della polizia locale fossero coinvolti nell’omicidio di David, cosa di cui il movimento si è dichiarato sempre più certo. Da allora il caso Dragičević ha tenuto banco nell’attualità del paese, arrivando a essere uno dei temi principali della recente campagna elettorale. Ma è con gli eventi di queste settimane che si segna un punto di non ritorno, con risvolti determinanti per tutti i livelli del paese: libertà di manifestazione, equilibri istituzionali e persino il ruolo degli attori internazionali.

Le autorità della Republika Srpska da tempo attendevano l’occasione di un’azione di forza contro il volto più energico e carismatico di Pravda za Davida: Davor Dragičević, il papà del ragazzo ucciso, instancabile nel chiedere le dimissioni dei vertici dell’ordine pubblico in Republika Srpska, dal ministro dell’Interno Dragan Lukač ai capi della polizia, che ritiene direttamente responsabili della morte del figlio. In questi mesi Davor Dragičević ha condotto una sfida aperta e persistente al sistema di potere di Milorad Dodik, l’autocrate della Republika Srpska che dalle elezioni di ottobre è uscito persino rafforzato e ora siede alla presidenza collettiva statale. Dodik ha cambiato tante volte atteggiamento verso Pravda za Davida: prima l’ha ignorato, poi ha provato invano ad addomesticarlo, poi è passato alle minacce, come quando in campagna elettorale disse che il presidio di Piazza Krajina sarebbe stato presto “spazzato via”.

Nel mese di dicembre, sono state probabilmente due circostanze a fare di Pravda za Davida una spina nel fianco definitivamente insopportabile per Dodik. La prima è stata la serie di viaggi che Davor Dragičević ha condotto a Sarajevo per incontrare diversi ambasciatori dei paesi UE nonché Željko Komšić - omologo di Dodik nella presidenza collettiva bosniaca e suo grande rivale politico -. La seconda è stata la promessa di Pravda za Davida di mantenere il presidio di Piazza Krajina nonostante i diversi eventi di massa che si sarebbero organizzati in città: dai concerti di Capodanno alle celebrazioni del Natale ortodosso – il 7 gennaio – e, soprattutto, alla parata militare del Giorno della Republika Srpska il 9 gennaio, un evento di grande importanza per la legittimazione ultra-nazionalista del partito di Dodik. La sfida del movimento dunque si estendeva al comune di Banja Luka il cui sindaco, Igor Radojičić, è del partito di Dodik e in passato è stato indicato come il suo potenziale erede.

Stato d’emergenza
La mattina del 25 dicembre, Davor Dragičević viene arrestato. La motivazione è una mancata comparizione a un’udienza, per un corteo non autorizzato tenutosi alcuni giorni prima davanti al parlamento della Republika Srpska. Con lui, sono messi in custodia Suzana Radanović - la madre di David Dragičević, anch’essa molto presente nel movimento – e una decina di altri attivisti, tra cui quattro esponenti dei partiti di opposizione anti-Dodik: Adam Šukalo, Draško Stanivuković, Vojin Mijatović e Branislav Borenović. Tutto questo accade mentre i servizi municipali protetti da un imponente cordone di poliziotti antisommossa ritirano il cosiddetto “Davidovo srce” (Il “cuore di David”), l’imponente altare di foto, candele, fiori e altri oggetti in memoria del ragazzo ucciso. L’altare occupava la centralissima Piazza Krajina da più di nove mesi, sormontato da un grande pugno chiuso in metallo, il simbolo visivo della protesta.

Centinaia di manifestanti inermi subiscono ripetute cariche della polizia e restano increduli di fronte alla brutale solerzia delle autorità che da nove mesi non hanno intrapreso nessuna iniziativa, e nessun arresto, per l’omicidio di David. Le immagini   degli scontri fanno il giro della regione post-jugoslava e giungono reazioni preoccupate della comunità internazionale, tra cui quella dell’ambasciatore dell’Unione Europea  . Diversi analisti sostengono  che la scelta del 25 dicembre per questa operazione sia stata presa di proposito per approfittare del calo di attenzione di media e funzionari internazionali nel giorno di Natale.

Da quel giorno, Banja Luka entra in una specie di stato d’emergenza permanente. Il 26 dicembre, il ministro dell’Interno della Republika Srpska Lukač lancia il divieto ad hoc contro “qualunque manifestazione del collettivo Pravda za Davida”, affermando con sprezzo come questo sia stato “tollerato” fino ad ora nonostante abbia “agito nell’illegalità”. Davor Dragičević, nel frattempo rilasciato insieme agli altri attivisti, snobba il divieto e guida un corteo di un migliaio di persone sul luogo in cui lo scorso 24 marzo fu trovato il corpo del figlio, sulla riva del torrente Crkvena. “Sono il padre più orgoglioso di un figlio che è stato assassinato. Conosco gli assassini e i loro complici”, scrive  quel giorno su twitter.

Il 30 dicembre, durante l’ennesimo grande corteo, il movimento si concentra nella piazza dove è previsto il concerto del cantante Haris Džinović. Il sindaco Radojičić decide a quel punto di annullare tutte le celebrazioni e annuncia che chiederà a Pravda za Davida “risarcimenti milionari” per il danno economico e d’immagine alla città. Tuttavia, Džinović spiega in seguito che “non aveva la minima intenzione” di esibirsi in quelle condizioni, smentendo così la versione data dal sindaco che attribuiva al movimento la responsabilità di interrompere l’evento. In precedenza, la nota cantante serba Marija Šerifović, (vincitrice dell’Eurovision 2007) aveva già annullato il suo concerto, di fatto acconsentendo alla richiesta di boicottaggio da parte di Pravda za Davida. A margine del corteo, si producono ancora scontri, arresti e un nuovo, più inquietante, colpo di scena.

Giustizia per David, Giustizia per Davor
Alle 23.00 del 30 dicembre Davor Dragičević, il papà di David, scompare nel nulla e a tutt’oggi non si sa dove si trovi. Inizialmente circola la notizia del suo arresto a margine della manifestazione, ma la polizia della RS smentisce. Poi si parla di un possibile rifugio di Dragičević presso l’ambasciata del Regno Unito a Sarajevo. È un’ipotesi rilanciata soprattutto dai media vicini a Milorad Dodik, che da tempo accusa Londra di ingerenza negli affari interni della Bosnia Erzegovina e soprattutto della Republika Srpska, in quanto i britannici starebbero combattendo un “conflitto per procura” contro la Russia, partner privilegiato di Dodik. Ma l’ambasciatore britannico Matt Field nega prontamente, smentendo “ogni coinvolgimento nell’organizzazione delle proteste”.


Dalle istituzioni della RS filtra che l’avvocato di Dragičević, Ifet Feraget, avrebbe cercato una trattativa con il tribunale locale per fare costituire il suo assistito. Ma Feraget non conferma e insiste di non sapere nulla. Negli ultimi giorni non emergono elementi chiari, anche se il 5 gennaio alcuni media citano dei messaggi dal gruppo FB del movimento secondo cui Davor si troverebbe “al sicuro”, “due passi avanti rispetto agli assassini, come sempre”.

Un possibile scenario è dunque che Davor Dragičević si trovi all’estero, per evitare il mandato di cattura su di lui e i pesanti capi d’imputazione (si parla addirittura di “tentato colpo di stato”) che si stanno preparando contro lui ed altri esponenti del movimento. In questo caso è plausibile che Davor stia attendendo un determinato momento (forse il 9 gennaio, giorno della Republika Srpska?) per un’apparizione pubblica ad effetto. Più volte nei mesi scorsi – tra cui nell’intervista a OBC Transeuropa dello scorso ottobre - esponenti di Pravda za Davida hanno citato la possibilità di intraprendere un esilio volontario in caso di una azione di forza delle istituzioni. L’altro scenario, decisamente più inquietante, è invece che Davor sia stato rapito, e che dunque gli “sia successo qualcosa di brutto” come alcuni sostenitori del movimento ripetono, per pudore o per esorcizzare la terribile eventualità.

In questa incertezza, preoccupano le allusioni di un consigliere politico di Dodik, Srđan Perišić, secondo cui alcuni stranieri occidentali “strateghi delle rivoluzioni colorate” (sic) starebbero pianificando gli omicidi di oppositori politici per poi dare la colpa al governo della RS e forzare un cambio di regime  . Queste parole lasciano intendere l’atmosfera di paranoia e insicurezza che le autorità di Banja Luka, invece di smorzare, sembrano volere propagare a tutti i costi. In questi ultimi giorni, la polizia della Republika Srpska non risparmia controlli di documenti e cordoni antisommossa nemmeno davanti alla Cattedrale di Cristo Salvatore, il luogo dove Pravda za Davida sta convocando i presidi dopo lo sgombero di Piazza Krajina. Presidi silenziosi, senza simboli né slogan, pur di non incorrere in denunce e detenzioni.

Contro il silenzio
Pravda za Davida ha sempre affermato, e continua a affermare, la sua a-politicità di principio e la propria estraneità alle dinamiche di partito. Sono state le istituzioni della Republika Srpska, con le loro ostruzioni alle indagini sulla morte di David, che hanno contribuito a trasformare Pravda za Davida da un collettivo per la giustizia su un singolo caso a un vero e proprio movimento per la libertà di espressione e il diritto al dissenso. Vi è poi un problema più ampio. Il sistema di Dodik ha annichilito l’opposizione, consolidando l’egemonia assoluta sui media, sugli enti culturali, su quasi tutte le municipalità locali dell’entità serbo-bosniaca. Pravda za Davida ha, a modo suo, aperto uno spazio di espressione unico.

“Dodik ha tutto il potere in Republika Srpska. L’unica cosa che non controlla è David Dragičević e la gente intorno a lui”, ha scritto   l’analista Srđan Puhalo. “Ora è vietato protestare a Banja Luka, perché la polizia ogni sera controlla qualunque raggruppamento di persone, grazie a leggi ad hoc che sarebbero anticostituzionali. Se queste proteste verranno soffocate, nei prossimi cinque anni a Banja Luka non ci sarà nessun’altra protesta su nulla. Se la gente in queste settimane non si difenderà, ci aspettano cinque anni di dittatura”, ha spiegato  l’editorialista Dragan Bursač in un’intervista.

In queste settimane, Pravda za Davida continua a ottenere un sostegno trasversale in Bosnia Erzegovina e nel resto della regione post-jugoslava. Il 25 dicembre e nei giorni successivi, manifestazioni di solidarietà si sono tenute a Sarajevo, Tuzla, Mostar, Belgrado, Novi Sad e Zagabria, nonché in diverse città europee in cui è presente la diaspora ex-jugoslava. L’ondata di solidarietà per il movimento sembra crescere ancora, attratta dai tanti significati universali di questa causa: l’empatia per dei genitori che hanno perso un figlio; l’ammirazione per una sofferenza privata che si fa impegno e indignazione; la fiducia per uno spazio libero da minacce, discorsi d’odio e segregazioni etniche; il riconoscersi nella più pre-politica delle domande, ovvero il chiedere alle istituzioni null’altro che di “fare il proprio lavoro”.

In Bosnia Erzegovina, vi è poi la causa comune dei cosiddetti “casi silenziati”, le morti dovute a abusi di autorità che le istituzioni coprono con ogni mezzo. Nel paese vi sono quasi una decina di casi silenziati negli ultimi anni. La presenza di due cause sorelle e che si sostengono reciprocamente, quella di Davor Dragičević a Banja Luka e quella di Muriz Memić a Sarajevo (papà rispettivamente di David e Dženan, anche quest’ultimo ucciso nell’ambito di un sospetto abuso di potere; il primo “serbo ucciso da serbi”, il secondo “musulmano ucciso da musulmani”, come di solito ripetono gli stessi due padri per sottolineare la necessità di superare le gabbie etniche) ha aperto un inedito canale di solidarietà tra le due principali città della Bosnia Erzegovina. Città che, dalla guerra degli anni Novanta, si erano tenute reciprocamente distanti ed estranee.

Nonostante questi segnali positivi, è lecito pensare che cresceranno le difficoltà per Pravda za Davida. Come avviene per qualunque movimento sociale che deve affrontare una repressione, gli attivisti sono ora costretti a sparpagliarsi in tante condizioni diverse, tra fughe e isolamenti, chiusi in tanti piccoli dilemmi del prigioniero. Non sarà facile mantenere una strategia comune. E soprattutto, ora che cominciano a pendere accuse di alto tradimento e condanne pluridecennali, non sarà facile mantenere l’attenzione sul caso originario, l’omicidio ancora senza colpevoli di un ragazzo di 21 anni che studiava elettrotecnica e suonava reggae e hip hop.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 09, 2019, 20:45:30 pm
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ROMANIA: Un paese nazional-comunista alla presidenza dell’Unione
Francesco Magno  1 giorno fa

A partire dall’1 gennaio 2019 la Romania ha assunto la presidenza del Consiglio dell’Unione Europea; in questi sei mesi, i rappresentanti romeni a Bruxelles si ritroveranno a gestire dossier scottanti (Brexit su tutti) e le elezioni europee. Jean Claude Juncker ha aspramente criticato i governi di Bucarest, giudicando il paese inadatto a reggere la presidenza di turno del consiglio. I motivi di una presa di posizione così netta sono ormai risaputi: una pubblica amministrazione dilaniata dalla corruzione, un governo dominato da personaggi dalla fedina penale tutt’altro che immacolata, un panorama infrastrutturale semi-disastroso.

Un caso più unico che raro

La Romania del 2019 è sicuramente un unicum nel panorama europeo. Paese semi-sconosciuto a occidente se non per vampiresche reminiscenze e una massiccia immigrazione nei centri più sviluppati del continente, la Romania racchiude al suo interno tutte le contraddizioni dell’est europeo; transizione post-comunista irrisolta, nazionalismo onnipresente, corruzione, volontà di modernizzazione, contrasto tra caratteristiche autoctone e occidentalizzazione.

La politica romena è, in occidente, ancor più indecifrabile. Gli attuali governanti romeni, meno rumorosi dei loro colleghi ungheresi o polacchi, portano avanti politiche non meno “populiste” che, tuttavia, hanno radici diverse da quelle degli esecutivi di Budapest o Varsavia. Si può a ragione affermare che in Romania il comunismo non sia mai morto, ma si sia soltanto camaleonticamente trasformato e raffinato, adattandosi alle esigenze dei tempi, per conservare potere e sfere di influenza.

Finire in coma nel 1989

A dicembre sono stati celebrati i 29 anni dalla rivoluzione che ha rovesciato il governo dispotico di Nicolae Ceausescu e della moglie Elena, decretandone al contempo la morte. Se un romeno medio finito in coma nel 1989 si svegliasse oggi e guardasse soltanto agli indicatori macro-economici, vedrebbe chiaramente la transizione dal comunismo al capitalismo come un fatto ormai compiuto, irreversibile. Tuttavia, gli basterebbe qualche giorno per ritrovare segni familiari, per riascoltare parole a cui era abituato, per decifrare una politica non diversa da quella che aveva imparato a conoscere negli anni ’80. Vedrebbe sicuramente volti nuovi e sigle sconosciute, ma dietro questi nuovi contenitori, dietro queste facce mai viste, riconoscerebbe presto la “sua” Romania comunista.

Il nostro romeno “redivivo”, che per comodità chiameremo Ovidiu, si era assopito nel 1989 ascoltando Ceausescu spronare i cittadini a tirare la cinghia, a soffrire ancora un po’ perché il debito stava finalmente per essere pagato, e la Romania avrebbe potuto finalmente cominciare il suo impetuoso sviluppo. Estinguere il debito era fondamentale per l’indipendenza del paese dai poteri occulti occidentali e non, che usavano l’arma economica per schiavizzare i romeni e costringerli a uno stato di perenne arretratezza. Grazie al partito comunista e al suo fiero leader, la Romania si sarebbe ripresa il posto che le spettava nel consesso internazionale, riottenendo finalmente voce in capitolo nei grandi affari internazionali. Per raggiungere questo obiettivo, i romeni dovevano dare prova di patriottismo e resistere di fronte alle difficoltà materiali.

Risvegliarsi trent’anni dopo, cos’è cambiato?

Ovidiu era già in coma quando nel dicembre 1989 Ceausescu venne arrestato e ucciso; dormiva profondamente negli anni ’90 politicamente monopolizzati da Iliescu, e non ha mai avuto l’onore di apprezzare Traian Basescu. Ovidiu si è svegliato nel dicembre 2018, e domenica 16, guardando la televisione nazionale, ha visto qualcosa di nuovo, ma non troppo. La tv trasmetteva una riunione plenaria di partito, come spesso faceva anche negli anni ’80, ma la sigla che troneggiava sul pulpito dell’oratore non era più PCR (partito comunista romeno), bensì PSD (partito social-democratico), e il leader che parlava di fronte alla folla osannante non era “il più amato figlio del popolo”, ma un uomo brizzolato, senza cravatta, con un baffo che lo rende vagamente somigliante al gestore di un bar costiero sudamericano. Il nostro Ovidiu è all’inizio sconcertato: che ne è stato di Ceausescu, del partito, della grande lotta patriottica? Ma basteranno poche parole del baffuto brizzolato a tranquillizzarlo.

Un nuovo Conducator

Anche il nuovo Conducator parla di patriottismo, di unione del partito, di difesa della romenità, di progresso e sviluppo. Dice che la Romania non è un paese di Serie B all’interno dell’Unione Europea, e pertanto merita rispetto. Ovidiu all’inizio non capisce cosa sia l’Unione Europea; ma sì, sarà una specie di organismo plutocratico finanziario che vuole schiavizzare i romeni, come il Fondo Monetario Internazionale, come la Banca Mondiale, come la Comunità Economica Europea; tutte istituzioni che negli anni ’80 volevano la morte economica della Romania, che difesa solamente dal suo leader cercava di sopravvivere. Sì, l’Unione Europea deve essere uno dei nuovi nemici. Menomale che il nuovo condottiero baffuto difende i poveri cittadini. Parla di virilità: il buon romeno deve essere maschio, forte, non dedito a inutili sollazzi culturali. Ovidiu è d’accordo, anche lui è stato educato così: gli hanno insegnato ad essere un duro lavoratore, a non risparmiarsi, a dare tutto per la patria e per il partito. Ma sì, dice Ovidiu tra sé e sé, Ceausescu probabilmente è morto, il partito ha cambiato nome per “modernizzarsi”, ma in fondo è rimasto tutto uguale.

Una transizione infinita?

Una transizione, per essere tale, deve trascinare il paese da un regime politico a un altro. Ma se i due regimi di passaggio sono di fatto speculari, possiamo realmente parlare di transizione? In Romania farebbe molto bene la lettura del Gattopardo. Cambiare tutto, affinché non cambi niente. Parole che perfettamente si adattano alla Romania del 2019, un paese dove le grandi multinazionali spostano i propri uffici, dove ci si diverte con pochi euro, con un dinamismo innegabile.

Dietro questa grande superficie dorata sopravvivono i drammi della Romania comunista: un’élite di partito che governa il paese in modo dispotico, un culto del notabile locale che ricalca esattamente quello rivolto ai maggiorenti del partito comunista nei vari villaggi del paese, una massa enorme di contadini semi-analfabeti che basa la sua esistenza esclusivamente sugli aiuti statali.

Nel paese ribolle una piccola ma vivace società civile che cerca di combattere le storture del sistema, con risultati alterni, dovuti anche a una chiara disparità di forze. Difficile dire cosa ne sarà della Romania nel 2019, un anno che inizia con la presidenza del consiglio UE e che si concluderà con le elezioni presidenziali, l’appuntamento elettorale più importante della politica romena. Una cosa è certa; forse per capire meglio l’est europeo, bisognerebbe spostarsi più a sud-est, e abbandonare le ormai trite e ritrite categorie del populismo anti-europeista e sovranista. Purtroppo per tutti, la situazione è un po’ più complessa.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 09, 2019, 21:35:26 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Via-dai-Balcani-191525

Citazione
Via dai Balcani
Centinaia di migliaia di persone lasciano i Balcani, dove non vedono un futuro. Le cause oltre che economiche sono anche sociali e politiche

09/01/2019 -  Kosovo 2.0
(Originariamente pubblicato da Kosovo 2.0  )

Ogni giorno, nelle prime ore del pomeriggio, gli autobus verso l'Unione Europea partono dalla stazione principale della città di Subotica, Serbia settentrionale.

Tra i passeggeri in attesa di partire per Vienna c'è una ventenne di Novi Kneževac che ha intenzione di continuare la sua formazione in Austria. Non è disposta a parlare della sua partenza, ma suo padre dice a K2.0 che la madre è andata in Austria cinque anni fa e ora lavora come addetta alle pulizie in un hotel, per uno stipendio mensile di circa 1.500 Euro. Per lo stesso lavoro, in Serbia, riceveva da 16.000 a 20.000 dinari (circa 160 Euro).


"Con quello stipendio non puoi nemmeno mantenerti, e che dire di tutto il resto?", dice il padre, che ha preferito rimanere anonimo, mentre saluta la figlia. Aggiunge che lui rimarrà in Serbia con il figlio minore, ma crede che qualcosa dovrà cambiare nel Paese "perché altrimenti tutti se ne andranno".

Scene simili nelle stazioni degli autobus e dei treni, così come negli aeroporti – decine di persone che dicono addio ai propri cari che partono a tempo indeterminato – sono all'ordine del giorno in tutti i Balcani. Secondo il recente Rapporto alternativo sulle esigenze della gioventù in Serbia, il 71% degli intervistati ha dichiarato di voler lasciare il luogo in cui vive. I paesi dell'Europa occidentale rappresentano di gran lunga le destinazioni più popolari (45%).

Il rapporto rileva che la situazione è simile in tutta la regione e afferma che, sfortunatamente, i paesi non hanno risposte adeguate, né politiche demografiche per prevenire esodi di massa dei cittadini.

"La ricerca demografica dimostra che i giovani dei paesi della regione se ne vanno non solo a causa delle condizioni economiche, o come si dice 'trbuhom za kruhom' [per cercare fortuna], ma a causa dell'instabilità del sistema politico e del deterioramento dei valori", affermano le conclusioni del rapporto, basato su un sondaggio con 1200 intervistati.

Il numero esatto di coloro che lasciano la regione è praticamente impossibile da determinare con precisione a causa della mancanza di statistiche affidabili, ma la tendenza è comune a Serbia, Kosovo, Albania, Macedonia, Montenegro e Bosnia Erzegovina, nonché alla Croazia, l'unico paese della regione che è anche membro dell'UE.

Secondo i dati dell'Ufficio statistico tedesco, tra il 2013 e il 2017 quasi 240.000 persone si sono trasferite in Germania dalla sola Croazia: all'incirca la popolazione combinata di Spalato e Zara, le più grandi città della Dalmazia.

Circa 100.000 persone si sono trasferite nella direzione opposta, ma ciò lascia una migrazione netta dalla Croazia alla Germania di circa 140.000 persone in mezzo decennio. Secondo i dati ufficiali dalla Croazia, la maggior parte di chi lascia il paese ha fra i 20 e i 39 anni.

Nello stesso periodo 2013-2017, la migrazione netta dal Kosovo alla Germania è stata di circa 39.000 persone, dalla Serbia circa 29.000, dall'Albania circa 28.000, dalla Macedonia circa 24.000 e dal Montenegro oltre 3.000.


Diagnosi
Dalla Bosnia Erzegovina se ne sono andati oltre 2 milioni di abitanti dai primi anni '90, collocando il paese al 16° posto globale in termini di tasso di emigrazione secondo la Banca Mondiale. Mentre gran parte di questa migrazione si è verificata durante gli anni della guerra 1992-95, il numero sembra di nuovo in aumento.

La migrazione netta dalla Bosnia Erzegovina verso la Germania negli ultimi cinque anni è stata ufficialmente di circa 40.000 persone, 14.000 solo nel 2017.

Nel frattempo, le stime fatte localmente dall'ONG di Sarajevo Unione per il Ritorno e l'Integrazione Sostenibile indicano che oltre 160.000 dei 3,5 milioni di cittadini della Bosnia Erzegovina hanno lasciato il paese negli ultimi cinque anni, in numero sempre crescente di anno in anno.

Secondo i loro calcoli, nel 2014 se ne sono andate circa 27.000 persone, 29.000 l'anno successivo e 34.000 nel 2016. Nel 2017 si parla di circa 35.000 persone, mentre il direttore della ONG Mirhunisa Komarica Zukić ha recentemente dichiarato ai media locali che, secondo le stime, nella prima metà del 2018 se ne sono già andate 18.000.

I demografi avvertono che le cifre disponibili per il pubblico sono incomplete e, in quanto tali, particolarmente allarmanti.

Secondo uno studio del 2017, la causa principale dell'emigrazione è la disoccupazione, ma fra i motivi ci sono anche l'ambiente socio-economico, un sistema sanitario debole e l'instabilità dello stato. In alcune città le scuole sono semivuote e così le facoltà universitarie.

In una tendenza comune a diverse parti della regione, il personale (para)medico sembra particolarmente incline a lasciare il paese. "Secondo alcune stime, ogni giorno 1-2 medici lasciano il paese", ha dichiarato ai media locali Kristina Bevanda, presidente del Sindacato dei medici e del personale sanitario del Cantone di Erzegovina-Neretva. "A livello statale parliamo di circa 360 medici l'anno: un intero ospedale".

Simili le storie dalla Macedonia, anche se, secondo le ricerche disponibili, la "fuga dei cervelli" nelle università non riguarda più esclusivamente il personale medico e tecnico, ma anche discipline come legge, politica ed economia. Allo stesso tempo, solo lo 0,2 per cento del PIL è destinato alla scienza.

Tornando a Subotica, anche la professione sanitaria è colpita dall'emigrazione. Žolt Sendi, presidente del Sindacato infermieri e tecnici del Centro sanitario locale, afferma che il numero di chi chiede un congedo temporaneo non retribuito o un'aspettativa è in aumento: oltre 1.000 di questi lavoratori lasciano la Serbia ogni anno, stima.

"Chi parte ha per lo più fra i 30 e i 40 anni, parliamo di operatori sanitari esperti con diversi anni di servizio", afferma Sendi. "Partono quando sono più produttivi e le ragioni sono il sovraccarico, lo stress e la situazione economica. La loro partenza indebolisce il sistema di assistenza sanitaria sia primario che secondario".

Nenad Ivanišević, direttore del Centro di gerontologia di Subotica, afferma che questa istituzione è di fronte ad un esodo di dipendenti.

Ivanišević dice che ha dovuto fare una richiesta di "mediazione interregionale" al Servizio nazionale per l'occupazione, che ha reindirizzato i candidati che avevano fatto domanda di lavoro nelle professioni mediche in altre città in Serbia. Senza questo tipo di rinforzo, dice, la capacità di fornire servizi sarebbe stata compromessa.

Il Sindacato infermieri e tecnici stima che il 2-5% dei dipendenti, per lo più infermieri e tecnici, emigra ogni anno. Fra loro c'è il tecnico Zlatko Prćić, che dice di essersi trasferito in Inghilterra per poter vivere con dignità, "sia personalmente che professionalmente".

"In Serbia ho perso l'integrità come persona e come professionista", dice Prćić. "È diventato irrilevante che tu faccia il tuo lavoro in modo responsabile o meno".

Dice che la vita in Inghilterra non è perfetta, ma che almeno ha uno stipendio che gli consente di mantenersi e di aiutare i suoi genitori in Serbia.

"Fuga organizzata"
Secondo Viktorija Aladžić, docente presso la Facoltà di ingegneria civile di Subotica, gli studenti nelle facoltà universitarie locali sono in diminuzione. Crede che la ragione principale non sia solo uno stato non funzionale, ma anche le dinamiche sociali.

"La qualità delle relazioni sociali e interpersonali all'interno della famiglia, con gli amici, con i colleghi e così via è tra i fattori più importanti per la felicità individuale e collettiva", dice Aladžić.

Secondo la docente, in una società in cui queste relazioni sono disfunzionali, dove è normale che i datori di lavoro abusino dei lavoratori o che i membri di una famiglia si maltrattino a vicenda, dove le persone si trattano con odio, disprezzo, sottovalutazione e mancanza di rispetto, è naturale per i cittadini – soprattutto i giovani – voler andare a vivere altrove.

Fra chi ha lasciato Subotica c'è Tamara Olman. Laureata in economia, ha lasciato la Serbia all'inizio dei trent'anni e da quattro vive a Vienna. "Ora vivo in un paese dove le regole sono rispettate, dove esiste l'ordine, dove lo Stato si prende cura dei suoi cittadini, dove ci sono molte opportunità e privilegi e dove il sistema sociale è regolato correttamente", dice.


Olman lavora come cameriera mentre impara la lingua locale e dice che, all'arrivo a Vienna, lo stato austriaco le ha dato l'opportunità di frequentare un corso di contabilità.

In Serbia, trovare lavoro con una laurea in economia è stato "impossibile", dice. "Ho bussato a mille porte, ma invano. Sono arrabbiata e delusa per non essere riuscita a trovare lavoro tramite la normale procedura, e questo è il motivo per cui ho lasciato il mio paese".


Storie come quelle di Olman sono comuni a Subotica.

Il sociologo Branislav Filipović ritiene che la ragione principale dell'esodo dei giovani dalla città sia la scarsa politica economica e demografica, mentre gli indicatori dagli altri paesi dei Balcani occidentali ritraggono una situazione simile in tutta la regione.

"I giovani di Subotica non se ne vanno semplicemente", dice. "È meglio parlare di fuga organizzata".

Secondo Filipović, le cause sono l'insicurezza, la corruzione, l'apparato statale disfunzionale, i bassi salari e tutto quanto caratterizza la vita di tutti i giorni.

"Con la partenza di professionisti e giovani istruiti, la città e lo stato stanno perdendo l'essenza sociale dei possibili cambiamenti", dice Filipović.

Anche Nevena Miljački Ristić ha lasciato Subotica negli ultimi anni, vedendo l'opportunità di una vita più confortevole lontano dal paese d'origine. Oggi vive negli Stati Uniti, in una "bellissima cittadina" chiamata Woodlands, ai margini di Houston, in Texas.

"Il motivo principale per cui siamo partiti è stato puramente economico: nonostante il lavoro di mio marito e i due che facevo io, non potevamo avere più dello stretto necessario, forse nemmeno quello", dice. "Con un bambino in arrivo, non avevamo altra scelta che andare da qualche parte dove saremmo stati pagati per il nostro lavoro".

Ristić punta il dito sul nepotismo e la conseguente limitazione delle opportunità disponibili attraverso il semplice duro lavoro. "La disponibilità e l'affiliazione a determinati partiti o gruppi sono molto più apprezzate rispetto all'esperienza o alla voglia di avanzare", dice, aggiungendo che altri suoi conoscenti che hanno lasciato la Serbia lo hanno fatto dopo aver già perso troppi anni "sperando che le cose sarebbero migliorate".

Partire per sempre

Molti degli stessi problemi che affliggono la Serbia sono presenti nel vicino Kosovo. Le code davanti alle ambasciate sono lunghe da molti anni e sono formate in particolare da giovani.

Ciò è dovuto in gran parte alla mancanza di un regime liberalizzato di visti con i paesi dell'Unione europea; dal 2010, i cittadini kosovari sono gli unici nella regione a dover ancora richiedere il visto per recarsi nell'area Schengen.

Inoltre, di fronte alle scarse prospettive economiche, alla corruzione politica endemica e ad uno stato di diritto a malapena funzionante, negli ultimi anni decine di migliaia di kosovari hanno tentato di lasciare il paese definitivamente.

Il più notevole è stato l'esodo di massa del 2014-15, quando centinaia di kosovari partivano ogni giorno, principalmente diretti a Belgrado in autobus prima di tentare di attraversare l'Ungheria e poi proseguire verso altri paesi dell'Unione europea. A febbraio 2015, 1.400 kosovari attraversavano ogni giorno il confine dalla Serbia verso l'Ungheria, mentre nei primi mesi di quell'anno 42.000 kosovari hanno presentato domanda di asilo nell'UE.


Sono state adottate diverse misure politiche per cercare di impedire ai kosovari di andarsene e incentivare il loro ritorno, ma poco è stato fatto per cambiare il fatto che un gran numero di kosovari non riesce a vedere un futuro nel paese d'origine.

Tra il 2012 e il 2016 122.657 persone sono emigrate dal Kosovo, legalmente o illegalmente, per la maggior parte dirette in Germania. Secondo l'Eurostat, i kosovari hanno acquisito permessi di soggiorno principalmente in Germania (47%), Italia (12%), Francia e Austria (circa 9%) e Slovenia (circa 7%). Nel 2016, oltre 21.000 kosovari avevano permessi di soggiorno validi nei paesi dell'UE.

Nel tepore autunnale di un giorno di ottobre, la fila è come sempre lunga di fronte all'ambasciata svizzera.

Fra coloro che restano in fila per ore, in attesa di presentare la domanda di visto, c'è Jetlir, 21 anni. Dice a K2.0 che è uno studente e vuole andarsene perché non vede un futuro in Kosovo. "Non vedo nulla", dice. "Anche quando prenderò la laurea, non riuscirò a trovare un lavoro".

Jetlir crede di avere poche possibilità di ottenere un visto, ma deve comunque provare. "Se approveranno la mia domanda di visto, andrò da mio zio in Svizzera, che ha promesso di aiutarmi a trovare lavoro in un cantiere edile", dice.

Nonostante la tanto attesa esenzione dal visto per i cittadini kosovari – quando e se arriverà – solo per i viaggi turistici di breve durata, Jetlir, come molti dei suoi compatrioti, equipara la liberalizzazione dei visti con l'opportunità di lasciare il paese a più lungo termine. "Spero che la liberalizzazione del regime dei visti accada presto, perché fare la fila sta diventando molto stancante", dice. "Allora partiremo da esseri umani".

Nella linea vicino a Jetlir c'è Enver, quasi il doppio della sua età. Anche lui vuole lasciare il Kosovo e non tornare indietro.

"Spero che mi diano un visto e spero di riuscire a trovare un lavoro, perché qui non c'è lavoro per me", dice. "Il tempo per la nostra generazione sta per scadere, ma almeno possiamo fare qualcosa perché i nostri figli abbiano ciò che ci è mancato negli ultimi 20 anni".

Alla ricerca di ispirazione
Oltre confine, in Montenegro, le prospettive economiche per i giovani sono equamente cupe. La disoccupazione giovanile nello stato meno popoloso della regione è oltre il 40% e gli studi dimostrano che oltre la metà dei giovani (tra i 16 e i 27 anni) vuole andarsene.

Molti lo hanno già fatto. Secondo il Forum locale delle ONG di istruzione informale, nell'ultimo decennio 10.000 giovani hanno lasciato il paese, che ha solo poco più di 620.000 abitanti.

Fra loro c'è Dušan, 30 anni, che ha lasciato il paese quasi 10 anni fa e non pensa ancora a tornare.


"Lo stato non ispira i giovani", dice riferendosi all'onnipresente problema regionale del nepotismo. "Lo stato ci dice che è OK usare qualsiasi tipo di legame per ottenere qualcosa nella vita".

Stufo della situazione nel suo paese d'origine, Boris, 30 anni, laureato in scienze politiche, ha deciso di fare le valigie e lasciare il Montenegro l'anno scorso. Si è diretto negli Stati Uniti, dove ha un lavoro, e dice che non ha intenzione di tornare nei Balcani.

Come Dušan, Boris indica nel nepotismo il fattore chiave che impedisce ai giovani di entrare nel mercato del lavoro, ma afferma anche che mancano efficaci politiche del lavoro.

"L'alto livello di influenza politica, come favorire un partito rispetto all'altro e la mancanza di armonizzazione dei profili di esperti e professionisti con le esigenze del mercato del lavoro, sono le ragioni principali per cui i giovani non trovano lavoro o realizzarsi come esperti o professionisti nel loro settore", dice.

Boris ritiene che le attuali politiche statali non dimostrino interesse a mantenere realmente i giovani nel paese. "Se consideriamo che il Montenegro, nonostante sia membro della NATO e candidato all'adesione all'UE, continua a mostrare enormi segni di debolezza nell'area dello stato di diritto e della discriminazione politica... non sorprende che, secondo la ricerca, più della metà della popolazione giovanile totale voglia lasciare il Paese", dice.

Alcuni passi sono stati fatti nel tentativo di migliorare le prospettive economiche dei giovani.

Sei anni fa, il ministero della Pubblica Istruzione ha avviato un programma di formazione professionale. Questo schema offre ai laureati la possibilità di avere uno stage di nove mesi in media, banche o altre società con uno stipendio mensile di 250 Euro fornito dallo stato.

Finora sono stati investiti in questo progetto più di 30 milioni di Euro, ma ci sono stati problemi con l'implementazione. Voci critiche nella società civile parlano di mancanza di informazioni sui datori di lavoro e su chi controlla il sistema di domande e stage. Ci sono anche interrogativi sull'efficacia formativa del programma.

Ulteriori sforzi per ridurre la disoccupazione giovanile sono stati compiuti due anni fa, quando il Montenegro ha introdotto la Legge sui giovani e adottato una Strategia per la gioventù 2017-21, che ha riconosciuto che "il mercato del lavoro in Montenegro ha un grave problema di assorbimento dei giovani che hanno completato la scuola".

Sempre nel 2016 è stata istituita una Direzione per la Gioventù presso il ministero dello Sport, incaricata di "promozione, sviluppo e miglioramento della politica giovanile a livello nazionale e locale".

Nenad Koprivica, direttore generale dell'ente, spiega a K2.0 che è della massima importanza che tutte le istituzioni coinvolte nella promozione dell'occupazione giovanile "coordinino le attività e sviluppino capacità istituzionali". Per ora, tale coordinamento sembra carente e i cittadini hanno visto pochi segni di miglioramento.

Nella sua ultima relazione sui progressi del Montenegro, la Commissione europea sottolinea che le donne, i giovani e i disoccupati di lungo periodo trovano più difficile trovare lavoro. Nel frattempo, secondo i dati dell'Agenzia per il lavoro del Montenegro, 5.779 laureati sono attualmente disoccupati, così come 243 persone con un master e 10 con un dottorato.

Nonostante le misure adottate sulla carta per aumentare le opportunità economiche, la mancanza di risultati concreti ha portato molti cittadini del Montenegro, così come le loro controparti in tutta la regione, a vedere il proprio futuro altrove.

Una scelta personale
L'impatto su coloro che hanno preso la decisione di lasciare la regione varia da persona a persona.

Alcuni, come Ervin Heđi, 26 anni, del villaggio di Palić vicino a Subotica, sono certi di aver preso la decisione giusta, e non guardano indietro.

Heđi ora lavora come operaio edile a Vienna per uno stipendio mensile compreso tra i 2.600 e 2.800 Euro. Dice di avere più conoscenze all'estero che in patria, e quando torna a casa non c'è quasi nessuno da visitare. "Ho vissuto all'estero per un anno e non ho intenzione di tornare a casa", dice.


Per altri, però, la decisione di allontanarsi suscita sentimenti contrastanti.

Marko Makivić è stato per 10 anni attore del Teatro Nazionale di Subotica, dove è apparso in oltre 25 rappresentazioni. Stanco del "degrado della società... in favore di una minoranza di nuovi ricchi arrampicatori sociali", ha lasciato la Serbia l'anno scorso e ha vissuto a Bangkok, in Thailandia, lavorando come insegnante di inglese.

"La maggior parte delle persone è acutamente insensibile e la loro passività si è metastatizzata", dice Makivić della situazione in patria. "Certo, c'è un piccolo numero di persone attive che stanno cercando, nelle proprie possibilità, di rinvigorire e svegliare le persone intorno a sé".

La decisione di andarsene è stata dura per Makivić e, come per molti altri che hanno lasciato la regione, rimane per lui un grosso peso.

"Sono triste per gli amici che non vedo da molto tempo, sono triste perché mi manca il mio pubblico... ci sono molte cose per cui sono triste", dice. "In qualche modo, tutto si riduce a due opzioni: essere felice, ma legato, o essere libero, ma a volte triste. Ognuno deve fare la propria scelta, me compreso".

Scritto da Natalija Jakovljević, Sanja Rašović, Nidžara Ahmetašević i Fitim Salihu.

Revisione/editing: Jack Butcher

Elaborazione grafici Roberta Bertoldi - OBCT
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 10, 2019, 00:12:44 am
https://www.balcanicaucaso.org/Tutte-le-notizie/Croazia-genere-e-spazio-urbano-le-donne-dimenticate-191667

Citazione
Croazia: genere e spazio urbano, le donne dimenticate

Lo spazio urbano è fondamentale nel processo di creazione di una memoria collettiva e per immaginare il futuro. In Croazia, nella toponomastica, non vi è però traccia di nomi femminili

08/01/2019 -  Ana Kuzmanić,  Ivana Perić      Zagabria
Le visualizzazioni dello spazio pubblico urbano giocano un ruolo importante nel plasmare la memoria collettiva e nell’immaginare un futuro (diverso). Nella toponomastica delle città croate non vi è quasi alcuna traccia delle donne. Delle 64 città croate incluse nell’analisi di H-Alter, solo in 9 la percentuale di strade intitolate a donne è pari o superiore al 5%. In più della metà delle città analizzate, comprese alcune delle più grandi città del paese, questa percentuale è inferiore al 2%. In 11 città non esiste alcuna strada intitolata a donne.

Europa, non c’è spazio per le donne nella memoria urbana
Questa prassi vergognosa non è circoscritta esclusivamente alla Croazia. A giudicare dai nomi delle strade nelle principali città europee, la storia appartiene agli uomini. Se l’identità delle città è “maschile”, dov’è il posto (e quando arriverà il tempo) delle donne?

Le città in Croazia, e in tutta Europa, tuttora rispecchiano il sistema patriarcale che relega la donna all’ambito domestico, dove il suo ruolo primario è quello di generatrice della vita, ovvero di madre.


Nell’agosto di quest’anno, migliaia di donne hanno protestato a Parigi perché solo il 2,6% delle strade nella capitale francese è intitolato a donne. Delle 166 donne a cui sono dedicate  le strade di Parigi, la maggior ha avuto questo riconoscimento solo perché erano mogli o figlie di uomini famosi. Pertanto, il gruppo femminista “Osez le Féminisme” ha deciso di impegnarsi per cambiare la situazione, cominciando col proporre una lista di donne meritevoli – tra scienziate, artiste e donne rivoluzionarie – a cui dedicare nuove strade di Parigi.

Nel 2012, Maria Pia Ercolini, insegnante di geografia di Roma, ha analizzato le titolazioni delle strade della capitale e i risultati sono scoraggianti. Dall’analisi è emerso, infatti, che a Roma solo il 3,5% delle strade è dedicato a donne. Ercolini ha creato su Facebook il gruppo “Toponomastica femminile”, come un punto di partenza per una campagna finalizzata a porre rimedio a questo squilibrio. Migliaia di cittadini e cittadine di Roma hanno aderito alla sua iniziativa.

Sulla base di una legge approvata nel 2007, le città spagnole hanno revocato le titolazioni di strade ai membri del regime franchista. Il messaggio è stato chiaro: non c’è spazio per il fascismo nelle strade. In alcune città, come Léon e Valencia, le autorità hanno deciso di sfruttare l’occasione per dare adeguata visibilità alla storia delle donne, titolando le strade rimaste senza nome alle donne che meritano di essere omaggiate.

Di recente, la città di Bruxelles ha lanciato una campagna di crowdsourcing per la titolazione di nuove strade. La città sta realizzando 28 nuove strade e i cittadini del paese sono stati invitati a fare proposte. È stata la prima volta che la capitale belga ha dato ai cittadini l’opportunità di proporre un nome per le nuove strade, e tra le numerose proposte c’erano molti nomi di donne, sistematicamente marginalizzate nella titolazione di nuove strade.

Croazia, l’assenza simbolica delle donne a Zagabria
L’anno scorso Katja Vretenar e Zlatan Krajina della Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Zagabria hanno condotto una ricerca i cui risultati hanno mostrato che Zagabria si è trasformata in una città degli uomini: le donne, nonostante la loro presenza fisica, sono “simbolicamente assenti”.

Nel maggio 2018, reagendo all’iniziativa del consiglio comunale di Zagabria di intitolare il parco di fronte al caffè letterario “Booksa” in via Martićeva a uno scrittore, l’associazione “Kulturtreger” ha lanciato una petizione intitolata “Park književnicama!” [Parco alle scrittrici!].

Gli organizzatori della petizione hanno sottolineato che sarebbe ora che la città ponesse fine alla discriminazione e all’ingiustizia nei confronti delle donne meritevoli che hanno lasciato tracce significative nella vita letteraria e culturale di Zagabria. Tuttavia, il consiglio comunale ha deciso di ignorare la petizione e, nel luglio 2018, ha dedicato il parco allo scrittore Enver Čolaković, marginalizzando ancora una volta non solo le tre scrittrici proposte nella petizione (che ha raccolto oltre 1600 firme), ma tutte le donne che meritano di essere ricordate dalla città di Zagabria.

Spinte dal desiderio di stimolare un cambio di rotta su questo fronte, abbiamo analizzato le intitolazioni delle strade in 64 delle 128 città croate. Nella nostra analisi non abbiamo preso in considerazione le strade intitolate ai coniugi (marito e moglie) perché riteniamo che tale percezione della donna rifletta la logica patriarcale. Abbiamo inoltre escluso dall’analisi le strade intitolate alle figure femminili che possono essere considerate fittizie, come le fate o quelle intitolate alle donne sante.

Va inoltre sottolineato che, nei casi in cui le autorità locali non ci hanno consegnato elenchi completi delle strade, abbiamo usato i dati disponibili su Internet, che possono non corrispondere fedelmente alla situazione attuale, ma crediamo che tali variazioni siano trascurabili, tali da non poter incidere sul risultato finale.

Abbiamo analizzato 15.010 intitolazioni, di cui solo 297, ovvero il 2,37% è femminile.

Le città migliori e peggiori
Delle 64 città analizzate, in 11 non esiste alcuna strada intitolata a una donna. Si tratta delle seguenti città: Benkovac, Buje, Buzet, Čazma, Duga Resa, Gospić, Imotski, Ivanec, Novi Marof, Sinj e Slunj.

In cima alla classifica è la città di Belišće, dove 4 delle 49 strade sono intitolate a donne (8,16%). Solo in 9 città la percentuale delle strade intitolate a donne è pari o superiore al 5%: Belišće (8,16 %), Čakovec (5.14 %), Hvar (5,20 %), Krapina (5,33 %), Opatija (5,15 %), Orahovica (5,06 %), Požega (6,83 %), Pregrada (5,13 %) e Slatina (6,45 %).

In più della metà delle città analizzate, comprese alcune delle principali città del paese, questa percentuale è inferiore al 2%.


Più grande è la città, più profondo è l’oblio
Nell’analisi sono state incluse le 8 principali città croate: Zagabria, Spalato, Fiume, Osijek, Zara, Pola, Slavonski Brod e Karlovac. È emerso che a Zagabria solo lo 0,95% delle strade è dedicato a donne, a Spalato 1,89%, a Fiume 3,75%, a Osijek 1,89%, a Zara 3,68%, a Pola 1,61%, a Slavonski Brod 2,84% e a Karlovac 1,46%.

Quindi, in 5 delle 8 principali città, la percentuale delle strade dedicate alle donne è inferiore al 2%. La situazione peggiore è a Zagabria (lo 0,95%), e la migliore, anche se lungi dall’essere ideale, a Fiume (3,75%).

È da notare inoltre che, oltre ad essere completamente marginalizzate nelle titolazioni di strade, alle donne non vengono quasi mai dedicati grandi spazi pubblici, come piazze e parchi. La maggior parte delle città analizzate non ha nemmeno un parco o una piazza a nome di una donna.


Chi sono le donne a cui vengono intitolate le strade?
La maggior parte delle strade con nomi di donne nelle città analizzate è dedicato alla scrittrice Ivana Brlić Mažuranić (16), alla scrittrice e giornalista Marija Jurić Zagorka (13), alla pittrice Slava Raškaj (12) e alla compositrice Dora Pejačević (11).

Molte strade nelle città croate sono intitolate alla donne sante (via Santa Lucia a Novi Vinodolski; via Sant’Agata a Novigrad; via Santa Maria a Novalja, Dubrovnik e Zara; via Santa Margherita a Karlovac; strada di Sant’Anna a Bjelovar, ecc.), alla Vergine Maria (via della Natività di Maria a Novigrad, via della Madonna di Zečevo a Nin, via della Madonna della Neve a Požega, via dell’Assunzione a Slavonski Brod, via della Madonna della Pace a Sebenico, via della Madonna del Mare a Trogir, ecc.), nonché alle fate (via della Fata di Velebit a Metković e Nin).


Al posto di una conclusione
Nelle città analizzate non abbiamo riscontrato nessuna strada dedicata ad alcune delle donne più importanti nella storia croata, per cui abbiamo creato la seguente lista come una fonte di ispirazione per le future e (speriamo) tempestive (re)intitolazioni delle strade in tutto il paese: Nada Dimić, Daša Drndić, Božena Begović, Anka Berus, Paula Landsky, Marija Braut, Mirjana Gross, Nada Mihelčić, Vesna Krmpotić, Mare Žebon, Katarina Dujšin Ribar, Mara Čop Marlet, Dunja Rihtman-Auguštin, Vinka Bulić, Elza Kučera, Ivana Tomljenović Meller, Žarana Papić, Olga Pavlinović, Vera Dajht Kralj, Nada Klaić, Jelena Krmpotić-Nemanić, Vanda Kochansky-Devidé, Jasenka Kodrnja, Zoja Dumengjić, Nives Kavurić-Kurtović...

Quest'articolo è stato originariamente pubblicato da H-Alter. E' pubblicato in collaborazione con l'European Data Journalism Network  e ripubblicabile con licenza CC BY-SA 4.0  .
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 10, 2019, 20:55:27 pm
http://www.eastjournal.net/archives/95005

Citazione
MITTELEUROPA BALCANI BALCANI ORIENT. RUSSIE BALTICO MEDIO ORIENTE CAUCASO ASIA CENTRALE EUROPA(e)
CROAZIA: L’epilogo del caso Agrokor, il colosso agroalimentare evita il fallimento
Pierluca Merola  4 ore fa

Nel corso dell’autunno 2018 si è consumato l’epilogo del caso Agrokor in Croazia, apertosi nell’aprile 2017, quando il colosso agroalimentare a forte rischio fallimento fu commissariato con una legge ad hoc dal governo croato.

Lo scorso 7 novembre, dopo un anno dalla sua iscrizione nel registro degli indagati per falso in bilancio e appropriazione indebita, Ivica Todoric, ex-presidente e proprietario di maggioranza dell’Agrokor, è stato finalmente estradato in Croazia. Nel frattempo, si è concluso il commissariamento straordinario dell’Agrokor e i creditori internazionali hanno rilevato il conglomerato croato.

Continuano invece gli scambi di accuse tra Todoric e il governo croato. Con l’arresto di Todoric, l’ex-ministro dell’economia Martina Dalic celebra la fine del “capitalismo clientelare” in Croazia. Mentre, dal canto suo, Todoric, in libertà vigilata, si candida alle elezioni e accusa la leadership croata di svendere il paese al capitale straniero.

L’estradizione di Todoric

Il magnate Ivica Todoric è stato estradato in Croazia un anno dopo la sua fuga all’estero dell’ottobre 2017, che seguì il mandato d’arresto emesso dalla corte distrettuale di Zagabria per i reati di falso in bilancio e appropriazione indebita. Dopo un mese di latitanza, a novembre 2017, Todoric si era consegnato alla polizia di Londra, dichiarando di essere un perseguitato politico. A ciò seguirono un anno di verifiche da parte dei tribunali di Londra, che hanno poi confermato l’estradizione il 25 ottobre 2018.

Secondo l’accusa, Ivica Todoric avrebbe coperto le perdite dell’Agrokor gonfiando il valore delle controllate della compagnia e alterando i libri contabili. Inoltre, mentre la compagnia era virtualmente fallita, la famiglia Todoric si sarebbe appropriata di circa 133 milioni di euro.

Va qui ricordato che l’Agrokor, con un fatturato di 6,5 miliardi di euro l’anno, è la più grande società per azioni dell’Europa sud-orientale. La società è presente in Croazia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Ungheria, Slovenia e Serbia, dove impiega più di 130.000 persone. Infine, il valore dell’Agrokor è pari da solo al 16% del PIL croato.

La scambio di accuse tra Todoric e il governo croato

Da quando è fuggito nell’ottobre 2017, Todoric ha sempre dichiarato di essere vittima di una congiura internazionale, orchestrata dal governo croato e dal fondo di investimento americano Knighthead Capital Investments, per privarlo della propria compagnia.

Nella realtà, nel corso dell’estate del 2017, in seguita all’analisi approfondita dei libri contabili e all’emersione dei falsi in bilancio, è avvenuta una rottura tra il governo croato e Ivica Todoric fino ad allora d’accordo sulle modalità di salvataggio statale dell’Agrokor. In seguito a questa rottura, Todoric cominciò a inviare alla stampa croata i diversi scambi di mail che precedettero l’adozione della legge ad hoc per il salvataggio statale della compagnia.

La pubblicazione di queste mail portò allo scoppio di uno scandalo quando fu chiaro che i professionisti che a vario titolo fornirono una consulenza gratuita all’allora ministro dell’Economia Martina Dalic furono poi ricompensati con posizioni di rilievo nel commissariamento straordinario e nella ristrutturazione dell’Agrokor. A stretto giro, il primo ministro Andrej Plenkovic, benché rifiutando le accuse di clientelismo e conflitto di interessi nei confronti della Dalic, ha comunque riconosciuto il metodo non ortodosso con cui fu gestito il commissariamento e quindi richiesto le dimissioni al suo ministro a maggio 2018.

Il reciproco scambio d’accuse tra Ivica Todoric e Martina Dalic è proseguito anche dopo le dimissioni di quest’ultima. Tanto che, dopo le dimissioni, costei si è fiondata nella stesura di un libro dal titolo altisonante: “la fine del capitalismo clientelare in Croazia”. Dove per “capitalismo clientelare” si intende un tipico sistema economico dei paesi post-comunisti in cui le grandi imprese nazionali prosperano e accumulano risorse grazie alla commistione tra potere politico e oligarchie economiche.

In questo libro, la Dalic inscrive quindi l’episodio del collasso dell’Agrokor, del suo commissariamento e dell’arresto di Todoric, nell’onda lunga di quella transizione economica che dall’economia socialista jugoslava, attraverso le oligarchie e le clientele di era Tudjmaniana, starebbe finalmente portando la Croazia a divenire una piena economia di mercato. In disaccordo con questa lettura, Todoric, in libertà vigilata, ha dichiarato che si candiderà alle elezioni nazionali “per cambiare veramente il paese”.

La fine del commissariamento

Nel frattempo, i creditori internazionali hanno raggiunto a luglio 2017 un accordo sul nuovo assetto societario dell’Agrokor, poi confermato dalla corte commerciale di Zagabria a ottobre 2018. Secondo l’accordo raggiunto, i crediti nei confronti dell’Agrokor sono stati convertiti in azioni della società. Tre società sono state quindi fondate in Olanda per ripartire i proventi della compagnia tra gli ex-creditori, ora azionisti, per gestire il ripagamento dei debiti rimanenti pari a 1,3 miliardi di euro e pianificare le ulteriori dismissioni, e per la possibile futura uscita dei creditori dall’azionariato dell’Agrokor.

Il nuovo assetto societario vede la banca russa Sberbank come socio di maggioranza con il 39,2% delle azioni, seguita dagli ex-obbligazionisti con il 25% delle azioni, la cui maggioranza è gestita dalla Knighthead Capital Investments. Partecipazioni minori sono poi detenute dalla russa VTB bank (7,5%) e dall’italiana Unicredit (2,3%).

In capo a quasi due anni, l’Agrokor è quindi uscita dal rischio fallimento. Il governo croato ha effettivamente raggiunto il suo principale obbiettivo: evitare che il collasso dell’Agrokor colpisse altri settori economici e assicurare il pagamento dei crediti ai piccoli fornitori agricoli. Tuttavia, il nuovo assetto societario è ora composto da fondi speculativi e banche d’investimento poco interessati alla gestione a lungo termine. È quindi probabile che l’azienda venga ulteriormente spacchettata e svenduta per permettere a quest’ultimi di rientrare dell’investimento.

La saga del collasso dell’Agrokor volge così al termine: un ex-ministro in odore di conflitto di interessi celebra la fine del “capitalismo clientelare” in Croazia, un ex-proprietario sotto processo si candida alle elezioni, mentre viene spostata verso il nord Europa la sede deputata a distribuire i proventi del maggior conglomerato dell’Europa sudorientale. Probabilmente l’epilogo più scontato per una storia di transizione economica in un paese post-comunista d’Europa: dalle acquisizioni di proprietà statali a prezzi simbolici, agli abusi finanziari coperti dal potere politico, alla sede in Olanda.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 10, 2019, 20:59:30 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Cecenia/Cecenia-un-analisi-della-crescita-demografica-191886

Citazione
Cecenia: un'analisi della crescita demografica
Perché in Cecenia come in altre repubbliche del nord del Caucaso si registrano tassi di natalità molto superiori alla media della Russia?

10/01/2019 -  Marat Iliyasov
Nel contesto di declino generale o crescita quasi zero della popolazione in Russia (si veda tabella 1), sono poche le regioni che mostrano la tendenza opposta. Tra queste vi sono le repubbliche politicamente instabili del Caucaso settentrionale: Cecenia, Inguscezia e Daghestan.

Demografia e sicurezza
"Hai tantissimi bambini", commenta un sorpreso giornalista europeo in visita in Cecenia, ospite di una famiglia cecena per una notte. "Sai, la guerra... niente elettricità... niente da fare...", risponde scherzosamente il padrone di casa.

In effetti, tre o più figli per famiglia sono la norma in Cecenia, Inguscezia e Daghestan. Come dimostrano le tabelle seguenti, queste tre repubbliche del Caucaso del Nord sono molto vicine in diversi indicatori demografici, fra cui gli alti tassi di natalità, bassi tassi di mortalità e rapida crescita naturale (che non include la migrazione). Quest'ultimo fattore causa le solite preoccupazioni alle amministrazioni locali, che devono garantire alla popolazione in crescita sufficienti asili nido, scuole, parchi giochi, stadi, ospedali, luoghi di lavoro, ecc..


Oltre alla crescita demografica, queste repubbliche condividono anche l'instabilità politica. Negli anni 2008-2010 la testata online Caucasian Knot  , che monitora la situazione nella regione, ha registrato perfino un minor numero di morti legate alla violenza in Cecenia rispetto all'Inguscezia e al Daghestan. Ciò ha spinto gli analisti a parlare di una ramificazione della guerra russo-cecena, che stava diventando una nuova guerra caucasica.

Tuttavia, all'inizio del 2010, i governi locali supportati da Mosca sono riusciti a imporre un controllo più stretto sul territorio e calmierare la violenza. Queste dure politiche hanno causato maggiore emigrazione e trasformato la regione nel principale fornitore dalla Russia di combattenti per l'Isis.

La ricetta: limitare i tassi di natalità
L'instabilità, purtroppo, è rimasta. Un numero enorme di giovani è rimasto in patria, aumentando il numero di persone deluse dall'incapacità dei governi locali di garantire un impiego o una qualità di vita soddisfacente. A causa degli alti tassi di natalità, questi numeri aumentano ogni anno, il che delinea un'altra preoccupazione, questa volta direttamente correlata al governo federale russo.

Vladimir Zhirinovsky, politico russo di dubbia reputazione e idee radicali, ha ripetutamente espresso questa preoccupazione sulla TV russa e altri media: gli alti tassi di natalità e l'educazione che i bambini ricevono nel Caucaso settentrionale aumentano la minaccia del terrorismo. "Allevano i loro figli preparandoli a morire uccidendo russi e cristiani... Costruire nuove fabbriche e migliorare la situazione occupazionale non risolverà questo problema. Perché faranno sempre più figli... Dobbiamo limitare i loro tassi di natalità. Devono dare alla luce solo uno o due bambini come l'umanità intera. Dovrebbero essere multati per il terzo figlio...".

Dal discorso di Zhirinovsky si evince che le due guerre russo-cecene del 1994-1996 e 1999-2009 hanno lasciato il timore che nel Caucaso settentrionale si stiano preparando i figli ad una nuova guerra. La mia ricerca condotta con i ceceni nel periodo 2014-2017 si poneva queste domande: quali sono le ragioni principali dell'alto tasso di natalità ceceno? La crescita della popolazione cecena è collegata alle recenti guerre nella regione? Se sì, in che modo?

"Sopravvivere ed essere forti"
La ricerca ha confermato il legame tra la demografia e la minaccia esistenziale. Tuttavia, "la preparazione" alla prossima guerra per i ceceni significa piuttosto aumentare la capacità difensiva o la possibilità di sopravvivenza della nazione rafforzandosi numericamente. È stata questa la ragione che ha incoraggiato i ceceni a scegliere famiglie più numerose anche durante la guerra, contrariamente a quanto si potesse prevedere. In effetti, il tasso di natalità medio durante la fase più dura della seconda guerra (si veda tabella 2) è rimasto simile alla situazione prebellica. Il declino dell'intensità della guerra ha poi quasi raddoppiato i tassi di natalità.

La spiegazione più comune di questo fenomeno da parte dei miei intervistati è riassunta nella seguente narrazione. "Siamo costantemente in guerra con la Russia. Ci saremmo estinti se non avessimo famiglie numerose. E questa è la ragione principale. Abbiamo bisogno di famiglie numerose, così la nostra nazione sarà forte e nessuno oserà attaccarci. Inoltre, più grande è la nazione, meglio è. Se abbiamo più persone, significa che abbiamo più possibilità di avere buoni studiosi, musicisti, scrittori, ecc.. Più grande è la nazione, maggiori sono le probabilità che possa prosperare. Voglio che la mia nazione sia forte e quindi voglio molti bambini".

La connessione tra guerra e tassi di nascita di cui parlavano i miei intervistati non era sempre correlata al patriottismo, come espresso nella citazione precedente. Alcuni facevano riferimento al tramandare il cognome. La guerra mette a rischio anche questa possibilità. "Avevo già più di trent'anni quando è iniziata la guerra, e mi dicevo... E se muoio? Non ci sarà nessuno a prendere il nome di famiglia... Non mi sembra giusto".


Il patriottismo dei maschi ceceni era condiviso anche dalle donne intervistate. Erano anche loro consapevoli delle piccole dimensioni della nazione cecena e volevano che fosse più forte. Tuttavia, un'intervista con una delle donne cecene ha rivelato che anche altri fattori giocano un ruolo importante. L'intervistata era in stretto contatto con altre donne cecene rifugiate e ha riportato una delle conversazioni che ha avuto con loro. Questa conversazione ha dimostrato il forte desiderio di avere famiglie numerose, ma non ha chiaramente articolato la fonte di tale desiderio. "Una donna mi ha detto: 'Gli assistenti sociali qui non vogliono che facciamo bambini. Cercano di 'educarci'. Ci suggeriscono di usare i contraccettivi, ma noi vogliamo avere molti bambini... Le ho chiesto, perché? E lei mi ha detto: 'Che strana domanda... non sei una donna cecena?'".

Altri motivi
In effetti, anche gli uomini ceceni citano altri fattori che spingono alla procreazione, principalmente religione, tradizioni, motivi economici e stile di vita rurale. Le spiegazioni fornite possono essere riassunte in poche frasi.

La religione ha un ruolo importante secondo molti intervistati. L'Islam (la religione principale in Cecenia e nel Caucaso settentrionale), secondo loro, incoraggia la procreazione. Dio promette di dare a ciascuno ciò che gli appartiene e quindi non ci si preoccupa molto delle finanze.

Gli intervistati che hanno citato il ruolo delle tradizioni (il secondo gruppo più numeroso) sottolineano che una famiglia numerosa significa migliori possibilità in un probabile scontro per qualsiasi motivo. "Se hai molti figli, hai delle persone che ti sostengono", hanno affermato molti intervistati.

Le ragioni economiche sono state citate da un minor numero di intervistati. "Più ricco sei, più bambini puoi permetterti", era l'atteggiamento generale.

Meno intervistati hanno citato il fattore dello stile di vita rurale, affermando che favorisce famiglie più numerose e che i nord caucasici sono per lo più contadini.

Infine, solo pochi intervistati hanno menzionato un istinto naturale, il bisogno di diventare genitori.

È importante notare che, nel caso analizzato (i ceceni), tutte queste ragioni venivano dopo la necessità di sopravvivere come nazione. È discutibile se questo possa essere esteso a Inguscezia e Daghestan, ma il coinvolgimento parziale nel confronto violento con la Russia suggerisce che potrebbe essere così.

 
Fonte: ufficio statistico della Russia.Consultabile online http://www.gks.ru/bgd/regl/b11_13/IssWWW.exe/Stg/d1/04-06.htm  ; http://www.statdata.ru/russia  Consultato il 20 novembre 2016

 
Fonti: censimenti in URSS e Russia degli anni 1959, 1970, 1979, 1989, 2002 e 2010. (Il prossimo censimento è previsto per il 2020). Consultabile online http://www.gks.ru/bgd/regl/b11_13/IssWWW.exe/Stg/d1/04-06.htm ; http://www.statdata.ru/russia  Consultato il 20 novembre 2016

 
Fonte: Badoyeva et al. (2012), Surinov (2010: 76), Dianov 2015. Vedi anche le statistiche statali consultabili al sito http://www.statdata.ru/largest_regions_russia  (ultimo accesso 06/12/2018), Rossiyan uzhe men’she, vainakhov I dagestantsev bol’she consultabile al sito https://riaderbent.ru/rossiyan-uzhe-menshe-vajnahov-i-dagestantsev-bolshe.html   (ultimo accesso 07/12/18)
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 10, 2019, 21:02:34 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-l-inverno-del-malcontento-civile-191968

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Serbia, l’inverno del malcontento civile

Da settimane migliaia di persone si radunano nelle vie centrali della capitale serba per manifestare il proprio dissenso contro il governo e lo strapotere del presidente Aleksandar Vučić, il quale annuncia elezioni anticipate

10/01/2019 -  Dragan Janjić
Ogni sabato sera, nonostante il freddo e la neve, migliaia di persone marciano nel centro di Belgrado per protestare contro il governo e il presidente serbo Aleksandar Vučić. Si tratta di una sorta di rivolta dei gruppi sociali scontenti, soprattutto della classe media, ovvero di quella parte più istruita della popolazione urbana che sostiene fortemente i valori europei e l’ingresso della Serbia nell’Unione europea. Il movimento di rivolta è privo di una (visibile) organizzazione solida, non ci sono arrivi organizzati di manifestanti da altre città, mentre i principali media serbi praticamente tacciono sulle proteste. Gli oppositori del governo si radunano perlopiù in modo spontaneo e si informano sulle manifestazioni soprattutto tramite i social network.

Questi cittadini che protestano sono stati particolarmente marginalizzati dopo l’arrivo al potere di Aleksandar Vučić e del suo Partito progressista serbo (SNS) nel 2012. Chiedono il rafforzamento dello stato di diritto e la fine della partitocrazia, e con la partecipazione massiccia alle proteste hanno dimostrato volontà e prontezza a impegnarsi per il cambiamento. Finora sono state organizzate cinque manifestazioni di protesta, ognuna più massiccia della precedente.

Uno dei motivi per cui la rivolta cresce rapidamente risiede nel fatto che le autorità reagiscono alle proteste in modo molto duro e offensivo. “Siete venuti così numerosi in risposta all’invito di Aleksandar Vučić”, ha detto l’attore Branislav Trifunović rivolgendosi ai manifestanti durante una delle proteste, alludendo al fatto che il modo offensivo in cui le autorità parlano dei manifestanti ha spinto molte persone a scendere in strada.

Subito dopo l’inizio delle proteste, il presidente Vučić ha dichiarato che non verrà incontro alle richieste dei manifestanti nemmeno se ci fossero cinque milioni di persone in strada. Questa dichiarazione ha spinto gli oppositori di Vučić a creare lo slogan “Uno dei cinque milioni”, scritto sui cartelli e badge portati dai manifestanti.

Il ministro dell’Interno Nebojša Stefanović durante una conferenza stampa ha cercato di convincere l’opinione pubblica serba che alle proteste stiano partecipando solo 3500 persone. Dal momento però che in occasione di ogni manifestazione di protesta le strade nel centro di Belgrado sono invase dai dimostranti e che le fotografie e i video mostrano una folla di persone in marcia, la dichiarazione del ministro è stata accolta da chi protesta come un “segnale di panico” in seno alla coalizione al governo.

Le autorità hanno ben presto rinunciato ai tentativi di scoraggiare le proteste presentandole come un capriccio di “una manciata di scontenti” manipolati dall’opposizione (e probabilmente anche dai servizi segreti stranieri) perché questo approccio, come già dimostrato in passato, di solito porta alla crescita del movimento di protesta. Tuttavia, i manifestanti continuano a essere duramente criticati sui media mainstream, senza avere la possibilità di difendersi ed esprimere la propria posizione. Delle proteste i media parlano poco, perlopiù nell’ultima parte dei notiziari televisivi e sulle pagine interne dei giornali.

Pressioni
Dall’affermazione secondo cui non avrebbe reagito nemmeno se cinque milioni di persone dovessero scendere in strada, attraverso il tentativo di sminuire la portata delle manifestazioni, Vučić è arrivato al punto di ridurre la protesta alla richiesta di elezioni anticipate. “A me interessa la legittimità. La legalità c’è, ma se qualcuno ha dubbi sulla legittimità, non c’è nessun problema, sono sempre pronto per una verifica”, ha dichiarato Vučić.

“Se il governo dovesse scegliere, sicuramente preferirebbe andare subito alle elezioni, piuttosto che aspettare sei mesi, perché nel frattempo l’opposizione si sarebbe rafforzata sull’onda delle proteste. E' quindi logico sia quello che sta facendo l’opposizione sia che il governo paventi elezioni anticipate. Staremo a vedere se si terranno davvero”, sottolinea l’analista politico Dragomir Anđelković.

Abbandonata la strategia di contare i manifestanti e cercare di dimostrare che sono pochi, la leadership al potere ha ora adottato un approccio diverso: sostiene che si tratti di raduni politici organizzati dai partiti di opposizione, e li accusa di aver derubato la Serbia quando erano al potere. Gli esponenti dell’opposizione non hanno avuto occasione di rispondere a queste accuse sui media mainstream, che invece danno ampio spazio alle dichiarazioni dei rappresentanti del potere. Nonostante l’opposizione non abbia mai menzionato le elezioni, al governo affermano che i partecipanti alle proteste chiedono elezioni anticipate che, secondo quanto annunciato in via ufficiosa, potrebbero tenersi già in primavera.

I rappresentanti del potere continuano a ripetere che sono disposti a parlare con i cittadini, ma non con l’opposizione, affermando implicitamente che i membri dell’opposizione non sono cittadini, negando così uno dei principi fondamentali della democrazia. La leadership al potere ha scelto di rispondere alle proteste con elezioni politiche anticipate, di cui però non c’è alcun reale bisogno dato che la maggioranza di governo è molto stabile.

Le elezioni sono un terreno su cui la coalizione al governo ha un dominio assoluto, dal momento che controlla gli organi statali e i principali media del paese, dispone di mezzi finanziari necessari per condurre la campagna elettorale e non esita a usare risorse pubbliche per l’autopromozione politica.

Le elezioni anticipate inevitabilmente sposterebbero l’attenzione sui partiti di opposizione, lasciando così ampio spazio ai tentativi di stemperare il crescente malcontento, alimentando disaccordi tra diversi gruppi politici e altre organizzazioni che, direttamente o indirettamente, sostengono i manifestanti e prendono parte alle proteste. La spontaneità, che tuttora caratterizza le proteste, è evidentemente un grande nemico del potere populista fondato sull’autorità del leader e del partito al governo e sulla marginalizzazione dello stato di diritto.

Resta tuttavia il fatto che tra quei gruppi sociali che in teoria dovrebbero dare un grande contributo al progresso e allo sviluppo del paese, inesorabilmente cresce il malcontento, che non svanirà facilmente, a prescindere dall’esito delle eventuali elezioni anticipate. Qualora l’opposizione non mostrasse maturità e prontezza a organizzarsi e unirsi in un unico fronte contro un regime populista e incline all’autoritarismo, i cittadini scontenti sicuramente cercheranno un altro modo per esprimere resistenza. Quindi, se il governo dovesse decidere di organizzare elezioni anticipate, guadagnerebbe tempo ma non riuscirebbe a “pacificare” la classe media che sta cominciando a svegliarsi.

Elezioni
La protesta civile è uno dei più potenti mezzi di cui attualmente dispongono gli oppositori del governo. Finora sono state organizzate cinque proteste. La prima manifestazione ha visto la partecipazione di alcune migliaia di persone. Il secondo sabato il numero di partecipanti è raddoppiato, mentre la terza e la quarta volta decine di migliaia di persone si sono riversate nelle strade di Belgrado. La quinta manifestazione, tenutasi lo scorso 5 gennaio, ha visto riunirsi circa 10mila persone. Bisogna tuttavia tener presente che è stata una giornata molto fredda e che le festività natalizie erano ancora in corso, per cui molte persone erano fuori città. Quel giorno per la prima volta sono state organizzate proteste anche a Niš, Kragujevac e in altre città della Serbia.

A scatenare le proteste è stato l’aggressione violenta da parte di ignoti a Borko Stefanović, leader della Sinistra serba (LS) e uno dei fondatori dell’Alleanza per la Serbia (SZS, al momento la più forte coalizione dei partiti di opposizione in Serbia), avvenuto lo scorso 23 novembre a Kruševac. Da allora le proteste si svolgono sotto lo slogan “Contro la violenza – stop alle camicie insanguinate” perché Stefanović è stato colpito alla testa con un’asta in ferro, perdendo molto sangue, per cui la sua camicia era tutta insanguinata.

Lo slogan “Uno dei cinque milioni” è stato aggiunto in un secondo momento, dopo la summenzionata affermazione di Vučić secondo cui non accetterebbe le richieste dei manifestanti nemmeno se fossero in cinque milioni. Gli esponenti dell’opposizione partecipano alle proteste, ma restano mescolati alla folla e non tengono discorsi, mentre in primo piano ci sono attori, intellettuali e giovani attivisti.

Tuttavia, questa situazione non può durare a lungo, soprattutto se le autorità decidono di indire elezioni anticipate a primavera. L’opposizione è consapevole del fatto che la coalizione di governo è avvantaggiata nella campagna elettorale e nelle elezioni, per cui dovrà scegliere tra due opzioni: boicottare le elezioni o parteciparvi pur sapendo in anticipo che si svolgeranno in condizioni ad essa sfavorevoli e che una vittoria delle forze di opposizioni rappresenterebbe un vero e proprio miracolo politico. Entrambe le opzioni richiedono l’ideazione di un’ampia piattaforma politica, la creazione di un’organizzazione forte e capillare e il mantenimento della “temperatura politica” con le proteste come espressione del malcontento degli oppositori del governo.

Al momento non c’è alcuna intesa solida tra i partiti di opposizione, ma è evidente che, per la prima volta dall’arrivo al potere di Vučić e del suo SNS, si è aperto uno spazio per una seria azione politica dell’opposizione. Il primo ostacolo che i partiti di opposizione devono superare è quello di raggiungere un accordo sulla scelta di partecipare alle elezioni anticipate o boicottarle attivamente. Nessuna delle due opzioni è particolarmente favorevole all’opposizione, da tempo fortemente indebolita, ma semplicemente non c’è una terza via.


https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-l-economia-lumaca-dei-Balcani

Citazione
Serbia, l’economia lumaca dei Balcani
10 gennaio 2019

Dopo la Croazia e la Grecia, la Serbia è, considerando gli ultimi dieci anni, il paese con la crescita economica più lenta di tutti i Balcani. A dirlo è Vladimir Gligorov, professore presso l’Istituto di studi economici internazionali di Vienna.

In una recente intervista per l’agenzia serba Beta  , l’economista afferma che la posizione della Serbia “è in parte dovuta alle correzioni del tasso di cambio e dei redditi reali dopo il 2008, e poi legata al consolidamento fiscale, effettuato dopo il 2015”.

Gligorov ritiene che il maggior errore nel processo del consolidamento fiscale sia stata la diminuzione di salari e pensioni, che ha incoraggiato l'emigrazione, così come la conferma di sussidi alle aziende statali e agli investitori.

“Al posto di questo – prosegue il professore di economia – si sarebbero dovute adottare delle riforme del settore pubblico e delle istituzioni economiche e garantire lo stato di diritto”, aggiungendo che quest’ultimo per gli “investitori ambiziosi” è molto più importante delle sovvenzioni.

Riguardo la finanziaria del 2019, Gligorov fa notare che “non è certo che lo stato possa spendere di più, per esempio, nella costruzione di infrastrutture, perché finora ha ritardato la realizzazione di quasi tutti i progetti, per non parlare della loro qualità”.

Critico anche nei confronti delle spese militari. “Potrebbero acquistare materiale didattico per la scuola o per altri scopi pubblici, ma a quanto pare si crede che comprare armi sia più gradito all’opinione pubblica”, conclude Gligorov.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 13, 2019, 23:11:22 pm
http://www.eastjournal.net/archives/95126

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L’ultima puntata di Kiosk, la radio sintonizzata sull’est!
redazione  1 giorno fa

Tra Russia, Ungheria e Polonia

Nella puntata numero 12, la prima del 2019, Kiosk viaggia tra la Russia e l’Europa centro-orientale.

Si parte dalla Russia, per parlare del “meccanismo di Mosca”. Uno strumento previsto l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa che prevede l’istituzione di una commissione di esperti indipendenti per indagare su un determinato tema. Invocato solo sette volte in passato, questa volta il meccanismo è servito per lanciare un’indagine relativamente alla situazione della comunità LGBT nella repubblica russa della Cecenia, che nel 2017 fu teatro di sparizioni, omicidi e torture nei confronti di centinaia di cittadini ceceni omosessuali. Yuri Guaiana, attivista per la ong All Out, ci aiuta a capire di più su questa indagine e sull’importanza per il movimento LGBT e per tutto il movimento per i diritti umani.

Ci spostiamo in Ungheria, dove si continua a protestare contro la cosiddetta “Legge sulla schiavitù”. La normativa consente ai datori di lavoro di chiedere 400 ore di straordinari all’anno e dà loro la possibilità di pagare le ore extra entro 3 anni. L’approvazione della legge e il rifiuto di discutere gli emendamenti presentati dall’opposizione hanno dato il via a enormi proteste di massa. Il governo Orbán vacillerà?

Sempre in Ungheria, le autorità hanno rimosso il monumento in bronzo dedicato ad Imre Nagy da piazza dei Martiri, di fronte al parlamento ungherese, per ricollocarlo a piazza Jaszai Mari. Nagy è considerato dalla maggior parte degli ungheresi un eroe nazionale e fu primo ministro durante la rivoluzione del 1956. La sua figura, è parte integrante dell’identità e della memoria storica dell’Ungheria contemporanea. Insieme a Matteo Zola, direttore responsabile di East Journal, cerchiamo di capire le motivazioni politiche di questo gesto.

Facciamo un altro tuffo nel passato per ricordare Simcha Rotem Ratajzer, l’ultimo sopravvissuto tra coloro che parteciparono alle rivolte del ghetto di Varsavia.

Infine, torna l’appuntamento con la nostra amatissima rubrica “Polveriera balcanica”.


PLAYLIST

• Idoli – Kenozoik |
• Motorama – Lottery | • Arkadij Kots – Byt’ rabočim ne stydno | • Pankow – Rock ‘n’ roll im Stadtpark | • Klezmafour – evet evet |
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 17, 2019, 23:50:32 pm
http://www.eastjournal.net/archives/95188

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STORIA: Il sacrificio di Jan Palach e il fallimento del socialismo dal volto umano
Donatella Sasso  1 giorno fa

Questo è il sesto di una serie di articoli dedicati agli avvenimenti legati alla Primavera di Praga. Clicca qui per leggere gli altri.

Il 16 gennaio 1969 era un giorno freddo. A Praga l’inverno sa essere molto rigido. Lo studente di filosofia Jan Palach si preparò con calma, quel pomeriggio. La determinazione dei suoi vent’anni, sarebbero stati 21 l’11 agosto, gli permise di riempire una sacca a tracolla con i suoi quaderni, debordanti di articoli, pensieri e dichiarazioni, e di prendere con sé una tanica di benzina.

Giunto di fronte al Museo Nazionale in Piazza Venceslao, quello che gli occupanti avevano trivellato di colpi nell’agosto dell’anno prima, posò a terra la sua sacca. Poi prese mentalmente le misure, le fiamme non avrebbero dovuto toccare i suoi preziosi appunti, si spostò a sufficienza, si cosparse di combustibile e si diede fuoco.

La sua agonia durò tre lunghi giorni. In ospedale confidò ai medici di avere preso a modello i monaci buddisti del Vietnam del Sud che, nel 1963, protestarono in quel modo contro le discriminazioni inflitte dal presidente cattolico. Fra i suoi scritti si lesse: «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana». Poche settimane dopo altri giovani seguirono il suo esempio, ma ebbero molta meno risonanza mediatica perché il governo si impegnò a soffocare la diffusione di determinate notizie.

In effetti il suicidio di Jan Palach aveva procurato un’enorme commozione in tutto il paese. Il 25 gennaio ai funerali avevano partecipato centinaia di migliaia di persone, certo per rendere omaggio al giovane compatriota, ma anche per prendere una chiara posizione politica di fronte ai propri governanti e alla dirigenza sovietica.

Alexander Dubček, in quei giorni ricoverato all’ospedale a Bratislava per una virulenta influenza, fu molto colpito dall’estremo sacrificio del giovane. Tutto si stava sgretolando intorno a lui e le “torce umane” che cercavano drammaticamente di illuminare le coscienze glielo sottolineavano nel modo più duro e cruento possibile.

Poco prima del 16 gennaio, il presidente del Parlamento Smrkovský, fra i più fedeli sostenitori di Dubček, era stato costretto alle dimissioni, segnando un ulteriore passo verso la perdita di sovranità e autonomia della Cecoslovacchia. Intanto gli animi rimanevano accesi.

In marzo, a Stoccolma, si tennero i campionati mondiali di hockey su ghiaccio, sport nazionale cecoslovacco. Il 21 marzo vi fu la prima partita fra Cecoslovacchia e Unione Sovietica: in campo si percepiva molto di più della rivalità sportiva e, quando i primi vinsero, tutto il paese scese in strada a celebrare la propria rivalsa nazionale. Le cose furono un po’ più complesse una settimana dopo quando la Cecoslovacchia vinse la finale, sempre contro i sovietici, con un sofferto 4 a 3. Gi animi erano sovraeccitati e i servizi segreti non si lasciarono sfuggire l’occasione. Alcuni poliziotti, travestiti da operai, misero diverse pietre da pavimentazione di fronte alla sede della compagnia aerea sovietica, l’Aeroflot. Quando i praghesi scesero in piazza, alcuni di loro iniziarono a lanciare le pietre contro le vetrine degli uffici e in molti li imitarono. Non successe nulla di più, ma quest’episodio servì a scatenare altri scontri che si protrassero nei giorni successivi. Il 31 marzo, senza alcun preavviso, giunse a Praga il maresciallo Grečko che minacciò l’uso delle armi contro i provocatori e ribadì la doppia necessità di reintrodurre la censura e soffocare la “controrivoluzione”. Dubček incassò l’ennesima provocazione, ma comprese, in quel preciso momento, di aver esaurito forze e strumenti per far fronte allo stra-potere sovietico. Decise quindi di rassegnare le proprie dimissioni.

Lo comunicò durante la riunione di presidenza del Comitato centrale, il 17 aprile, nella consapevolezza che suo successore sarebbe stato Husák, fedele a Mosca e contrario alle riforme, al quale chiese, in extremis e senza alcuna speranza, di non tradire il Programma d’azione. Gli fu offerta la presidenza del Parlamento, che accettò solo per avere ancora un minimo di voce in capitolo.

Con Husák fu dato il via ai licenziamenti dei giornalisti scomodi, furono chiusi vari giornali, si ebbero arresti e destituzioni di segretari regionali noti per essere favorevoli alle riforme, le espulsioni dal Partito colpirono mezzo milione di persone. Ad agosto, in concomitanza con l’anniversario dell’invasione, in trenta città si organizzarono manifestazioni di protesta, tutte represse da 35.000 fra soldati e poliziotti. Almeno cinque persone persero la vita, fra cui una di soli 15 anni. Husák approfittò dei disordini, sobillati dai militari, per far approvare la cosiddetta “legge del manganello” sulla repressione, anche se non riuscì a far instaurare, come avrebbe auspicato, la legge marziale. Dubček, errore di cui si sarebbe pentito fino alla morte, pose la sua firma in calce alla legge. A metà settembre fu estromesso dalla carica di Presidente del Parlamento ed espulso dal Comitato centrale. Forse per motivi tattici o perché Husák non si sentiva ancora abbastanza forte, gli risparmiò l’espulsione dal Partito e lo mandò come ambasciatore ad Ankara. Fin da subito Dubček fiutò in quella decisione un tranello, una mossa per non farlo più tornare in patria, ma, sostenuto anche dalla moglie, non si oppose. I due coniugi giunsero in Turchia nel gennaio del 1970 e furono accolti con grande calore, sia dalle autorità sia dai cittadini. Verso maggio Dubček ebbe però conferma dei suoi sospetti: da Praga tramavano per imporgli un esilio perpetuo. Molti paesi gli offrirono asilo politico, ma lui era determinato a tornare a casa. Dopo alcuni tentativi di comprare un biglietto aereo per Praga, riuscì a trovarne uno per Budapest. Partì da solo, la moglie lo raggiunse con difficoltà un mese dopo, e, come mise piede a Praga, gli fu comunicata l’espulsione dal Partito.

Cominciò per lui e per la sua famiglia il periodo più duro. Nel dicembre 1970 trovò lavoro come meccanico nell’Azienda forestale della Slovacchia occidentale nei pressi di Bratislava, dove rimase fino alla pensione. In quello stesso periodo iniziò a essere costantemente pedinato, sia in auto sia a piedi, la sua casa fu riempita di cimici, rimase isolato, praticamente relegato in Slovacchia. La situazione era drammatica, ma non mancarono episodi divertenti, quanto surreali.

Un giorno andò a trovarlo nella sua casetta in campagna Václav Slavík, un vecchio amico dissidente. Per poter parlare tranquillamente decisero di fare un bagno nel vicino laghetto. Gli agenti, molto infastiditi, presero in fretta alcune barche e si misero a remare forsennatamente per non perdere alcuna parola. Uno di loro, stanco di quella situazione, a un certo punto urlò «Per quanto pensate di restare, ancora?». Dubček rispose senza scomporsi: «Sicuramente resisteremo più a lungo di voi!».

E non si sbagliò. A distanza di vent’anni vinsero quanti, come lui, seppero resistere più a lungo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 17, 2019, 23:51:52 pm
http://www.eastjournal.net/archives/95240

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BOSNIA: Il lungo inverno dei profughi bloccati al confine UE
redazione  11 ore fa

Sono oltre 4.000 le persone bloccate per l’inverno in Bosnia Erzegovina. Profughi dal Pakistan, Iran, Afghanistan, Iraq e Siria, che risalendo la rotta balcanica sono arrivati alle porte dell’Unione europea – e lì hanno dovuto fermarsi, almeno per ora.

La situazione dei profughi bloccati in Bosnia Erzegovina

Nel corso del 2018, circa 24.000 persone hanno attraversato i confini bosniaci, proveniendo da Serbia e Montenegro. Alcune sono in cammino già da anni, arrivate a piedi attraverso la Turchia e la Grecia o la Bulgaria. Altre sono arrivate nei Balcani direttamente, approfittando del breve periodo di assenza di visti tra Serbia e Iran. La maggior parte sono riuscite a proseguire, attraversando la frontiera nonostante il rischio di violenti e illegali respingimenti da parte dei gendarmi croati (come continuano a denunciare le ONG), per arrivare infine ai loro paesi di destinazione: Austria, Germania, paesi scandinavi, per alcuni anche l’Italia. Chi non ce l’ha fatta a superare il gioco, “the game“, ha dovuto fermarsi un giro.

Per mettere un tetto sulla testa a tutte queste persone, la Commissione europea ha investito 9,2 milioni di euro finora. Con questi soldi, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) e i suoi partner (UNHCR e UNICEF) hanno approntato tre centri d’accoglienza temporanea con tende riscaldate e container in due ex capannoni industriali nelle città di Bihać e Velika Kladuša, al confine nord-occidentale del paese, laddove i profughi si concentrano per provare poi a superare il confine croato.

La situazione, che in autunno appariva disperata, si è ora in qualche maniera stabilizzata. L’intervento politico e il sostegno finanziario dell’UE hanno permesso di scongiurare quella che si presentava come una catastrofe umanitaria annunciata.

Ultimo progresso in ordine di tempo è la riapertura a tempo di record, una volta ristrutturata, della “casa dello studente” di Bihać, un edificio già abbandonato ed occupato da un migliaio di profughi, ora destinato all’accoglienza delle famiglie di profughi, complementare agli spazi disponibili presso l’ex Hotel Sedra di Cazin. Segnale di normalità è che un centinaio di bambini di queste famiglie, alcuni dei quali da anni sul cammino verso l’Europa, potranno presto sedere di nuovo sui banchi di scuola, iscritti alle scuole elementari di Bihać e Cazin.

Le autorità locali tra accoglienza e pugno duro

Ma la situazione in queste città del cantone Una-Sana non è semplice: le autorità locali si sentono abbandonate dal governo di Sarajevo, che – nonostante asilo e migrazione siano tra le poche competenze esclusive del governo centrale bosniaco – non si è assunto alcuna responsabilità politica. Così, la polizia cantonale ha dichiarato raggiunto il limite massimo dell’accoglienza.

Ogni giorno l’autobus che da Sarajevo raggiunge Bihać attraversa il confine cantonale presso la cittadina di Ključ. Qui la polizia fa scendere i profughi, lasciandoli senza riparo con temperature che in questa stagione possono facilmente scendere sottozero. I migranti sono costretti ad aggirare l’improvvisato “checkpoint”, e a continuare a piedi, spesso nella neve, per gli ultimi venti chilometri fino a Bihać.

La denuncia del garante bosniaco

Una mancanza di responsabilità politica e di capacità amministrative che è stata denunciata dalle stesse istituzioni bosniache: l’ufficio del Difensore Civico (Ombudsman) ha pubblicato un rapporto speciale sulla situazione dei migranti nel paese. L’Ombudsman Jasminka Džumhur ha sottolineato come il 90% dei profughi in Bosnia si trovi in un limbo legale, avendo espresso l’intenzione di richiedere asilo ma non potendo di fatto deporre domanda, poiché per farlo dovrebbe presentarsi a Sarajevo in orario d’ufficio.

Nonostante gli impegni internazionali, infatti il settore per l’asilo del ministero della Sicurezza bosniaco dispone di due soli impiegati per trattare tutte le domande d’asilo – oltre mille nel solo 2018, ma con un potenziale di varie volte superiore. Non è un caso che l’ultima volta che la Bosnia Erzegovina ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un richiedente asilo fosse il 2014.

“Il problema delle migrazioni è un problema europeo – ha ricordato Džumhur – e la soluzione deve venire dall’Europa”. Per il momento, l’unica cosa che le istituzioni bosniache sembrano fare è lasciare che l’Europa copra i costi per la permanenza temporanea di queste persone sul territorio bosniaco, nella speranza che con la primavera, così come sono arrivati, altrettanto spontaneamente svaniscano.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 17, 2019, 23:53:15 pm
http://www.eastjournal.net/archives/95217

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SERBIA: A un anno dall’omicidio di Oliver Ivanovic, ancora nessuna giustizia
Angelo Massaro  1 giorno fa

E’ passato un anno esatto dall’omicidio di Oliver Ivanović, uno dei leader dei serbi del Kosovo, e i suoi responsabili non sono stati ancora individuati. In ricordo di Ivanović, parenti, amici e compagni di partito si sono riuniti a Nord Mitrovica davanti alla sede del suo partito, “Srbija, pravda, demokratija”, luogo in cui Ivanović si stava recando al momento dell’omicidio. Anche i cittadini di Belgrado hanno reso omaggio al politico serbo-kosovaro, nell’ambito delle proteste antigovernative organizzate nelle ultime settimane. E alle 18 di oggi, nella capitale serba, si terrà una marcia in ricordo di Ivanović.

Un anno di indagini

Le indagini sull’omicidio di Ivanović hanno finora indicato numerosi sospetti provenienti da settori diversi della comunità serba del Kosovo. Al momento risultano in stato di arresto tre indiziati a seguito di una retata delle unità speciali della polizia kosovara avvenuta a Nord Mitrovica lo scorso 23 novembre. Il fermo ha coinvolto due poliziotti, Dragiša Marković e Nedjelko Spasojević, e Marko Rosić, un tifoso appartenente al locale fan club del Partizan Belgrado.

Agli inizi di gennaio 2019 la corte d’appello di Pristina ha poi esteso la durata della custodia cautelare fino al 23 febbraio per i tre serbo-kosovari. Nell’elenco dei sospettati, però, c’è soprattutto Milan Radoičić, uomo d’affari serbo-kosovaro e vicepresidente di Srpska lista, il principale partito politico serbo del Kosovo, da sempre strettamente collegato al governo di Belgrado.

Le impressioni di Ivanović

A differenza degli altri tre accusati, Radoičić è riuscito a evitare l’arresto rifugiandosi in Serbia, paese verso cui Pristina ha già emesso un mandato d’arresto. In un’intervista rilasciata al portale Balkan Insight pochi mesi prima del suo omicidio, Oliver Ivanović menzionava proprio Radoičić come una figura centrale nel sistema informale di potere che detiene il reale controllo sulle municipalità kosovare a maggioranza serba.

Ivanović nell’intervista si era inoltre detto preoccupato che Radoičić fosse riconosciuto da Belgrado come un esempio di chi si batte per la sopravvivenza dei serbi in Kosovo. Va ricordato che Ivanović era entrato da tempo in rotta di collisione con il governo di Belgrado denunciando il clima di tensioni e minacce che si era creato già durante le elezioni locali kosovare del 2017.

Nel frattempo, il presidente Aleksandar Vučić ha negato ogni accusa, sostenendo che Radoičić non avrebbe preso parte all’omicidio di Ivanović. A provarlo sarebbero infatti un interrogatorio e un esame poligrafico effettuati dalla polizia serba al momento dell’arrivo a Belgrado del vicepresidente di Srpska lista. Secondo Vučić il governo di Pristina avrebbe tentato di incastrare Radoičić in quanto principale difensore dei serbi del Kosovo, cercando persino la sua uccisione.

Le autorità kosovare non hanno tardato a esprimere il proprio giudizio in merito alla vicenda. Per il presidente del Kosovo Hashim Thaçi i “maggiori sospettati dell’assassinio di Ivanović si troverebbero a Belgrado e le autorità serbe dovrebbero consegnare queste figure alla giustizia”. Mentre il premier kosovaro Ramush Haradinaj ha precisato che il caso dell’omicidio di Ivanović non si potrà risolvere velocemente senza la cooperazione della Serbia. Secondo alcune speculazioni, Haradinaj avrebbe in realtà un rapporto ambiguo con Radoičić, come dimostrato da un incontro ufficiale tra i due, lo scorso luglio a Nord Mitrovica. Per il premier Haradinaj sarebbe infatti essenziale preservare il supporto ricevuto dai rappresentati di Srpska lista alla coalizione di governo.

Le manifestazioni di Belgrado

Mentre le indagini vanno avanti, sono diverse le voci critiche nella società civile serba e kosovara a chiedere l’individuazione dei responsabili dell’omicidio di Ivanović. Il clima è particolarmente teso a Belgrado, dove a seguito del pestaggio del politico di opposizione Borko Stefanović si sono tenute diverse manifestazioni di protesta nel corso delle ultime settimane, sotto lo slogan “Stop alle camicie insanguinate”, nonché “1 di 5 milioni” – in riferimento a quando Vučić disse che non avrebbe ascoltato le richieste dei manifestanti nemmeno se fossero cinque milioni. Il corteo di oggi prenderà simbolicamente il nome di “il primo di 5 milioni”, alludendo a come Ivanović si schierasse in opposizione all’attuale governo serbo.

I manifestanti, che danno voce ad un crescente malcontento per la gestione autocratica del potere da parte del Partito Progressista Serbo guidato dal presidente serbo Aleksandar Vučić e per la scarsa copertura dei media del paese rispetto alle manifestazioni, hanno più volte sottolineato la necessità di fare luce sull’assassinio di Ivanović e sui rapporti tra Vučić e Radoičić.

Un quadro confuso

Dalle indagini sull’omicidio di Oliver Ivanović emerge al momento un quadro estremamente confuso. Nonostante siano state avanzate diverse ipotesi sui responsabili dell’assassinio non sono stati ancora trovati i mandanti. A complicare lo scenario è poi il gioco di accuse tra Kosovo e Serbia che rappresenta un ostacolo ulteriore per le analisi giudiziarie.

Quello che invece sembra essere fortemente sostenuto dalla società civile è il desiderio di giungere al più presto alla verità sul caso Ivanović. A tal riguardo, le iniziative in memoria del politico serbo-kosovaro rappresentano un monito affinché episodi del genere non diventino una prassi consolidata nella politica balcanica.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 18, 2019, 00:08:40 am
https://www.balcanicaucaso.org/Dossier/Balcani-a-tutto-smog

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Le città dei Balcani sono tra quelle dove si respira l'aria più inquinata d'Europa. Un problema aggravato dalla lentezza con cui le istituzioni stanno prendendo coscienza della gravità della situazione. Un dossier di OBCT
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 18, 2019, 00:39:07 am
http://www.eastjournal.net/archives/75501

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ALBANIA: 25 anni fa, quando la Rai parlò di noi
Lavdrim Lita  9 Agosto 2016

25 anni fa cominciava il grande esodo dei profughi albanesi verso l’Italia. Tra la notte del 6 e la mattina del 7 marzo del 1991, una prima ondata di persone in fuga dall’Albania si riversò sulle coste pugliesi. Era il preludio al drammatico viaggio verso Bari della nave Vlora che ad agosto attraccò in Puglia con 20 mila passeggeri a bordo.

La storia

Il crollo del muro Berlino e la morte violenta dei coniugi Ceausescu in Romania nel 1989 aveva scosso i regimi comunisti nell’ est Europa e sopratutto Tirana. Per 45 anni l’Albania fu sottomessa a dura prova da un regime stalinista guidata con metodi spietati dal dittatore Enver Hoxha. Questa prova consisteva nell’impoverimento materiale e spirituale di tre milioni di persone. Centinaia di chiese, mosche e altri luoghi di culto furono distrutte e decine di chierici persero la vita perla volontà cieca di estirpare con la violenza la fede nelle persone per sostituirla con il culto del partito.

L’Albania arrivava nei primi anni ‘90 come il terzo paese più povero del mondo dopo l’Uganda e l’Angola e dove la proprietà privata, la libera impresa, la libertà e i diritti umani fondamentali erano stati vietati per Costituzione. Durante il regime comunista la mobilità interna ed esterna erano totalmente proibite. La propaganda contro la migrazione e immigrazione era massiccia e rappresentata come una piaga sociale frutto del capitalismo. La propaganda totalitaria fino alla morte di Enver Hoxha nel 1985 rappresentava nell’immaginario collettivo albanese il fenomeno migratorio come una deportazione territoriale simile a quella per gli oppositori politici.

Il regime comunista del post-Hoxha guidata da Ramiz Alia cercò di allentare la presa della repressione dando l’idea di prossime riforme economiche e sociali, ma l’ incapacità e l’atrofia politica della classe dirigente deluse subito le aspettative. In condizioni di povertà diffusa, di disoccupazione crescente e di mancanza di reali prospettive per il futuro,l’emigrazione sembrava l’unica strada percorribile per una generazione che non aveva nulla da perdere.

Nel luglio del 1990 centinaia di giovani si diressero, spinti dalla speranza di una vita migliore, verso i cancelli delle ambasciate occidentali come fossero una casa sicura per chiedere asilo politico e una nave che li avrebbe guidati verso l’occidente. I primi dati sono spaventosi per la credibilità del regime, circa tremila persone si rifugiarono all’ambasciata tedesca; altre cinquemila in quelle italiane, francesi, greche, turche, polacche, ecc.

A Tirana il malcontento si manifestò ormai apertamente e diversi gruppi sociali e sindacali organizzarono scioperi e manifestazioni. Quelli che diedero un colpo definitivo al regime comunista furono gli studenti universitari che scesero in piazza in numero sempre maggiore: anche se in un primo momento le loro richieste erano limitate alle condizioni di studio, ben presto acquisirono una maggiore connotazione politica. Il passaggio da un regime totalitario a un sistema democratico di tipo liberale coincise con una grave crisi economica del paese, in un momento storico in cui la globalizzazione cominciava a far sentire i suoi effetti. Alla povertà ereditata si aggiunse la piaga della disoccupazione che in una società molto giovane come quella albanese incentivò le forti spinte migratorie.

Verso l’Italia

In questa confusione politica, economica e sociale, alla vigilia delle prime elezioni libere nel marzo del 1991, l’Albania era un paese in rovina, in cui regnava il caos e il sogno dell’occidente,in particolare l’ Italia, vista solo alla televisione. La Rai e i canali mediaset, anche se il fenomeno non e’ ancora scientificamente studiato, furono uno dei più importanti spiragli che mantenne vivo nell’immaginario collettivo il desiderio di libertà e la possibilità di una alternativa.

Nella primavera del 1991 l’Italia scoprì di essere la terra promessa per migliaia di albanesi.Dal 7 marzo 1991, gli albanesi entrarono a pieno titolo sulla scena continentale con quello che fu denominato “l’ esodo biblico”. I legami con l’Italia erano stati sempre di amore e odio. L’amore per essere cosi simili: “due popoli, un mare”. Anche nel medioevo, gli albanesi per scappare all’ invasione ottomana sbarcavano in Sicilia o in Puglia come ci dimostra la presenza della comunità arberesh nel sud Italia. L’Italia era sempre stata vista come un porto sicuro. Tuttavia, gli albanesi residenti in Italia nel lontano 1980 erano appena 514; nel 1990, 2.034.

Tutto questo stava per cambiare.La prima calorosa accoglienza nelle ambasciate occidentali confermò il desiderio di molti giovani di provare a scappare dal non-vivere. La voce per la partenza delle navi dal porto di Durazzo aveva fatto sì che centinaia di giovani di Tirana percorressero a piedi o in bicicletta 40 chilometri che dividono la capitale dalla città di mare. Una maratona verso la libertà. In quei giorni migliaia di giovani albanesi “assaltarono” la nave “Vlora”, una bellissima nave italiana costruita a Genova negli anni 60. La Rai stava finalmente parlando di loro. Per la prima volta, loro erano la notizia.

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Chi è Lavdrim Lita
Lavdrim Lita
Giornalista albanese, classe 1985, per East Journal si occupa di Albania, Kosovo, Macedonia e Montenegro. Cofondatore di #ZeriIntegrimit, piattaforma sull'Integrazione Europea. Policy analyst, PR e editorialista con varie testate nei Balcani. Per 4 anni è stato direttore del Centro Pubblicazioni del Ministero della Difesa Albanese. MA in giornalismo alla Sapienza e Alti Studi Europei al Collegio Europeo di Parma.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 18, 2019, 15:48:30 pm
Non ha a che fare con i paesi dell'Europa dell'est, bensì con la Cina e i cinesi, che comunque sono sempre ad est...
Il commento è di un italiano e non potrebbe essere altrimenti, perché in Europa, sia dell'ovest che dell'est (nel mondo non saprei), non esistono persone talmente esterofile e sprezzanti verso i propri connazionali.

Citazione
I cinesi hanno sempre lavorato, ovunque, tanto e a ritmi massacranti.
Non hanno sabati, domeniche o vacanze.
Lavorare, per loro, è una questione di orgoglio, onore. Status sociale.
Incassare, fare affari va oltre un atteggiamento tipico di alcuni italiani del ''Devo farlo per sopravvivere, altrimenti passerei tutta la giornata a non fare un cazzo..''.
Per molti di loro, lavorare è una questione che ''rende felici'' e non di noiosa routine.
Molti di loro sono imprenditori nati, col fiuto per gli affari.
Spesso alcuni cinesi ci disprezzano perchè noi italiani non sappiamo sacrificarci per il lavoro, ci considerano dei pelandroni nati.
Analizzando questi atteggiamenti culturali, non diventa facilissimo capire il perchè di così tanto successo?

Naturalmente, concludo dicendo che dietro alcuni cinesi c'è sicuramente delinquenza, mafia, omertà e mazzette.
Ma quando sei italiano e la parola stessa ''ITALIANO'' all'estero fa pensare subito ad un altra parola, ''MAFIA'', quando la metà dei tuoi parlamentari è stata arrestata per inciuci con organizzazioni delinquenziali e varie tangentopoli, ha davvero senso puntare il dito contro i cinesi?


Citazione
Ma quando sei italiano e la parola stessa ''ITALIANO'' all'estero fa pensare subito ad un altra parola, ''MAFIA'',

Un altro coglione che fa di tutta l'erba un fascio e che parla di "estero"...
Ed anche qui sorge spontanea la ferale domanda:
"Quale cazzo di estero? Di quali paesi parli, idiota?"

Tralascio il discorso relativo al fatto che in Italia non c'è una attività cinese, che sia una, che non sia finanziata dalla loro mafia, che peraltro ha radici ben più antiche di quella italiana (al pari della yakuza giapponese).
Ma tanto il disprezzo di sé, del proprio popolo, delle proprie radici, della propria storia, è talmente profondo e radicato nella mente dell'italiano medio, che è sostanzialmente inutile evidenziare certi dati di fatto.
E' come lottare contro i mulini a vento.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 20, 2019, 00:54:20 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-la-serie-TV-culto-Domani-cambiera-tutto-192059

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Serbia: la serie TV culto “Domani cambierà tutto”
Una serie Tv sta spopolando in Serbia. Una serie che racconta con autenticità la perenne incertezza in cui vivono quattro trentenni a Belgrado

18/01/2019 -  Nikola Radić
(Pubblicata originariamente da Le Courrier des Balkans  il 14 gennaio 2019)

Durante i 39 episodi di 20 minuti ognuno di Jutro će promeniti sve ("Domani cambierà tutto", titolo preso in prestito dai leggendari rocker jugoslavi Indexi), seguiamo per un intero anno le vite di quattro trentenni in una Belgrado contemporanea. Filip, ingegnere informatico prodigio, volta le spalle al sogno americano rinunciando al suo lavoro a San Francisco per tornare a Belgrado, la sua città natale, senza altro scopo se non quello di abbandonare la slot machine che è la Silicon Valley. Sua sorella Anđela, studentessa di dottorato in psicologia e assistente alla Facoltà di Filosofia, si sta separando dal suo compagno di lunga data. Il bar notturno, grazie al quale vive la sua migliore amica Saša viene chiuso a seguito di una perquisizione della polizia. Ljuba, originario della provincia, personal trainer, anticonformista e seduttore, perde il lavoro in una palestra locale e si ritrova per strada e indebitato.

Passioni effimere, separazioni, conflitti intergenerazionali, precarietà, gravidanze indesiderate, disillusioni, promiscuità, droghe e eccessivo consumo di alcol si susseguono in un affresco di una società disorientata da una transizione che non finisce mai. Jutro će promeniti sve racconta un'intera generazione, dipinge un bel ritratto dei millenials, questa generazione Y nata nell'Europa dell'Est agli ultimi sospiri del socialismo. Una generazione cresciuta con le turbolenze degli anni '90 che oggi vaga in questo labirinto neoliberista in cui il talento non sempre fa rima con successo.

"Nessuno è un dipendente fisso, tutti sono in affitto, tutti in lotta perpetua", riassume Vladimir Tagić, co-creatore della serie. I quattro eroi, che affrontano una tardiva transizione all'età adulta, sono coscienti che questa vita non è quella che avevano immaginato. Le loro rimozioni, la loro accettazione, le illusioni e le speranze rappresentano il cuore di questa serie melodrammatica firmata da Goran Stanković e Vladimir Tagić.

Ma i nostri protagonisti non rimangono immobili in attesa di un "mattino in cui tutto cambierà". La simpatica Ljuba si cimenta in cucina in un ristorante, Saša in una serie di lavori poco appassionanti e spesso ridicoli, Filip fa il giro di tutte le sue vecchie conoscenze alla ricerca di un posto da ingegnere e Anđela continua con la sua tesi, al termine della quale dovrebbe spettarle un posto da professoressa.

Ma troveranno un modo di sfuggire all'instabilità di questa vita dal sapore adolescenziale? Nulla è certo: le scelte importanti sono già state fatte (lasciare gli Stati Uniti per Filip, abbandonare l'università per Saša, ecc.). Le porte pian piano si chiudono: la start-up degli ex colleghi di Filip si è sviluppata così tanto che non c'è più spazio per lui, il nepotismo regna nella Facoltà di Anđela mentre sia Saša che Ljuba continuano ad annaspare nella precarietà.

Se la serie ha avuto così tanto successo in Serbia, è innanzitutto grazie all'autenticità dei dialoghi e al realismo delle situazioni. Alcune introduzioni sono dolorosamente realistiche (la città natale di Ljuba nella Serbia centrale, dove il quotidiano è una noia, intriso di birra e scandito dalle scommesse sportive), altre comiche (la polizia che interrompe una festa e alla fine rimane a bere qualcosa con i festaioli, Ljuba ed i suoi amici che ballano ubriachi il kolo nel cuore della notte su un campo da basket).

Più di 350 set ci accompagnano attraverso Belgrado e dintorni. Le immagini della capitale serba sono piccole cartoline urbane e perdono il potenziale della città come personaggio a parte. La fotografia è nitida e sottile che flirta con l'estetica del cinema indipendente americano; sullo sfondo una moderna colonna sonora strumentale, fissa un tono malinconico, soprattutto alla fine di ogni episodio, quando i personaggi, al calar della notte, galleggiano nell'incertezza. È in questi momenti che la nostra empatia è tirata in ballo, ci identifichiamo con i personaggi, immaginiamo il corso dei loro pensieri prima del prossimo episodio ed un nuovo risveglio.

“Domani cambia tutto” avrebbe potuto fare a meno di alcuni luoghi comuni come le infinite code davanti agli uffici, riferimenti ad una burocrazia desueta, o frasi del tipo "L'America è una terra di infinite opportunità”. I personaggi sono accattivanti anche se alcuni, come quello di Filip, rimangono un po' abbozzati. Lo stesso vale per alcune tracce narrative che rimangono sottoutilizzate come l'uso interessante di piccole finestre per visualizzare gli scambi di SMS. La serie solleva molte questioni etiche. Fare o meno visita ad un padre moribondo che non è mai stato parte della nostra vita? Quanto siamo disposti a fare per pagare i nostri debiti? È anche la prima serie tv serba di questa portata a mettere in scena una relazione romantica tra due donne.

Il cast è una vera e propria iniezione di freschezza: l'interpretazione di Nikola Rakočević è di una facilità degna di veterani del cinema. La presenza carismatica della giovane Isidora Simijanović, il recitare eccezionale e l'attenzione alle sottigliezze Jovana Stojiljković e l'incredibile naturalezza di di Andrija Kuzmanović sono supportati da ruoli secondari altrettanto interessanti, in particolare quello di Jakša, interpretato da Nemanja Oliverić e di Dušan, il padre di Filip, interpretato da Nebojša Dugalić.

Alcuni critici hanno rimproverato agli autori alcuni "tempi morti" e alcune narrazioni fuorvianti. Sono infatti presenti e per un motivo: “Domani cambierà tutto” è come i giorni dei suoi protagonisti, a volte sorprendenti ed euforici, a volte lenti e ripetitivi.

L'ultimo episodio conferma il messaggio che si libra nell'aria dalla prima scena: non ci sarà nessun deus ex machina, una sola mattina non potrà cambiare tutto e non si verificherà alcun miracolo. Gli eventi saranno collegati con un ritmo naturale, imposto dal tempo e dalle circostanze. Una nota di speranza si aggrappa comunque alla nostra mente alla fine di questa prima e per ora unica stagione, i nostri eroi guarderanno a nuovi orizzonti, ma sempre nel mezzo di un'incertezza permanente, di un eterno “vedremo”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 20, 2019, 00:58:00 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Croazia-mille-cause-contro-i-giornalisti-192090

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Croazia, mille cause contro i giornalisti
Sono oltre mille i processi in corso contro i giornalisti o i media croati, e la lista non è completa. La denuncia dell'Associazione dei giornalisti croati

18/01/2019 -  Giovanni Vale   Zagabria
Dal punto di vista della libertà di espressione e della sicurezza dei giornalisti, in Croazia il 2019 pare cominciare con i peggiori auspici.

Gli ultimi giorni del 2018 hanno infatti portato due notizie preoccupanti per i reporter del paese: prima, un portale satirico è stato condannato per aver scritto delle “falsità” in un articolo di fantasia; poi, l’Associazione dei giornalisti croati (HND) si è vista citare in giudizio dalla televisione pubblica (HRT) che chiede 70mila euro di danni per alcuni commenti critici nei suoi confronti.

Purtroppo, non si tratta di eccezioni, ma di un trend che si sta confermando nel paese: è sempre più frequente, per chi fa giornalismo, essere trascinato in tribunale con l’accusa di diffamazione. L’HND, che in questi giorni sta contando tutte le cause aperte nei confronti dei colleghi, anticipa ad OBCT i dati finora raccolti: "Vi sono ad oggi più di mille processi in corso contro i giornalisti o i media croati”. E la lista non è completa.

Il “Lercio” croato condannato per aver scritto cose non vere
NewsBar.hr  è un portale satirico ed umoristico, alla stregua del nostro Lercio.it  . Pubblica quotidianamente articoli di politica, sport, economia… e ha persino una dichiarata sezione “clickbait”, oltre che un canale video.

Le “notizie” spaziano dalla "nonna zagabrese (che) batte il record dei 100 metri piani nel prendere il tram ", fino alla presentazione dell’ultima hit dei mercatini di Natale a Zagabria: il "sarmoled  ", un mix tra il gelato (sladoled) e il tradizionale cavolo farcito (sarma). Nella sezione politica, tutti i volti più noti finiscono regolarmente nel mirino della satira, con ad esempio la presidente croata Grabar-Kitarović che "sposta il suo ufficio in Spagna per occuparsi del Real Madrid  ".

In questo contesto, il caso  Bujanec vs. News Bar rasenta i limiti dell’assurdo. Nel 2015, il portale pubblica un articolo dal titolo: «Bujanec rianimato al pronto soccorso, dopo aver letto della confisca di un carico di cocaina da 44 milioni di euro». La storia (inventata) fa riferimento al fatto che Velimir Bujanec, un presentatore televisivo di estrema destra, è stato condannato nel 2014 per aver pagato una prostituta con della cocaina.

Per il giudice, "i fatti e gli eventi riportati nell’articolo sono inventati" e "pubblicati con lo scopo di discreditare moralmente (Bujanec)". Il fatto che nelle condizioni d’uso del portale Newsbar.hr sia precisato che tutte le notizie sono false non è sufficiente perché "non tutti i lettori ne sono al corrente", prosegue il giudice. Morale della favola: il portale è condannato in primo grado a pagare 12mila kune (1.600 euro circa) a Bujanec. La direzione di Newsbar.hr ha annunciato che farà ricorso.

La televisione pubblica croata contro tutti
Il caso della HRT  è, se possibile, ancora più sinistro. Tra Natale e Capodanno, la televisione pubblica croata ha chiesto all’Associazione dei giornalisti croati (HND, fondata nel 1910) e a due dei suoi massimi esponenti di pagare una somma complessiva di 500mila kune (circa 70mila euro), per "danni all’onore e alla reputazione".

Ad essere considerati diffamatori dall’HRT, sono un comunicato pubblicato sul sito dell’HND nel settembre scorso e firmato dalla responsabile per la televisione pubblica in seno all’HND Sanja Mikleušević Pavić e alcuni interventi pubblici del presidente dell’HND Hrvoje Zovko. In entrambi i testi, vengono criticate alcune decisioni editoriali dell’HRT e si condanna il possibile coinvolgimento della stessa nello scandalo della rivendita dei biglietti per la Coppa del mondo riservati alla televisione.

L’azione in giustizia della HRT ha fatto scalpore non soltanto per le motivazioni o per la somma richiesta, ma anche perché si inserisce in quella che sembra essere ormai una pratica assodata. L’HND nota infatti che la televisione pubblica croata ha sviluppato l’abitudine di citare in giudizio chiunque la critichi: negli ultimi mesi, una ventina di cause sono state intentate contro otto testate diverse. "È un chiaro esempio di censura", commentano dall’HND.

La vicenda diventa ancora più allarmante se inserita nel suo contesto. Come in Italia, la dirigenza della Tv pubblica è decisa dalla maggioranza al potere. Due anni fa, ai tempi del governo Orešković, la HRT ha sostituito nel giro di tre giorni una sessantina di redattori e caporedattori e, da allora, il numero di giornalisti licenziati è aumentato di pari passo con le accuse di censura interna e pressioni politiche.

Lo stesso Hrvoje Zvonko, presidente dell’HND, è stato licenziato senza preavviso nel settembre scorso dopo aver denunciato alcune pressioni interne in seno alla HRT. Nel frattempo si assiste a un fuggi fuggi di giornalisti che dalla HRT passano alle televisioni private, N1 in primis.

Peggio che negli anni Novanta?
Discutendo con i giornalisti croati e soprattutto con chi è impegnato nei sindacati o all’HND, non è raro sentirsi dire che la situazione della stampa oggi è "peggiore che negli anni Novanta". Può sembrare un’esagerazione, considerato che, durante e dopo la guerra (1991–1995), la Croazia è stata governata in modo autoritario dal primo presidente Franjo Tuđman (1922–1999). Ma i dati sembrano confermare questa versione.

"In quanto al numero di condanne contro i media, il 2018 ha registrato il dato più alto dall’indipendenza della Croazia nel 1991, con alcuni verdetti così illogici che potrebbero essere interpretati come attacchi contro la libertà di espressione". Inizia così un recente articolo di Euractiv  sulla situazione dei media in Croazia, analizzando alcuni casi che hanno colpito i principali organi di stampa croati.

Tra le cause di questa situazione, è menzionata anche la legge voluta dal governo socialdemocratico nel 2013 e che ha introdotto il reato di shaming, una variante della diffamazione che può essere invocata dalla persona offesa qualora questa consideri che un articolo l’abbia fatta vergognare, anche se per dei fatti veri. Sta al giudice, poi, valutare se ci fosse pubblico interesse nel pubblicare il fatto.

In Croazia, "è possibile fare causa ai giornalisti anche per dei fatti acclarati", lamenta Oriana Ivković Novokmet dell’associazione GONG, impegnata nel monitoraggio dei processi democratici e del pluralismo nel paese. La nuova normativa si aggiunge ad un generale "caos nel sistema" e al fatto che "i giudici non vogliono occuparsi del nocciolo del problema", producendo così "un’ondata di cause contro i giornalisti".

Oltre mille, appunto, le cause tuttora in corso contro giornalisti e testate appartenenti al gruppo Hanza media (Jutarnji List, Globus…), al gruppo Styria (Večernji List, 24 Sata…), o ancora ai portali Index et T-Portal e ai settimanali Nacional e Novosti. Inoltre, precisa l’HND, questi dati non tengono ancora conto di grandi organi di stampa come RTL, Nova TV, Slobodna Dalmacija, Novi list e altri.

Dall’estero, le prime denunce dell’insostenibilità della situazione in Croazia sono già arrivate, con alcuni eurodeputati che hanno condannato il comportamento dell’HRT e con un comunicato pubblicato anche dalla rete per la libertà di stampa e la sicurezza dei giornalisti nei Balcani (Western Balkan’s Regional Platform for Advocating Media Freedom and Journalists’ Safety  ). Nessuna presa di posizione, anche solo formale, da parte del governo di Zagabria.


Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 29, 2019, 00:47:29 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Albania-prima-o-poi-doveva-accadere-192292

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Albania, prima o poi doveva accadere

Gresa Hasa in manifestazione - foto di Ivana Dervishi e Isa Dervishi

Un fiume di vitalità per la società e il futuro dell'Albania. Un'intervista a Gresa Hasa, attivista del movimento studentesco che sta mettendo in difficoltà il governo albanese

28/01/2019 -  Nicola Pedrazzi
«Prima o poi doveva accadere». Sono le prime parole di Gresa Hasa, 23 anni, nata e cresciuta a Tirana, studentessa di Scienze politiche: una delle menti – anche se lei non lo ha detto – della protesta che dal 4 dicembre paralizza l’Università pubblica albanese. Un “Sessantotto altrove”, scattato cinquant’anni dopo? La tentazione al parallelo è forte, ma per capire cosa stia succedendo in Albania potrebbe essere più utile mettersi nei panni di Gresa: una giovane donna europea che non vuole lasciare il suo paese e non capisce perché, in termini di istruzione e di prospettiva, dovrebbe accettare di avere così tanto meno rispetto a una coetanea italiana, tedesca o francese. La cassa di risonanza delle sue parole – tranchant e amare, ma mai venate di vittimismo – è l’insufficienza della democrazia costruita da Berisha e Rama: ex leader dei giovani, che giovani non sono più.

Sono quasi due mesi che non si fa lezione. Come si è arrivati a questo punto?

Il Movimento Lëvizja Për Universitetin esiste dal 2012 e manifesta da più di quattro anni, ma l’Università pubblica è paralizzata dal 4 dicembre scorso, da quando hanno detto agli studenti di architettura che avrebbero dovuto pagare una tassa per ogni credito formativo degli esami arretrati. Da lì è partita una protesta che ha coinvolto diverse città del paese, portando 15.000 studenti davanti al ministero dell’Istruzione.

Quanto è spontanea e quanto organizzata la mobilitazione di massa che stiamo vedendo?

La protesta del 4 dicembre è cominciata grazie agli studenti. Studenti liberi. Lo ribadisco perché il nostro principale problema sono le infiltrazioni dei militanti inviati dai partiti, che vorrebbero strumentalizzarci per loro tornaconto. La maggior parte dei ragazzi che avete visto in strada in questi mesi non è politicizzata, viene da famiglie normali, molti da strati medio-bassi; dalla protesta non guadagnano nulla, anzi rischiano personalmente. In un paese corrotto come il nostro questa cosa fa la differenza, la gratuità della nostra mobilitazione è qualcosa di nuovo ed è la nostra forza. Gli attivisti del Movimento per l’Università si stanno impegnando per tenere costante la mobilitazione e il livello di informazione tra gli studenti; ma anche per noi, che organizziamo manifestazioni da anni, la reazione di dicembre è stata una sorpresa. Una sorpresa bellissima.

Fotoracconto

Il fotoracconto di Ivana Dervishi e Isa Dervishi dei giorni di manifestazioni degli studenti albanesi

Dunque la mobilitazione è spontanea, ma tu e gli altri attivisti del Movimento per l’Università soffiate sulla brace per tenerla viva. Ho capito bene?

Noi del Movimento continuiamo a fare quello che abbiamo sempre fatto: mobilitazione e sensibilizzazione. Non rivendichiamo alcuna leadership, cerchiamo di dare una mano e di condividere la nostra esperienza con tutti gli studenti che sentono il desiderio di partecipare alla protesta. Per comunicare all’esterno le nostre iniziative utilizziamo una pagina FB  e un profilo Instagram  .

Cosa avete chiesto al governo? Qual è il vostro obiettivo?

La nostra protesta è diretta conseguenza della riforma dell'istruzione superiore varata nel luglio 2015 [dal primo governo Rama, ndr.] La riforma si basa sull'idea neoliberista che la concorrenza tra le università pubbliche e private (che in Albania sono di più) innalzerà il livello dei servizi e dell’offerta didattica. Per il momento l’università pubblica ha visto crescere solamente le rette, ed è normale che sia così: se il bilancio statale per l’istruzione stanzia il 50% delle sue risorse per le università private, quelle pubbliche dovranno rifarsi sugli iscritti. In Albania buona parte degli studenti lavora, ma un anno di triennale costa circa 350 euro, che è più del salario medio mensile. L’iscrizione al master è molto più cara, si aggira attorno ai 1.700 euro.

A Tirana ci sono studenti da tutto il paese: immaginate che ogni gennaio, per pagare le rette, i fuorisede prendono un autobus che li riporta a casa, chiedono alle loro famiglie uno sforzo immane e ritornano a Tirana con i contanti appena sufficienti a pagare l’iscrizione. Dopodiché bisogna sopravvivere nella città più costosa del paese, in dormitori fatiscenti, senza riscaldamento, senza le strutture basilari per lo studio, senza biblioteche. La nostra situazione è insostenibile, per quale formazione e quale prospettiva stiamo facendo questi sforzi? Quello che chiediamo è l’abolizione della riforma del 2015 ed un serio investimento pubblico per la costruzione di un sistema universitario di qualità e accessibile a tutti.

Potremmo dire che il vostro è un movimento di sinistra…

Se vogliamo utilizzare delle categorie, sì: stiamo lottando per un’istruzione pubblica e garantita; per i diritti delle giovani donne, contro la corruzione e lo schema di potere che rende povero il nostro paese. Ma nel movimento ci sono diverse posizioni ideologiche… Quello che conta e ci rende diversi è che nessuno di noi è iscritto a un partito. In questo momento il Partito Democratico, ma anche il Partito Socialista per l’Integrazione (LSI), gli attuali partiti di opposizione al governo Rama, sono molto aggressivi. Vedono una mobilitazione reale, non controllata da loro, e vogliono impossessarsene. Loro vogliono sostituirsi a Rama, noi vogliamo accesso all’istruzione. Sono due motivazioni molto diverse. Il nostro movimento si occupa di università, nient’altro. Non abbiamo nulla a che spartire con l’opposizione, che è responsabile di questa situazione al pari del governo in carica.

Cosa dicono i docenti? Da che parte stanno?

La maggior parte dei professori ci sostiene: conoscono le condizioni della nostra università perché ci lavorano. Venerdì scorso per la prima volta docenti di tutte le facoltà dell'Università di Tirana si sono riuniti e hanno deciso di sostenere gli studenti. Abbiamo anche casi di “appoggio indesiderato”: docenti che hanno provato a unirsi alla protesta ma hanno dovuto abbandonarla perché accusati pubblicamente dagli studenti, chi di corruzione in sede di esame e chi addirittura di molestie sessuali. La situazione è mista, in linea di massima vige solidarietà.

Il femminismo? È un fattore del movimento studentesco?

Direi che il femminismo è al centro. Questa è la prima protesta di massa in cui le donne e i diritti delle donne albanesi sono un argomento. La maggioranza del movimento è composta da ragazze, e non stupisce, perché questa riforma universitaria penalizza soprattutto loro. Parliamoci chiaro: cosa fa una donna albanese senza accesso all’istruzione? Passa da un padre a un marito. Nel movimento i ragazzi sono al nostro fianco, ma le ragazze sono le più coraggiose. Perché noi abbiamo molto più da perdere. Questo è un altro aspetto che sta mandano in paranoia il potere.


I genitori cosa vi dicono? Come affrontate il gap generazionale?

In verità tanti genitori ci sostengono. In corteo abbiamo avuto dei nonni, ci credi? Ma è ovvio che veniamo da una società patriarcale, si tratta di cambiare la mentalità. Un giorno c’è stato un dibattito interessante, interno al movimento, sull’opportunità di andare in strada a manifestare in gonna. E allora sai cosa abbiamo fatto? Ci siamo andate tutte quante con la minigonna e senza reggiseno. È stata una protesta dentro la protesta. Mi è piaciuta molto.


Che ruolo ha l’Europa nella vostra mobilitazione? Parlo di Europa come modello sociale, come prospettiva futura e riferimento culturale.

Il nostro movimento nasce dalle condizioni in cui versa il nostro paese, ma noi non ne rivendichiamo l’albanesità, sarebbe assurdo: cerchiamo di prendere spunto da quei paesi dove le cose vanno meglio, anche se sappiamo che ogni paese ha i suoi problemi, la mia generazione non idealizza più. Al momento tutte le facoltà pubbliche sono occupate: stiamo organizzando letture, proiezioni, dibattiti sui movimenti sociali in Europa e nel mondo. Facciamo paragoni, perché è utile comprendere che certe richieste in altre parti del mondo sono già state fatte; e abbiamo ricevuto messaggi di solidarietà dagli studenti di mezza Europa, inclusa l’Italia. Il governo ci dice che le casse dello stato albanese rendono impossibile un’istruzione pubblica gratuita, noi diciamo che è proprio questo stato di cose a renderla necessaria, e che questa cosa già esiste, in Europa e nel mondo. Insieme con i professori abbiamo analizzato i sistemi educativi di diciassette paesi europei, comparando quanto questi stati investano nell’educazione pubblica in proporzione al loro PIL e al loro salario medio. Non stiamo parlando di utopie, ma di politiche possibili.

Considerato lo stato in cui versa il welfare albanese si capisce perché le vostre richieste vengano considerate ambiziose. In questo senso, anche se girate alla larga dai partiti, il vostro è un movimento politico, perché per ottenere quello che chiedete occorrono tutta una serie di riforme in materia di fiscalità pubblica che non si cambiano dall’oggi al domani, si tratta di imporre un nuovo paradigma culturale. È normale che si veda in voi un’alternativa per il paese. Siete sicuri di non incarnare una nuova élite culturale?

Vedi, farsi queste domande è esattamente quello che dobbiamo evitare in questo momento. Questo paese ha moltissimi problemi, la cosa buona del Movimento per l’Università è che non è colluso con il potere. Durante il regime di Berisha non avremmo potuto avere piazze così, ma il potere politico in Albania resta malato, su questo non c’è stato nessun cambiamento, e noi non ci stiamo. Durante le proteste davanti al ministero dell’Istruzione alcuni militanti dei partiti hanno cercato di dividerci utilizzando la tentazione della politica: “Basta stare qui davanti, andiamo alla sede del primo ministro, buttiamo giù Rama”. Anche i militanti del partito socialista ci hanno provato, arrivavano in facoltà e dicevano: “Siamo studenti come voi, ma vogliamo fare lezione”. Al che abbiamo votato: la maggioranza voleva continuare la protesta. Il Movimento per l’Università deve stare lontano da queste dinamiche. Noi non chiediamo le dimissioni del governo Rama, perché questo comporterebbe la sua sostituzione con un altro governo che è altrettanto responsabile dello stato della nostra università. Al contempo non ascoltiamo Rama, che ha detto che vuole parlare a un leader. Il giorno in cui ci porremo il problema di individuare un leader il nostro movimento sarà finito.

Quindi cosa farete? Qual è il piano?

Continueremo a occupare. Il 75% degli studenti è d’accordo sul blocco delle lezioni, nessuna facoltà riprenderà a funzionare. Inizialmente ci aveva dato dei ripetenti, poi Rama cambiato i toni, ha accettato di rispondere alle domande degli studenti e ha dichiarato che ascolterà le nostre richieste. Propaganda: fino a quando non sarà cancellata la legge del 2015 per noi tutto questo è irrilevante. È possibile che torneremo in strada, ma non lo sappiamo nemmeno noi, perché siamo spontanei, bisogna che i politici si rassegnino a questa novità.

Non temete che tutta questa spontaneità vi sfugga di mano?

Stiamo parlando della più grande mobilitazione in 28 anni di “democrazia”, il sistema è ancora sotto shock. Sinora le manifestazioni sono state pacifiche, nessuno si è mai azzardato a tirare qualcosa, e così deve rimanere, gli studenti sono contro la violenza. Gli unici momenti di tensione, come ti dicevo, sono stati causati dai rappresentanti dei partiti che hanno provato a manipolare il movimento, e che con noi sono molto aggressivi: ci odiano proprio. Nelle ultime settimane, poi, abbiamo avuto la polizia all’interno delle facoltà. Secondo la legge, la polizia non può entrare in università, se non per disastri ambientali. Alcune delle loro azioni sono state fisiche, e questo non va bene, non va bene che il governo lo abbia consentito.

Il Presidente della Repubblica, in una sua dichiarazione, ha invitato la politica a considerare le istanze degli studenti. Vi sentite tutelati dalla massima carica dello Stato?

Oh Dio, Ilir Meta rappresenta tutto quello che non funziona. Belle parole, ma sfortunatamente conosciamo chi le ha pronunciate.

E i giornalisti? I media raccontano la protesta?

Ci sono media molto attenti, soprattutto quelli dell’opposizione, per le ragioni di cui sopra; ma le nostre dichiarazioni sono spesso tagliate o manipolate. Cerchiamo di rendere semplice e chiaro il nostro messaggio, e per questo accettiamo di partecipare ai talk show in cui veniamo invitati. La maggior parte di noi non è preparata sul piano della comunicazione, ma da quando sono iniziate le proteste ho visto cose incredibili, ragazze tener testa al primo ministro e metterlo in difficoltà. Ho visto il coraggio.

Esiste un collegamento tra la vostra protesta e altre rivendicazioni della società albanese? Penso alle manifestazioni ambientaliste di qualche anno fa, o alla recente polemica sulla demolizione del teatro Nazionale.

Ripeto: non cerchiamo di creare collegamenti con altre altre questioni politiche, ma siamo aperti a chiunque desideri manifestare per l’università; in strada al nostro fianco sono scesi rappresentanti delle istanze che ricordavi, ambientalisti e attivisti che hanno difeso il teatro Nazionale, ma c’erano anche anziani, genitori, famiglie, semplici cittadini… Gli unici che non vogliamo al nostro fianco, lo ribadirò fino allo sfinimento, sono i membri e i rappresentanti dei partiti politici, sia di governo che di opposizione.

No partiti. Ti giuro che l’ho segnato. Ma fammi capire come riconoscete questi “infiltrati”.

Si capisce da come parlano. E poi grazie a Dio c’è internet: vediamo da FB se hanno fatto foto con politici, se sono attivi; in quel caso non vengono con noi semplicemente in quanto studenti.

Mettiamo che la mia famiglia sia del PD, e che mio padre ha pubblicato un selfie di lui con Basha, perché quando era sindaco è venuto a inaugurare il cantiere in cui lavorava... Provo a unirmi alla protesta ma sulla base del FB di mio padre mi emarginate. Non mi sembra un criterio molto democratico…

Tutti sono i benvenuti, non fraintendiamoci. Non è un problema di credo politico, non è una discriminazione; si tratta di isolare persone che cercano di mischiarsi a noi per ordine del loro partito. Forse fuori di qui si fatica a comprenderlo, ma in Albania la politica non è fatta di idee, è fatta di fazioni, per questo non la vogliamo con noi. Anche questo parallelo che fanno con gli anni Novanta è una manipolazione storica utile alla loro lotta per il potere, che a noi non interessa.

A proposito di paralleli storici stiracchiati… Qui in Italia la tentazione di dipingere un ’68 albanese è molto forte. Posso chiederti cosa ne pensi di questo modo di guardare all’Albania? Non è sminuente descrivervi come pezzo d’Europa in ritardo sulla cronologia?

Non so come risponderti. Senza dubbio sentiamo che è tempo anche per noi. Veniamo da quarantacinque anni di dittatura e da ventotto anni di “democrazia” con le virgolette, anni in cui le generazioni di giovani che si sono susseguite non hanno mai alzato la voce come stiamo facendo oggi. Secondo me noi siamo molto diversi dai ragazzi degli anni Novanta: gli studenti della transizione, i miei genitori, venivano dalla dittatura e non avevano prospettive reali dal punto di vista della società. Democrazia e benessere erano il sogno, molti l’hanno realizzato andando via, ma al posto del ’68 in Albania abbiamo fatto il ’97 (ero piccola però la guerra me la ricordo…). Ora ci siamo noi: ancora una volta senza prospettive né dentro né fuori l’Università, ma consapevoli e non depressi. Noi non vogliamo chiedere asilo in Europa, non vogliamo finire per strada cercando di nutrirci e di sopravvivere. Noi vogliamo trasformare questa merda. Senza questa speranza tutto in Albania sarebbe troppo buio: in un certo senso siamo obbligati a crederci. Se vogliamo una società migliore, una società senza corruzione, omicidi e violenza sulle donne, dobbiamo chiedere più istruzione. Una società diversa passa dall’università
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Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 29, 2019, 00:50:57 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Slovenia/Le-carceri-in-Slovenia-e-il-modello-scandinavo-192186

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Le carceri in Slovenia e il modello scandinavo

Con i suoi 1400 detenuti, la Slovenia è tra i paesi europei con il più basso tasso di detenuti per abitanti. Ma il sovraffollamento rimane un problema e gli esperti chiedono politiche di reinserimento sociale


28/01/2019 -  Charles Nonnes
(Pubblicato originariamente da Courrier des Balkans il 20 gennaio 2019)

Niente fa capire al visitatore che sta per entrare in un penitenziario. Lasciando la via principale di Ig, piccola città a sud di Lubiana, una stretta strada asfaltata serpeggia attraverso file di conifere senza incontrare alcuna barriera, guardia o dispositivo di sicurezza.

L'edificio massiccio assomiglia ad uno tra le centinaia di forti medievali del territorio sloveno: residenza nobiliare fino al 1717, ha attraversato rivolte contadine, gli attacchi degli Ottomani, la villeggiatura dei carabinieri italiani, l'incendio innescato dai partigiani. Solo le sbarre delle finestre tradiscono il fatto che il castello di Ig, vecchio più di sei secoli, è una delle sei prigioni della Slovenia e l'unico centro di detenzione femminile nel paese.

Il penitenziario ha 50 dipendenti e 75 detenute, divise in zone chiuse, semi-aperte o aperte. Le quattordici detenute di quest'ultima categoria possono liberamente fare telefonate, usare i loro computer, Internet e camminare nel parco vicino alla fortezza. Le uscite avvengono senza intoppi. "C'è una buona convivenza con la popolazione locale", sottolinea Tadeja Glavica, direttrice della prigione.

Con un tasso di occupazione di solo il 72,82%, Ig risulta sicuramente un carcere modello. Per Tadeja Glavica la principale difficoltà sta nell'utilizzo dell'edificio, in qualche suo aspetto poco adatto alla funzione che svolge: "C'è solo uno spazio molto piccolo per le madri che ricevono visite dai propri figli, non abbiamo un posto dedicato per le visite e le detenute spesso dormono in ampie sale comuni senza alcuna intimità”.

Studente modello, in apparenza
Ci sono solo sei carceri in Slovenia. Data l'assenza di grandi centri urbani, il tasso di criminalità rimane inferiore rispetto ad altri paesi della regione. Il 60% delle condanne a reclusione sono legate a furti, furti con scasso o traffico di droga. L'ergastolo è in vigore dal 2008, ma la pena massima rimane de facto di 30 anni di reclusione.

"Spiegando a un collega messicano che la Slovenia aveva solo 1.500 detenuti, inizialmente pensò che avevo dimenticato degli zeri", sorride Damjana Žist, penalista e giornalista giudiziaria per il quotidiano di Maribor Večer. Nel 2016, il tasso medio di incarcerazione in Slovenia era del 63,4 per 100.000 abitanti, a fronte dei 117 come media europea.

Europa

Dall’inizio del secolo il vecchio continente è l’unica macroregione al mondo a conoscere una riduzione della popolazione carceraria. Una tendenza che si spiega con gli sviluppi positivi in Russia e in Europa centro-orientale. Invece in Italia si registra un aumento del 13% in tre anni, e si fa notare il problema del sovraffollamento. Un'analisi del network Edjnet

Il paese ha 1398 prigionieri per 1339 posti disponibili, con un tasso di occupazione quindi del 104%. La realtà è però più contrastata: la prigione di alta sicurezza di Dob, 60 chilometri a est di Lubiana, ospita 497 detenuti per 449 posti, nonostante la costruzione di una nuova ala nel 2012. La piccola prigione di Capodistria ospita 146 detenuti per 110 posti. Inoltre la popolazione carceraria è in aumento, in particolare tra le donne, e il tasso di recidiva raggiungerebbe il 50% tra i detenuti di età superiore ai 18 anni.

Il problema è amplificato dalla precarietà di strutture che inizialmente non erano state concepite come prigioni. Lubiana rimane la pecora nera: "Fino al 2014 c'erano ancora prigionieri stipati in celle dove i bagni e la doccia erano separati dal resto della cella da una tenda", sottolinea Damijana Žist.

Condanne internazionali
La Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU) viene regolarmente adita da detenuti sloveni che denunciano l'angustia e l'insalubrità delle loro celle: tra il 2012 e il 2018, lo stato ha pagato più di 173.277 euro di danni e interessi a detenuti ed ex detenuti. A questi si aggiungono i 119.204 euro erogati a seguito di procedimenti giudiziari intentati nei tribunali sloveni.

L'ombudsman slovena Vlasta Nussdorfer, che ha in ogni caso sottolineato evidenti miglioramenti negli ultimi anni, rileva "condizioni di vita ancora negative nella maggior parte delle strutture. I prigionieri non devono essere privati ​​della loro dignità umana". Ogni anno, il suo ufficio pubblica raccomandazioni come la possibilità di lavorare per i detenuti che ne facessero richiesta, una migliore assistenza per i gruppi più vulnerabili e la ristrutturazione delle celle.

Il fenomeno è aggravato dalla carenza di personale: "Siamo in situazioni in cui un solo poliziotto accompagna un detenuto in tribunale e siamo talvolta obbligati a rinviare le udienze", afferma Damjana Žist. Il personale di altre carceri deve a volte dare man forte a quello di Lubiana, in un contesto di spossatezza denunciato dai sindacati: tra gennaio e luglio 2018, ogni guardia ha lavorato in media 91 ore di straordinario.

Le falle del sistema sono state messe a nudo nel caso dell'evasione nel gennaio 2019 di due detenuti dalla prigione di Capodistria, fuggiti dopo aver segato le sbarre della loro cella e aver utilizzato dei bidoni della spazzatura impilati nel cuore della notte. La loro fuga è stata scoperta solo il giorno successivo, a colazione. L'incidente è costato al direttore della prigione un pensionamento immediato, oltre a un rapporto al vetriolo della commissione di inchiesta.

Pene alternative
Da oggi al 2023, saranno investiti più di 100 milioni di euro per la costruzione di un nuovo penitenziario nei pressi della capitale. Avrà una capacità di 388 posti, più del doppio della prigione di Lubiana, che andrà a sostituire. Ig sarà ristrutturato e ampliato. L'ombudsman Damjana Žist si felicita di queste misure pur rilevando che "il problema del sovraffollamento non può essere risolto con la semplice costruzione di nuove prigioni". Il governo sta addirittura pensando di poter riassegnare i soldati che sono oltre i 45 anni alla sorveglianza penitenziaria.

Per Damjana Žist, il problema è l'indurimento delle pene. "I penitenziari sarebbero meno affollati se i giudici usassero più spesso punizioni alternative", come servizi alla comunità, arresti domiciliari e il carcere nel fine settimana. Tuttavia, questi ultimi sono accessibili solo per reati punibili con la reclusione fino a tre anni e su richiesta dell'imputato. L'alternativa spesso è solo tra carcere e assoluzione.

"La costruzione di carceri era assolutamente necessaria, ma è solo uno spegnere l'incendio quando le luci di emergenza lampeggiano", sottolinea Mojca Plesničar, ricercatrice presso l'Istituto di criminologia della facoltà di diritto di Lubiana. Al di là della questione delle pene alternative, Plesničar evidenzia la mancanza di omogeneità nelle politiche in campo penale. "I segnali inviati dal ministero della Giustizia non sempre sono coerenti. Spesso si dipende dall'iniziativa personale dei giudici”. Inoltre, in assenza di linee guida specifiche, la gestione di ciascun carcere dipende dallo stile del suo direttore.

Il sistema scandinavo
Il quadro rimane comunque positivo se lo si compara al contesto internazionale. Il tasso di affollamento è inferiore rispetto ad altri paesi come la Francia o il Belgio. Le condanne dei giudici di Strasburgo per trattamenti umanitari o degradanti riguardano solo il carcere di Lubiana. I rari casi di strutture obsolescenti dovrebbero essere risolti con i recenti investimenti. Il concetto di "regime aperto" ricorda tra l'altro le prigioni aperte in gran numero in Svezia.

"In verità - dice Mojca Plesničar - non siamo così lontani dal modello scandinavo. Ci sono ovviamente fattori che dipendono dal PIL del paese, ma il divario fondamentale tra gli stati del nord e la Slovenia è più legato alla concezione del regime carcerario. La Slovenia rimane combattuta tra la visione punitiva del sistema anglosassone e il sistema riabilitativo scandinavo, incentrato sui bisogni e sulla reintegrazione dei detenuti”.

E Mojca Plesničar poi tira fuori una sorprendente fonte di ispirazione: la Jugoslavia negli anni '80, che avrebbe promosso il sostegno umano per i detenuti piuttosto che l'asprezza della sorveglianza. "All'epoca, la socioterapia era parte integrante del sistema carcerario. Le autorità erano consapevoli dell'importanza di aprire il carcere. Ig era a quei tempi un modello: quasi tutte le detenute erano collocate nell'area aperta. In contatto quasi permanente con il mondo esterno".
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 01, 2019, 20:09:01 pm
http://www.eastjournal.net/archives/95655

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RUSSIA: Un senatore è stato arrestato per omicidio e altre gravi accuse
Martina Turra  9 ore fa

Mercoledì 30 gennaio, Rauf Arashukov, il trentaduenne senatore russo per la regione Karačaj-Circassia, è stato arrestato in Senato durante una riunione del Consiglio della Federazione. È accusato di almeno due omicidi su commissione verificatisi nel 2010.

Le dinamiche dell’arresto

Lo scorso mercoledì, è stato annunciato che la regolare sessione parlamentare che doveva svolgersi quella mattina era stata chiusa alla stampa. In seguito, i presenti hanno votato affinché venissero sottratte ad Arashukov le immunità parlamentari al fine di poterlo perseguire. Stando a quanto riporta l’agenzia di stampa russa TASS, il senatore ha tentato la fuga durante il discorso del procuratore generale russo Yury Chaika ma, in seguito al sollecito da parte della portavoce del Consiglio della Federazione Valentina Matviyenko, è stato costretto a rimanere in aula. Le forze dell’ordine, che in quel momento avevano già circondato l’edificio, lo hanno quindi arrestato. Più tardi, un tribunale di Mosca ha ordinato la sua detenzione preventiva fino al 30 marzo.

Le accuse a carico di Arashukov

La principale accusa a carico del senatore è l’aver collaborato a due omicidi avvenuti nel 2010. Le vittime furono un assistente presidenziale ed un giovane politico. Vivevano nella stessa regione di provenienza di Arashukov, la Karačaj-Circassia, che si estende nel versante nord-occidentale del Caucaso. Tuttavia, il senatore nega ogni accusa, anche se sembra che sia responsabile anche di altri due omicidi. Il sito web Baza riporta alcune segnalazioni non verificate che sosterrebbero queste denunce, mostrando come prova il fatto che la polizia ha trovato nella sua casa un passaporto falso che gli sarebbe servito per scappare negli Emirati Arabi Uniti.

Una dichiarazione della commissione d’inchiesta russa afferma che Arashukov avrebbe anche agito come membro di un gruppo organizzato del quale faceva parte anche il padre Raul Arashukov. Quest’ultimo è stato arrestato lo stesso giorno con l’accusa di appropriazione indebita. Infine, il senatore è inoltre accusato di aver falsificato gli stessi documenti che gli hanno permesso di prendere parte al Consiglio della Federazione. È stato quindi espulso dal partito “Russia Unita”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 01, 2019, 20:11:24 pm
http://www.eastjournal.net/archives/95576

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Cronache dalla Romania, tra gelicidio e Securitate
Francesco Magno  2 giorni fa

da BUCAREST- Chi abitualmente legge le nostre colonne ha imparato che niente di quel che succede tra i Carpazi ed il Danubio è sorprendente. Un vecchio saggio diceva che la Romania non è un luogo, ma uno stato d’animo: mai affermazione fu più pertinente. L’atmosfera che in questo freddo gennaio ha permeato Bucarest è stata totalmente surreale, e non solo per il gelicidio che negli ultimi giorni ha afflitto la capitale trasformandola in un grigio scenario da fine dei tempi, tra alberi ghiacciati e lastre di ghiaccio volanti che, staccandosi dai tetti, provano a dimezzare i capi di ignari passanti. Il mese è iniziato in pompa magna, con la grande celebrazione per l’inaugurazione del semestre di presidenza dell’UE, e si chiude mestamente tra le critiche di Bruxelles, il leu in caduta libera, e il ritorno dei fantomatici archivi della Securitate, pronti a decapitare, proprio come le lastre di ghiaccio di Calea Victoriei, la carriera politica di rampanti uomini nuovi.

La presidenza più bistrattata

Nessuno stato membro all’alba del suo turno di presidenza ha ricevuto più critiche e sberleffi della povera Romania; persino l’uomo che più di ogni altro dovrebbe difenderla, il presidente Klaus Iohannis, l’ha definita totalmente impreparata a guidare la combriccola europea: da queste parti, a quanto pare, ogni scarrafone non è bello a mamma sua.
Da Bruxelles sono arrivate e continuano ad arrivare critiche per il modo in cui il paese è governato, e per il mancato rispetto di standard politici da tempo richiesti. Delle critiche paternaliste di cui oggettivamente si poteva anche fare a meno. Lungi da noi difendere il governo a guida socialista, puntualmente falcidiato da chi scrive, e non solo. Tuttavia, il resto del continente non pullula certo di statisti illuminati, e accanirsi contro la Romania all’inizio della sua prima presidenza è sembrato uno sparare sulla croce rossa. In compenso, Bucarest è tornata, almeno per un mese, al centro della scena giornalistica europea. E’ stato bello stare essere protagonisti. Adesso torniamo nel nostro microcosmo di generale disinteresse. Salvo cataclismi (che non possiamo comunque escludere), ci si rivede a giugno, quando arriva il Papa.

Il leu crolla

Come se non bastasse la malinconia da fine della festa, la partenza dei giornalisti e dei riflettori europei è coincisa con il crollo del leu, che attraversa una delle sue più acute svalutazioni dal 2012. Al momento della stesura di queste righe, un euro viene cambiato con 4,77 lei. I più pessimisti dicono che nel giro di qualche giorno potremmo arrivare a 1 euro per 5 lei. Secondo gli analisti, la svalutazione si deve alle ultime misure fiscali non particolarmente lungimiranti del governo, che hanno causato la sfiducia degli investitori. Per rendere il tutto più interessante e dinamico il PSD (partito social-democratico) ha accusato la Banca Nazionale di portare avanti un mirato progetto di svalutazione del leu, probabilmente su ordine di qualche demoniaco potere occulto straniero. Immaginiamo già Soros trattare e cospirare contro il leu insieme ai tecnici della Banca Nazionale, sorseggiando bourbon e accarezzando un gatto persiano bianco.

La Securitate è viva e lotta insieme a noi

La Romania probabilmente non si libererà mai della Securitate, la terribile polizia politica di Ceausescu. Anche se fisicamente non è più tra noi (e anche su questo, forse, ci sarebbe da discutere), essa aleggia nelle impolverate carte degli archivi; il suo ricordo è pronto a riemergere per arginare sul nascere nuove carriere politiche. L’ultimo a farne le spese è stato Dacian Ciolos, ex primo ministro, fondatore di un nuovo partito (PLUS), con il quale correrà alle europee. Pochi giorni dopo l’ufficializzazione della nascita del nuovo soggetto politico, ha fatto capolino sulla scena pubblica romena una notizia: il padre di uno dei collaboratori di Ciolos è stato un ufficiale della Securitate. Apriti cielo, scandalo, cataclisma, gogna. Il popolo delle anime candide si è levato contro il povero Ciolos che, in un momento di rassegnata e sconsolata sincerità, si è lasciato andare ad un commento mortifero per i suoi sondaggi. Egli ha infatti fatto notare che, se si dovesse eliminare dalla scena chiunque abbia avuto anche un solo lontano rapporto con la Securitate, allora non resterà più nessuno a far politica, dal momento che tutti per un motivo o per l’altro ci hanno avuto a che fare. Affermazione politicamente infelice ma umanamente condivisibile, che Ciolos ha poi ritrattato nei giorni seguenti sulla scia della pubblica indignazione. Caro Dacian, tutta la nostra compassione: forse per la prima volta, dopo tanti anni, qualcuno a Bucarest ha finalmente detto ciò che sentiva. E’ stato ripagato con una lastra di ghiaccio in testa. Per fortuna l’inverno finirà, il ghiaccio si scioglierà, e forse, prima o poi, qualcun altro si azzarderà a dire ciò che pensa senza il timore di essere (figuratamente) decapitato.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: TheDarkSider - Febbraio 02, 2019, 12:52:29 pm
http://www.eastjournal.net/archives/95576
Della barzellatta di affidare la presidenza di turno UE a un governo totalmente inadeguato in Romania, come ammesso dallo stesso presidente rumeno, ne ha parlato tutta la stampa internazionale.

Solo la patetica stampa nostrana ha totalmente ignorato la notizia, perche' sia mai che passi l'idea che l'Italia non e' il paese peggiore della Terra, e che in Europa c'e' chi e' messo molto peggio.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 02, 2019, 15:25:34 pm
Del resto l'esterofilia dell'italiano medio deriva anche e soprattutto dal fatto che i media nostrani si guardano bene dal mettere in evidenza, in maniera dettagliata, le magagne altrui.
Non a caso, ormai da tempo, porto avanti questa battaglia anti-esterofili; perché un conto è l'autocritica - che è cosa buona e giusta - e un conto è il disfattismo, di cui è realmente impregnato l'italiano medio, specie se di sesso maschile.
Come ho già avuto modo di scrivere, mai riscontrato qualcosa del genere in rumeni e albanesi, ossia gente proveniente da paesi ben peggiori del nostro e che fino a non molti anni fa erano nella merda più totale.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 05, 2019, 21:18:17 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Bosnia-Erzegovina-lo-scandalo-dei-diplomi-falsi-192451

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Bosnia Erzegovina: lo scandalo dei diplomi falsi

Un'inchiesta realizzata dal due giornalisti del portale bosniaco Žurnal mette in luce lo scandalo dei diplomi falsi e la scarsa attenzione prestata a questo fenomeno da parte degli organi giudiziari


05/02/2019 -  Zdravko Ljubas
(Originariamente pubblicato dalla Deutsche Welle  , il 30 gennaio 2019)


Trovare lavoro in Bosnia Erzegovina, un paese schiacciato dalla burocrazia, disoccupazione e crisi economica, è come vincere alla lotteria. Per coloro che possiedono un titolo di studio è un po’ più facile trovare un impiego, ma i datori di lavoro raramente si chiedono come sia stato conseguito il diploma, ovvero se sia accompagnato da adeguate competenze.

Da ormai molto tempo, più precisamente dalla fine della guerra degli anni Novanta, in cui sono andati distrutti e smarriti numerosi diplomi, attestati e registri di molte scuole superiori e università, è un segreto di pulcinella che in Bosnia Erzegovina molte persone hanno conseguito un titolo di studio in modo illecito.

Sembra che negli ultimi 24 anni il business dei diplomi veloci sia stato portato alla perfezione. Un’inchiesta su questo argomento, realizzata da Azra Omerović e Avdo Avdić, giornalisti del portale Žurnal, ha suscitato una vera e propria bufera, dimostrando come la criminalità organizzata e la corruzione arrivino fino alle più alte istituzioni statali ed evidenziando tutte le debolezze del sistema giudiziario bosniaco-erzegovese.

Conseguire un diploma senza sostenere nemmeno un esame
Il piano era semplice. Nel tentativo di ottenere un diploma falso, ovvero veloce, la giornalista Azra Omerović ha contattato un uomo, una persona che fungeva da tramite, e in poco più di due settimane, senza aver assistito a una sola lezione e senza aver superato alcuna prova, ha ricevuto il diploma di tecnico sanitario rilasciato dalla Scuola superiore di Sanski Most.


“Qui non si tratta solo di diplomi di scuola superiore. Quello stesso Senad Pehlivanović ci ha offerto anche un diploma di laurea. Potevamo scegliere la facoltà”, dice alla Deutsche Welle il giornalista del Žurnal Avdo Avdić.

“Se avessimo avuto più tempo e risorse a disposizione, avremmo potuto ottenere il diploma di laurea della Facoltà di Giurisprudenza, senza dover assistere ad alcuna lezione e senza dover sostenere alcun esame. E poi con quella laurea probabilmente saremmo riusciti a trovare un impiego come collaboratori presso qualsiasi organo giudiziario in Bosnia Erzegovina. Abbiamo le prove che alcune persone attualmente impiegate nelle istituzioni giudiziarie si sono laureate in questo modo presso la Facoltà di Giurisprudenza o uno degli istituti di istruzione superiore, dove peraltro lavorava anche Senad Pehlivanović ”, afferma Avdić.

Il fenomeno della criminalità organizzata
Stando alle sue parole, il problema è molto più profondo di quanto si pensi, perché si tratta evidentemente di “una criminalità ben organizzata che opera sotto l’egida della stato e con la tacita approvazione degli organi giudiziari”.

“Senad Pehlivanović è un dipendente pubblico il cui compito era solo quello di mediare tra soggetto erogatore e destinatario del diploma. Si potrebbe dire che era un commercialista, mentre le vere menti dell’intera operazione sono da ricercare negli assetti proprietari di vari istituti di istruzione, ovvero nei partiti politici legati a questi istituti e da essi finanziati”, spiega Avdić.

Per quanto possa sembrare innocua, questa vicenda potrebbe avere conseguenze molto serie a lungo termine. Secondo Avdić, questo caso rivela l’esistenza di seri problemi che costituiscono una minaccia per l’intera società bosniaca. “Tra qualche anno, se non prima, potrebbe capitarvi di essere curati da un medico o giudicati da un giudice che ha conseguito il suo diploma in questo modo, e il paese potrebbe finire per essere governato da persone con un diploma conseguito in questo modo”.

Lo scandalo dei diplomi falsi non ha scosso solo la Bosnia Erzegovina, ma anche altri paesi della regione, dal momento che le controverse scuole superiori e università in Erzegovina, Bosnia centrale e Republika Srpska risultano attraenti anche per i cittadini dei paesi vicini. I giornalisti del Žurnal, insieme ai loro colleghi dell’emittente televisiva croata Nova Tv, sono venuti in possesso di alcuni documenti che dimostrano come un vigile del fuoco di Kostajnica in Croazia, che possiede un diploma di una scuola superiore di Široki Brijeg in Bosnia Erzegovina, non sia mai stato nel territorio bosniaco nel periodo di svolgimento degli esami.

Poco dopo lo scoppio dello scandalo dei diplomi falsi in Bosnia Erzegovina sono arrivate le reazioni anche da alcune organizzazioni croate, tra cui l’Associazione croata degli infermieri che ha sottolineato che in Croazia solo chi possiede adeguate competenze può lavorare come infermiere, mentre i “falsi” infermieri non riuscirebbero mai a soddisfare i loro severi criteri.

Anche altri paesi dell’Unione europea potrebbero trovarsi di fronte a falsi professionisti provenienti dalla Bosnia Erzegovina. La Germania resta una delle mete preferite dai bosniaco-erzegovesi che decidono di emigrare, e vi è una costante richiesta di personale medico-tecnico di diversi profili. Stando alle stime ufficiali, negli ultimi 10 anni dalla Bosnia Erzegovina sono emigrati circa 250.000 cittadini, ma il numero effettivo degli espatriati è probabilmente molto superiore.

Il trend emigratorio non accenna a diminuire, anzi sono sempre di più le persone, soprattutto giovani, che cercano in ogni modo di lasciare la Bosnia Erzegovina dove, stando ai dati della Banca mondiale, il tasso di disoccupazione si attesta al 20%, mentre il 17% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Molti cittadini bosniaco-erzegovesi scelgono di emigrare pur avendo un lavoro, perché percepiscono uno stipendio – spesso molto inferiore allo stipendio medio mensile che si aggira attorno ai 850 marchi (circa 430 euro) – che non è sufficiente a garantire nemmeno la mera sopravvivenza.

Servono indagini, non revisioni
È sorprendente che la vicenda dei diplomi falsi non abbia suscitato alcuna seria reazione da parte delle istituzioni bosniache né tanto meno la richiesta di dimissioni dei responsabili. L’unico a reagire è stato il Comitato per l’educazione, scienza, cultura e sport della Camera dei rappresentanti del parlamento della Federazione BiH, che ha lanciato un’iniziativa per la revisione dei titoli di studio dei propri membri.

Avdo Avdić ritiene che la revisione dei diplomi non sia sufficiente a risolvere la questione. “È ormai prassi diffusa tra i rappresentanti delle istituzioni statali lanciare iniziative per la revisione dei diplomi. Ma questo è l’ultimo dei problemi. La cosa fondamentale, secondo me, è sottoporre al controllo l’operato delle istituzioni che rilasciano questi diplomi. Se guardate i documenti, attestati e diplomi che siamo riusciti a ottenere, vedrete che vi è scritto che il destinatario del diploma si è iscritto regolarmente al corso prescelto, ha superato tutti gli esami e al termine del percorso di studio della durata di due anni ha ottenuto il diploma. Se qualcuno avesse esaminato uno di questi diplomi prima della pubblicazione della nostra inchiesta, non avrebbe notato nulla di strano”, afferma Avdić.

Stando alle sue parole, ciò che preoccupa di più è la debole reazione degli organi giudiziari. “Nessuna istituzione giudiziaria – tranne la procura del cantone Una-Sana che ha aperto un’inchiesta contro la scuola di Sanski Most e contro Senad Pehlivanović – ci ha chiesto di poter prendere visione del controverso diploma per accertare se si tratta di un reato di criminalità organizzata. La procura della Bosnia Erzegovina ci ha chiesto informazioni, comprese quelle relative alle nostre fonti, sulla base delle quali abbiamo sviluppato la nostra inchiesta, ma non ci ha chiesto il diploma”, spiega Avdić.

Aggiunge inoltre che il portale Žurnal continuerà a indagare sulla questione e a pubblicare quanto scoperto. Quello dei diplomi falsi non è il primo scandalo svelato dai giornalisti di questo media indipendente, il cui obiettivo è quello di mettere a nudo tutte le irregolarità, e soprattutto le collusioni tra potere politico e criminalità organizzata in Bosnia Erzegovina, che nell’ultimo indice di percezione della corruzione, stilato da Transparency International, occupa l’89° posto su un totale di 180 paesi presi in considerazione.



Citazione
“Se avessimo avuto più tempo e risorse a disposizione, avremmo potuto ottenere il diploma di laurea della Facoltà di Giurisprudenza, senza dover assistere ad alcuna lezione e senza dover sostenere alcun esame. E poi con quella laurea probabilmente saremmo riusciti a trovare un impiego come collaboratori presso qualsiasi organo giudiziario in Bosnia Erzegovina. Abbiamo le prove che alcune persone attualmente impiegate nelle istituzioni giudiziarie si sono laureate in questo modo presso la Facoltà di Giurisprudenza o uno degli istituti di istruzione superiore, dove peraltro lavorava anche Senad Pehlivanović ”, afferma Avdić.

"Certe cose accadono solo in Italia! "
Italiano medio docet.
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Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 10, 2019, 18:04:20 pm
http://www.eastjournal.net/archives/95712

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Indice di corruzione, i Balcani peggiori d’Europa
Pietro Aleotti  3 giorni fa

Nei giorni scorsi Transparency International, un’organizzazione che ha la propria ragione fondante nella lotta alla corruzione nel settore pubblico, ha pubblicato i risultati relativi alla valutazione dell’indice di percezione della corruzione, misurata in 180 paesi in tutto il mondo. La situazione per i paesi balcanici è tutt’altro che lusinghiera essendo stabilmente collocati agli ultimi posti della classifica europea, meglio solo di Russia ed Ucraina.

La metodologia

Dal 1995 Transparency International presenta questi dati con cadenza annuale offrendo, così, uno spaccato della situazione a livello globale. Il grado di corruzione viene espresso tramite un indice, denominato “Indice di Percezione della Corruzione” (Corruption Perception Index, CPI), calcolato incrociando i dati ufficiali provenienti da varie istituzioni indipendenti, e attinenti diversi aspetti della corruzione. Tra gli altri: l’uso dei fondi pubblici e la loro diversione, l’esistenza di leggi sul conflitto di interessi, la lotta alla corruzione, il livello di burocratizzazione, l’autonomia dei media e altri ancora. Il CPI è espresso su una scala da 0 a 100, dove 0 indica il massimo grado di corruzione e 100 la sua completa assenza.

I dati

L’Europa occupa ben sette delle prime dieci posizioni tra i paesi più virtuosi, inclusa quella di testa con la Danimarca. Il valore medio dei paesi dell’Unione europea è di 66, superiore a quello medio globale di oltre 20 punti.
La situazione dei paesi balcanici è, invece, di gran lunga peggiore: tutti i paesi dell’area occupano posizioni medio basse nel ranking generale. In ragione di un CPI medio di soli 41 punti, Serbia, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Macedonia e Albania si collocano tra l’ottantottesimo e il centesimo posto della classifica e solo Croazia (60) e Montenegro (68) appaiono leggermente più in salute.

A dare una connotazione ulteriormente negativa ai dati forniti da Transparency International contribuisce l’analisi del trend di questi stati: dal 2012 (anno dal quale la rilevazione viene fatta con la metodologia attuale) al 2018 non si rileva alcun segnale di miglioramento e, rispetto allo scorso anno, tutti i paesi dei Balcani occidentali hanno, viceversa, peggiorato il proprio punteggio, con la sola eccezione della Macedonia.

I singoli casi

Nonostante la lotta alla corruzione sia una delle condizioni imposte dalle istituzioni europee per l’ingresso nell’UE, nessuno degli stati candidati o aspiranti tali ha fatto, dunque, sforzi apprezzabili sul tema.

In Serbia, ad esempio, il tentativo di porre sotto il proprio controllo le istituzioni pubbliche preposte al mantenimento dello stato di diritto è stato evidenziato dall’associazione dei giudici serbi che, con un comunicato di rara durezza, ha definito la bozza di riforma costituzionale presentata dal governo un tentativo di “ampliare la possibilità di influenza politica sul sistema giudiziario”. Un potere giudiziario debole è sicuramente meno efficace ad indagare l’ambito politico dal quale risulta, al contrario, assoggettato.  Un quadro negativo cui si deve aggiungere, secondo quanto riportato da Transparency Serbia, la tendenza a non intervenire nemmeno in casi in cui la corruttela sarebbe comprovata da indagini giornalistiche o da quelle delle autorità investigative.

In altri contesti il problema si origina da un vuoto di natura legislativa e, più, in generale, dalla debolezza delle istituzioni: è il caso, ad esempio, del Kosovo dove, a fronte dell’esistenza di ben quattro organi preposti alla vigilanza, la poca chiarezza nella suddivisione di ruoli e di compiti ha creato sovrapposizioni e inefficienze, vanificandone di fatto l’operato. Attraverso il meccanismo del finanziamento pubblico dei partiti, inoltre, la corruzione può persino influenzare l’esito delle elezioni politiche: un sospetto in tal senso è quello che, secondo quanto riportato da Transparency International, riguarderebbe le ultime tornate elettorali in Montenegro e in Bosnia Erzegovina.

Ultima tra i paesi balcanici con il suo centesimo posto, l’Albania soffre di gran parte delle problematiche appena descritte: è di pochissimi giorni fa la raccomandazione con la quale il Fondo Monetario Internazionale esorta Tirana ad intraprendere più efficaci e puntuali misure anti-corruzione, come condizione indispensabile per il rilancio economico del paese e come incentivo alla ripresa del mercato del lavoro consentendo, così, un più efficace contrasto al fenomeno dell’emigrazione.

Un problema per la democrazia

Spesso benevolmente derubricato a malcostume, per quanto esecrabile, quello della corruzione è dunque un problema che investe la sfera democratica dei paesi coinvolti, con impatti pesanti anche sul piano economico e sociale. Negli ultimi anni al tentativo di molti dei governi dell’area di aumentare la propria influenza e il proprio controllo sulle istituzioni e sui mezzi di informazione si è aggiunta una diffusa recrudescenza del conflitto con le organizzazioni non governative e, più in generale, con gli oppositori politici.

Un clima, questo, che favorirebbe il proliferare di pratiche corruttive, come osservato dalla presidente stessa di Transparency International secondo la quale  la “corruzione pubblica ha maggiore possibilità di prendere piede in un contesto dove le basi democratiche sono più deboli”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 10, 2019, 18:14:17 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Non-si-e-mai-stati-cosi-bene-in-Serbia-192577

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Non si è mai stati così bene in Serbia

Un commento sarcastico e tagliente, un ritratto della Serbia di oggi visto da chi ha vissuto le proteste degli anni ‘90 contro quello che pensava fosse il peggiore regime possibile

08/02/2019 -  Petra Tadić   Belgrado
In Serbia non si è mai vissuto meglio. Già da tre anni le casse pubbliche registrano un avanzo. L’élite al potere sta conseguendo un successo dopo l’altro. Non c’è stato alcun taglio alle pensioni. Le persone non lasciano il paese in massa. I rapporti con i paesi vicini sono ottimi, non sono mai stati migliori. Omicidi e crimini non avvengono quasi mai. E quelli avvenuti in passato sono stati ormai risolti. La polizia arresta e il tribunale emette subito la sentenza.

Siamo quasi diventati membri dell’Unione europea, ancora uno, due passi e ci siamo. Manteniamo ottimi rapporti con la Russia e nessuno ce lo rimprovera. Siamo un fattore di stabilità. Risolveremo presto anche la questione del Kosovo, perché il nostro presidente non dorme ed è costantemente impegnato nella ricerca di una soluzione pacifica, sostenibile e reciprocamente accettabile.

Le minoranze godono di tutti i diritti. Anche le ultime due edizioni del Gay Pride si sono svolte senza problemi. E i media? Non sono mai stati così liberi! Ognuno può dire quello che vuole e quando vuole, senza suscitare alcuna protesta. Le conferenze stampa straordinarie convocate d’urgenza appartengono ormai al passato.

Il parlamento funziona benissimo. I deputati della maggioranza, non quelli dell’opposizione, presentano diverse centinaia di emendamenti ad ogni singola legge. Svolgono il loro lavoro con coscienza. Leggono attentamente le proposte di legge, individuano le lacune e le correggono in tempo. Così i deputati dell’opposizione non devono fare nulla. Possono tranquillamente stare seduti e ricevere il loro stipendio parlamentare.

Il sistema sanitario e quello scolastico funzionano alla grande. Negli ultimi tre anni nessun medico è partito per la Germania, la Slovenia o qualche altro paese. Tutto funziona. In Serbia non si è mai stati meglio.

Proteste
Sabato, 2 febbraio. Una giornata sorprendentemente bella e calda per questo periodo dell’anno. Mio marito e io stiamo aspettando l’autobus. Vediamo alcuni conoscenti avvicinarsi. Ci scambiamo sguardi. Noi chiediamo: “Andate alla protesta?”. Loro rispondono: “Andiamo alla protesta”. Non ci siamo visti per anni. Ed eccoci di nuovo qui, spinti dagli stessi motivi, pronti ad andare alla manifestazione di protesta che da diverse settimane viene organizzata a Belgrado, in Piazza degli Studenti, dove negli anni Novanta protestavamo contro l’allora governo serbo, che pensavamo fosse il peggiore possibile.

Per quelli che non lo sanno – ed è del tutto normale che ci siano persone che non lo sanno, perché si tratta di fatti appartenenti al passato – , a Belgrado e in tutta la Serbia, per un intero decennio, dal 1991 al 2000, i cittadini hanno protestato contro un governo che li ha umiliati, ridotti in miseria, sotto le sanzioni e spinti in conflitto coi vicini; un governo che ha combattuto e perso guerre; un governo che ha ucciso i suoi oppositori politici.

Poi nel 2000 abbiamo finalmente vinto. Noi, cittadini “normali” di questo paese. E pensavamo che fosse finita, che fosse finalmente giunto il momento di tirare un sospiro di sollievo, che non saremmo mai stati costretti ad andarcene dal paese, che sarebbe bastato avere un po’ di pazienza finché la nuova élite politica non fosse riuscita a ricostruire il sistema, che non avremmo più dovuto scendere in piazza, che avremmo potuto dedicarci alle nostre vite, lavorare, costruire una famiglia, goderci la pensione.

Ho passato la mia giovinezza a quelle proteste. E non me ne pento. È stato difficile. È stato pericoloso. Ma è stato anche bello. Ed è stato necessario.

Pensavo che non avrei mai più dovuto protestare. Lo pensava la maggior parte dei miei coetanei. E di quelli un po’ più vecchi di me. E di quelli molto più vecchi di me che anche adesso, ogni sabato scendono in strada per protestare; alcuni sono ormai in età avanzata, altri camminano a malapena.

Déjà vu
Sabato, 2 febbraio. Siamo arrivati in piazza. Questa volta abbiamo portato anche i nostri figli. Ovunque mi girassi vedevo facce familiari. Vedevo le stesse persone che avevano partecipato alle proteste del 1996. Siamo un po’ invecchiati ma ci riconosciamo ancora. Siamo molti. Molti di più rispetto ai sabati precedenti, così dicono. Pian piano sempre più persone si aggiungono alla manifestazione, perché evidentemente non sanno ancora che in Serbia oggi si vive meglio che mai.

L’atmosfera è noiosa. Non c’è quell’energia degli anni Novanta. Il tutto è organizzato in modo amatoriale. I relatori sono in ritardo. Li conosciamo quasi tutti. Tenevano discorsi anche negli anni Novanta. Parlano troppo a lungo. Ci fanno male i piedi. Dopotutto, abbiamo vent’anni in più.

Non c’è alcun palco, ma un camion con altoparlanti. Anche se volessi ascoltarli, non riuscirei a sentire niente. Per capire quello che stanno dicendo dovrei raggiungere le prime fila. Non so molto sugli organizzatori delle proteste. Sono giovani. Non sono membri di alcun partito politico. Non mi sembrano molto creativi e non sono sicura che abbiano idee chiare su cosa fare. Eppure, eccomi qui, alla manifestazione di protesta. Che si fa sempre più grande. E, guarda caso, ci sarò anche il prossimo weekend con la mia famiglia e i miei amici. E non si protesterà solo a Belgrado. Pian piano le proteste si estendono, come piccoli incendi, a tutto il paese. Novi Sad, Niš, Kragujevac, Požega, Kula, e anche Kosovska Mitrovica.

Protestiamo perché in Serbia non si riesce più a respirare. È stato cancellato quel poco di democrazia che avevamo conquistato. Un uomo decide tutto. Gli esponenti del partito al governo assomigliano a clown. Ogni notizia pubblicata viene accompagnata da elogi ad Aleksandar Vučić. Siamo stufi di ascoltare che Vučić non dorme di notte perché si preoccupa di noi. Ci viene la nausea a sentirlo parlare a mezza voce di come si dimetterà quando glielo chiederà il popolo. O quando dice che non cederà alle richieste dei cittadini che protestano nemmeno se fossero in cinque milioni.

Siamo di nuovo diventati – come diceva anche la propaganda del regime di Milošević – mercenari al soldo degli stranieri e traditori della patria. Ci tornano in mente tutte le immagini degli anni Novanta, quando l’attuale presidente diceva quello che pensava veramente, cioè, giusto per ricordare, l’ideologia dell’odio nei confronti del diverso. Dall’odio non può nascere l’amore.

Perché protestare
Protestiamo per le pensioni tagliate e per gli stipendi che non ci permettono di vivere dignitosamente, e questo nonostante un surplus di bilancio. Protestiamo perché non abbiamo più né il parlamento, né il governo, né i tribunali, né le procure, né alcuna istituzione indipendente.

Abbiamo solo il presidente. E quelli che la pensano come lui e non temono nulla. I media non sono liberi, ad eccezione di poche emittenti che coprono solo Belgrado e la Vojvodina e alcuni giornali a bassa tiratura. La Radio televisione della Serbia ha quasi superato quello che faceva negli anni Novanta. Chi si informa attraverso il servizio pubblico forse non sa nemmeno che in Serbia sono in corso le proteste. Ogni notizia, su qualsiasi emittente televisiva inizia con queste parole “Il presidente Aleksandar Vučić…” e così per venti minuti.

Protestiamo contro la crescente povertà dei cittadini e contro l’arricchimento vergognoso delle persone vicine al governo. Protestiamo per le leggi abolite, per il progetto Belgrado sull’acqua e il caso Savamala, per i criminali con dei passamontagna in testa che di notte distruggono quello che vogliono, per i criminali che decidono delle nostre vite, per le luminarie natalizie a Belgrado che brillano da settembre ad aprile, mentre i soldi spesi per acquistarle potrebbero essere usati per risolvere problemi sempre più numerosi.

Siamo scesi in strada a causa dell’arroganza che non conosce limiti, a causa di politici incapaci, semianalfabeti e analfabeti che non fanno altro che accondiscendere al volere del leader.

Protestiamo anche in nome dell’opposizione penosa, disorganizzata e colpevole di molte cose.

Protestiamo perché non abbiamo altra scelta. Protestiamo per salvare la nostra vita e quel poco di dignità che ci è rimasta.

Dicono che in Serbia non si è mai vissuto meglio.

Mentono spudoratamente
.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 15, 2019, 17:50:36 pm
http://www.eastjournal.net/archives/96065

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Bucarest non vuole una romena a capo della Procura europea anti-corruzione
Francesco Magno  5 ore fa

Due settimane fa Bruxelles ha reso noti i nomi dei candidati selezionati per la carica di procuratore capo europeo anti-corruzione. In cima alla lista troneggiava il nome di Laura Codruta Kovesi, romena di Transilvania, ex capo della Direzione Nazionale Anticorruzione (DNA), rimossa dalla sua funzione per volere del governo social-democratico. La Kovesi, che ha già ricevuto il sostegno di Francia, Germania, Olanda e Austria, è la grande favorita per la nomina; le battaglie condotte in Romania hanno sicuramente arricchito il suo pedigree, rendendola gradita a buona parte dell’establishment europeo occidentale. Tuttavia, venuto a conoscenza della notizia, il governo romeno ha immediatamente fatto sapere che farà tutto quello che è in suo potere per impedirne la nomina. Non si tratta di minacce vacue. Nella giornata di mercoledì, “casualmente”, è stato reso noto che la Kovesi è indagata a Bucarest per abuso d’ufficio e per concussione. La diretta interessata ha commentato accusando il governo e la voglia di vendetta nei suoi confronti. Ma perché l’esecutivo vuole bloccare la nomina di un’illustre connazionale ad una prestigiosa carica europea?

Laura Codruta Kovesi, l’incubo dei politici romeni

Laura Codruta Kovesi, ex promessa del basket femminile romeno, sposata con un ungherese di Transilvania, venne nominata capo della DNA nel 2013 dall’ex presidente Traian Basescu. Da allora, si è distinta per le sue lotte senza quartiere alla corruzione annidata nei più alti ambienti della politica e dell’amministrazione nazionale; molti politici di spicco sono stati arrestati a seguito delle sue inchieste, sebbene molti le abbiano spesso imputato una condotta troppo dura e al limite delle regole consentite dalla legge. Nel 2018, su iniziativa del ministro della Giustizia, la Kovesi è stata rimossa dalla sua carica, lasciando la DNA priva di una guida. Il suo allontanamento è stato salutato come una vittoria dal leader del partito social-democratico, Liviu Dragnea, coinvolto anch’egli in numerose inchieste per reati di corruzione. In Romania, l’ex procuratrice capo è assurta a simbolo di quella parte di paese che vuole combattere il malaffare del passato, tanto da diventare una delle personalità con il più alto indice di gradimento tra la popolazione, più del presidente della Repubblica Klaus Iohannis.

Portare in Europa conflitti interni

Liviu Dragnea e il governo temono che da Bruxelles la Kovesi possa riprendere la battaglia interrotta a Bucarest qualche mese fa, minando quindi il microcosmo di potere che il PSD è riuscito a creare in patria. Molti esponenti della coalizione di governo, a partire dallo stesso Dragnea, hanno problemi con la giustizia. Contando su parti della magistratura fortemente politicizzate (compresa la Corte Costituzionale) essi riescono spesso a evitare processi e condanne in Romania, garantendosi l’impunità. Un’impunità che sarebbe molto più difficile da conservare in caso di un’azione forte e mirata condotta da Bruxelles e sostenuta dai più importanti paesi del continente. La notizia, uscita mercoledì, del coinvolgimento della Kovesi in loschi affari in cui lei stessa avrebbe ricevuto tangenti, assomiglia troppo ad una bomba ad orologeria, fatta esplodere nel momento più opportuno, a una settimana esatta dalla decisione finale sulla nomina di procuratore capo anti-corruzione.

Forse aveva ragione Juncker

L’ostilità governativa nei confronti della Kovesi è così forte da aver portato all’opposizione ad una connazionale in un grande concorso pubblico europeo. Il fatto diventa ancor più singolare se ricordiamo che la Romania regge attualmente la presidenza di turno dell’UE. Non meno di un mese e mezzo fa Juncker aveva dichiarato il paese impreparato ad assolvere tale funzione. Visti gli ultimi avvenimenti, forse il presidente della Commissione non aveva tutti i torti.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 15, 2019, 17:51:52 pm
http://www.eastjournal.net/archives/96063

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RUSSIA: Ucciso un attivista anticorruzione
Amedeo Amoretti  7 ore fa

Lunedì 11 febbraio, a Vinogradovo, l’attivista russo Dmitry Gribov è stato assalito da un gruppo di persone mascherate, armate di mazze da baseball. Gribov si stava dirigendo verso casa della madre, quando ha subito l’attacco. Un passante, rendendosi conto della situazione, ha messo in fuga gli assalitori, minacciando di chiamare la polizia. Nonostante i soccorsi, tuttavia, Gribov è morto in ospedale alcune ore più tardi.

Le indagini

Dmitry Gribov era il responsabile del centro per combattere la corruzione nel governo, un’ONG attiva nell’oblast di Mosca. Il centro si occupa di denunciare casi di corruzione e di dare supporto alle persone che vogliano accusare di tali atti sia dei privati che le autorità. Secondo quando affermato dal Presidente della ONG, Viktor Kostromin, l’attacco sarebbe “connesso alle attività pubbliche e di anticorruzione di Gribov”. Kostromin, però, ammette anche la possibilità di un collegamento a una vicenda avvenuta due anni fa. Tre uomini avevano avuto una discussione accesa con Gribov, la quale era terminata con l’incendio dell’auto dell’attivista. La questione è stata successivamente portata in giudizio e il tribunale si è espresso a riguardo proprio poche ore prima dell’attacco.

Un uomo di 57 anni, sospettato di aver fatto parte del gruppo che ha attaccato Gribov, ha confessato di aver picchiato l’attivista a causa di questioni private. Gli investigatori sono ora in cerca dei complici – come riportato da Olga Vrady, assistente del capo della direzione del Comitato Investigativo.

Un problema sociale

La vicenda che ha coinvolto Gribov non è un caso isolato. Già a ottobre 2018, il report “Apologia of protest” aveva presentato un’analisi relativa alla violenza politica in Russia. Il comunicato, redatto da Agora International, denunciava un aumento, rispetto al 2014, di minacce e di attacchi verbali e fisici contro attivisti, giornalisti e politici. Si erano infatti registrati 21 casi nel 2015, 35 nel 2016, 77 nel 2017 – mentre nell’ottobre 2018 il numero era salito a più di 80. Tra le città più pericolose, Mosca si occupava il primo posto con 52 casi, seguita da San Pietroburgo (23) e Krasnodar (15). L’analisi riportava i dati affermando che “la realtà di oggi è tale che se hai deciso di impegnarti in attivismo sociale, preparati a minacce e attacchi, oltre alla detenzione per proteste pacifiche”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 15, 2019, 17:56:19 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Da-Katmandu-a-Bucarest-per-un-futuro-migliore-192123

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Da Katmandu a Bucarest, per un futuro migliore

Negli ultimi trent'anni milioni di rumeni sono emigrati all'estero. Ma per far girare l'economia la Romania ha ora bisogno di manodopera, che sta drenando da paesi orientali. Un reportage

11/02/2019 -  Mircea Barbu,    David Muntean   Bucarest
(Pubblicato originariamente da Recorder  , selezionato e riadattato da Le Courrier des Balkans  )

Nel ristorante Pescăruș, a Bucarest, Sagar Chhetri sguscia tra i tavoli portando dei piatti. Poi si ferma e si rivolge ad alcuni clienti con un rumeno essenziale. Li serve e poi riparte verso la cucina. Sagar ha 30 anni. “Lavoro come cameriere per avere un futuro migliore, ed è per questo che ho scelto la Romania. Vado verso i clienti e dico loro bună ziua, bună dimineața, bună seara. Loro s'accorgono del mio accento e mi chiedono da dove vengo. Nepal, dico loro. Loro dicono frumos, io rispondo mulțumesc”.

“Sono venuto in Romania per un futuro migliore”. Parole che possono suonare strane in un paese che ha vissuto l'emigrazione recente di milioni dei suoi abitanti. Ma la dinamica della povertà nel mondo è una storia complicata. Mentre i rumeni emigrano massicciamente verso ovest, nel Sud-est asiatico la Romania è considerata come la terra promessa.

Crisi della manodopera
“Mi chiamo Ramesh Shrestha e lavoro in cucina. Guardo le trasmissioni di cucina alla tv, guardo come lavorano gli chef... Aiutavo mia madre da piccolo. Mi sono detto: andare in Romania è ok, è un paese europeo e c'è molto da imparare da altre culture culinarie. Quindi ho deciso di venire qui e sto facendo buona esperienza. La gente reagisce in modo variegato, alcuni bene altri male. In generale incontrano un nepalese per la prima volta. Alcuni ci accolgono calorosamente, altri in modo molto duro. E' normale, è nella natura umana, l'accetto. Anch'io penso farei la stessa cosa con persone che non conosco”.

Sagar e Ramesh fanno parte delle centinaia di nepalesi che lavorano in Romania. La mancanza di forza lavoro che caratterizza l'economia rumena spinge le aziende a rivolgersi all'estero e molti lavoratori provengono da paesi lontani come Filippine, Vietnam o Nepal. I nepalesi fanno parte del più recente flusso migratorio di lavoratori asiatici nel paese e trovano occupazione in ristoranti e hotel delle città più grandi, assunti da agenzie interinali.

“I cittadini rumeni non sono pronti a fare alcuni lavori, a volte per motivi psicologici altre fisici”, spiega Daniel Mischie, amministratore delegato di City Grill. “Mentre chi è originario di paesi non europei dimostrano la volontà di fare bene. E' questa la ragione per cui scegliamo cittadini stranieri. La sola differenza tra un nepalese e un rumeno è che i primi non parlano la nostra stessa lingua, ma col tempo si adattano. Alcuni lavorano anche a contatto con la clientela. Iniziano a parlare rumeno e lavorano altrettanto bene che un qualsiasi cittadino rumeno”.

“Inviano ogni mese circa 100 euro a casa loro, in Nepal, una somma con la quale la loro famiglia vive”, continua. “Per loro i soldi hanno un valore diverso rispetto ad un rumeno per il quale 100 euro non permettono di mantenere una famiglia o pensare di costruire una casa. All'inizio degli anni '90, quando un rumeno mandava a casa propria 100 marchi guadagnati in Germania, poteva si aiutare la sua famiglia. In breve il Nepal è come la Romania 30 anni fa, o l'Italia 80 anni fa. Queste persone sono venute qui per lavorare e per far vivere la loro famiglia, sono venuti per fare una buona cosa e non per fare del male a qualcuno”.

Il Nepal ha 30 milioni di abitanti, dieci milioni in più della Romania, ed un Pil di 13 volte inferiore. Quindi, un salario di 400-500 euro in un ristorante di Bucarest può essere un motivo sufficiente per lasciare Katmandu e trasferirsi a 5000 chilometri di distanza.

Sagar e Ramesh fanno le loro spese alla Lidl. E' un anno che sono in Romania. Le ragioni che li hanno spinti a lasciare il Nepal non sono diverse da quelle dei milioni di rumeni partiti per lavorare nell'Europa dell'ovest. I loro appartamenti a Militari, periferia ovest di Bucarest, assomigliano a quelli dei lavoratori rumeni a Madrid, Torino o Londra. A differenza che invece di sentire il timo, le stanze profumano di curry piccante, soprattutto durante i giorni liberi quando i nepalesi cucinano i loro piatti tradizionali.

Rientrando nel loro appartamento i nepalesi incrociano un anziano vicino che si lamenta. “Siete al nono piano? Non lasciate la porta dell'ascensore aperta il mattino. Mi sveglio alle 4 e la porta è aperta”. “E' qualcun altro, non noi”, risponde Sagar in rumeno. “Non lo so, la porta è aperta alle 4 e mezza del mattino”. “Non c'è nessuno di noi che esce alle 4 e 30 del mattino, non siamo noi”, ribadisce Sagar prima di entrare in ascensore con le borse della spesa.

Sagar e Ramesh vivono assieme ad altri tre nepalesi. L'appartamento è stato affittato loro dal datore di lavoro. E' quasi vuoto: una vecchia poltrona, letti a castello, valige, sembra più un dormitorio che un appartamento. Almeno la visuale dalle finestre è aperta e entra della luce. Gli amici lavorano tutti nello stesso ristorante di Bucarest. Alla fine del mese inviano la gran parte dello stipendio alle famiglie in Nepal. “Ne conservo un po' per me ma la maggior parte, il 70%, lo invio alla mia famiglia”, spiega Sagar. “Io spendo il 25% del totale, loro ne spendono il 25% per vivere e il 50% rimanente lo risparmiamo per il futuro”.

“In Nepal è impossibile trovare un buon lavoro e quando se ne trova uno il salario è a malapena sufficiente per pagare le bollette. E' per questo che molti giovani partono per l'estero. Se trovassi a casa mia un lavoro da funzionario, guadagnerei dai 175 ai 190 euro al mese. Lavorando in un ristorante invece non guadagnerei proprio niente, lavorerei solo in cambio di cibo”.

Famiglie divise
Nei giorni liberi gli uomini cucinano dei piatti nepalesi e parlano al telefono con famiglia ed amici. “Mi ha chiamato mia moglie dicendomi che le manco”, racconta Ramesh. “Ma cosa posso farci? Non ho altre possibilità. Mi manca trascorrere del tempo con lei. Mi chiama ogni volta che ho un po' di tempo e sono a casa. E' stata recentemente nel villaggio dove siamo cresciuti entrambi. A volte mi sento male a pensarla tutta sola là. Speriamo a breve di poter ritornare a stare assieme”.

“Mi manca mia figlia, la mia famiglia, i miei amici”, racconta Sagar. “Ho una figlia di un anno e mezzo. Quando vedo bambini al ristorante mi vien voglia di chiamare a casa. Sono partito in modo da dare a loro un futuro migliore. Voglio che mia figlia studi, che rimanga in Nepal. Non voglio che sia obbligata a partire all'estero e per questo che lavoro e che sono tutto solo qui”.

Sagar e Ramesh dicono di essersi abituati alla Romania. Si sono abituati ai loro colleghi, all'inverno e agli inquilini del loro stabile. Considerano questa stagione della loro vita come un sacrificio fatto in nome dei loro figli.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: gluca - Febbraio 16, 2019, 01:18:47 am
Forse aveva ragione Juncker

L’ostilità governativa nei confronti della Kovesi è così forte da aver portato all’opposizione ad una connazionale in un grande concorso pubblico europeo. Il fatto diventa ancor più singolare se ricordiamo che la Romania regge attualmente la presidenza di turno dell’UE. Non meno di un mese e mezzo fa Juncker aveva dichiarato il paese impreparato ad assolvere tale funzione. Visti gli ultimi avvenimenti, forse il presidente della Commissione non aveva tutti i torti.

Ambè, se lo dice lui, allora c'è da dargli retta  :D
https://it.wikipedia.org/wiki/Luxemburg_Leaks
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 16, 2019, 01:52:40 am
Tralasciando per un momento le affermazioni di quell'ubriacone di Juncker, è comunque vero che il governo rumeno è totalmente impreparato a reggere la presidenza dell'UE.
Lo stesso presidente della Romania è di quel parere.

http://www.eastjournal.net/archives/95576

Citazione
La presidenza più bistrattata

Nessuno stato membro all’alba del suo turno di presidenza ha ricevuto più critiche e sberleffi della povera Romania; persino l’uomo che più di ogni altro dovrebbe difenderla, il presidente Klaus Iohannis, l’ha definita totalmente impreparata a guidare la combriccola europea: da queste parti, a quanto pare, ogni scarrafone non è bello a mamma sua.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: gluca - Febbraio 16, 2019, 02:02:18 am
Non mi riferivo tanto al cognac, quanto al fatto che un personaggio più "unfit" di lui per la carica che ricopre non credo esista (vedi link)
E sentir pontificare uno che ha fatto il presidente di un paradiso fiscale mi dà alquanto sui nervi
Per il resto ho la netta impressione che molti paesi dell'est vedano l'UE e tutto ciò che la riguarda più come una minaccia che un'opportunità (e hanno ragione), dunque tendano a tenersene fuori
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 16, 2019, 18:31:08 pm
Non mi riferivo tanto al cognac, quanto al fatto che un personaggio più "unfit" di lui per la carica che ricopre non credo esista (vedi link)
E sentir pontificare uno che ha fatto il presidente di un paradiso fiscale mi dà alquanto sui nervi

Guarda che in merito a Juncker con me sfondi una porta aperta, eh...
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: gluca - Febbraio 16, 2019, 18:41:16 pm
La mia osservazione non era sulla correttezza della predica, ma sul pulpito dal quale proveniva..
Sull'inadeguatezza altrui, costui dovrebbe, per pudore, soltanto tacere
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 16, 2019, 18:43:58 pm
La mia osservazione non era sulla correttezza della predica, ma sul pulpito dal quale proveniva..
Sull'inadeguatezza altrui, costui dovrebbe, per pudore, soltanto tacere

Eh, appunto...
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: gluca - Febbraio 16, 2019, 19:27:38 pm
A sentirlo, pare di sentire il classico bue che dà del cornuto all'asino
Non ha manco il senso del ridicolo
Un'affermazione di quel tipo lui era l'ultimo al mondo a potersela permettere
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 20, 2019, 00:33:31 am
http://www.eastjournal.net/archives/96147

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ALBANIA: Opposizione all’assalto del governo
Marco Siragusa  12 ore fa

Sabato 16 febbraio le opposizioni albanesi, guidate dalla formazione di centrodestra del Partito Democratico, hanno convocato una grande manifestazione a Tirana per chiedere le dimissioni del premier socialista Edi Rama e la creazione di un governo tecnico che porti il paese ad elezioni anticipate. Alla protesta hanno preso parte migliaia di persone provenienti da tutto il paese, mentre a Valona il premier incontrava i suoi sostenitori in una sorta di sfida a distanza tra governo e opposizione. Nella capitale la contestazione ha assunto caratteri violenti con l’assalto di un gruppo di manifestanti alla sede del governo, respinto dall’interno dalla Guardia Repubblicana con l’utilizzo di idranti e gas lacrimogeni.

La situazione

Dalla fine del comunismo in poi, il paese è stato segnato dal perenne scontro tra il Partito Socialista (PS) e il Partito Democratico (PD). Le scelte economiche adottate dal primo governo post-comunista del PD provocarono, a metà degli anni ’90, una pesantissima crisi economica con il fallimento dello “schema piramidale” che portò l’Albania ad un passo dalla guerra civile con la perdita dei risparmi di migliaia di albanesi. A distanza di più di due decenni il paese, nonostante i buoni risultati raggiunti in termini di PIL, deve fare ancora i conti con un sistema corrotto e incapace di dare risposte concrete alle necessità della popolazione, costringendo ogni anno tanti giovani albanesi ad emigrare.

Nel 2011, durante l’ultimo governo del PD di Sali Berisha, l’opposizione socialista organizzò una serie di manifestazioni di piazza che si conclusero con l’assalto alle sedi governative e con un bilancio di quattro morti. Sabato si è assistito, a parti invertite, alla riproposizione di questo scontro. La campagna dell’opposizione contro Rama è stata rilanciata l’anno scorso dopo che il governo è stato travolto da due scandali legati ai presunti rapporti tra la criminalità organizzata, dedita allo spaccio di stupefacenti, e gli ultimi due ministri dell’Interno, Fatmir Xhafaj e il suo predecessore Saimir Tahiri.

Negli ultimi mesi il malcontento dei cittadini albanesi si è espresso in varie forme con numerose manifestazioni, come quella degli studenti universitari. Nonostante l’insofferenza sempre più evidente della popolazione per le proprie condizioni di vita, l’ultima tornata elettorale del 2017 ha riconosciuto a Rama la maggioranza assoluta dei seggi mentre il PD ha fatto registrare il risultato peggiore della sua storia, sintomo della poca credibilità di cui gode il partito. La manifestazione di sabato sembra quindi andare ben oltre la capacità di mobilitazione dell’opposizione e non può esser considerata automaticamente come sostegno alla sua leadership.

Le reazioni

Il premier Rama in un’intervista per il Corriere della Sera ha minimizzato quanto avvenuto sabato a Tirana affermando che “non sta succedendo nulla” e che non ha nessuna intenzione di accettare le richieste di dimissioni avanzate dalle opposizioni. Dal lato opposto, l’ex presidente e premier Berisha, ancora oggi figura forte alle spalle dell’attuale leader del PD, Lulzim Basha, ha parlato di lotta contro “il narcopartito e narco-Stato di Rama”. All’indomani della protesta, inoltre, Basha ha minacciato la rinuncia al mandato dei propri parlamentari, rischiando di provocare il blocco dell’attività del parlamento. Basha ha inoltre sostenuto che “gli atti violenti sono stati commessi come parte dello scenario di violenza di Rama” lasciando intuire un atteggiamento permissivo da parte della polizia per presentare l’opposizione come violenta e non affidabile.

Dure critiche verso i fatti violenti di sabato sono arrivate dall’Unione europea e dagli Stati Uniti, preoccupati per un’eventuale escalation della tensione. La delegazione dell’UE a Tirana ha rilasciato un comunicato in cui si esortano le parti “a fare tutto il possibile per evitare ulteriori violenze e disagi”. Dello stesso tono il tweet pubblicato dall’ambasciata statunitense con la ferma condanna “delle violenze e delle distruzioni che hanno avuto luogo durante le proteste”.

I prossimi appuntamenti

Il silenzio dei due principali partner internazionali sui motivi della protesta e su una possibile soluzione della crisi mostrano uno scarso sostegno alle rivendicazioni dell’opposizione. Senza l’appoggio di UE e Stati Uniti sembra piuttosto complicato per il PD riuscire a spodestare il premier, che può contare ancora su una solida maggioranza parlamentare. A detta dei leader delle proteste, queste continueranno fino a quando non sarà raggiunto l’obiettivo delle dimissioni di Rama e della convocazione di nuove elezioni. La piazza è stata riconvocata per la mattinata di giovedì 21. Ci si aspetta una più bassa partecipazione rispetto a sabato ma non sono da escludere ulteriori momenti di tensione tra polizia e manifestanti.

L’abbandono della lotta parlamentare in favore del ricorso alla piazza da parte del PD rischia di alimentare le profonde tensioni presenti nella società albanese, con il pericolo che la situazione possa sfuggire al controllo del partito stesso. La primavera, in Albania, si prospetta come un periodo molto caldo per le sorti del paese nel prossimo futuro.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 24, 2019, 18:59:09 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Albania-Europa-piu-lontana-con-l-opposizione-fuori-dal-parlamento-192913

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Albania: Europa più lontana con l’opposizione fuori dal parlamento

Alcune immagini della manifestazione di giovedì 21 febbraio pubblicate sulla pagina Facebook del leader del Partito democratico albanese Lulzim Basha

Dopo la tumultuosa manifestazione di sabato scorso a Tirana, l’opposizione di centrodestra ha lasciato il parlamento ed è tornata in piazza per chiedere un governo di transizione ed elezioni anticipate
 
22/02/2019 -  Tsai Mali  Tirana
Parlamento circondato di filo spinato, protetto da un folto cordone della polizia, migliaia di cittadini in piazza, giornalisti albanesi e stranieri in prima linea, muniti di maschere antigas. È iniziata così la seconda manifestazione dell’opposizione albanese, giovedì 21 febbraio, nel timore di nuovi scontri, con gli avvertimenti delle autorità di polizia che avevano denunciato possibili scenari di irruzione dei manifestanti nell’aula parlamentare e perentori appelli a rispettare le istituzioni e l’ordine pubblico da parte di tutte le organizzazioni internazionali accreditate nel paese. Temendo disordini, il presidente del parlamento, Gramoz Ruçi, aveva annullato a poche ore dall’inizio la plenaria prevista per il giorno della manifestazione, invitando l’opposizione a manifestare il dissenso dentro le istituzioni e l’assemblea nazionale.

In questo clima di tensione crescente, la mattina di giovedì, i manifestanti si sono riuniti alla piazza davanti parlamento con fasce bianche legate alle braccia in segno di pace, hanno ascoltato per qualche ora i discorsi dei deputati, hanno gridato in coro “Rama, vattene” e sono poi confluiti nella sede del Partito democratico, dove con il leader Basha hanno intonato l’inno nazionale. Tre ore dopo, la manifestazione si è conclusa, senza scontri e incidenti di nessun tipo. Ne seguiranno altre, a Tirana e in tutto il paese. “Il viaggio verso la speranza è appena iniziato”, sostiene Basha.

Via dal Parlamento
Con la faziosità di voler dettare le regole anche se in minoranza, e manovrando una folla di fedeli che ancora risponde ai comandi del partito, il Partito democratico di Lulzim Basha e il Movimento socialista per l’integrazione di Monika Kryemadhi chiedono le dimissioni del premier Rama e un governo di transizione che porti il paese alle urne con anticipo di due anni.

Come annunciato da qualche giorno, su proposta di Basha, tutti i deputati dell’opposizione hanno deciso all’unanimità di rimettere i propri mandati e uscire definitivamente da un parlamento che ritengono sia risultato della collusione dell’attuale governo con la criminalità organizzata.

Giovedì, con la manifestazione ancora in corso, i deputati dell’opposizione hanno depositato in parlamento le lettere di dimissioni, mentre nei prossimi giorni, tutti i candidati nelle liste elettorali del 2017, presenteranno una dichiarazione di rinuncia, per bloccare anche la normale procedura di sostituzione dei deputati dimissionari.

La vaga legislazione in merito a dimissioni di gruppo potrebbe rendere lunga e contorta l’iniziativa dell’opposizione, come è anche presumibile che la maggioranza proverà a prendere tempo, nella speranza di eventuali ripensamenti o negoziati ma, al netto degli adempimenti formali, il dato politico è chiaro: in questo modo, tutti i seggi del parlamento d’Albania appartengono alla maggioranza di Edi Rama. Per il paese, la situazione è senza precedenti.

Palla alla maggioranza
Sulla possibilità di dimettersi e andare ad elezioni anticipate, Edi Rama non ha mai avuto dubbi: sarebbe come chiedere alla Juventus di “arretrare in classifica, ricominciando da capo il campionato…senza Ronaldo”, aveva detto il premier al Messaggero il giorno prima della manifestazione. Ma, dopo la chiusura dei primi giorni e l’iniziale scetticismo verso il gesto di autoesclusione dell’opposizione, la prospettiva ormai sempre più vicina di un parlamento monocolore, ha evidentemente portato Rama a fare un passo indietro: niente dimissioni, ma un invito al dialogo, incentrato sul rafforzamento della democrazia e non sulla retorica della violenza e sull’imposizione dei rapporti politici. Una mano tesa e un segnale di riconoscimento della crisi istituzionale che sta investendo il paese, che l’opposizione ha subito respinto al mittente.

Percorso europeo sempre più a rischio
Il 29 giugno scorso, i leader dei 28 stati membri hanno approvato la decisione di indicare il giugno del 2019 come probabile data per l'apertura dei negoziati di adesione con l'Albania. Un “no” all’avvio immediato, ma comunque un’apertura affatto scontata, sostenuta dall’Italia ma fortemente contestata da diversi paesi, tra cui Francia e Olanda.

Nella giornata di giovedì, a manifestazione iniziata, l'Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Federica Mogherini, e il Commissario alle politiche di vicinato e per i negoziati sull'allargamento, Johannes Hahn, hanno fermamente condannato ogni tipo di incitamento alla violenza, così come la decisione dell'opposizione di rimettere i mandati. Per l’Unione europea si tratta infatti di atti controproducenti, che minano i progressi compiuti dal paese nel percorso di integrazione.

In attesa di vedere a cosa porterà questo nuovo braccio di ferro tra governo e opposizione, sembra che la lotta per il potere tra partiti e il conseguente stallo del funzionamento delle istituzioni albanesi abbia già presentato il primo conto da pagare al paese: un “no” sempre più probabile all’appuntamento con il Consiglio europeo alla fine di giugno.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 24, 2019, 19:04:28 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Come-le-mafie-sono-arrivate-in-Slovacchia-192863

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Come le mafie sono arrivate in Slovacchia

Prima la mafia balcanica e poi la 'Ndrangheta. La Slovacchia dal 1993 è diventata un luogo ambito dalla criminalità internazionale. Di questo si occupava il giornalista Ján Kuciak assassinato un anno fa insieme alla fidanzata Martina Kušnírová

21/02/2019 -  Pavla Holcová,    Cecilia Anesi,    Luca Rinaldi,    Karatína Jánošíková
(Originariamente pubblicato dal portale di giornalismo investigativo OCCRP  per la serie "Unfinished Lives, Unfinished Justice")

Le mafie dei Balcani sono state le prime grandi organizzazioni criminali ad approdare in Slovacchia, a seguito di corregionali che erano stati invitati a lavorare e studiare lì durante il periodo comunista. Mentre i loro affari si diffondevano nella nuova patria, anche la loro influenza ha iniziato ad imporsi in quegli unici settori criminali possibili sotto il regime comunista: la prostituzione, il gioco d'azzardo e il riciclaggio di denaro sporco. Quando la Slovacchia ha conquistato l'indipendenza nel 1993, i gruppi di criminalità organizzata sono rimasti e hanno iniziato a prosperare. Molto presto, la mafia italiana ha raggiunto le sue controparti (ex)jugoslava e albanese.

Oggi - nonostante sia conosciuta per la sua transizione indolore dal regime comunista e per i suoi paesaggi pittoreschi - la Slovacchia pullula di gruppi di criminalità organizzata da tutto il continente. Non solo perché i corpi di polizia ed il sistema giudiziario sono mal preparati ad affrontare questa affluenza; in molti casi, i criminali sono coinvolti negli affari politici e hanno accordi con i potenti, tra cui l'ex Primo Ministro e un giudice della Corte Suprema. Il risultante legame tra crimine organizzato e corruzione politica è notoriamente difficile da eradicare. Ed è anche letale: diversi anni fa, il giornalista slovacco Ján Kuciak aveva iniziato un'inchiesta sul crimine organizzato nel suo paese, collaborando con i reporter internazionali dell'OCCRP; si era concentrato prevalentemente sulle operazioni della mafia italiana 'Ndrangheta  , uno dei gruppi più noti e temuti al mondo. Mentre i giornalisti si avvicinavano lentamente alla pubblicazione delle loro scoperte, il 21 febbraio 2018 Kuciak e la sua fidanzata Martina Kušnírová - entrambi di 27 anni - sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco nella loro nuova casa appena fuori Bratislava, la capitale slovacca.

Nelle settimane seguenti, migliaia di persone sono scese nelle strade della capitale per chiedere giustizia. Il Primo Ministro Robert Fico e tre dei suoi ministri hanno dato le dimissioni, a causa delle accuse pubbliche sul fatto che lo stato mostrasse negligenza o fosse complice negli omicidi. OCCRP ha così denunciato  che l'assistente di Robert Fico, Mária Trošková, era la socia d'affari di un uomo che era stato indagato per contatti con la 'Ndrangheta. L'ufficio delle pubbliche relazioni del partito di Fico (Smer) non ha risposto alle richieste di un commento. Quattro persone sono state accusate degli assassinii, ma i mandanti non sono ancora stati trovati. Rimangono alcune domande chiave: come ha fatto la mafia a diventare così potente in Slovacchia? Quanto in profondità è penetrata nella politica, nell'economia e nel futuro del paese? E più importante, ci sarà giustizia per Ján e Martina?

Una cattiva reputazione
Dopo la caduta del comunismo e la simultanea scissione della Slovacchia dalla Repubblica Ceca nel 1993, il paese si trovò impreparato ad affrontare il crimine organizzato. La maggior parte dei suoi ufficiali di polizia, procuratori e giudici non avevano esperienza nell'investigare, condannare o accusare questo tipo di criminali. Molti ufficiali non conoscevano neanche i capi delle operazioni criminali nelle loro comunità - o erano troppo corrotti per interessarsene. Un poliziotto italiano che ha parlato sotto anonimato ha riferito all'OCCRP che la polizia slovacca non godeva di una buona reputazione al tempo: le autorità italiane non ne avevano fiducia e non condividevano dati sensibili per paura che le controparti slovacche li avrebbero fatti trapelare. Più di due decenni dopo, i problemi non sono stati risolti.

Nel 2015, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d'America ha riconosciuto la giurisdizione slovacca come "di primaria importanza" nel suo International Narcotics Control Strategy Report (Rapporto strategico sul controllo internazionale degli stupefacenti). Il paese è stato indicato come avente "un alto livello di crimine organizzato interno e internazionale, originario soprattutto del Sud e dell'Est Europa". "La Slovacchia è un paese di transito e un paese destinatario per beni contraffatti e di contrabbando, automobili rubate, frodi in materia di imposta sul valore aggiunto e traffico di persone, armi e droghe illegali", recita il rapporto. "Molti dei gruppi criminali organizzati sono coinvolti nel riciclaggio di denaro sporco proveniente da queste attività illecite". "Know Your Country", un sito focalizzato sui flussi finanziari illeciti internazionali, ha etichettato la Slovacchia come un paese di medio rischio  , una denominazione che denota dubbi riguardo la sua abilità di indagare in modo indipendente i crimini finanziari e di assistere altri paesi nel congelamento dei beni di possibili criminali.

I ruggenti anni '90
Una nuova ondata di gruppi criminali, soprattutto dall'Albania, è giunta in Slovacchia dopo la caduta del comunismo. Ancora isolati sotto il loro paranoico leader comunista, Enver Hoxha, gli albanesi sono stati costretti a fare affidamento a legami familiari e sotterfugi nella vita privata e negli affari. Allora, durante la sua transizione confusionaria verso il capitalismo, l'economia del paese è collassata sotto il peso di schemi piramidali enormi. Nel 1997 il governo albanese venne deposto e più di 2000 persone furono uccise in una serie di azioni che degenerarono in una guerra civile. Dopo aver perso tutto, molti albanesi hanno puntato all'estero per ricominciare da capo. Alcuni gruppi criminali si sono diffusi nel resto del mondo e molti di questi hanno trovato un porto sicuro in Slovacchia. Così sicuro, infatti, che il boss (di origini albanesi) di un traffico di eroina era in buoni rapporti con il giudice della Corte Suprema slovacca Stefan Harabin, che in seguito è diventato il ministro della Difesa e, infine, presidente della Corte Suprema. Attualmente è candidato alla presidenza.

Nel 1994, una chiamata amichevole tra Harabin e il trafficante di eroina, Baki Sadiki, fu registrata tramite un'intercettazione. Quando il verbale della conversazione fu rilasciato alla stampa nel 2008, la rivelazione che i due si erano incontrati di persona e che erano in rapporti confidenziali causò uno scandalo.

Nonostante la registrazione, Harabin ha dichiarato che non conosceva Sadiki e che il loro unico collegamento era attraverso la moglie di Sadiki, che Harabin conosceva prima che questi si sposassero. Sadiki fu arrestato nel suo paese, il Kosovo, e nel 2012 fu estradato in Slovacchia, dove sta attualmente scontando una condanna di 22 anni per accuse di spaccio, che includono aver contrabbandato eroina dalla Turchia in Slovacchia. Dopo la sua conferma alla presidenza della Corte Suprema, Harabin ha fatto causa all'ufficio del Procuratore generale per aver confermato pubblicamente la veridicità della chiamata privata, danneggiando così la sua reputazione. A Harabin, vincendo la causa, è stata concessa un'indennità di 150.000 euro  di danni per quella che è stata giudicata come un'erronea procedura ufficiale; il caso è ancora in appello. Harabin ha anche minacciato di far causa agli organi di stampa che hanno riportato lo scandalo.

In base a cablogrammi diplomatici statunitensi trapelati su WikiLeaks, Harabin era altresì dietro il tentativo di chiudere la corte speciale creata per processare i casi di corruzione e di criminalità organizzata. Il cablo rileva inoltre che "ha proposto la revisione del codice penale, riducendo gli strumenti della pubblica accusa e diminuendo le sentenze per i delinquenti recidivi". Harabin ha perso la sua posizione come presidente della Corte Suprema nelle elezioni del 2015 ed è candidato attualmente per guidare il paese. Il primo round di elezioni è il 16 marzo (2019). Harabin non risponde a telefonate o email che chiedono commenti al riguardo.

Cittadinanza in vendita?
Un passaporto slovacco, che rilascia un accesso facile all'intera Unione Europea, è un oggetto di valore per qualsiasi aspirante trafficante di droga. Nonostante per acquisirne uno sia richiesta una fedina pulita, dei giornalisti hanno riportato che almeno due importanti criminali serbi sono riusciti nell'impresa.

Dragoslav Kosmajac, il presunto creatore di un'importante "via della droga" nei Balcani, ha ricevuto la cittadinanza slovacca nella capitale, Bratislava, nel 2004. Il suo ruolo non è stato reso pubblico fino al 2014, quando il Primo Ministro serbo Aleksandar Vučić ha denunciato come Kosmajac - descritto come il più importante narco-trafficante nei Balcani - sia riuscito a fuggire dalla giustizia serba con un passaporto slovacco. Successivamente è tornato nella sua patria natia, senza però essere posto di fronte all'accusa di spaccio. Il suo avvocato, Đorđe Simić, ha sottolineato come ogni causa contro il suo cliente sia stata ritirata. Il governo slovacco ha iniziato ad irrigidire le sue leggi sull'immigrazione dal 2005; solamente un anno dopo, tuttavia, Darko Šarić (un narco-trafficante di spicco nella scena illegale serba) è riuscito ad ottenere la cittadinanza slovacca. Otto anni dopo, sarebbe stato arrestato in Sud America, con accuse di contrabbando di cocaina e riciclaggio di denaro sporco, e portato in Serbia. Dopo un processo piuttosto lungo, Šarič è stato condannato a 20 anni di prigione; sentenza che è stata poi ribaltata dalla corte d'appello e un secondo processo gli ha infine comminato 15 anni di reclusione. L'avvocato di Šarič non ha ancora risposto a nessuna chiamata o email alla ricerca di un commento. "Qualcuno deve aver ricevuto molti soldi per aver venduto la cittadinanza slovacca a un boss della droga" ha affermato nel 2014 Miroslav Lajčák, ministro slovacco per gli Affari Esteri, dopo aver discusso dell'argomento con il Presidente.

"Compra! Compra! Compra!"
Non sono stati solo i criminali provenienti dall'ex Jugoslavia a trasferirsi in Slovacchia. "La caduta del muro di Berlino e il collasso dell'Unione Sovietica negli anni '90 sono risultati nell'apertura dei confini Est europei", ha detto il criminologo ceco Petr Kupka. "Questo ha portato alla creazione di nuove opportunità per i gruppi criminali organizzati". Tra questi, hanno avuto una certa importanza quelli italiani. Il giorno stesso in cui è caduto il muro di Berlino, un'intercettazione tedesca  ha rivelato che la 'Ndrangheta calabrese era pronta per muoversi più ad Est. Un membro del gruppo è stato sentito ordinare ad un suo collaboratore tedesco: "Kaufen! Kaufen! Kaufen" ("Compra! Compra! Compra!"). La 'Ndrangheta ha cercato di investire buona parte del denaro acquisito con riscatti e sequestri di ricchi imprenditori italiani provenienti dalle regioni settentrionali. I fatiscenti palazzi della Berlino Est erano un buon punto di partenza. Questo era solo l'inizio: le porte dell'Est Europa, tra cui la Slovacchia, stavano per aprirsi.

Fuori dalla Calabria
La 'Ndrangheta è l'unica mafia italiana che si basa su una ristretta struttura familiare, ed anche se il centro nevralgico è situato in Calabria, molti membri sono spesso mandati all'estero per espandere le operazioni del gruppo. In questi casi, il lavoro è ancora seguito, benché in maniera sempre più sporadica, dal Sud Italia. "La mente della 'Ndrangheta risiede in Calabria, dove si cerca di organizzare la conquista del mondo" dice Giuseppe Lombardo, un importante procuratore anti-mafia di Reggio Calabria. "Ha molte cellule, che si estendono internazionalmente, e ognuna di esse ha un compito: infiltrarsi, investigare, crescere in potenza... L'idea è di continuare ad essere operativi anche senza i continui controlli del direttorato della 'Ndrangheta". Inoltre, afferma il procuratore, "le cellule operative della 'Ndrangheta all'estero si comporteranno come investitori di capitale, sembreranno degli imprenditori e investiranno in diverse aree di profitto: dall'agricoltura ai ristoranti, dall'energia rinnovabile alla finanza, dall'educazione alla consulenza."

Alla fine degli anni '80 membri di una famiglia della 'Ndrangheta, i Gallicianò, si sono spostati vicino a Visp, una città nel sud della Svizzera. Un'altra famiglia, storicamente connessa a quella sopracitata, i Rodà, vi si sono trasferiti a loro volta. Il loro obbiettivo era scappare dalle faide sanguinose che avevano luogo a casa e costruire nuove opportunità in terre più ricche di quelle prettamente rurali della Calabria, che in ogni caso era già sotto il controllo di famiglie più abbienti. Un membro dei Rodà, un esperto allevatore chiamato Diego, si è trasferito a sua volta dalla Svizzera alla Slovacchia negli anni '90. Lì ha comprato una proprietà e ha continuato a fare l'allevatore, riuscendo finalmente a stabilire l'impresa di successo di allevamenti che lo ha reso ricco. (Diego Rodà non è mai stato condannato per nessuna accusa legata alla criminalità organizzata.) La famiglia Rodà è ora ben stabilita in Slovacchia e controlla ampie parti del settore agricolo nell'Est del paese. Un investigatore proveniente dal paese dei Rodà in Calabria, che ha richiesto di rimanere anonimo in quanto non autorizzato a parlare dell'argomento, ha detto all'OCCRP che la famiglia è localmente conosciuta per essere diventata ricca e potente in Slovacchia senza aver destato nessun sospetto di collegamento con il crimine organizzato.

"Mentre alcuni membri della famiglia Rodà in Calabria li abbiamo indagati in due diverse operazioni - Ramo Spezzato e El Dorado - i loro parenti che si sono trasferiti in Slovacchia sono usciti dai nostri radar," ha sottolineato Antonio De Bernardo, procuratore in Calabria per la lotta contro la mafia. "E questo perchè quando degli italiani si trasferiscono all’estero, è per noi complesso seguirne le tracce. In generale, come Procura Antimafia, abbiamo il problema di doverci confrontare con controparti che non riconoscono il tipo di reato, l’associazione mafiosa. Avremmo bisogno di istituire una procura internazionale antimafia, o ancora meglio un sistema di norme condiviso che permetta di inseguire gli stessi reati - per esempio quello di mafia - anche fuori dall’Italia." Ha ribadito De Bernardo, aggiungendo che l'accusa per crimini di tipo mafioso esiste in Italia e in pochi altri paesi.

Mentre Diego Rodà continuava a costruire il suo impero in Slovacchia, è riuscito anche ad attingere alle risorse e alle abilità di un'altra famiglia calabrese, i Vadalà. Antonino Vadalà, un allevatore calabrese, ha sposato la figlia dei Rodà, Elisabetta, e la coppia si è anch'essa trasferita in Slovacchia.

Antonino Vadalà è diventato un protagonista centrale nella storia di Ján Kuciak. Il giornalista slovacco ucciso stava investigando la famiglia calabrese e le sue connessioni con il Primo Ministro Fico quando fu assassinato. Appena dopo la morte, Vadalà fu accusato da procuratori italiani di traffico di stupefacenti per la 'Ndrangheta. Lui e Rodà sono stati entrambi detenuti in Slovacchia dopo gli omicidi, ma sono stati successivamente rilasciati senza accuse. Raggiunto dai giornalisti, l'avvocato di Rodà, Antonino Curatola, ha ribadito che il suo cliente non "è coinvolto in nessuno dei fatti di cui è stato sospettato" e che "le accuse del suo coinvolgimento o della sua famiglia nell'omicidio del povero giornalista sono del tutto infondate."

"Ancora più infondate sono le accuse di un presunto legame tra il signor Rodà e la mafia calabrese", ha specificato l'avvocato Curatola. Il legale del signor Vadalà invece non ha risposto alle email che chiedevano un commento.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 03, 2019, 15:13:38 pm
Odessa

Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 05, 2019, 19:28:17 pm
https://www.balcanicaucaso.org/Tutte-le-notizie/Balcani-inverni-in-abitazioni-fredde-e-citta-inquinate-Qualcosa-sta-cambiando-193177

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Balcani: inverni in abitazioni fredde e città inquinate? Qualcosa sta cambiando

Il fotografo Ivo Danchev ha dedicato gran parte del suo lavoro alle campagne dei Balcani. Ed alle loro genti. Una foto scattata nella Bulgaria nord-occidentale

Molti cittadini dell'Europa sud-orientale non possono permettersi di scaldare adeguatamente la propria casa. L'impatto sulla loro salute e sull'inquinamento atmosferico è grave, ma la povertà energetica ha iniziato a diminuire

05/03/2019 -  Lorenzo Ferrari
Il 37%  della popolazione bulgara non riesce a riscaldare adeguatamente la propria abitazione in inverno. Un problema che tocca in modo consistente anche i paesi confinanti, come la Grecia, la Macedonia del Nord e la Turchia, e in misura minore la Romania. Le difficoltà di riscaldamento toccano l’8% degli abitanti dell’Unione europea nel suo complesso: una percentuale nettamente inferiore, ma che comunque indica che più di 40 milioni di cittadini dell’Ue hanno vissuto il freddo quest’inverno.

La difficoltà a scaldarsi è una delle manifestazioni più immediate e tangibili della povertà: sono poche le altre esigenze umane più basilari. In effetti, il problema è innanzitutto economico. In paesi come la Macedonia del Nord, la Bulgaria e la Romania le famiglie arrivano a spendere in media il 10-12%  del loro reddito per il riscaldamento, a fronte di una media del 7% per i paesi dell’Europa meridionale – ma nonostante questo sforzo molti cittadini rimangono comunque al freddo.

Il problema della legna e del carbone
L’approvvigionamento energetico rappresenterebbe una voce ancora più grande dei bilanci familiari se le persone in difficoltà non ricorressero a combustibili solidi per riscaldarsi, come la legna o il carbone. Questa forma di consumo non è limitata alle zone rurali, dove gli allacciamenti possono essere più difficili e costosi: ad esempio, in una grande città della regione, Sarajevo, i due terzi delle abitazioni continuano a essere riscaldate con la legna e il carbone.

Pur essendo più accessibili rispetto al gas o all’elettricità, i combustibili solidi provocano però problemi ambientali molto seri: non è un caso se le città dell’Europa sud-orientale in inverno raggiungono picchi allarmanti di inquinamento da PM2.5, le polveri sottili più pericolose per la salute. La ricaduta dell'inquinamento atmosferico è estremamente pesante, tanto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima  che il ricorso al legno e al carbone per il riscaldamento domestico sia responsabile ogni anno di circa 61.000 morti premature in Europa.

Abitazioni più calde e più salubri
Benché una porzione ancora troppo alta dei cittadini dell’Europa sud-orientale continui a soffrire l’inquinamento atmosferico e il freddo, almeno per quanto riguarda questo secondo aspetto la situazione è migliorata sensibilmente nel corso dell’ultimo decennio. In Romania la quota di popolazione in difficoltà dal punto di vista energetico si è ridotta di due terzi  tra il 2007 e il 2017, mentre nello stesso periodo in Bulgaria è passata dal 67 al 37%.

Questa evoluzione non è solo un indice del graduale aumento del reddito pro capite, che anno dopo anno permette alle famiglie di acquistare più combustibili. È in corso un rinnovamento del patrimonio edilizio, segnalato da molti indicatori: le case sono meno soggette  alle infiltrazioni e all’umidità, dispongono sempre più spesso  di servizi igienici – e sono meglio isolate, dunque costa meno tenerle calde d’inverno.

Le ristrutturazioni e la sostituzione delle stufe con impianti elettrici e a gas non ricadono solo sui privati: le autorità pubbliche intervengono a diversi livelli con incentivi e finanziamenti, che però non sono sufficienti. Per quanto riguarda l’Unione europea, questi sforzi ricadono nel pacchetto di iniziative “Energia pulita per tutti gli europei”  , che da un lato cerca di ridurre il ricorso a fonti inquinanti e dall’altro punta ad affrontare per la prima volta in modo diretto il problema della povertà energetica in Europa. D’altra parte la possibilità di accedere ai servizi energetici è stata riconosciuta come uno dei diritti sociali  di cui tutti i cittadini europei devono godere.

Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network   ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 05, 2019, 19:31:19 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/Kosovo-scioperi-e-rivendicazioni-salariali-193204

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Kosovo, scioperi e rivendicazioni salariali

Il Kosovo è scosso da scioperi a catena per rivendicare migliori condizioni salariali, dopo che il premier Haradinaj si è raddoppiato lo stipendio a fine 2017. La recente approvazione di una nuova legge sui salari non sembra aver riportato la calma

05/03/2019 -  Majlinda Aliu   Pristina
Alla fine del 2017, il governo del Kosovo ha preso la decisione di raddoppiare gli stipendi dei propri membri. Il notevole aumento di stipendio di Haradinaj, da 1.443 a 2.950 Euro, ha segnalato agli altri dipendenti del settore pubblico che costringere il governo ad aumentare i loro stipendi era possibile. Per placare la pressione dell'opinione pubblica, il primo ministro ha deciso di emanare una nuova legge sulle retribuzioni, poi approvata dal parlamento il 2 febbraio 2019, mirante a mettere una soglia ai salari classificando le posizioni nella pubblica amministrazione e assegnando a ciascuna un "coefficiente salariale". Tuttavia, questo non ha fatto altro che buttare benzina sul fuoco.

Scioperi a catena
Le prime critiche sono arrivate dal sindacato dell'istruzione SBASHK (Sindacato educazione, scienza e cultura). A gennaio 2019, SBASHK ha chiamato i suoi membri a scioperare: la protesta è durata tre settimane, tenendo a casa oltre 500mila alunni e studenti esattamente all'inizio del nuovo quadrimestre. Gli insegnanti chiedevano un aumento del 30%: alla fine, il governo ha offerto loro un aumento più limitato. Lo stipendio degli insegnanti delle scuole superiori aumenterà di 74,5 euro per raggiungere i 515 euro, mentre gli insegnanti della scuola primaria otterranno un aumento di 49,5 euro e il loro nuovo stipendio sarà di 466 euro.

La categoria più agguerrita è quella dei chirurghi, che si sono sentiti offesi e sottovalutati dalla posizione salariale loro assegnata e hanno iniziato a scioperare a fine dicembre 2018, tenendo i pazienti in lista d'attesa per gli interventi. Dopo tre mesi di sciopero sono tornati al lavoro, a condizione di emendare la legge e aumentare il loro coefficiente a 8, pari a quello di giudici e pubblici ministeri. La legge approvata raddoppia il loro stipendio da 600 a 1.200 euro.

All'inizio di febbraio hanno iniziato a scioperare anche i controllori del traffico aereo. Il capo del sindacato di categoria, Artan Hasani afferma che, se lo status loro assegnato dalla legge non cambierà entro ottobre, per il governo ci saranno nuovi problemi. Secondo Hasani, la legge attuale non è in linea con i regolamenti dell'Unione Europea. "Le regole Ue non consentono ai governi di interferire con il bilancio di organismi indipendenti, come il controllo del traffico aereo. Riteniamo che la legge sui salari collochi tutte le categorie in un unico calderone, ostacolando la possibilità di promuovere le capacità professionali", ha detto a OBCT.

La legge non è uguale per tutti
Secondo il governo, la legge sulle retribuzioni metterebbe ordine nei salari del settore pubblico, dal momento che finora ci sono stati diversi stipendi per posizioni identiche in diverse istituzioni. Tuttavia, secondo Agron Demi, policy analist presso l'istituto GAP di Pristina, la legge non ha incluso tutti i settori. "Ad esempio, i dipendenti dell'Agenzia per le privatizzazioni, Post Telecom ecc. non sono stati inclusi. Un custode dell'Agenzia per le privatizzazioni guadagna 400 euro, un impiegato in teatro 337 euro. Invece di mettere ordine, la legge sui salari è stata utilizzata come strumento per aumentare i salari quasi del 100% in alcuni settori", afferma Demi.

La legge sulle retribuzioni, che aumenta i salari in molti settori pubblici nel 2019, costerà al bilancio del Kosovo 730,7 milioni di euro: un aumento di 140,7 milioni di euro rispetto all'anno precedente. Ruud Vermeulen, rappresentante residente del Fondo monetario internazionale in Kosovo, ha affermato che un aumento del 30% dei salari sarebbe troppo oneroso per l'economia, che l'FMI prevede cresca quest'anno del 4,2%, rispetto al 4% del 2018 secondo un rapporto Reuters.

Demi ritiene che il governo abbia violato la legge sulle finanze pubbliche, approvata tre anni fa, secondo cui gli aumenti salariali devono essere in linea con la crescita del PIL. Secondo l'analista, mentre la crescita del PIL nel 2017 è stata del 4% circa, il capitolo di bilancio per i salari nel 2019 è aumentato del 23%.

La tensione è destinata a rimanere alta
La legge sulle retribuzioni, approvata dal parlamento a gennaio, sarà attuata fra dieci mesi (ottobre 2019). Nel frattempo, i sindacati scontenti continueranno a chiedere aumenti salariali in quasi tutti i settori pubblici. Controllori del traffico aereo, infermieri e altri operatori del settore pubblico hanno avvertito che torneranno a scioperare se il governo non li ascolterà. Alcuni si aspettavano che il presidente ponesse il veto alla legge e la rimandasse in parlamento, ma Hashim Thaçi non ha firmato né intrapreso altri passi legali, quindi la misura è entrata in vigore in modo automatico.

Con la nuova legge, il salario medio nel settore pubblico sale a circa 761 euro, mentre nel settore privato rimane molto più basso, intorno ai 416 euro. Tale discrepanza rende il settore privato meno attraente per i lavoratori, afferma Agron Demi, sottolineando che l'aumento delle retribuzioni nel settore privato negli ultimi sette anni è stato solo del 4,6% contro il 6% dell'inflazione cumulativa nello stesso periodo.

Quel che è peggio, nepotismo, clientelismo e assunzioni pilotate sono un "segreto pubblico" in Kosovo e, come dice Demi, molte persone sono costrette a diventare membri di un partito per trovare lavoro. Ciò ha vaste implicazioni nel mercato del lavoro, nell'istruzione, nei servizi pubblici, nella responsabilità e nella corruzione.

"Nella letteratura politica, paesi come il Kosovo sono considerati stati 'neo-patrimoniali': dall'esterno sembrano paesi moderni, con una costituzione, un sistema legale funzionante, ecc., ma le effettive operazioni del governo e la gestione delle risorse statali sono spartite tra amici e familiari", conclude Agron Demi.

Nonostante le richieste di OBCT, i funzionari governativi hanno rifiutato di rispondere a domande relative alla legge sui salari.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 13, 2019, 20:21:02 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Bosnia-Erzegovina-l-Europa-resta-lontana-193340

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Bosnia Erzegovina: l’Europa resta lontana

Il recente annuncio che fra tre anni i cittadini della Bosnia Erzegovina potranno effettuare chiamate verso altri paesi della regione senza costi di roaming fa ben sperare nel progressivo avvicinamento agli standard UE. Ma è un percorso da non dare assolutamente per scontato

12/03/2019 -  Ahmed Burić   Sarajevo
L’annuncio che a partire dal 2021 i cittadini della Bosnia Erzegovina potranno effettuare chiamate verso altri paesi dei Balcani senza alcun costo aggiuntivo è una di quelle notizie che non si sa mai come prendere: con una certa dose di ottimismo oppure rassegnandosi al fatto che i cittadini bosniaco-erzegovesi vengono irrimediabilmente ingannati.

Qualche giorno fa il presidente della Presidenza tripartita della Bosnia Erzegovina Milorad Dodik, che ultimamente sembra sempre più “collaborativo”, ha dichiarato che “per volere della Presidenza, la Bosnia Erzegovina firmerà un accordo regionale sul roaming, che ci permetterà di ridurre dell’80% i costi del roaming verso tutti i paesi della regione e che prevede che entro il 1 gennaio del 2021 anche i costi delle chiamate verso i paesi membri dell’Unione europea vengano ridotti dell’80%. Ciò significa che tra due anni in Bosnia Erzegovina e in altri paesi della regione il roaming verrà probabilmente abolito, come già avvenuto nei paesi membri dell’UE”.

In un’altra occasione, sempre nei giorni scorsi, Dodik ha dichiarato: “Non ho tempo da perdere. Se entro un anno al massimo non dovessi riuscire, insieme ad altri colleghi della Presidenza, a riportare la Bosnia Erzegovina, ormai diretta verso l’autodistruzione, sulla strada giusta, lascerò la Presidenza e tornerò a Banja Luka, anche se tutto dovesse crollare”.

La Bosnia Erzegovina è un paese strano, probabilmente il paese più strano d’Europa. Un paese dove, stando alle statistiche, la spesa media mensile delle famiglie ammonta a circa 1000 euro, mentre lo stipendio medio mensile è inferiore ai 500 euro.

Un paese che non smette mai di stupire: il prezzo del gas è superiore addirittura del 30% rispetto alla media europea, e fare la spesa a Sarajevo costa quanto, ad esempio, a Trieste o a Berlino. Anche le bollette telefoniche superano la media europea, ma non sono le autorità competenti né tanto meno gli operatori telefonici a decidere le tariffe bensì, a quanto pare, la Presidenza del paese.

Se a tutto questo aggiungiamo il fatto che alcuni operatori via cavo e provider internet accettano esclusivamente pagamenti in contanti, e che queste somme di solito non vengono dichiarate al fisco, possiamo immaginare attraverso quali canali passa e dove finisce questo denaro: nelle tasche di chi tollera l’evasione fiscale o da qualche parte all’estero.


Ma finalmente le maschere sono cadute. Gli operatori telefonici sono una delle armi più potenti nelle mani dei partiti di governo. La scelta delle persone a cui affidare le posizioni chiave nel settore delle telecomunicazioni non viene effettuata secondo i criteri di competenza e professionalità, bensì secondo dettami prettamente politici, e non sembrano esistere strumenti in grado di proteggere i cittadini dai furti delle compagnie telefoniche.

Resta da vedere se l’accordo regionale sul roaming sarà effettivamente firmato, come annunciato, al secondo Summit digitale dei Balcani occidentali che si terrà a Belgrado il 4 e 5 aprile prossimi, ma ci si augura che ciò accada.

Perché la firma di questo accordo dimostrerebbe in modo inequivocabile la volontà di implementare l’agenda digitale europea e aprirebbe la strada ai negoziati sulla riduzione dei costi del roaming tra l’UE e i Balcani occidentali. E i cittadini “percepiranno molto presto i benefici derivanti dall’accordo”, almeno stando alle parole di Pranvera Kastrati, esperta del Consiglio regionale di cooperazione  . “In parole povere, i cittadini dei Balcani occidentali telefoneranno di più, navigheranno su Internet di più, invieranno più messaggi, e pagheranno di meno”, ha dichiarato la Kastrati.

Proprio quando è sembrato che fossero state raggiunte le condizioni per la firma dell’accordo, è stato reso noto che l’accordo sarà firmato con riserva, senza però precisare che cosa questo potrebbe effettivamente implicare. Tuttavia, sapendo come funzionano le cose in Bosnia Erzegovina, non vi è dubbio che la riduzione dei costi del roaming sarà un processo lento. Perché i cittadini bosniaco-erzegovesi si sono ormai abituati al fatto che lo stato faccia pagare loro tutte quelle cose che nell’Unione europea sono gratuite o quasi.

La leadership al potere in Bosnia Erzegovina non deve preoccuparsi della possibilità che nel paese si verifichino disordini sociali o una rivolta organizzata, perché i cittadini continueranno a interpretare le vicende politiche in chiave identitaria, prestando più attenzione all’appartenenza etno-nazionale dei leader politici che alle loro azioni.

Per molti cittadini bosniaco-erzegovesi l’Europa resterà ancora per molto tempo una destinazione lontana. Della quale continueranno a parlare, a prescindere dal costo delle telefonate, con i loro amici e cugini che negli ultimi anni se ne sono andati in centinaia di migliaia dalla Bosnia Erzegovina, e che continuano ad andarsene.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 13, 2019, 20:24:37 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Cecenia/Cecenia-i-taxi-l-Islam-e-l-indipendenza-193308

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Cecenia: i taxi, l'Islam e l'indipendenza

Presto le donne cecene potranno usufruire di taxi guidati da donne e per sole donne. Un'iniziativa sponsorizzata da un fondo d'investimento arabo che ha provocato reazioni molto diverse tra loro

13/03/2019 -  Marat Iliyasov
L'iniziativa di avviare in Cecenia un nuovo servizio di taxi esclusivamente per donne, annunciata pochi giorni prima dell'8 marzo, la festa delle donne, ha suscitato più attenzione all'estero che nella Cecenia stessa. La reazione più diffusa tra i cittadini ceceni è stata quella del ritenerla una notizia insignificante. Il dibattito sui social network è morto sul nascere.

“Sì, ne ho sentito parlare. Un'iniziativa positiva, siamo sulla strada giusta”, ha dichiarato un quarantenne della capitale, per poi cambiare rapidamente discorso. Né per lui né per altri è certamente una breaking news. L'iniziativa sembra normale e tempestiva: in Cecenia molti ritengono infatti che dovrebbe esistere un servizio di trasporto per sole donne.

Anche tra le donne l'iniziativa è vista in modo positivo. “È tutto estremamente logico. È un passo a favore delle donne, per la loro comodità e sicurezza...”, afferma un'utente di Instagram commentando la notizia  . Anche una studentessa di una scuola religiosa a Grozny, intervistata da Caucasian Knot  , sostiene questa nuova iniziativa imprenditoriale. “Al giorno d'oggi molte donne studiano l'Islam nelle scuole religiose e, secondo quanto prescrive la nostra religione, una donna non può stare da sola con un uomo sconosciuto. Ritengo che saranno in molte ad usufruire di questo servizio tra le studentesse delle scuole religiose”.

“Più concorrenza - è il commento di un tassista della capitale Grozny – come se ce ne fosse stato bisogno. Le donne se ne stanno già separate dagli uomini. Se una donna prende un taxi, ed è un taxi condiviso, nessuno siede al suo fianco o in ogni caso sul sedile posteriore o – a seconda dei casi – anteriore. Insomma, se ne stanno separati”.

Solo lo status quo
L'avvio di un nuovo servizio destinato esclusivamente a donne è sembrato ad alcuni avesse implicazioni politiche. Fin dall'ascesa al potere di Ramzan Kadyrov la Cecenia è stata etichettata come una zona del tutto particolare della Federazione Russa. Giornalisti ed analisti ripetono spesso che la repubblica sia diventata più indipendente di quanto Dzhokhar Dudayev (leader della Cecenia indipendente tra il 1991 e il 1994) abbia mai sognato  . Esperti internazionali arrivano ad affermare che la Cecenia è un vero e proprio stato  (o stato islamico) all'interno della Federazione russa e sottolineano che le leggi russe non vengono rispettate sul suo territorio  . È in ogni caso una situazione molto tesa dal punto di vista politico dove anche un'iniziativa come quella dei taxi per sole donne può contribuire all'immagine di una repubblica che non agisce all'interno della cornice legale della Russia.

Ma la realtà delle cose potrebbe essere politicamente più neutra. È cosa nota che l'identità religiosa è particolarmente forte nel Caucaso del nord e che in molti prediligono le norme dell'Islam a quelle secolari. Qualcuno ricorderà che nei primi anni '90 l'allora presidente dell'Inguscezia Ruslan Aushev propose di legalizzare la poligamia. In analogia con la recente iniziativa dei taxi al femminile la notizia fece da innesco ad una discussione se la proposta fosse connotata politicamente o meno e quanto andasse a sottolineare la differenza in termini di normativa tra il territorio dell'Inguscezia e quello della Federazione russa. Ai tempi, del resto, l'élite politica russa era preoccupata che l'Inguscezia potesse seguire la Cecenia nella richiesta di piena indipendenza politica.

Ma oggi come allora queste due notizie non erano connotate da questa chiave politica. L'iniziativa del leader inguscio intendeva solo legalizzare ciò che era di fatto lo status quo. Infatti, come in altre repubbliche popolate da musulmani nell'ex-Unione sovietica, in Inguscezia vi erano casi di poligamia, nonostante fosse proibita dalla legislazione sovietica.

Logica conseguenza
Allo stesso modo è probabile che anche l'iniziativa dei taxi al femminile non sia connotata di un gran significato politico. Verrebbe da dire che non è necessario. La Cecenia di oggi infatti non si batte più per ottenere un'indipendenza politica formale. Questa repubblica sta seguendo un cammino tutto suo fatto di un mix di tradizioni locali, tradizioni islamiche e leggi russe. E pare che a Mosca tutto questo vada bene.

Per questo l'iniziativa non è altro che un ulteriore passo della progressiva islamizzazione della Cecenia, che sempre vede come primo obbiettivo le donne. Alla fine degli anni '90 in Cecenia correnti wahabite iniziarono a spingere per imporre nuove regole volte ad impedire l'apparizione in pubblico di donne senza velo. Kadyrov-junior ai tempi concordava sul fatto che nuove norme sulle regole di abbigliamento dovessero essere introdotte ed iniziò a mettere in pratica attivamente la cosa un decennio dopo, tra il 2010 e il 2011. Come? Invece di applicare controlli sui trasporti pubblici e multare le donne che non portavano il velo nella Cecenia di Kadyrov le donne senza velo venivano “cacciate” sparando loro, da parte delle forze di sicurezza associate al leader del paese, pallini di paintball  .

Nei fatti l'islamizzazione della Cecenia è proceduta rapidamente. Oggi le donne cecene sono private di gran parte dei loro diritti. Basti pensare alla ancor ampia diffusione del delitto d'onore e le moltissime vittime di violenze domestiche.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 13, 2019, 20:26:14 pm
http://www.eastjournal.net/archives/96566

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RUSSIA: Manifestazione a Mosca per la libertà di internet
David Finotti  1 giorno fa

Lo scorso 10 marzo circa 15 mila persone si sono radunate in piazza a Mosca per protestare contro un disegno legge volto a riformare il modo in cui internet viene erogato in Russia. Sono stati arrestati quindici manifestanti nella capitale, mentre si sono svolte delle proteste di minore entità a Voronezh, Khabarovsk e San Pietroburgo.

La “Cortina di ferro” di internet

La cosiddetta “legge di sovranità digitale”, approvata in prima lettura a febbraio nella Duma, prevede l’obbligo per le compagnie di telecomunicazione russe di far passare il traffico internet esclusivamente attraverso router approvati dal ministero per le telecomunicazioni. Lo scopo dichiarato della legge sarebbe quello di ridurre la dipendenza informatica dagli Stati Uniti e rafforzare la sicurezza digitale della Russia. La seconda lettura è prevista per marzo, dopodiché passerà al vaglio della Camera alta del parlamento per essere infine firmata dal presidente Vladimir Putin.

Per gli oppositori di questa proposta di legge, si tratterebbe di un’ulteriore strategia per controllare e censurare i movimenti dell’opposizione in rete. Se approvata, infatti, la legge renderebbe inefficaci i cosiddetti VPN (Virtual Private Network) usati per navigare in modo anonimo su internet e per questo molto utilizzati per aggirare la censura.

I precedenti

Negli ultimi anni, il governo russo ha approvato misure che aumentano il proprio controllo su internet. Nel maggio del 2018 era stata annunciata la chiusura del servizio di messaggistica Telegram, dopo che la società si era rifiutata di fornire le chiavi per la decrittazione di messaggi al servizio di intelligence FSB. Circa 7.000 persone avevano risposto manifestando il proprio dissenso e spingendo il governo a sospendere la chiusura di Telegram.

Inoltre, lo scorso 7 marzo sono state approvate due leggi che prevedono multe per chi diffonde in rete “contenuti che insultano la società e lo Stato” e fake news che “provocano la morte o ledono la salute di una persona e minacciano la stabilità sociale”. L’inedito potere delle due leggi deriva dall’autorità, data direttamente ai procuratori, di stabilire l’adeguatezza e l’accuratezza degli articoli.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 15, 2019, 19:23:06 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Sviluppo-regionale-in-Romania-c-e-chi-fa-miracoli-193351

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Sviluppo regionale in Romania: c'è chi fa miracoli...

Da sei anni un ampio programma di sviluppo rurale ha assorbito dieci miliardi di euro dal bilancio nazionale. Ma i villaggi restano nel fango ed i loro abitanti in miseria. Un'inchiesta di Recorder.ro

14/03/2019 -  Alex Nedea,    David Muntean
(Pubblicato originariamente su Recorder  il 7 marzo 2019, selezionato da LcB  e OBCT)

Sâmbăta Nouă è un villaggio isolato della contea di Tulcea dove tutto sembra sul punto di crollare. Qui qualche centinaia di abitanti vivono ai limiti della sussistenza, come del resto milioni d'altri in molti villaggi della Romania. Nel mezzo degli edifici fatiscenti se ne erge uno dall'aspetto del tutto anomalo: una grande villa a due piani circondata da un'alta recinzione. È la casa del prete Mădălin Iscru che, da due anni, veglia sulla comunità. La sua autovettura – una Volvo XC90 del valore di circa 60.000 euro, è parcheggiata al fianco di quella della moglie, una Mercedes GLE350 del valore di poco inferiore, circa 45.000 euro.


Mădălin Iscru non è solo un servitore di Dio. Quando dismette la tunica diviene un uomo d'affari le cui relazioni arrivano sino ai vertici dello stato. La sua ricchezza non è solo legata a Sâmbăta Nouă ma a tutti i villaggi della Romania. Ha trovato una buona ricetta – o in altri termini una vacca da mungere – nel principale programma nazionale di modernizzazione dei villaggi rumeni.

Dieci miliardi di euro per far uscire i villaggi dal fango: questo era l'obiettivo che si proponeva il Programma nazionale di sviluppo locale (PNDL) quando venne istituito per decreto nel 2013 dal governo social-democratico di Victor Ponta. Risorse finanziarie tolte ai progetti legati alle grandi infrastrutture, come ad esempio dalla rete ferroviaria che sta cadendo in rovina. Il suo inventore: Liviu Dragnea, attualmente a capo del Partito social-democratico (PSD) che, dopo aver trascorso anni all'ombra di Ponta, è dal 2016 al timone. “Il PNDL è il più rilevante programma di sviluppo dopo la rivoluzione, e il più coraggioso, è un programma che mi è molto caro”, dichiarava a quei tempi durante un incontro del Psd. “L'ho creato io assieme a Sevil Shhaideh”. Quest'ultima è l'ex ministra per lo Sviluppo regionale. È questo il ministero incaricato di distribuire i 10 miliardi di euro ai comuni dell'intera Romania. Risorse destinate a pagare le aziende impegnate nella modernizzazione delle infrastrutture dei villaggi. Ma, in realtà, serve come paravento per un grande furto.


Durante l'estate del 2018 Mădălin Iscru venne nominato consigliere presso il ministero dello Sviluppo regionale sotto la supervisione diretta del ministro Paul Stănescu, barone dei Socialdemocratici dell’Olt e vice-primo ministro (incarico nel frattempo che gli è stato revocato da parte di Liviu Dragnea a seguito di un rimescolamento delle carte in seno al Psd). Qualche settimana dopo il prete divenne proprietario dell'azienda Hercinic SRL, un ex negozio di quartiere che ha sede in un appartamento: nessun dipendente, nessun fatturato, nessuna esperienza nel ramo delle costruzioni. Ciononostante il ministero per lo Sviluppo regionale ha immediatamente iniziato ad allocare fondi all'azienda di Mădălin Iscru attraverso l'intermediazione dei sindaci dei villaggi. Ha ricevuto fondi per la ristrutturazione di scuole, ambulatori medici, centri culturali. In quattro mesi ha ottenuto 130 contratti pubblici. Un record: Hercinic SRL occupa il primo posto all'interno del Sistema elettronico di acquisizioni pubbliche (SEAP), davanti a giganti dell'economia reale come OMV Petrom, Telekom, Selgros, Dedeman...

Drenaggio organizzato di fondi pubblici
Per capire come Hercinic SRL ha potuto racimolare 130 contratti in 4 mesi ci siamo recati nel comune di Gârliciu, nella contea di Costanza. Il sindaco, Constantin Cinpoiașu, desiderava far costruire un campo sportivo per i bambini del villaggio. Ed è l'azienda di Mădălin Iscru ad aver ottenuto il contratto. Di fatto Hercinic SRL si è vista attribuire in pochi minuti più contratti dalla municipalità di Gârliciu per un totale di 300.000 euro. Perché il sindaco Constantin Cinpoiașu ha scelto proprio quest'azienda? “Come l'abbiamo scelta?...”, ripete il sindaco imbarazzato dalla domanda. “Eh, dal SEAP. È così che l'azienda è stata selezionata”. Cosa aveva quest'azienda in più delle altre? “La serietà!”. E mentre Recorder.ro mostrava al sindaco che Hercinic SRL non aveva alcun dipendente né fatturato l'imbarazzo cresceva. “L'azienda non ha dipendenti...?”. Non lo sapeva? “Chiediamo alla segretaria”.

In Romania contratti pubblici possono essere assegnati ad un'azienda privata in due modi: con appalto o assegnazione diretta. Per quanto riguarda l'assegnazione diretta il totale del contratto deve essere inferiore ai 100.000 euro. Il vantaggio è che l'ente pubblico può scegliere in modo più agile l'azienda con cui intende lavorare. Il comune di Gârliciu intendeva costruire dei marciapiedi nel villaggio. Ma la somma del progetto superava i 100.000 euro e, affinché ottenesse il contratto la Hercinic SRL, venne diviso in due contratti distinti, ciascuno inferiore al limite dei 100.000 euro. Recorder.ro ha chiesto al sindaco Constantin Cinpoiașu quale fosse la differenza tra i due contratti. “Sono due contratti per il miglioramento del traffico a piedi”, ha risposto. Ma quale la logica della divisione? Il sindaco non sapeva che rispondere ed ha messo in calcio d'angolo.

Dividere i progetti in più contratti inferiori ai 100.000 euro è una pratica che avviene in tutto il paese. Il programma PNDL è stato concepito in modo che questa modalità operativa si sia potuta diffondere in modo incontrollabile.

Una rete di vassallaggi
Il sindaco di Ciochina, nella contea di Ialomița, ha ricevuto 400.000 euro dal ministero dello Sviluppo regionale per ristrutturare tre asili d'infanzia del comune. È Mădălin Iscru, ancora lui, ad avere ottenuto il contratto tramite un'altra società che controlla e che, come la Hercinic SRL, è “abbonata” al PNDL. I lavori sono terminati tre mesi fa. Il risultato è spaventoso.

Questi rubinetti sono nuovi? “Si”, risponde una dipendente. Sono già rovinati dopo solo tre mesi. “Sono di cattivo materiale”. Il sindaco Vasile Câmpulungeanu spiega cosa è stato ristrutturato: “Sono state tinte le pareti, questo muro è stato rifatto...”. Ma la stanza è in uno stato pietoso come se di ristrutturazione non ve ne fosse mai stata. Un interruttore non funziona, l'intonaco si stacca, nel muro vi sono crepe, il mobilio, di pessima qualità, ha già bisogno di riparazioni. “La ditta non aveva molto tempo...”, spiega il sindaco con un sorriso imbarazzato. “Mi hanno detto che quando arriverà primavera e quando il tempo lo permetterà ritorneranno a riparare tutto”.

Il rubinetto gocciola, l'interruttore è bloccato, i mobili rotti... e questo non significa che sono stati pagati poco. Recorder.ro ha ottenuto i prezzi applicati dall'azienda del prete Mădălin Iscru per la ristrutturazione degli asili d'infanzia: il prezzo per la manodopera, 9 volte superiore al prezzo di mercato; per 100 metri quadri di piastrelle Mădălin Iscru ha chiesto 4 volte il prezzo di mercato; per 1 m² di parquet, 8 volte il prezzo di mercato... quando gli viene fatto notare che per 100.000 euro si sarebbe potuto costruire un nuovo asilo Vasile Câmpulungeanu dimostra nuovo imbarazzo. E finisce per parlare a mezze parole.

Come ha selezionato quest'azienda? “Con... una telefonata. 'Qualcuno vi aiuterà per quel vostro progetto di ristrutturazione degli asili nel vostro comune'”. Una telefonata ricevuta da dove? “Eh... dal centro”. Dal partito?. “Centrale”, risponde il sindaco con un sorriso. Del partito al potere? “Si”. Temeva di perdere i fondi ministeriali se non avesse sottoscritto il contratto con l'azienda che le era stata segnalata? “Si, ci avrebbero accusati di non essere in grado di attirare i fondi a disposizione”. Alla fine il sindaco ammette di essersi pentito di aver accettato il contratto con l'azienda di Mădălin Iscru, ma che non aveva altra scelta: gli è stato detto che se non firmava con il prete non avrebbe ricevuto alcun fondo dal ministero. Una minaccia alla quale dice di essersi piegato per il bene dei bambini.

L’influenza di Mădălin Iscru deriva direttamente dal governo rumeno. Nell'autunno del 2018, quando ha sottoscritto il contratto per la “ristrutturazione” degli asili di infanzia a Ciochina, il prete era già consigliere presso il ministero per lo Sviluppo regionale, che concede i fondi. E mentre attingeva ai soldi del ministero, il prete ha nascosto nella sua dichiarazione dei redditi di essere amministratore della sua azienda. Un sindaco che ha accompagnato Mădălin Iscru al ministero e che si è ritrovato nella stessa situazione di Vasile Câmpulungeanu nell'essere obbligato a siglare i contratti con la Hercinic SRL ha dichiarato a Recorder.ro, sotto condizione di anonimato: “Mădălin Iscru ruba denaro utilizzando le firme dei sindaci”, e assicura di averlo detto anche in faccia al prete. Va notato che non è detto che Mădălin Iscru sia necessariamente il destinatario finale di questa presunzione di sottrazione di fondi pubblici.

Recorder.ro ha tentato di scoprire se colui il quale all'epoca ricopriva la carica di ministro dello Sviluppo regionale, Paul Stănescu, fosse a conoscenza di ciò che faceva il suo “consulente” e quali fossero i motivi reali del suo impiego presso il ministero. Interrogato in merito davanti al Palazzo del Popolo, sede del parlamento rumeno, Paul Stănescu ha risposto: “Assumo chiunque ritengo di avere la necessità di assumere”, prima di entrare nella sua vettura di servizio.

Altân Tepe è un villaggio dove vivono 200 persone dimenticate ai confini della contea di Tulcea. Qui l'ampiezza dei problemi è tale che le falle nel sistema di cui siamo stati testimoni sembrano avere meno importanza che altrove. “Ah mio caro, qui vedete il Medioevo, gli edifici stanno cadendo in rovina e tutti se ne fregano”, denuncia un'abitante. “Guardi questa crepa, se tocco, cade tutto... se vi è un terremoto cade tutto giù. Questi edifici vanno ristrutturati”. Molti appartamenti sono abbandonati. La gente se ne è andata. Alcuni servono solo come deposito per la legna. “Non abbiamo più un riscaldamento centrale. Quando la miniera funzionava ancora ce l'avevamo. Allora ci siamo arrangiati con delle stufette”. Comignoli di fortuna escono dalle finestre... la povertà grida vendetta ma le priorità dell'amministrazione locale sembrano non avere nulla a che fare con i bisogni degli abitanti.

Altân Tepe fa parte del comune di Stejaru. L’anno scorso il sindaco Nicolae Gioga ha firmato un contratto di 100.000 euro per installare “un'illuminazione pubblica intelligente”. Il contraente: Mădălin Iscru e la sua azienda. I fondi sono stati trasferiti al comune tramite il PNDL ma nessuno al ministero ha controllato di quanti lampioni avesse bisogno Altân Tepe. Il villaggio è costituito da poche vie... Abbiamo verificato: sono state installate 46 “lampadine intelligenti” per 100.000 euro, cioè 2173 euro a lampadina il cui prezzo unitario è, sul mercato, di circa 50 euro. U prezzo gonfiato quindi 40 volte.

“Sarebbe stato meglio fare dei tetti agli edifici piuttosto che questi lampioni”, afferma un abitante dopo essere venuto a conoscenza dell'ammontare speso per il progetto di illuminazione pubblica. “Perché hanno installato queste lampadine? Perché si vedano i fantasmi vagare? La verità è che lassù in alto accade di tutto e che siamo troppo piccoli per questa battaglia”.

Il sindaco è assente, il vice malato
Recoder.ro ha sollecitato il municipio di Stejaru per capire come sono stati spesi i fondi del Programma di sviluppo locali per il progetto di illuminazione pubblica ma non ha ottenuto alcune risposta. Dopo due settimane Recorder.ro è tornato sul posto ma sindaco e vice-sindaco erano assenti. “Dovrebbe arrivare presto, ci ho parlato stamattina, mi ha detto che sarebbe arrivato”, assicura un'impiegata comunale. Poi più tardi: “dice che non può venire, è a Tulcea per degli incontri”. E il vice-sindaco? Lei lo chiama e gli dice che ci sono dei giornalisti che desiderano fargli alcune domande. “È malato”, riporta lei.

Recorder.ro ha scritto a 20 comuni delle contee di Tulcea, Constanța, Brăila, Buzău, Vrancea e Mureș richiedendo documentazione pubblica per giustificare ciò che il “consulente” Mădălin Iscru ha fatto con i soldi ricevuti dal ministero dello Sviluppo regionale. Nessuna risposta.

Ritorniamo alla chiesa di Sâmbăta Nouă dove il prete ha tenuto messa. “Possa Dio avere pietà, che Gesù sia con tutti voi. Dio fa sorgere il sole su coloro i quali fanno il bene e quelli che fanno il male; fa cadere la pioggia sui giusti e sugli ingiusti, aiuta tutti senza distinzioni”, intona davanti ai fedeli.

All'uscita della messa proviamo a porgli delle domande. “Vi ho invitati alla mia tavola, non avete accettato, mi spiace, non rispondo alle vostre domande”, risponde lui. “A seconda di come vi comporterete vi risponderò forse un'altra volta, va bene?”, sottolinea con un tono paternalista al quale sembra essere abituato.

- “Vogliamo solo sapere come si fa a costituire un'azienda fantasma e poi ottenere 130 contratti pubblici in pochi mesi”

- “È un'opinione vostra noi non abbiamo...”, si difende il prete

- “È un miracolo incredibile”

- “Dio fa dei miracoli. È per questo che noi siamo suoi servitori, perché ci ama e fa dei miracoli”

Dio sembra effettivamente aver fatto dei miracoli con il denaro dei contribuenti. Un abitante di Sâmbăta Nouă ce lo spiega: “Il Psd compera 70 lei di gessi che ne costano 1. È così il Psd. È così la Romania”, spiega. Il miracolo è tale che Viorica Dăncilă, primo ministro e portavoce di Liviu Dragnea, ha annunciato un «PNDL 2», quindi altri 10 miliardi di euro per lo sviluppo regionale. 10 miliardi di euro per le tasche di qualcuno e per spingere ancor più i villaggi rumeni nel fango.

 
Post-scriptum: dopo l'inchiesta di Recorder.ro la Direzione nazionale anti-corruzione DNA ha aperto un'inchiesta sul “Dio dei contratti”
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 20, 2019, 19:03:46 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Giorni-difficili-per-il-giornalismo-croato-193519

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Giorni difficili per il giornalismo croato

Mentre la Croazia si avvicina gradualmente ad assumere il semestre di presidenza del Consiglio Ue, nel gennaio 2020, Zagabria registra un record negativo: è l’unico paese europeo in cui la TV pubblica fa causa ai suoi dipendenti

20/03/2019 -  Giovanni Vale   Zagabria
"Chi scrive contro la Croazia dovrebbe ricevere un proiettile in testa", ha detto un tassista di Zagabria alla giornalista Gordana Grgas di Jutarnji List. "Morte ai giornalisti", si legge su un graffito apparso pochi giorni fa di fronte alla redazione della televisione N1 e dei portali Telegram.hr e Net.hr. Una scritta identica è spuntata a poca distanza, in un’altra via del centro della capitale croata.

Questo mese di marzo ha registrato diversi segnali preoccupanti per lo stato di salute della libertà di espressione in Croazia. E questi sono solo alcuni degli esempi. Cosa sta succedendo al mondo del giornalismo nell’ultimo stato membro dell’Unione europea? Assistiamo forse al deterioramento di una libertà fondamentale, nel momento in cui Zagabria sta per assumere la presidenza del Consiglio dell’UE il prossimo primo gennaio 2020?

"Lavoriamo in un clima di minacce"
La vicenda riportata da Gordana Grgas e il caso dei graffiti sono sintomatici di un’atmosfera generale, che vede la figura del giornalista diventare sempre meno popolare. Un fenomeno che non è appannaggio esclusivo della Croazia, ma contro il quale l’Associazione dei giornalisti croati (HND) ha più volte puntato il dito. "È un’altra prova del clima di minacce in cui lavorano giornalisti e media", spiega Hrvoje Zovko, presidente dell’HND.

"Da tempo, avvertiamo che la libertà dei giornalisti e dei media è in pericolo in Croazia", prosegue Zovko, che si chiede: "Chissà se anche dopo queste minacce, il premier Andrej Plenković continuerà a sostenere che le valutazioni sul peggioramento della libertà di espressione in Croazia sono ridicole". "Perché in realtà ciò che è ridicolo per il premier, non lo è per nessun altro", conclude il presidente dell’HND.

La polizia sta ancora investigando sulle scritte apparse nei pressi delle redazioni dei giornali, mentre contro il tassista incontrato da Gordana Grgas è già stata aperta un’inchiesta. Nel frattempo, la App estone Bolt (nota in precedenza con il nome di Taxify), per la quale lavorava il tassista, ha immediatamente sospeso il profilo del guidatore, prendendo ufficialmente le distanze dal suo comportamento.

Cause temerarie e poliziotti nelle redazioni
Sintomatici di una situazione più generale, i recenti incidenti si iscrivono in un contesto difficile per il giornalismo croato. A inizio mese, l’Associazione dei giornalisti croati è scesa in piazza per protestare contro la pratica diffusa delle cause temerarie (oltre mille manifestanti). Ad oggi, l’HND conta 1163 processi in corso contro giornalisti e media: la causa per diffamazione è diventata un modo per far pressione sui reporter.

Nella guerra della cause, un ruolo particolare è svolto dalla televisione pubblica, HRT, che ha fatto causa a 35 giornalisti  , anche tra i suoi stessi dipendenti. L’importo che la HRT esige dalle persone e dai giornali citati in giudizio ammonta ad oltre 2 milioni di kune (quasi 300mila euro), un importo non in linea con quanto stabilito di recente della Corte europea dei diritti dell’uomo  , contraria alle richieste di risarcimento eccessive.

La televisione pubblica se la prende con quei giornalisti che denunciano «un clima di censura» e delle «pressioni politiche» in seno alla HRT, reagendo appunto con delle cause per diffamazione. Per tutta risposta, una trentina di associazioni hanno decretato un boicottaggio della HRT, rifiutandosi di invitarne i giornalisti alle proprie conferenze stampa. L’Unione europea di radiodiffusione (EBU) ha criticato questa decisione  .

Ma la HRT non è l’unico ente pubblico ad abusare delle cause per diffamazione. La stessa Università di Zagabria ha citato in giudizio diversi media, così come hanno fatto alcuni giudici. Si tratta di una pratica non nuova, ma che si è accentuata a partire dal 2013, quando è stato introdotto il nuovo reato di “shaming”, che allarga il ventaglio delle possibilità per cui si può fare causa a un giornalista.

Inoltre, ciò che ha sorpreso in questo mese di marzo, oltre al numero vertiginoso dei processi in corso, è anche il fatto che la polizia croata sia entrata nella sede di un portale (Net.hr) per verificare l’identità e l’indirizzo di una giornalista contro cui un politico aveva fatto causa per diffamazione. Al proposito, è intervenuto anche Harlem Désir, il Rappresentante per la libertà dei media presso l’OSCE. "Sono preoccupato per la visita della polizia al portale Net.hr […] Questo fatto può essere visto come una pressione nei confronti dei giornalisti e non deve diventare una prassi", ha dichiarato Désir su Twitter  . Il Rappresentante dell’OSCE ha commentato anche il caso della HRT, invitando i vertici della TV pubblica a "un dialogo costruttivo e al di fuori dei tribunali con i giornalisti al fine di risolvere le dispute in corso".

Tentativi di dialogo e attenzione internazionale
Harlem Désir si è rallegrato del fatto che la HRT abbia effettivamente iniziato un processo di discussione con le altre parti in causa per arrivare ad una risoluzione extra giudiziaria dei contenziosi. Per il momento, questa pratica non è però stata iniziata con tutti i media e giornalisti citati in giudizio. In particolare, rimane il nodo delle cause fatte da HRT nei confronti di Hrvoje Zovko e dell’Associazione dei giornalisti.

Il problema delle cause temerarie è nel frattempo arrivato al Consiglio d’Europa  (COE), al quale la Federazione europea dei giornalisti (EFJ) ha segnalato la possibile minaccia alla libertà di espressione. La stessa EFJ ha pubblicato a metà marzo un comunicato duro  in cui interpella direttamente il premier croato Andrej Plenković e gli chiede se ritiene «normale» la situazione nel paese.

In patria, l’esecutivo ha fino ad ora respinto le lamentele dei giornalisti croati, parlando di «esagerazioni» sia per quanto riguarda le denunce di censura e di pressioni politiche in seno alla HRT, sia per quanto concerne il generale peggioramento della libertà di espressione nel paese. "Non vedo in questo paese alcun problema con i media", ha dichiarato il Primo ministro croato a inizio marzo  .

Con l’avvicinarsi del semestre europeo, tuttavia, c’è da sperare che il governo croato prenda più sul serio le preoccupazioni dei giornalisti e in particolare la crisi in corso tra l’Associazione dei giornalisti e la televisione pubblica. Come hanno fatto notare diversi osservatori internazionali, la Croazia registra in questo momento un record: è l’unico paese europeo in cui la TV pubblica fa causa ai propri dipendenti.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 27, 2019, 20:41:01 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Romania-i-cementifici-ed-il-business-dell-importazione-dei-rifiuti-193493

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Romania: i cementifici ed il business dell’importazione dei rifiuti

È un immenso scandalo sanitario ed ambientale quello che minaccia la Romania. I cementifici del paese bruciano rifiuti, spesso importati dall’estero, tra cui vi sarebbero sostanze illegali. Il tutto a spese dei cittadini che si trovano a vivere nel mezzo di fumi tossici. Un'inchiesta dell’Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP)

27/03/2019 -  OCCRP
(Pubblicato originariamente da Organized Crime and Corruption Reporting Project  , tradotto e selezionato da Le Courrier des Balkans  e OBCT)

Fin dall’inizio degli anni Novanta, la Romania ha adottato misure che proibiscono l’importazione di rifiuti destinati ad essere poi depositati nelle discariche pubbliche. Tuttavia, la legge ancora autorizza le aziende ad importare rifiuti nell’ambito di programmi energetici. Così, tutti i cementifici romeni usano rifiuti come combustibile, accanto al carbone.

Chi difende questo nuovo mercato dichiara che questi scambi hanno un impatto positivo sull'ambiente, che vi sarebbero meno emissioni di gas ad effetto serra di quando si ricorre ai combustibili fossili, e che tutto questo fornisce uno sbocco per i rifiuti che la nostra società dei consumi ha difficoltà a smaltire. I cementifici così ne approfittano: invece di pagare per acquistare del carbone, vengono pagati per bruciare rifiuti. Eppure, questa dinamica non è affatto l'operazione a somma zero che alcuni affermano essere.

Il traffico
Il porto di Costanza è il principale punto di accesso dei rifiuti stranieri utilizzati dai cementifici romeni. “La Romania è diventata un luogo allettante per l’immondizia di tutta l’Europa”, spiega Tiberiu Niță, un procuratore. Più di un milione di tonnellate, ossia un quinto dei rifiuti urbani prodotti nel paese, sono bruciate ogni anno nelle fabbriche di cemento, ma nessuno le controlla. Nessuna autorità governativa è incaricata di verificare che tipo di rifiuti vengono bruciati nelle fabbriche.

Tiberiu Niță indaga sul traffico di rifiuti in Romania da parecchi anni. “È diventato un problema enorme e nessuno vi presta attenzione. Eppure, sarebbe così semplice stabilire una normativa a riguardo. Alcuni “uomini d’affari” colgono l’opportunità per ripulire il proprio paese riempiendo la Romania di rifiuti. Quando arrivano alla frontiera, i camion sono belli, i rifiuti imballati in modo appropriato, come se ci inviassero del materiale scolastico”. In realtà, in mezzo ai rifiuti ordinari, vengono nascoste sostanze tossiche.

Le autorità competenti per l’ambiente incontrano grandi difficoltà nella gestione del problema. Alla frontiera romena, Răzvan Huber, ispettore ambientale della Guardia nazionale ambientale riporta la storia di un carico italiano, nel 2016. “Assomigliavano a rifiuti ordinari, ma quando abbiamo aperto i pacchi, abbiamo visto che contenevano rifiuti sanitari, provenienti probabilmente da diversi ospedali”. Questa spedizione era la prima di un contratto che prevedeva l’importazione di 12.000 tonnellate di rifiuti da bruciare nei cementifici romeni.

Chi si nascondeva dietro queste spedizioni? I rifiuti provenivano dall’Italia, ma i documenti ottenuti dall’OCCRP mostrano che sono stati cittadini romeni a negoziare l’affare per conto di un cementificio locale. Tiberiu Găneșanu è uno di questi intermediari romeni. A suo avviso, il carico conteneva solo una percentuale molto bassa di rifiuti sanitari. “Esiste una procedura da seguire quando si prelevano dei campioni: si aprono solo due pacchi”, si giustifica, ritenendo che gli ispettori hanno esagerato la quantità e la tossicità di quei rifiuti “clandestini”. Assicura che i suoi partner italiani sono puliti: “Andate a vedere in Italia. Lì, è così pulito che non vi è alcun odore nemmeno all’interno della fabbrica per il trattamento”.

Sponda italiana
Siamo andati a vedere in Italia. Più precisamente a Peccioli, in Toscana. “Tutti si sono trasferiti. Tutti quelli che hanno un po’ di cervello se ne sono andati”. Mario è un abitante del paese. “Questa zona che stiamo attraversando è costituita di campi dove sono stati scaricati rifiuti industriali”. Il trucco consisteva nello sbarazzarsi dei fanghi tossici dandoli agli agricoltori come concime. Questi ultimi li spargevano sul loro terreno o li sotterravano. Il terreno è contaminato ancor oggi.

L’uomo sospettato di essere dietro questo espediente è Domenico Del Carlo. È lui che si trova dietro la spedizione dei rifiuti sanitari confiscati in Romania nel 2016. Sospettato d’essere legato alla criminalità organizzata, è stato indagato nel 2017 per presunti legami con la Camorra. “Molti uomini d’affari che si occupano di rifiuti sono legati a persone coinvolte in gruppi criminali tipo la Camorra”, spiega Adriano D’Elia, comandante della Guardia di Finanza in Toscana.

Non sono solo i rifiuti sanitari ad essere proibiti. La legge romena proibisce che nei cementifici vengano usati come combustibili tanto i rifiuti radioattivi quanto altri rifiuti patogeni. Per gli pneumatici, le bottiglie di plastica e gli oli esausti, le norme sono leggermente più complesse: questi rifiuti possono essere bruciati se le emissioni sono mantenute sotto un certo livello.

Il combustibile non fossile più usato nei cementifici romeni resta l’immondizia urbana, anche detta, spazzatura. Questi rifiuti possono essere bruciati se sono differenziati e puliti. Nella maggior parte dei paesi europei, affinché i cementifici si occupino di questa operazione, bisogna pagarli parecchie centinaia di euro per tonnellata di immondizia. In Romania, è molto più economico: da 10 a 15 euro per tonnellata. È per questo motivo che il paese è una destinazione privilegiata.

La nostra inchiesta ci porta sulle tracce di un altro italiano, Sergio Gozza. Secondo i carabinieri, tra le 150.000 tonnellate di rifiuti spediti da Sergio Gozza dall’Italia alla Germania tra il 2007 ed il 2010, alcuni rifiuti erano contaminati dall’arsenico. Sergio Gozza aveva usato un laboratorio italiano per falsificare i test sui livelli di arsenico affinché il tasso non superasse il limite legale. Ciò nonostante, ha continuato ad esportare i rifiuti per l’Europa fino al giorno d’oggi.

Secondo la Procura romena, Sergio Gozza ha provato ad inviare 2.000 cargo pieni di rifiuti dall’Italia ai cementifici romeni nel 2013. È anche riuscito a far assumere uno dei suoi soci presso un ministero romeno. Il piano è saltato in aria quando la polizia romena - grazie ad una denuncia - ha intercettato il primo carico di questi 2000. Era pieno di rifiuti urbani italiani che non erano stati differenziati ed erano stati mescolati con altri tipi di rifiuti non elencati nell’inventario relativo alla spedizione. “Se qualcuno non spiffera, riescono ad arrivare, scaricare e ripartire”, spiega il procuratore Tiberiu Niță. Le 2.000 spedizioni di rifiuti di Sergio Gozza erano destinate ad un cementificio appartenente a Holcim Romania, filiale del consorzio svizzero LafargeHolcim. Questa fabbrica può bruciare fino a 300.000 tonnellate di rifiuti all’anno.

In Romania arrivano anche rifiuti provenienti dalla Germania. La Cina è stata a lungo la destinazione privilegiata dei rifiuti tedeschi di “minor valore” ma, dopo l’adozione di una nuova legislazione cinese che bandisce 24 tipi di rifiuti, la Germania si è rivolta alla Romania e alla Bulgaria per trovare uno sbocco per le sue eccedenze. Alcuni camion intercettati alla frontiera dagli ispettori romeni contenevano rifiuti non regolamentari.

A Chișcădaga, nella contea di Hunedoara, in Transilvania, Maius Mangu vive a 200 metri dal cementificio HeidelbergCement, uno dei sette cementifici della Romania. HeidelbergCement (più di 15 miliardi di euro di fatturato all’anno) è il secondo produttore mondiale di cemento dopo LafargeHolcim (22 miliardi di euro di fatturato). Il cementificio brucia all’incirca 200.000 tonnellate di rifiuti all’anno. I camion di Domenico Del Carlo ed i camion tedeschi fermati dagli ispettori romeni erano destinati a questo cementificio.

Le api e gli alberi muoiono
“Sentite questo odore?” chiede Marius Mangu. Effettivamente, è atroce. “Le correnti d’aria arrivano fin qui. In certi periodi dell’anno, questo odore è soffocante, letteralmente. Quando fanno più di 30 gradi, non si riesce a respirare”. Secondo Marius, gli uccelli e le api muoiono e l’acqua che dà ai suoi animali è contaminata. Allo stesso modo, diversi alberi del suo frutteto sono morti. “I ciliegi ed i peschi sono gli alberi più sensibili, muoiono per primi”. Ci mostra l’acqua piovana. “Quest’acqua è stata raccolta ieri sera. Prima la davo da bere agli animali. Visto a cosa assomiglia oggi, non oserei più, ho paura che li faccia ammalare. Bruciano gli pneumatici delle automobili ed i rifiuti, e noi ci ammaliamo.” Le tegole del tuo tetto sono nuove, datano otto mesi, ma sono già mezze annerite. “Bruciano qualsiasi cosa. Siamo la fossa biologica della Romania.”

Per mostrarci la scarsa considerazione di HeidelbergCement per l’ambiente e la legislazione romena, Marius ci accompagna nel bosco vicino al cementificio. Vi sono depositati decine di migliaia di pneumatici. È tanta la gomma che è in attesa d’essere bruciata. Dopo la segnalazione dei giornalisti dell’OCCRP, HeidelbergCement è stato condannato a pagare una multa di 10.000 euro per questo deposito illegale che rischiava di causare un incendio.

Marius non è il solo ad essere preoccupato. “A Chișcădaga si può sentire l’odore dei rifiuti, l’odore di cose in putrefazione, soprattutto in estate”, riporta il sindaco, Mihai Irimie, che è particolarmente preoccupato per via di alcuni picchi di emissione. “Il direttore mi ha assicurato che tutto si svolgeva nei limiti legali e che le emissioni erano sicure in quanto monitorate dal ministero dell’Ambiente.” Ma sarà vero?

Controlli (mancati) e tumori
Georgeta Barabaş è la direttrice dell’Agenzia ambientale regionale della contea. Racconta una versione diversa della storia. “Non abbiamo la possibilità di controllare queste emissioni perché non esiste nessun obbligo legale che vincola lo stato ad effettuare dei controlli. Non ci sono norme per le diossine e furani, e i nostri laboratori non sono attrezzati per controllarli.” Le diossine sono una sostanza altamente tossica prodotta dalla combustione di materie plastiche.

Preoccupato e disilluso, Ionel Circo, pneumologo a Simeria, ha constatato un aumento dei casi di cancro nella regione. “Numerosi studi dimostrano l’influenza delle diossine sui casi di cancro. Le diossine si diffondono attraverso l’aria, l’acqua e le piante. Arrivano nell’organismo con il cibo contaminato. Uno studio sulle conseguenze delle emissioni sugli abitanti che vivono intorno ai cementifici richiederebbe degli specialisti interessati ed un sostegno finanziario, e le conclusioni di certo non fornirebbero alcun vantaggio alle persone al potere. Pertanto, chiudiamo gli occhi e continuiamo”.

Nel 2004, alla Romania sono stati assegnati dei fondi europei per acquistare degli strumenti di controllo delle emissioni, specialmente quelle dei cementifici. Secondo Georgeta Barabaş, le autorità romene hanno comprato le attrezzature ma queste non sono mai state istallate. Dunque, le autorità romene non monitorano le emissioni dei cementifici. La legge, del resto, prevede che i cementifici si debbano autocontrollare. È un compito che tre dei sette cementifici subappaltano ad un’unica impresa: Tehno Instrument.

L’impresa appartiene a Mihai Fâcă. Questo vecchio deputato del Partito socialdemocratico (PSD) è stato il direttore dell’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente fino al 2013 e ha coordinato l’agenzia fino al 2015. All’epoca, aveva già creato la sua impresa di controllo delle emissioni, non ne faceva parte ma suo figlio ne era azionario. “Sappiamo che era l’impresa di Mihai Fâcă ad ottenere i contratti ma che cosa potevamo farci?” domanda Georgeta Barabaş. A suo avviso, è Mihai Fâcă che ha impedito l'istallazione degli strumenti di controllo acquistati con i fondi europei.

I conflitti d’interesse di Mihai Fâcă non si fermano qui, vi ritroviamo infatti Sergio Gozza, il trafficante internazionale di rifiuti: quando i suoi 2.000 carichi illegali sono stati approvati, il nome di Mihai Fâcă figurava sui documenti di autorizzazione. Corruzione ordinaria su piccola scala o crimine organizzato transfrontaliero? Ciò che è certo è che tutti, dai rappresentanti locali all’industria del cemento, traggono beneficio dal “sistema” attuale. Salvo le persone, gli animali, le piante ed i terreni: loro vengono avvelenati.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 29, 2019, 01:21:33 am
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UCRAINA: Chi è Zelensky, il comico che vuole diventare presidente
Claudia Bettiol  12 ore fa

da KIEV – Da comico a presidente, è un attimo. Il candidato alle imminenti elezioni presidenziali ucraine che svetta in testa alla classifica dei sondaggi e delle scommesse elettorali destabilizzando concorrenti e rivali, è un attore, un comico e uno showman a tutto tondo: Volodymyr Zelensky, per gli amici “Ze”, anche conosciuto come il “servitore del popolo”.

Il giovane quarantunenne ucraino aspirante alla carica di presidente dell’Ucraina che porta il nome di Volodymyr Zelensky è un uomo dello spettacolo, un comico e un attore nato, che è riuscito a far carriera e se la cava molto bene anche nel mondo degli affari. Creatore e regista degli studi televisivi Kvartal 95, dal 2003 è legato al canale “1+1”, di proprietà dell’oligarca Igor Kolomoiskiy, noto rivale dell’attuale presidente Petro Porošenko e magnate che sembra celarsi dietro la candidatura del giovane Zelensky.

Zelensky: da presidente in tivù a presidente nella vita reale?

Prima di candidarsi come capo di stato del suo paese, Zelensky ha interpretato il ruolo di presidente in una serie televisiva dal titolo “Il servitore del popolo” (Sluha narodu), prodotta dagli studi Kvartal 95, riscuotendo un enorme successo su YouTube e continuando la sua ascesa anche su Netflix, che ne ha acquistato recentemente i diritti (Servant of the People).

La serie, che ricorda inevitabilmente l’americana House of Cards, si concentra sul personaggio di Vasyl Holoborod’ko (interpretato da Zelensky), un insegnante di storia che viene segretamente filmato mentre lotta contro la corruzione nel suo paese e critica apertamente le autorità. I suoi video diventano virali su YouTube, raccogliendo una marea di visualizzazioni, e il giovane insegnante si ritrova presto vincitore della campagna elettorale e presidente in un baleno. Naturalmente il neo-eletto è un presidente semplice, onesto e vicino al popolo, “uno di noi”.

Ed è proprio questo presidente modello che Zelensky propone oggi ai suoi elettori, candidandosi realmente (e non per finzione) per tentare di cambiare qualcosa in Ucraina. Il comico, proprio come il personaggio televisivo de “Il servitore del popolo”, non ha alcuna esperienza politica, nessun passato da oligarca; la sua campagna elettorale mediatica è povera di contenuti e non ha una vera squadra da presentare insieme al suo partito (Sluha narodu, creato nel marzo 2018 da alcuni collaboratori di Kvartal 95). Eppure il suo carisma e la sua presenza sui social network, con cui comunica e attira sostenitori (soprattutto giovani) si è rivelata a dir poco vincente. In pochissimi mesi Zelensky ha scalato con successo la classifica di qualsiasi sondaggio elettorale, scartando un candidato dopo l’altro e arrivando in cima alla vetta, con un netto distacco dalla ex-favorita Julija Tymošenko e dal presidente in carica Petro Porošenko.

Il segreto del successo

Al contrario degli altri candidati, Zelensky è riuscito non solo a conquistare il sostegno dei giovani, ma anche ad attirare l’attenzione dell’elettorato da est a ovest, a prescindere dal fatto che gli elettori siano parlanti russi o ucraini. Una conquista non indifferente se si pensa alla diatriba linguistica che spacca letteralmente in due il paese, creando non poche tensioni.

Molto popolare tra gli ucraini, Zelensky è praticamente sconosciuto al di fuori dei confini nazionali (Russia esclusa) e questo crea un alone misterioso intorno alla figura del comico, che si dice pronto a governare il proprio popolo e addirittura a negoziare con il presidente Vladimir Putin per porre fine alla guerra nell’est dell’Ucraina e vivere in un paese unito.

La sorprendente popolarità di Zelensky si può attribuire alla voglia di un cambiamento radicale da parte del popolo, che è stato coinvolto fin da subito per redigere con lui il suo programma elettorale, oggi ancora piuttosto vago. Un popolo che sogna un governo senza più oligarchi al potere che continuano a provocare scandali e a regnare in un sistema corrotto e ormai marcio; un sistema dove la rivoluzione di Maidan ha fallito. “Ze” sarebbe questo volto nuovo, un innovatore capace di distruggere il vecchio sistema e instaurare un governo dove possano dominare trasparenza e democrazia.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 01, 2019, 21:04:05 pm
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RUSSIA: L’emancipazione sempre mancata della donna
Matteo Zola  8 ore fa

Il Domostroj, galateo delle botte

“Dagli uomini cattivi nascono più figli maschi”, questo il titolo di un provocatorio articolo a firma di Yaroslav Korobatov apparso sulla Komsomolskaya Pravda, popolare tabloid russo, che ha fatto molto discutere fuori e dentro la Russia. L’articolo prende le mosse da uno studio di Satoshi Kanazawa, controverso psicologo evoluzionista, secondo cui le donne prese a botte godrebbero del vantaggio biologico di poter fare più figli maschi (che sono ovviamente meglio delle femmine) grazie al temperamento del partner. Quanto scritto da Korobatov non nasceva dal caso, quel giorno la Duma aveva approvato una legge per la depenalizzazione della violenza domestica e la stampa nazionale si prodigava nel difenderla in nome dei “valori tradizionali” della società. Sono passati alcuni mesi dall’istituzione di quella legge e, malgrado alcune espressioni di malcontento da parte delle associazioni femministe, la situazione non è cambiata, anche perché attinge ai valori tradizionali della società russa.

E la tradizione della violenza domestica è tutta riassunta in un celebre proverbio russo, “bët, značit ljubit”, se ti picchia vuol dire che ti ama. Un detto che richiama il Domostroj, sorta di galateo russo del XV secolo, volto a istruire il pater familias su come raggiungere la felicità domestica, il quale prescriveva botte alle donne che non dimostravano reverenza e obbedienza al marito. Certo negli ultimi cinque secoli la società russa è mutata e con essa il ruolo della donna che, specialmente in epoca sovietica, ha potuto emanciparsi dalla soggezione al marito. Tuttavia la vita domestica risente ancora del passato e la società russa non ha perso il suo antico carattere patriarcale. Il putinismo non ha fatto che riaffermare questo carattere strizzando l’occhio ai settori più conservatori della società russa tra cui spicca la Chiesa ortodossa.

Delitto senza castigo

Ma quella della depenalizzazione della violenza domestica è una storia tutta moderna. Come spiegato da Laura Luciani, tutto è cominciato nel giugno 2016, quando il governo decise di depenalizzare le percosse a eccezione della violenza domestica per cui invece si stabilì una pena di due anni di detenzione, di fatto equiparandola alla violenza per motivi razziali. Un discrimine volto a proteggere donne e minori che, secondo le stime, sarebbero sempre più vittime di maltrattamenti: ben 26.000 i bambini oggetto di violenza domestica ogni anno, e circa il 25% delle donne.

Tale distinzione non è però piaciuta al clero ortodosso, pronto nell’insorgere rammentando – sacre scritture alla mano – che “un uso ragionevole della punizione corporale è parte essenziale dei diritti che Dio conferisce ai genitori”. Su pressione di gruppi vicini al clero, il governo decise allora di ridurre le pene per violenza domestica a soli quindici giorni di lavori socialmente utili e a una multa di circa 500 euro, derubricando il reato a “violenza privata”, fattispecie in cui viene meno la notitia criminis ed è quindi la vittima a dover raccogliere le prove e sporgere denuncia.

I sostenitori del diritto al pestaggio domestico si sono radunati attorno a Elena Mizulina, deputata nota per le sue controverse leggi contro la “propaganda omosessuale”, che ha redatto una proposta di legge per la depenalizzazione della violenza domestica che prevede che la responsabilità penale si applichi solo se gli episodi di violenza vengono commessi per più di una volta all’anno.

L’emancipazione sempre mancata

Alexandra Kollontaj, rivoluzionaria russa, agitatrice e filosofa, prima donna a ricoprire la carica di ministro, scrisse nel 1921 alcune righe destinate a rimanere nella storia. Sostenitrice del “libero amore” era convinta che il matrimonio fosse un’ulteriore istituzione finalizzata allo sfruttamento e che “la liberazione della donna non può compiersi che attraverso una trasformazione radicale della vita quotidiana […] sulle nuove basi dell’economia comunista”.

Quello che il bolscevismo prometteva era una rivoluzione totale della società e la Kollontaj, consapevole della dimensione economica dell’emancipazione femminile, vedeva nel comunismo una via verso la libertà individuale della donna. Durante il periodo sovietico le donne assursero a ruoli importanti, in anticipo sulle società occidentali, ma i compiti all’interno della famiglia e della coppia restavano ben definiti soprattutto fuori dalle grandi città, in quelle sterminate campagne dove riposa l’eterna anima russa.

Come ricorda Vittorio Filippi, sociologo e docente a Ca’ Foscari, “nonostante le immagini della rabotnica, dell’operaia, venissero riprodotte in dimensioni superiori alla realtà, la liberazione della donna promessa dalla rivoluzione rimase sempre incompiuta, ondivaga e contraddittoria. Già alla fine degli anni Venti l’esaltazione della figura avveniristica della donna-operaio veniva affiancata dalla rivalutazione stalinista della madre eroina con prole numerosa. Poi nel 1968 la nuova legislazione familiare e matrimoniale segnò il trionfo del welfare state e della partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Ma non veniva ridotta l’asimmetria di genere, dato che sulle donne gravavano il lavoro extradomestico e quello domestico”.

La rivoluzione bolscevica non portò fino in fondo il discorso dell’emancipazione femminile lasciando la società russa a metà del guado. Nel 1989, mentre il mondo sovietico si accingeva al crollo, la Pravda scriveva che “la donna deve tornare a casa e non mettere il becco in nient’altro”. La fine della rivoluzione segnava l’ideale ritorno al punto di partenza, al Domostroj e alle regole della tradizione domestica. Un ritorno che molte donne hanno inizialmente accolto come una liberazione, visto che su di loro gravava il doppio fardello del lavoro in fabbrica e in casa, salvo accorgersi presto della necessità dell’indipendenza economica. Oggi, cento anni dopo le dichiarazioni di Alexandra Kollontaj, le donne russe si trovano nel mezzo di un rinascimento patriarcale basato – afferma ancora Filippi – “sui valori pre-socialisti della tradizione ortodossa e nazionalista panrussa” che le vede discriminate tanto nel mondo del lavoro, quanto in quello della politica.

Donne in politica, vetrina del maschio

Si è tuttavia registrato un aumento della presenza delle donne in politica: alla Duma la quota raggiunge il 14% dei parlamentari segnando il risultato più alto di sempre. Questo incremento – nella qualità e nella quantità – della presenza femminile in politica non è però il risultato di una legislazione atta a favorire la parità di genere. Si tratta piuttosto di una mossa tattica da parte di un Cremlino in cerca di nuovi consensi nell’elettorato femminile e di un tentativo di “ripulirsi” dopo i recenti scandali legati alla corruzione: un sondaggio diffuso tra i russi ha mostrato come l’elettorato ritenga le donne più oneste ed efficaci in politica rispetto ai loro omologhi uomini. Ecco allora che per riacquisire credibilità la classe politica ha deciso di aumentare la propria componente femminile. Tuttavia le donne accedono al potere solo quando l’uomo del Cremlino lo consente, e solo se di provata fedeltà e obbedienza. Ecco che la donna in politica è soggetta all’autorità e alla benevolenza del pater patriae replicando le dinamiche patriarcali già presenti nella società.

Diritti negati, lavori proibiti

“Se l’uomo è la testa, la donna è il collo” recita un popolare detto russo. Un proverbio che riconosce il fondamentale ruolo della donna all’interno della famiglia. La domanda tuttavia è: perché è l’uomo a dover essere la testa? La tradizionale subalternità della donna russa nella società e nella famiglia ha fin qui impedito lo sviluppo di un femminismo russo e di una consapevolezza di genere. La recente puntata di Kiosk, programma radiofonico realizzato da Radio Beckwith in collaborazione con la redazione di East Journal, dal titolo “Donne, diritti negati a est“, affronta questa problematica ricordando come, ancora oggi, esista in Russia una lista delle professioni proibite alle donne. Segno di come l’emancipazione della donna sia ancora di là da venire in Russia.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 02, 2019, 23:31:48 pm
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Cronache dalla Romania, tra ernie del disco, gaffe e referendum
Francesco Magno  7 ore fa

da BUCAREST – La primavera sembra aver fatto finalmente capolino tra i Carpazi e il Danubio, riscaldando l’aria e anche il dibattito politico. Il clima più mite e gli alberi nuovamente in fiore, tuttavia, non sembra abbiano apportato grosso giovamento alla salute dei leader socialisti. Mentre scriviamo queste righe, l’immarcescibile Ion Iliescu, l’uomo che avrebbe deciso la morte di Nicolae Ceausescu, si trova sotto i ferri a causa di gravi problemi al cuore. Anche il suo erede alla guida del partito social-democratico (PSD) Liviu Dragnea ha frequentato nelle scorse settimane gli ospedali della capitale, a causa di una ben più banale ernia del disco che lo ha costretto ad interrompere la campagna elettorale. Da buon socialista statalista, Dragnea è stato ovviamente ricoverato in strutture sanitarie private. Niente di sorprendente, per il leader di un partito sedicente social-democratico che ama la nazione e dialoga amabilmente con la chiesa ortodossa. Whitman diceva orgogliosamente che “essendo un uomo, conteneva moltitudini”. Pensava forse a Dragnea e alle sue multiformi ambiguità? Non impossibile. Il leader maximo interrogato sul perché avesse scelto ospedali privati e non pubblici, come gli onesti poveri cittadini da lui tanto osannati, ha orgogliosamente risposto che si trattava di una struttura finanziata al cento per cento da capitale romeno e non straniero. La Romania ha dato i natali all’inventore del teatro dell’assurdo, ma probabilmente delle moltitudini di Dragnea molti romeni farebbero volentieri a meno.

Dacian Ciolos e la sua lotta col comunismo

La situazione non è più rosea dall’altro lato dello schieramento politico, dove il povero Dacian Ciolos, ex primo ministro e leader del neonato partito PLUS, continua a litigare con lo spettro comunista. Dopo essere stato accusato di amicizie pericolose con ex membri della Securitate, Ciolos e i suoi alleati dell’Unione per la Salvezza della Romania (USR) hanno cercato di dimostrare la loro candida verginità proponendo una legge che vieti la diffusione di idee e dottrine marxiste, minacciando i rei con una pena di dieci anni di galera. In Romania il rapporto col regime continua ad essere manicheo; da chi lo osanna ricordandolo nostalgicamente a chi vorrebbe in galera chi ne propaga le idee, nessuno riesce a interiorizzarlo e a digerirlo. Non sembra che la proposta di Ciolos abbia scaldato i cuori della gente, se non di qualche nostalgico che ha puntualmente lanciato pubblici improperi all’indirizzo dell’ex primo ministro, che forse farebbe bene ad accantonare il passato, dove non ha molta fortuna, e ha concentrarsi sul presente.

Chi gestisce la politica estera?

Nel frattempo la sempre puntuale premier Viorica Dancila ha attirato su di sé le luci della ribalta dichiarando che la Romania è pronta a spostare la sua ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, dimenticando tuttavia un piccolo ma fondamentale particolare. Il governo non può prendere decisioni in materie di politica estera senza il consenso del presidente della Repubblica, Klaus Iohannis. Conscia della gaffe, Viorica ha cercato di salvarsi in corner dicendo di esser stata travisata. Qualche giorno prima, in un momento di tenerissima sincerità, Dancila ha dichiarato di leggere sempre durante i suoi discorsi per evitare di dire stupidaggini. Speriamo ardentemente per le sorti del paese che il ghost writer della premier non si dia alla macchia.

Iohannis e il referendum sulla giustizia

Quando non corregge gli strafalcioni della premier, Iohannis si impegna nel suo sport preferito, ossia fare opposizione al governo. Nei giorni scorsi il presidente ha proposto un referendum, da tenersi il 26 maggio in concomitanza con le europee, sulle politiche del governo in materia di giustizia. Il quesito, piuttosto vago e aperto, dovrebbe recitare più o meno così “siete d’accordo con le politiche del governo in materia di giustizia?”; una domanda che definir retorica è eufemistico. Certo è che l’eventuale mix elezioni europee-referendum potrebbe assestare un colpo ben più letale dell’ernia del disco per il povero (si fa per dire) Liviu Dragnea, che nonostante la morfina ha tuonato contro il suo acerrimo nemico Iohannis, definendolo “disperato, ossessionato e terrorizzato”.

Continua la guerra alla Kovesi?

I veri ossessionati e terrorizzati sembrano tuttavia Dragnea e i suoi, che vedono come il fumo negli occhi la possibilità che Laura Codruta Kovesi, ex procuratore della direzione anti-corruzione, possa essere nominata procuratrice capo europea. La settimana scorsa la Kovesi è stata nuovamente interrogata dai giudici che la accusano di abuso d’ufficio, falsa testimonianza e corruzione. Alla Kovesi è stato impedito di lasciare il paese e di parlare con la stampa. Una chiara misura repressiva per ostacolare la sua nomina a Bruxelles. Un fatto gravissimo, chiaramente emblema di un regolamento di conti estremo non degno di un paese europeo. Alcuni commentatori hanno addirittura affermato (esagerando) che la Kovesi potrebbe essere arrestata. A quel punto non basterà la primavera a colorare il grigiore di un paese che sta pericolosamente imboccando la strada dell’autoritarismo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 02, 2019, 23:34:51 pm
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REP. CECA: Il primo paese ex-comunista a riconoscere il matrimonio gay?
Leonardo Benedetti  11 ore fa

Lo scorso 26 marzo il parlamento ceco ha discusso la proposta interpartitica di 46 deputati circa il riconoscimento del matrimonio gay. La nuova legge permetterebbe di superare l’attuale situazione legislativa, andando a colmare quella disparità normativa che a oggi distingue tra matrimonio e unione civile, con la conseguente limitazione di alcuni diritti per le coppie dello stesso sesso. Il voto finale è stato però nuovamente rimandato.

La legislazione attuale

La Repubblica Ceca è uno dei pochi paesi dell’area centro-orientale dell’Europa dove esiste un riconoscimento delle coppie dello stesso sesso sotto forma di unione civile. La società ceca è storicamente aperta, democratica, e tollerante verso le differenze. Anche grazie all’assenza del peso ideologico e politico della religione – il 70% della popolazione ceca si professa ateo – il paese è generalmente tra i più sicuri per le minoranze e ben disposto verso le istanze del mondo LGBT. Manifestazioni come il gay pride si svolgono senza problemi nel paese, dove le relazioni omosessuali sono socialmente accettate molto più che negli stati di confine a forte tradizione cattolica, come la Polonia o la Slovacchia.

La legge attuale risale al 2006 e assicura importanti diritti economici alle coppie dello stesso sesso. In quell’occasione, fu il parlamento a svolgere un ruolo determinante. Le sinistre unite riuscirono a superare il veto del presidente Václav Klaus, e a far approvare dal parlamento il riconoscimento delle unioni civili tra coppie dello stesso sesso, con la conseguente estensione di diritti nella sfera economica e sociale.

A restare fuori dalla legislazione attuale è la questione dell’adozione di minore, che richiedere la totale equiparazione dell’unione civile tra coppie dello stesso sesso al matrimonio eterosessuale. Il nuovo disegno parlamentare si muove proprio in questa direzione.

La proposta di matrimonio

La Repubblica Ceca potrebbe diventare il primo paese ex-comunista a riconoscere pienamente il matrimonio omosessuale. Le società di questi paesi, tradizionalmente poco inclini all’apertura verso i diritti civili, stanno attraversando una nuova ondata conservatrice. Se in alcuni stati si tenta goffamente di rendere anticostituzionale il matrimonio tra coppie dello stesso, come in Romania o in Slovacchia, la Repubblica Ceca sembra poter prendere un’altra direzione.

La proposta di equiparazione del matrimonio omosessuale con quello eterosessuale è però bloccata in parlamento da oltre un anno. La nuova legge permetterebbe la definizione di “matrimonio” anche per le unioni tra coppie dello stesso sesso e darebbe quindi la possibilità per questi di adozione di minori.

A presentare tale modifica del codice civile ceco, su proposta dei membri del partito di governo ANO2011, 46 deputati di diversi schieramenti politici: liberali di destra, liberali di sinistra, socialdemocratici, comunisti. In risposta, un gruppo di 37 parlamentari ha sottoscritto una controproposta per emendare la costituzione e proteggere il matrimonio come unione coniugale tra un uomo e una donna. Tra i difensori della famiglia tradizionale troviamo deputati cattolici della KDU, conservatori del partito democratico civico (ODS), ma anche esponenti delle stesse formazioni proponenti il matrimonio omosessuale, come i socialdemocratici o lo stesso partito del premier ANO2011, a dimostrazione della trasversalità politica della proposta. A tal fine, i partiti hanno lasciato ai propri parlamentari massima libertà di coscienza, che apparentemente dovrebbe portare questi a interpretare la questione solamente secondo proprie credenze, travalicando eventuali logiche e tattiche politiche.

Gli ostacoli politici

La discussione della proposta in parlamento è già stata rinviata molte volte. Se oltre il 60% della popolazione ceca si dice favorevole al matrimonio omosessuale, lo stesso non si può dare per scontato riguardo i parlamentari. La questione spacca i partiti. Sebbene il premier Andrej Babiš si è detto favorevole alla proposta presentata al parlamento proprio dal partito di governo ANO2011, non tutti al suo interno sembrano convinti della bontà della legislazione. Lo stesso appare evidente per altre formazioni politiche, dai socialdemocratici ai liberal-conservatori, fino alla strenua opposizione del partito cattolico della KDU che accusa Babiš di seguire gli istinti popolari senza valutare il merito della proposta.

Sembra quindi complicato prevedere l’esito della discussione parlamentare. Certamente un tema così divisivo non è mai un passaggio semplice per le forze di governo. Il rischio è proprio quello di aprire una ferita nella già debole maggioranza, senza poter completamente intestarsi l’eventuale vittoria politica con i propri elettori. Problema simile si pone per i partiti più liberali e progressisti come il partito pirata, attualmente all’opposizione ma in forte crescita, che si troverebbe ad approvare una proposta trasversale ma proveniente dal governo, rischiando così di aumentarne la popolarità.

Se anche queste resistenze dovessero essere superate e la proposta approvata dal parlamento, il presidente Miloš Zeman ha già minacciato di porre il veto per impedire l’emanazione della legge, o quantomeno rimandarla indietro al parlamento per un ulteriore riesame del provvedimento.

Probabilmente sarà solo una questione di tempo. Nessun paese ex-comunista gode di un’opinione pubblica così aperta e ben disposta verso il riconoscimento di nuovi diritti civili. Nonostante il momento storico, su questi temi la Repubblica Ceca sembra capace di resistere alle influenze ultraconservatrici dei vicini di Visegrád. Con il sostegno di quasi due cechi su tre, si può credere che il matrimonio omosessuale prenderà forma in questa legislatura.
Praga è pronta a riempire il suo parlamento di bandiere arcobaleno.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 02, 2019, 23:43:12 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Grecia/Tra-due-famiglie-storie-di-lavoratrici-domestiche-migranti-in-Grecia-193380

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Tra due famiglie: storie di lavoratrici domestiche migranti in Grecia

Anna, Maria, e molte altre. In Grecia, migliaia di donne immigrate lavorano come collaboratrici domestiche e badanti. Una vita difficile, sospesa tra legalità e settore grigio, paese di origine e di arrivo, orgoglio e rimpianti

18/03/2019 -  Elvira Krithari   Atene
Invisibile com'era (ed è ancora), era impossibile per lei andare in banca per mandare i soldi alla famiglia in Bulgaria. Anna Georgieva – non è il suo nome, ma suo figlio (che chiameremo Ivan) non voleva che fosse usato per l'articolo – andava quindi in centro ad Atene una volta al mese, ad Ayiou Konstantinou numero 36, Omonia, per inviare denaro in Bulgaria: con l'autobus.

Il momento in cui consegnava all'autista una busta con il nome di sua madre (tra molte buste simili di altre donne) simboleggiava una piccola vittoria, un obiettivo raggiunto.

Anna Georgieva può ricordare almeno 168 di questi momenti (in 14 anni) di riuscite transazioni, necessarie per far sì che Ivan, il suo unico figlio a Sofia, potesse diventare l'avvocato promettente che è oggi. Meno sono stati però i momenti in cui ha potuto effettivamente vederlo diventare tale.

Il confine indefinito tra pubblico e privato
Mentre la maggior parte delle donne migranti in Grecia è impiegata nelle famiglie (il 57,2% secondo un sondaggio del 2011)1, quelle provenienti dai paesi geograficamente e culturalmente vicini di Balcani ed Europa orientale non rappresentano un gruppo compatto e omogeneo.

Quando Polonia, Bulgaria e Romania sono entrate nell'UE, per le lavoratrici domestiche si è creata l'opportunità di vivere e lavorare in Grecia. Tuttavia, rimangono molti casi come quello di Anna: impiegata da due medici in pensione che non pagano l'assicurazione obbligatoria, rimane ancorata al tradizionale contesto di lavoro nero.


Anna si gode il caffè nella casa in cui lavora - E.Krithari

L'assenza di un senso di comunità fra le migranti dai Balcani e dai paesi dell'Europa orientale non è causata solo dalle differenze nel diritto alla mobilità legate allo status UE, ma anche dai loro diversi background e bisogni: ad esempio, le lavoratrici domestiche albanesi arrivano generalmente in Grecia con le loro famiglie per stabilirsi definitivamente, mentre le migranti ucraine, secondo gli studi, sono in genere vedove o divorziate.

Le differenze sono, ovviamente, solo un lato della medaglia. L'altro è che queste donne non hanno nemmeno la possibilità di incontrarsi.

Sebbene Anna non si trovi nella situazione di prendersi cura di una persona anziana inferma e non poter lasciare la casa, lavora da anni senza nemmeno un giorno di riposo. Maria Louka dall'Ucraina, invece, si prende cura di una donna anziana, inferma e completamente dipendente da lei, in una casa molto vicina a dove lavora Anna. Le due donne non si sono mai incontrate.

La mancanza di giorni di riposo non solo viola le leggi sul lavoro, ma è anche causa dello stato psicologico di costante sovraccarico delle lavoratrici domestiche. Durante la nostra conversazione, Maria inizia molto spesso a piangere. È anche la ragione per cui queste donne migranti non sono in grado di sindacalizzarsi e negoziare condizioni di lavoro legali.

"È molto difficile per loro organizzarsi quando non hanno un giorno libero, o possono uscire solo la domenica. Hanno paura delle persone, non conoscono bene la società, raramente partecipano a discussioni aperte. Queste donne non sanno leggere e scrivere in greco, hanno poca autostima e non vogliono andare da sole negli uffici pubblici a registrarsi. Quindi anche le donne greche che lavorano nel settore devono iscriversi al sindacato, collaborare, esigere la certificazione della loro professione", spiega la parlamentare europea Kostadinka Kuneva. Kuneva, che lavorava come addetta alle pulizie in Grecia, è stata segretaria del sindacato greco addetti alle pulizie e governanti. Nel 2008, a causa delle sue attività sindacali, è stata violentemente attaccata con acido solforico (vetriolo), riportando danni permanenti alla vista e alle corde vocali.

Bloccate nelle case delle città o delle province isolate della Grecia, con l'obiettivo di spendere il meno possibile del salario che guadagnano per poter mandare il resto a casa, queste migranti hanno il duplice ruolo di lavoratrici e capifamiglia. Eppure, non possono svolgere appieno nessuno dei due: lavorano in condizioni illegali, non hanno la libertà di negoziare e sono fondamentalmente sole: per loro, le loro famiglie esistono su Skype.

Anna: "Ci vogliamo bene, ma non penso che ci riabitueremo l'uno all'altra"
"Alla fine ho trovato una soluzione per lo scaldabagno; quando lei dormiva, lo accendevo di nascosto. Ma una notte ho dimenticato di spegnerlo. Quando l'ha visto, al mattino, si è scatenato l'inferno". Anna, 49 anni, parla di datori di lavoro difficili, pretese assurde o addirittura offensive che vanno contro i più elementari diritti umani, dagli appartamenti luridi ad attacchi personali sulla (non) importanza della storia del suo paese.

"Lavoro qui da 14 anni, e non ho un solo timbro [per la previdenza sociale/assicurazione]. Quando lavoravo a Kypseli, quando ancora non eravamo nell'Unione europea, [il governo] ha avviato un processo per i documenti. Ma se eri una collaboratrice domestica il datore di lavoro doveva darti un documento per certificare che vivevi al suo indirizzo.

Quando chiedevi i documenti nessuno voleva darti niente e ovviamente nessuno voleva pagare l'IKA [sicurezza sociale/assicurazione]. Quindi ho fatto senza. All'inizio era terribile. Prima che entrassimo nell'UE, la polizia ci dava la caccia. Salivano sugli autobus, i tram e i treni di Omonia, dove fermavano i furgoni che usiamo per trasportare cose e trasferire denaro. E ora che siamo nell'UE, ancora non posso inviare denaro dalla banca perché non ho un permesso di lavoro. Devi avere un numero AMKA [sicurezza sociale], un AFM [codice fiscale]. Per ottenere un numero AMKA devi avere un indirizzo, o il datore di lavoro ti deve dare un documento, non ricordo nemmeno più quale, ho smesso di chiedere".

Il massimo che Anna ha mai guadagnato in Grecia è stato 750 Euro al mese. "A settembre mi servivano molti soldi per comprare libri, scarpe e vestiti a mio figlio. E poi quando ha iniziato l'università, di nuovo avevo bisogno di un sacco di soldi: doveva affittare un appartamento a Sofia. Ad ogni modo non tenevo nulla per me, mandavo tutto a casa", racconta.

L'eurodeputata Kuneva, in passato lei stessa migrante e addetta alle pulizie, sa che questo non è un lavoro che ti permette di risparmiare: "Queste donne mandano i loro soldi a casa e non tengono nulla per sè, né per l'assicurazione sanitaria né per la pensione. Quelle che sono riuscite a comprare un appartamento da qualche parte sono pochissime, non è il tipo di lavoro in cui guadagni abbastanza da stare tranquilla, da sapere che avrai una vita più facile. La situazione ricorda i tempi difficili, quando navi piene di giovani lasciavano la Grecia per tornare solo dopo molti anni".

Ivan, grazie agli sforzi di sua madre e alla propria diligenza, è diventato uno dei migliori studenti della facoltà di giurisprudenza. Recentemente è entrato nel mercato del lavoro del suo paese e guadagna già uno stipendio più alto di quello di Anna. Lei mi dice, con grande gioia, che ora deve lavorare solo per mantenere se stessa. Dopo aver guadagnato alcuni contributi di sicurezza sociale da un precedente lavoro in fabbrica, può ora ottenere una pensione minima dal suo paese (circa 80 Euro al mese). Se i medici greci in pensione per cui lavora decideranno di fare a meno di lei, tornerà al suo villaggio. Tuttavia, la realtà che ha sperimentato in Grecia non si concilia più con la sua vecchia vita in Bulgaria.


Una foto delle nipoti di Maria nella sua stanza ad Atene

"Ora sono un'estranea. Perché non torno da anni, non conosco più i miei vecchi amici, non riconosco i loro figli... Altri sono morti. Ho un'amica, la conosco da quando siamo bambine, ma quando la vado a trovare lei parla di che cosa ha cucinato e così via. Questo non mi interessa. Per la stessa ragione non riesco a parlare con mia sorella. Lei pensa solo a che cosa cucinerà quel giorno, questo mi annoia. Ok, forse sono io da biasimare, perché sono cambiata, me ne rendo conto. Non sono come ero prima. Sono diventata scorbutica".

Il periodo più lungo senza tornare in Bulgaria è stato per Anna tra il 2005 e il 2007. Quando è scesa dall'autobus e ha visto Ivan, 15 anni, "mi è caduta in testa una tonnellata di mattoni", dice in modo caratteristico. "Non avevo mai provato quella sensazione prima, Ivan era cambiato molto e ho pensato ecco, non riconosco più mio figlio. Sensazione strana. Ricordo all'inizio quando me n'ero andata, quanto aveva pianto. 'Mamma non andare via, non lasciarmi, non lasciarmi, non voglio soldi!'. Ora le cose sono cambiate. Ci siamo allontanati dai nostri figli. Sono riusciti a vivere da soli. Penso solo agli anni in cui era piccolo e aveva bisogno di me e io non ero lì. Ci vogliamo bene, ma non credo che ci riabitueremo l'una all'altro".

"Lo rimpiangi?", chiedo.

"No. Senza la Grecia, Ivan non sarebbe quello che è oggi"

E lui lo rimpiange? "Bah, avrebbe avuto un computer? Sarebbe stato in grado di vivere così bene da solo, come adesso? Probabilmente vivrebbe ancora nel dormitorio universitario e avrebbe già avuto tre figli...".

Maria: "Mi piaceva molto lì. Era come essere a casa. Mi hanno chiesto come festeggiamo il Natale in Ucraina"
"Sono venuta da turista, avevo un visto di due mesi. Sono venuta con l'autobus da Leopoli. Ci sono volute 36 ore. Dovevo incontrare un'amica. Non avevo un telefono. Ho chiesto all'autista di chiamarla. È riuscita ad incontrarmi la sera. Erano passati nove anni dalla morte di mio marito. Ho avuto i miei figli a 12 anni di distanza. Il maggiore era sposato, il minore aveva terminato la scuola superiore e frequentava l'università per diventare insegnante di ginnastica. Non avevo soldi. Dovevo pagare".

Maria è arrivata in Grecia l'11 novembre 2002. Aveva 51 anni ed era già nonna. Aveva lavorato per 34 anni in un ospedale come cuoca, 17 come capo cuoca. Ma ad un certo punto i soldi non bastavano e lei era l'unica che potesse andarsene.

All'inizio ha lavorato a Kesariani, prendendosi cura di una signora anziana, ma non capiva bene il greco. "Ma la signora aveva vissuto in America per 40 anni. Mi disse che quando era andata per la prima volta in America nemmeno lei conosceva la lingua. Chiedeva e pian piano imparava. E così ho preso un taccuino. Ho cominciato a chiedere. Chiedevo il nome di tutto quello che vedevo. La sera mi mettevo a studiare. È ancora difficile".

Nei suoi 16 anni di vita in Grecia, Maria non ha solo imparato la lingua. La nipote di una donna di cui Maria si è occupata per 7 anni dice che, a parte la sua stessa famiglia, Maria è l'unica persona al mondo che si ricorda sempre del suo compleanno e dei compleanni di tutta la famiglia.

Sebbene abbia vissuto lontana dalla sua famiglia per molti anni, Maria ha vissuto con altre famiglie che ha aiutato e, inevitabilmente, a cui si è a volte affezionata.

"Mi piaceva molto lì. Era come essere a casa. Mi hanno chiesto come festeggiamo il Natale in Ucraina". I suoi occhi sono pieni di lacrime mentre descrive quanto sia importante per le persone mostrare semplicemente un interesse.

Come la maggior parte delle donne che si prendono cura degli anziani in Grecia, Maria è rimasta con ciascuno di loro fino alla fine. "Li aiutavo ad alzarsi, facevo loro il bagno. Nessuno mi ha mai aiutata. Poi facevo il bucato e stiravo". Fra le faccende domestiche, ogni tanto sentiva i suoi genitori.

"Prima che partissi erano ancora tutti vivi, li chiamavo sempre, sapevo sempre che cosa stavano facendo. Ma non potevo andare lì. Beh, sarei potuta andare, ma poi non sarei potuta tornare in Grecia. Il periodo più lungo in cui sono stata via sono stati tre anni e otto mesi. E un giorno di quel periodo, era il 23 luglio... alle sette di sera, ho portato la signora a fare una passeggiata e ho chiamato a casa dal mio cellulare.

"Tua madre è appena morta", mi hanno detto.

"Che cosa hai fatto?", chiedo.

"Che cosa potevo fare?... Ho pianto. E un altro giorno sono andata in chiesa"

 

Come Anna, Maria ha visto i suoi figli diventare indipendenti e ora dice che lavorerà solo per se stessa. Le chiedo cosa farebbe se potesse tornare indietro nel tempo e lei dice, categoricamente, che non lascerebbe mai il suo paese. "Il tempo si è congelato. 16 anni. Hanno imparato a stare da soli. I nipoti sono cresciuti senza di me. Mi manca tutto".

Anna Georgieva e Maria Louka sono in molti casi il lato invisibile delle famiglie greche contemporanee.

La famiglia internazionale: un processo più che una struttura stabile
Nel suo studio sulle lavoratrici domestiche dei Balcani e dell'Europa orientale, la ricercatrice Katerina Vasilikou nota che per le donne migranti "la famiglia diventa qualcosa per cui lottare, uno sforzo costante, più un processo che una struttura stabile".

La famiglia internazionale – una famiglia in cui i legami non cessano di esistere solo perché i suoi membri sono separati da grandi distanze – dipende in larga misura dal costante mantenimento della comunicazione.

Per la maggior parte del tempo passato in Grecia, Anna e Maria non hanno avuto accesso alle tecnologie avanzate per comunicare con le loro famiglie. La domenica chiamavano le loro famiglie da telefoni a pagamento: Maria ricorda che 20 minuti le costavano 3 Euro, il prezzo della scheda telefonica. Anna ha comprato un portatile dalla Bulgaria. Dopo aver provato per 3 anni a connettersi al wifi del vicino dal suo cellulare, Maria ha recentemente preso un tablet e nella casa in cui lavora c'è Internet. Ora, almeno, entrambe le donne sono meno sorprese della velocità con cui le loro famiglie stanno crescendo e cambiando.

Sembra che le donne siano la ragione principale per cui le famiglie internazionali rimangono unite, anche se sono loro che se ne vanno. Kostadinka Kuneva offre una spiegazione: "Come la vita ha dimostrato e come ha visto la maggior parte delle persone negli ultimi 30 anni, le donne sono più adattabili e flessibili e più pronte a decidere di partire e trovare lavoro altrove per mantenere la loro famiglia. Ho questa idea, che come donne impariamo ad offrire il nostro corpo e lavoro ed energie agli altri, e così, penso, lavoriamo sul nostro egoismo. Questo si trasforma in amore, poi in devozione, e quindi una madre sente fortemente la responsabilità di mantenere la famiglia se gli altri membri non sono in grado di farlo per un motivo o per l'altro. Una donna non può stare a guardare quando vede che suo figlio non ha nulla da mangiare. Ricordo che mia zia stava molto male quando suo figlio chiedeva un biscotto, non uno al cioccolato, ma solo un biscotto, che costa pochissimo: poche monete, ma lei non aveva nemmeno quelle. Che cosa doveva fare per il cibo, come poteva permettersi di mandare suo figlio a scuola? Così lei ha dovuto andarsene. Diceva sempre: "Sono andata via per un biscotto".

La regolamentazione del lavoro domestico, per non parlare di un quadro di certificazione, cambierebbe non solo la vita delle donne che spesso vivono come prigioniere, ma andrebbe anche a beneficio dei loro datori di lavoro, le famiglie che affidano i propri cari a persone di cui sanno molto poco.

In una certa misura, questo influenzerebbe positivamente anche la vita dei figli delle migranti, perché "una cosa è dover partire improvvisamente per un lavoro che è come una prigione, sopportare la mancanza di rispetto, la tua famiglia non sa nemmeno se sei viva, come stai, ti prendono i documenti e non li restituiscono... ed è un'altra cosa se loro sanno che sei andata in un centro di ricerca, in un'università o in un'azienda e hai un indirizzo e un telefono e puoi sempre essere in contatto con loro", aggiunge Kuneva.

Per il resto, è difficile offrire risposte. Come compensare la perdita di un genitore che non è morto, e come gestire il senso di colpa che probabilmente provi perché la separazione è a causa tua, o a tuo vantaggio? La risposta può arrivare solo dalla generazione globale che è cresciuta senza le loro madri.

 

1 Women΄s Immigration in Greece (2011) con la collaborazione del Centro nazionale di ricerca sociale, Università di Panteion e Centro per la ricerca sulle questioni femminili nel quadro del Fondo europeo per l'integrazione dei cittadini di paesi terzi (EIF)
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 11, 2019, 20:45:19 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-a-processo-l-ex-presidente-Iliescu-per-le-morti-del-1989

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Romania, a processo l'ex presidente Iliescu per le morti del 1989
11 aprile 2019

L'ex presidente romeno Ion Iliescu sarà processato per crimini contro l'umanità, insieme ad alti membri della leadership politica e militare che guidò la rivoluzione romena del 1989 contro il dittatore comunista Nicolae Ceaușescu.

È una delle pagine più oscure e dolorose della storia recente romena: nel dicembre 1989, durante e dopo la caduta di Ceaușescu, le strade di Bucarest e di altre città romene divennero preda del caos più completo. Per alcuni giorni, misteriosi “terroristi” spararono sulla folla, scesa in piazza per chiedere democrazia e libertà.

Secondo la procura militare romena a provocare e gestire il caos - per riuscire a prendere il potere nella fase più violenta della transizione - sarebbe stata la leadership del “Fronte di Salvezza nazionale”, creato in fretta e furia da elementi meno esposti del Partito comunista e capeggiato da Iliescu. Dopo la presa del potere da parte del Fronte, il 22 dicembre 1989, i morti nelle strade furono 862, i feriti più di duemila.

L'accusa sostiene che il gruppo raccolto intorno a Iliescu - capo di stato dal 1989 al 1996, e poi di nuovo dal 2000 al 2004 - avrebbe deliberatamente utilizzato servizi segreti ed esercito contro i manifestanti, con l'obiettivo di creare un clima di terrore nelle strade.

Sul banco degli imputati, insieme ad Iliescu, ci sarà l'ex vice primo ministro Gelu Voican-Voiculescu. Sempre secondo la procura, i due avrebbero “diffuso informazioni false attraverso comunicati televisivi e a mezzo stampa, contribuendo alla creazione di uno stato di psicosi generale”. Entrambi rigettano però le accuse, che Voican-Voiculescu ha definito “un atto di vendetta politica”.

Accuse anche per l'ex capo dell'aviazione militare Iosif Rus, accusato di aver ordinato ad un reggimento dell'aviazione di camuffare le proprie divise, ordine che portò a uno scontro a fuoco con altri militari nell'aeroporto di Bucarest (Otopeni), sfociato nella morte di 40 militari e otto civili.

Non è questo il primo processo sugli eventi che hanno segnato la controversa “rivoluzione romena”: una prima indagine venne chiusa senza rinvii a giudizio nel 2009. Secondo il procuratore generale Augustin Lazăr, il nuovo processo “rappresenta un momento importante per il sistema giudiziario romeno, che assolve così ad un debito d'onore verso la nostra storia”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 11, 2019, 20:47:36 pm
https://www.eastjournal.net/archives/97303

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Ungheria e Slovenia ai ferri corti per la copertina di un giornale
Gian Marco Moisé  2 giorni fa

Nelle ultime settimane, si è alzata la tensione tra Ungheria e Slovenia a seguito della pubblicazione di una caricatura del primo ministro ungherese Viktor Orbán sulla copertina di un settimanale politico sloveno, Mladina.

Il caso

Che il premier ungherese Viktor Orbán riconoscesse nella Russia di Vladimir Putin un modello da seguire era chiaro da tempo, ma che l’emulazione avrebbe raggiunto questi livelli se lo sarebbero immaginati in pochi.

Negli ultimi due anni, il settimanale politico Mladina, uno dei più autorevoli prodotti del giornalismo sloveno ha riportato i tentativi del governo ungherese di interferire nella politica interna del piccolo paese balcanico. Tra questi, ci sarebbero il conferimento della cittadinanza ungherese ai cittadini della regione confinante con l’Ungheria, Pomurje, il finanziamento di business e attività sociali a Koper, e una fotografia provocatoria della stessa ambasciatrice ungherese a Lubiana, Edit Szilágyiné Bátorfi, con la mappa della Grande Ungheria, che comprende la stessa regione di Pomurje. Infine, Mladina ha riportato l’acquisto di quote di un giornale conservatore in parte detenuto dal partito democratico sloveno (SDS), guidato da Janez Janša.

Mladina

Di recente, però, la tensione tra Mladina e il governo ungherese ha raggiunto livelli istituzionali. Il 22 marzo, il settimanale sloveno ha pubblicato una storia sul voto interno al gruppo parlamentare dei popolari europei, sostenendo che a Fidesz sia stato permesso di rimanere all’interno del gruppo grazie al voto dello stesso Janša e di altri due parlamentari di SDS, Milan Zver e Branko Grims. Tuttavia, a scandalizzare il governo ungherese sarebbe stata proprio la copertina del giornale che ritrae una versione caricaturale di Viktor Orbán, sostenuto da Janša, Branko e Grims, mentre fa il saluto fascista.

Le reazioni

Tre giorni dopo, il 25 marzo, l’ambasciata ungherese a Lubiana ha rilasciato una nota diretta al ministro degli esteri sloveno, nella quale ha dichiarato che: “La copertina del 22 marzo 2019 del settimanale Mladina eccede i limiti della libertà di stampa e di espressione. L’ambasciata ungherese a Lubiana crede che simili azioni danneggino l’altrimenti eccellente rapporto bilaterale tra i due paesi. Quindi, l’ambasciata protesta nei confronti del Ministro degli Affari Esteri sloveno per l’irresponsabile copertina di Mladina, chiedendo al Ministro di prevenire simili incidenti in futuro.” Alla malcelata richiesta di interferenza nella libertà di stampa ha replicato il portavoce del ministro degli esteri sloveno, sostenendo che: “[Noi] rispettiamo la libertà di parola e di stampa e non interferiremmo mai nella politica editoriale di nessun giornale”.

Ciononostante, Mladina ha lamentato continue pressioni da parte delle autorità ungheresi. Il primo aprile, il portavoce del governo Zoltán Kovács ha attaccato il giornale dal suo blog, sostenendo che: “Per gli intellettuali negli uffici editoriali di Mladina, che hanno una lunga storia di supporto dell’agenda multiculturale e di antipatia nei confronti della chiesa, chiunque si opponga all’immigrazione e voglia proteggere la cultura cristiana dev’essere un nazista”. Il direttore di Mladina, Grega Repovž, ha commentato la vicenda a POLITICO, chiarendo che Orbán: “Parla come un fascista, si comporta come un fascista e usa retorica antisemitica. L’Ungheria è un paese che non nasconde i suoi tentativi di prendere il controllo dello stato sloveno in tutti i modi possibili.”

Non è la prima volta che la satira attira l’attenzione di leader che non tollerano critiche, ma la cosa più desolante della vicenda è sapere di non potersi aspettare la più timida reazione a livello europeo. Le istituzioni europee sono popolate da sovranisti che hanno a cuore solo le vicende nazionali. Svuotata del suo respiro sovranazionale, l’Unione Europea è solo l’alibi per il delitto perfetto.

Foto: Copertina di Mladina, 22 Marzo 2019
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 11, 2019, 20:49:30 pm
https://www.eastjournal.net/archives/97289

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BIELORUSSIA: Cancellata a colpi di bulldozer la memoria delle vittime dello stalinismo
Laura Luciani  7 ore fa

“Nel ’37 li hanno fucilati. Ora distruggono la loro memoria a colpi di bulldozer”. Si apre così l’articolo firmato da Irina Chalip, corrispondente di Novaja Gazeta, che descrive cos’è accaduto pochi giorni fa a Kuropaty – una zona boschiva a pochi chilometri da Minsk, la capitale bielorussa.

Kuropaty è per i bielorussi uno dei più importanti luoghi della memoria delle vittime dello stalinismo: ogni anno a novembre, migliaia di persone sfilano in processione e si riuniscono attorno alle innumerevoli croci erette per ricordare coloro che furono sommariamente giustiziati in quel bosco per mano degli agenti dell’NKVD – la polizia segreta sovietica.

Un luogo della memoria che non è mai stato ufficialmente riconosciuto sotto il regime di Aleksandr Lukašenko. Proprio per ordine del presidente bielorusso, lo scorso 4 aprile sono arrivati trattori e bulldozer a demolire e rimuovere una settantina di croci a Kuropaty. Un gesto apparentemente insensato, che è stato definito “oltraggioso” dai cittadini e da numerose personalità politiche e pubbliche – tra cui Svetlana Aleksievič, premio Nobel per la letteratura. Secondo quanto riportato dalla BBC, quindici attivisti che hanno cercato di impedire la distruzione del sito sono stati arrestati dalla polizia, che ha completamente bloccato e circondato la zona.

“La strada della morte”

Tra il 1937 e il 1941 Kuropaty fu il luogo di esecuzione di migliaia di bielorussi, vittime del “Grande Terrore” di epoca staliniana. Gli eccidi di Kuropaty furono resi noti già nel 1988, quando gli storici Zenon Poznjak (poi presidente del Fronte Popolare Bielorusso) ed Evgenij Šmygalëv pubblicarono l’articolo Kuropaty, la strada della morte, in cui riportavano i racconti degli abitanti della zona, che per anni erano stati testimoni involontari delle fucilazioni.

L’emozione e lo shock legati alla scoperta furono immensi, e il crimine non poté essere ignorato. Le conclusioni di una prima inchiesta, aperta da una commissione governativa della Repubblica Socialista Sovietica Bielorussa, vennero pubblicate nel gennaio 1989: queste indicavano, su base degli scavi effettuati, la presenza a Kuropaty di oltre 500 fosse comuni contenenti i resti di almeno 30.000 civili, uccisi dagli ufficiali dell’NKVD tra il 1937 e l’estate del 1941. Di queste esecuzioni non era rimasta traccia negli archivi del Ministero della Giustizia, né in quelli del KGB, del Ministro degli Interni, o del Pubblico Ministero. Un’altra indagine venne condotta pochi anni dopo il crollo dell’URSS, nel 1994: questa suggerì che i carnefici di Kuropaty erano in realtà degli ufficiali nazisti, e le vittime in gran parte ebrei uccisi durante la seconda guerra mondiale. Questa versione dei fatti non venne però mai confermata dalle indagini che vennero svolte negli anni successivi (tra il 1997-98), e i cui risultati (parzialmente resi pubblici) sembrano invece comprovare la prima versione – quella delle purghe staliniane.

Alcuni storici indipendenti affermano oggi che sotto gli alberi di Kuropaty sarebbe stato fucilato un numero altamente superiore di civili, che oscillerebbe addirittura tra le 100.000 e le 200.000 persone. Nonostante tutto, ancora oggi l’interpretazione degli eccidi di Kuropaty rimane estremamente controversa in Bielorussia. Inoltre, nessuno ha mai pagato per i crimini commessi a Kuropaty: nel 1989 la procura chiuse l’indagine dichiarando che gli ufficiali dell’NKVD e gli altri responsabili degli eccidi erano stati a loro volta giustiziati durante l’epoca sovietica, oppure erano già morti.

Una memoria mai ufficializzata

Nel novembre del 1988 a Kuropaty si svolse una prima dimostrazione di massa che condannava apertamente lo stalinismo. A poco a poco, gli abitanti di Minsk iniziarono a costruirvi un luogo della memoria popolare: la prima croce, la “croce della sofferenza” fu eretta a Kuropaty nel 1989. Ma come spiega Andrej Strocev in un articolo del marzo 2017, “Kuropaty oggi ha uno status duplice, imprecisato. È un monumento storico statale, un territorio tutelato. Però dal 1994 né il presidente né nessun membro del governo bielorusso ha mai visitato anche una sola volta questo luogo in veste ufficiale“.

Già un paio di anni fa la tutela del sito di Kuropaty era stata minacciata dalla costruzione di un centro direzionale: per proteggerlo si erano mobilitati attivisti di tutti gli orientamenti politici, artisti, esponenti della società civile e semplici abitanti di Minsk, ed erano riusciti a fermare il cantiere.

Il 4 aprile scorso, il presidente Lukašenko ha dato l’ordine di demolire le croci di Kuropaty, dichiarandosi personalmente “disturbato” da quella che descrive come una “manifestazione eccessiva” contro lo stalinismo. “Siete sicuri che in quel posto i fascisti non abbiano ammazzato ebrei, bielorussi, polacchi, ucraini e russi?” avrebbe chiesto il presidente ai giornalisti. La distruzione delle croci di Kuropaty, delle quali per oltre 30 anni si sono occupati spontaneamente gli abitanti di Minsk, senza alcun sostegno né riconoscimento pubblico, servirebbe secondo il presidente a “ristabilire l’ordine”. Al momento, non è chiaro cosa sarà del sito, se le croci verranno sostituite da un altro monumento veicolante una versione più ‘equilibrata’ (cioè riscritta) dei fatti storici, o se non resterà più nulla.

E’ così, a colpi di trattori e i bulldozer, che nella Bielorussia di oggi si cancella un luogo della memoria – quella delle vittime della repressione staliniana – e uno dei legami più profondi che i bielorussi hanno con la propria terra e con la propria storia. Ma nella demolizione delle croci di Kuropaty c’è probabilmente anche altro: la volontà del regime di sopprimere uno dei (pochi) luoghi della resistenza politica e civile ancora visibili e viventi del paese.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 11, 2019, 20:52:08 pm
https://www.eastjournal.net/archives/96872

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“Non è un lavoro per donne”: le professioni proibite nell’ex Unione Sovietica
Laura Luciani  2 giorni fa

Dopo anni passati a studiare da ufficiale di rotta, con l’obiettivo finale di diventare capitano, nel 2012 Svetlana Medvedeva, abitante della città di Samara, aveva trovato il lavoro dei suoi sogni: una compagnia di navigazione privata l’aveva selezionata per essere al timone di un’imbarcazione commerciale. Pochi giorni dopo averle comunicato la buona notizia, la compagnia aveva però ritirato l’offerta di lavoro, spiegando a Svetlana che la sua assunzione come timoniere avrebbe infranto l’articolo 253 del Codice del lavoro della Federazione Russa e la normativa nazionale numero 162, che comprende una lista di professioni proibite (o soggette a restrizioni) per le donne. Svetlana Medvedeva era letteralmente caduta dalle nuvole: in molti le avevano detto che quello di timoniere era considerato un lavoro “da uomo”, ma nessuno l’aveva avvisata dell’esistenza di restrizioni legali che le avrebbero impedito, in quanto donna, di svolgere tale professione.

Dopo oltre quattro anni di battaglie legali portate avanti sia a livello nazionale che internazionale, nel febbraio 2016 il Comitato dell’Onu per l’eliminazione delle discriminazioni nei confronti delle donne ha riconosciuto che Svetlana Medvedeva era stata oggetto di discriminazione di genere. Secondo il Comitato, la legislazione russa le avrebbe vietato “di guadagnarsi da vivere attraverso la professione per cui aveva studiato”, nonché negato il diritto di “avere le stesse opportunità professionali degli uomini e la stessa libertà di scegliere il proprio lavoro”.

Quella di Svetlana Medvedeva è stata una vittoria giudiziaria storica su una forma di discriminazione nei confronti delle donne tanto radicata quanto sconosciuta al pubblico – non solo in Europa occidentale, ma anche in quei paesi dell’ex Unione Sovietica in cui le “liste delle professioni proibite” alle donne sono ancora una realtà.

Le liste delle professioni proibite

Le liste delle professioni proibite fecero la loro apparizione nel Codice del lavoro dell’Unione Sovietica già negli anni trenta e vennero in seguito aggiornate negli anni settanta. Dal 1991 in poi, dopo la fine dell’URSS, quasi tutte le repubbliche indipendenti adottarono dei nuovi codici del lavoro, copiandovi però queste norme. Come spiega Stefania Kulaeva, direttrice dell’Anti-Discrimination Centre (ADC) Memorial intervistata da Kiosk, l’idea che sta dietro a queste restrizioni risale all’epoca della rivoluzione industriale – un periodo in cui le condizioni di lavoro erano spesso estremamente nocive e pesanti per le donne, che lavoravano anche durante la gravidanza. I sindacati avevano quindi lottato per ottenere delle restrizioni sul lavoro femminile in situazioni di rischio per la salute riproduttiva.

“Da allora, però, – continua Stefania Kulaeva – sono cambiate le condizioni di lavoro, è cambiata la società e le idee legate ai ruoli di genere. Se cent’anni fa una donna sposata che lavorava in fabbrica poteva avere una gravidanza quasi una volta all’anno, oggi le donne possono avere una gravidanza una volta nella vita, o magari non vogliono affatto avere figli. Così questi divieti sono stati soppressi in molti paesi europei per una questione di inutilità, ma anche di ingiustizia. Nei paesi in cui sopravvivono, questi divieti sono fondati sulla pura discriminazione, che è racchiusa in primo luogo nell’idea che la donna debba fare figli, o che debba restare a casa per occuparsi dei figli dopo la gravidanza. Il progresso tecnico ha inoltre reso alcuni lavori, come la guida dei treni elettrici, molto meno pesanti rispetto al passato. Se queste norme avevano senso cento anni fa, ora sono solo discriminatorie. Oggi, quelli che si dicono contrari all’abolizione delle liste [delle professioni proibite] sono gli stessi che aggrediscono le manifestanti alle proteste dell’8 marzo, quelli che ritengono che le donne non siano predisposte al lavoro intellettuale”.

Per avere un’idea più concreta della discriminazione in atto, basta guardare i numeri: oggi in Kazakistan la lista delle “professioni proibite” include 219 lavori, mentre in Russia questi sono ben 456 (qui trovate i dati completi). Il Codice del lavoro russo stabilisce ad esempio che le donne non possano essere assunte per guidare camion o treni della metropolitana, spegnere incendi, lavorare nella produzione di strumenti musicali, o per fare lavori come quello di carpentiere, idraulico, o minatore. Vigono poi restrizioni assurde, come quella che vieta alle donne di guidare autobus che trasportano più di 15 passeggeri (se ne trasportano di meno, allora non c’è problema). A rendere il tutto ancora più discriminatorio è il fatto che molte delle professioni incluse nelle liste sono molto ben remunerate perché richiedono un alto livello di specializzazione – ad esempio le professioni del mare: secondo il Codice del lavoro russo, alle donne sono proibiti tutti i lavori sul ponte e in sala macchine.

Questa discriminazione nei confronti delle donne nel mondo del lavoro viene giustificata come una “preoccupazione per la loro salute riproduttiva”, ma in realtà (come dichiarato anche dal Comitato dell’ONU per l’eliminazione della discriminazione di genere nel caso di Svetlana Medvedeva) non c’è alcuna base scientifica che giustifichi l’esclusione delle donne da determinate professioni. Inoltre, tale preoccupazione sembra non valere nel caso degli uomini, anche se la loro salute riproduttiva potrebbe ugualmente essere messa a rischio da alcune professioni: alle donne non viene lasciata scelta, è lo stato a decidere per loro.

La campagna “All Jobs for All Women”

Dal 2012, l’organizzazione ADC Memorial (che ha sostenuto Svetlana Medvedeva nelle sue battaglie legali) si è prefissa l’obiettivo di cambiare la legislazione chiedendo l’abolizione delle liste delle professioni proibite non solo in Russia, ma in tutti i paesi post-sovietici in cui sussiste questo tipo di discriminazione: Ucraina, Bielorussia, i cinque paesi dell’Asia centrale, Azerbaigian e Moldavia.

Lanciata in collaborazione con le organizzazioni per i diritti delle donne di questi paesi, nel giro di un paio di anni la campagna “All Jobs for All Women” ha già raggiunto dei risultati considerevoli. Ad esempio, nel 2017 la lista delle professioni proibite è stata abolita completamente in Ucraina: alcune donne hanno anche già cominciato a lavorare come pompieri, anche se una sfida ancora da affrontare resta quella della sensibilizzazione e dell’informazione – sia tra i datori di lavoro, sia tra le donne lavoratrici. Più di recente, la lista delle professioni proibite è stata abolita anche in Uzbekistan.

In Russia, il caso di Svetlana Medvedeva ha costituito un importante precedente e sembra aver posto le basi per un progressivo cambiamento a livello legislativo, così come dell’atteggiamento delle élite economiche e politiche riguardo alla questione delle professioni proibite. Ad esempio, il comitato per i trasporti della Duma di stato russa si è recentemente espresso a favore dell’abolizione del divieto per le donne di lavorare nella metro come conducenti e macchiniste. Anche la società delle ferrovie dello stato russa e il sindacato dei lavoratori marittimi hanno criticato le liste delle professioni proibite.

Come riconosce la stessa Stefania Kulaeva, questa presa di posizione è forse più dettata da ragioni economiche (vietare alle donne di svolgere determinati lavori non è “conveniente” in molti settori) che non dal riconoscimento della discriminazione di genere in quanto tale. In ogni caso, si tratta di un’evoluzione positiva in un contesto in cui fino a pochi anni fa chi si occupava di tali problematiche era tacciato di “isteria femminista”, e in cui l’emancipazione della donna e la piena parità dei diritti – anche nel mondo del lavoro – sembrano ancora lontane.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: gluca - Aprile 11, 2019, 23:08:06 pm
"Pochi giorni dopo averle comunicato la buona notizia, la compagnia aveva però ritirato l’offerta di lavoro, spiegando a Svetlana che la sua assunzione come timoniere avrebbe infranto l’articolo 253 del Codice del lavoro della Federazione Russa e la normativa nazionale numero 162, che comprende una lista di professioni proibite (o soggette a restrizioni) per le donne"
Fosse per me, io una normativa di quel tipo la adotterei pure in Italia.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Aprile 12, 2019, 00:02:17 am
A quando un condice del lavoro anche in Italia :wub:
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 15, 2019, 00:24:40 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Montenegro/Montenegro-la-caduta-di-Dusko-Knezevic-il-re-del-cemento-193668

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Montenegro: la caduta di Duško Knežević, il “re del cemento”

Si è allontanato dai suoi ex partner del Partito Democratico dei Socialisti (DPS) di Milo Đukanović ed ora potrebbe perdere il suo impero. Nel mirino della giustizia montenegrina l’uomo d’affari Duško Knežević ora accusa i suoi vecchi soci

12/04/2019 -  Branka Plamenac
(Originariamente pubblicato dal settimanale Monitor, selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans  e OBCT)

Duško Knežević accusa il Presidente Milo Đukanović di voler metter le mani sul suo vasto impero commerciale e sui suoi beni. La holding di Duško Knežević raggruppa nello specifico società bancarie e finanziare, compagnie di assicurazione, media e imprese immobiliari. Tramite le filiali registrate in diversi paradisi fiscali, Duško Knežević possiede beni immobiliari su tutto il litorale montenegrino, da Herceg Novi a Bar.

Una fortuna inestimabile
Dalla celebre spiaggia di Jaz, a Budva, fino a Petrovac na Moru, la città costiera tra Budva e Bar, l’uomo è l’orgoglioso proprietario di alcuni tra i terreni più appetibili della riviera montenegrina. Di fatto, figurava tra i responsabili della cementificazione del litorale, quando le autorità locali del Dps, con la complicità dei ministri per lo Sviluppo sostenibile che si sono succeduti, Branimir Gvozdenović e Predrag Sekulić, hanno adottato piani urbanistici devastanti su ordine della potente lobby dell’edilizia che lui stesso dirige con altri oligarchi.

Soltanto nel territorio del comune di Budva, il gruppo Atlas possiede sei terreni di grande valore dove dovevano esser costruiti alberghi, appartamenti e locali commerciali su una superficie totale di più di 200.000 m². Nonostante tutti i permessi di costruzione siano stati rilasciati, nessuno di questi progetti ha visto luce per il momento. I potenziali investitori pare che abbiano bidonato Duško Knežević, malgrado le buone relazioni che intratteneva con la Russia, gli Stati Uniti, gli Emirati Arabi Uniti, o ancora l’influente Clinton Global Initiative. Mentre gli investitori non danno segni di vita ed il suo sistema sta crollando, Duško Knežević rischia di perdere i suoi beni sul litorale e di essere rimpiazzato da nuovi proprietari.

Da amico a nemico
"Alcune tra le più alte autorità statali in relazione con gruppi criminali, hanno deciso di scagliare un attacco contro il gruppo Atlas", ha affermato Duško Knežević, il patrono di questa holding. Vecchio intimo di Milo Đukanović, l’uomo d’affari è attualmente in fuga. È lui ad aver rivelato di aver dato delle “bustarelle” di contanti per finanziare il Partito Democratico dei Socialisti (PDS), rivelazione che ha provocato una rivolta popolare inedita in Montenegro. Sospettato di malversazioni finanziarie e di riciclaggio di denaro attraverso Atlas Bank, Duško Knežević si è rifugiato a Londra. Le appropriazioni indebite a suo carico raggiungerebbero i parecchi milioni di euro secondo l’accusa. La procura ha aperto un’inchiesta.

Questi ultimi stanno già attendendo in agguato a Jadranski sajam, il vecchio parco delle esposizioni di Budva, dove Duško Knežević possiede due lotti per una superficie pari a 22.000 m². Vi sono previste tre unità di costruzione: un nuovo spazio espositivo (Budva New Expo), un hotel di lusso e un complesso di appartamenti residenziali, dei progetti della società Safiro Beach che, secondo Duško Knežević, apparterrebbe a Milo Djukanovć e al vicepresidente dell’Assemblea nazionale Branimir Gvozdenović.

Nella spiaggia di Kamenovo, sempre a Budva, la società Rekreaturs, appartenente sempre a Duško Knežević, gestisce un complesso di 33.000 m². La costruzione del Kamenovo Tourist Resort, del costo stimato di 120 milioni di euro, è sospesa per un procedimento giudiziario volto a determinare chi ne è il vero proprietario. L’Agenzia kosovara per la privatizzazione ritiene infatti che questo terreno appartenga alla Repubblica del Kosovo, ceduto dal comune di Budva da qui a mezzo secolo, in epoca jugoslava, per costruirci una casa di riposo destinata ai lavoratori kosovari.

Fragile come un castello di carte
Allo stesso modo, Atlas Invest possiede un terreno di 9.000 m² sovrastante l’Adriatico, tra l’albergo Avala e la spiaggia di Mogren. In realtà, questo terreno, nel comune di Budva, è proprietà della società offshore Attika Ian, citata nel controverso caso della privatizzazione di Crnogorski Telekom, il principale operatore di telecomunicazioni del paese. È in questa zona di macchia mediterranea che dovrebbe venir edificato un nuovo centro, Mogren Town. Non lontano da lì, sui pendii della collina di Spas, si trova un altro terreno di 21.000 m² di proprietà di Duško Knežević, dove dovrebbe esser eretto un lussuoso villaggio collegato alla spiaggia, Mogren Hill, attraverso una teleferica. Questi due progetti aspettano ancora degli investitori mentre ipoteche da parecchi milioni di euro riposano nella banca greca Piraeus.

Un altro progetto del gruppo Atlas è previsto nel villaggio di Pržno, che costeggia Miločer, un luogo di villeggiatura mondana. Nell’agosto del 2015, il diritto di proprietà del comune di Budva su tredici lotti di una superficie di 4.100 m² è stato trasferito ad Atlas Invest, grazie alla maggioranza dei voti dei deputati della coalizione Partito Democratico dei Socialisti (DPS)-Partito Socialdemocratico (SDP). Il terreno è stato venduto senza compensazioni né liquidazioni, sulla base di un contratto per la costruzione comune di un complesso turistico di 16.000 m², che comprende degli appartamenti ed otto ville dai 60 ai 300 m², con incluse delle piscine sui tetti… Questo accordo prevedeva 550 m² di locali per il comune e 100 posti parcheggio. A Petrovac, ancora, Duško Knežević possiede dei beni immobiliari. Qui la sua impresa alberghiera Atlas Hotels ha una stazione degli autobus di una superficie pari a 2.000 m² e vi dovrebbe esser costruito un parcheggio multipiano.

La fortuna del gruppo Atlas, che ha messo le mani sul litorale montenegrino nel corso di questi anni di transizione, è difficile da stimare. Oltre ai suoi progetti a Bar e a Meljine, nel comune di Herceg Novi, il gruppo prevede di costruire uno dei più grandi progetti immobiliari a Punta Mimoza, all’ingresso delle Bocche di Cattaro, accanto alla penisola di Prevlaka: niente meno di tre villaggi e un molo di 150 posti ormeggio, il tutto per un costo stimato di 500 milioni di euro. Duško Knežević aveva annunciato l’apertura del cantiere due anni fa, ma la sua realizzazione è rimasta ferma. Il “re del cemento” della costa montenegrina sarà in grado di gestire i suoi molteplici progetti urbanistici, come afferma da Londra, o i suoi affari saranno portati avanti da banche, creditori e vecchi partner d’affari? Lo scopriremo solo col tempo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 15, 2019, 00:27:50 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/Kosovo-la-lotta-contro-l-estremismo-violento-e-la-radicalizzazione-193842

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Kosovo: la lotta contro l’estremismo violento e la radicalizzazione

Anche in Kosovo, come in molti paesi europei, sono state adottate misure per la de-radicalizzazione, in particolare, ma non esclusivamente, rivolte a chi è rientrato da fronti di guerra. Quali sono? E soprattutto, sono utili?

12/04/2019 -  Ervjola Selenica
Contro-terrorismo, de-radicalizzazione e contrasto all’estremismo violento sono diventati centrali nelle agende per la sicurezza di attori internazionali quali l’Unione europea, le Nazioni unite, Osce1. All’interno di molti paesi europei, misure di prevenzione contro l’estremismo violento sono state sviluppate nei quartieri, nelle comunità, nelle scuole e negli ospedali. Queste hanno incluso la partecipazione di attori tradizionalmente non-securitari quali insegnanti, operatori sociali, autorità religiose, personale sanitario e le famiglie2. In diversi paesi europei, le misure di de-radicalizzazione, contro-terrorismo e contrasto all’estremismo violento hanno sollevato dubbi e critiche riguardo alla loro efficienza e ai loro effetti sociali più ampi sui diritti fondamentali, la discriminazione religiosa e la coesione sociale. In particolare, diversi studiosi hanno enfatizzato il rischio di stigmatizzazione delle comunità musulmane3.

La partecipazione di combattenti islamici originari della Bosnia Erzegovina e del Kosovo nel conflitto siriano ha riportato la questione dello jihadismo e dei pericoli legati alla radicalizzazione e l’estremismo violento al centro delle agende di attori locali e donatori internazionali nei Balcani Occidentali. Molti dei concetti, misure e strategie inizialmente sviluppate all’interno dell’UE sono stati esportati, recepiti e implementati nei paesi balcanici. A partire dal 2014, in seguito all’arresto di 130 cittadini kosovari con l’accusa di terrorismo, le autorità kosovare hanno intensificato la lotta contro il terrorismo e la radicalizzazione. Nel 2015 è stato adottato il piano strategico Kosovo’s Strategy on Prevention of Violent Extremism and Radicalization Leading to Terrorism 2015-2020, basandosi prevalentemente sulle strategie europee.4 Mentre inizialmente la lotta contro il terrorismo era incentrata attorno a misure repressive e criminalizzazione dei soggetti radicalizzati, successivamente, in linea con un cambiamento di atteggiamento a livello globale, tale lotta si è spostata verso un approccio di prevenzione e reintegrazione sociale dei ritornati dalla guerra siriana.

I numeri
Circa 400 cittadini kosovari hanno viaggiato in Siria e Iraq nel periodo 2012-2017: di questi un terzo ha perso la vita nelle zone di conflitto e un terzo è tornato in Kosovo5. Alcuni cittadini kosovari sono stati arrestati in Germania e Kosovo nel 2018 con il sospetto che stessero preparando degli attacchi terroristici nel loro paese e in altri paesi europei. Nonostante non si sia registrato in Kosovo un singolo atto terroristico, il pericolo dell’estremismo violento e della radicalizzazione sta attirando crescenti attenzioni e fondi da parte di attori internazionali del paese balcanico. I dati sulla radicalizzazione e l’estremismo violento in Kosovo sono vaghi e spesso basati su un sensazionalismo mediatico sia locale che internazionale.

Interviste condotte in Kosovo nel settembre del 2018 riguardo la natura e la portata del pericolo estremista mostrano opinioni contrastanti con i numeri che fluttuano da un paio di centinaia di radicalizzati in prigione a quasi 20.000 radicalizzati identificati da fonti non verificate dei servizi di intelligence kosovara6. Una confusione ancora più significativa regna tra i vari portatori di interesse in merito al significato dei concetti usati: in particolare i termini estremismo violento e radicalizzazione nel caso kosovaro sono spesso equiparati all’Islam e all’ideologia islamista. Ciò contrasta con valutazioni del rischio condotti dalla Kosovar Center for Security Studies, che mostrano come il 40% della violenza avviene su basi etniche o politiche mentre solo il 25% è motivato da una matrice religiosa. Ciononostante, è la violenza politica associata all’estremismo religioso che attrae la maggiore attenzione mediatica e i più consistenti finanziamenti per la sua prevenzione. Anche se non esiste un profilo unico dei combattenti kosovari, molti di quelli che hanno viaggiato in Siria e Iraq appartongono alla fascia d’età tra i 20 e i 30 anni. Inoltre, il Kosovo ha un numero significativo di giovani maschi in condizioni socio-economiche di povertà e marginalità: il 43% della popolazione è sotto i 25 anni, mentre la disoccupazione giovanile è attorno al 57.7%.

Perché avviene la radicalizzazione? Il dibattito
Tra i vari fattori a spiegazione del fenomeno di radicalizzazione dei combattenti kosovari due sono quelli che spiccano nel dibattito pubblico: da una parte, la presenza di fondazioni straniere religiose che appartengono a diverse congregazioni islamiche e dall’altra le condizioni socio-economiche in cui versa il paese. Il ruolo svolto da fondazioni straniere finanziate dai paesi del Golfo o dalla Turchia è stato identificato da vari analisti come rilevante nel promuovere traiettorie di radicalizzazione e reclutamento di giovani kosovari attraverso una complessa e informale rete di mediatori privati, imam estremisti e donazioni7. Anche se promuovono agende e forme diverse di Islam, queste fondazioni hanno contribuito ad inserire nel contesto kosovaro una forma dell’Islam di matrice wahabita in contrasto con la forma localmente radicata in Kosovo e nei Balcani di tradizione Hanafi. Studi recenti condotti dal British Council hanno però mostrato come vi sia una scarsa evidenza che queste fondazioni abbiano direttamente reclutato giovani in gruppi di estremismo violento. Il reclutamento sembra essere stato veicolato tramite contatti personali fisici o virtuali diretti.

Le condizioni socio-economiche del paese e la combinazione tra alti livelli di povertà, disoccupazione giovanile e basi livelli di istruzione sono stati identificati come il secondo fattore più importante di radicalizzazione in Kosovo. Recenti studi hanno però sottolineato come l’istruzione non sia un fattore chiave esplicativo quanto la disoccupazione combinata all’immobilità sociale. Lo stesso rapporto del British Council identifica come spinta significativa della radicalizzazione un ‘vuoto d’identità, espressa in termini di distacco dal tessuto sociale”8. In altre parole, appartenere a un gruppo che abbraccia idee di estremismo violento diventa più importante della dottrina religiosa di per sé.

Settori e attori sociali quali l’istruzione e i giovani sono diventati centrali nei modelli sia esplicativi sia di contrasto dell’estremismo violento in Kosovo. In quest’ottica, tali settori sono visti sia come potenziale causa che soluzione al pericolo estremista. Mentre non ci sono dubbi sul fatto che la radicalizzazione in Kosovo sia un fenomeno giovanile, un fattore esplicativo ignorato è l’inattività diffusa e l’assenza di prospettive di quei giovani kosovari che hanno studiato e che non sono considerati economicamente poveri. In quest’ottica, ciò che è in gioco è una dinamica di frustrazione delle aspettative, e una promessa di ordine e significato in un contesto che è carente di entrambi. In altre parole, secondo la prospettiva analitica di Oliver Roy, ciò che si nota nel caso kosovaro non è un meccanismo di radicalizzazione basato su una matrice settaria e identitaria islamica, bensì una forma di radicalizzazione di altre questioni e rimostranze, un’identità radicalizzata tra percezioni di marginalizzazione e nichilismo.

Tra gli attori che identificano la radicalizzazione come un fenomeno sostenuto da un’ideologia religiosa, l’istruzione è identificata come uno spazio dove il fenomeno possa essere capito, prevenuto e contrastato. Una comprensione dell’indottrinamento estremista come sostenuto da un’informazione e consapevolezza inadeguata riguardo all’ideologia stessa e alle sue conseguenze ha reso l’istruzione un settore chiave nelle risposte e interventi di contro-radicalizzazione. Più del 40% delle attività previste dalla strategia governativa spettano per esempio al ministero dell’Istruzione. In pratica, ciò è stato tradotto in una molteplicità di interventi di fomrazione indirizzati dal livello delle scuole primarie a quello universitario, e implementati da un numero crescente di attori governativi e non-governativi e spesso carenti di coordinamento da parte del ministero dell’Istruzione.

Reintegrazione
Le misure sia locali che internazionali contro l’estremismo violento e la radicalizzazione in Kosovo si sono inizialmente focalizzate sui fattori trainanti dell’estremismo. Successivamente il focus si è spostato sulle comunità a rischio quali i giovani, le donne e le famiglie dei combattenti. Più recentemente, l’attenzione si è concentrata sulla reintegrazione dei combattenti ritornati e delle loro famiglie, così come sulla radicalizzazione nelle prigioni. La reintegrazione sociale dei combattenti ritornati è diventata un obiettivo centrale nella lotta contro l’estremismo in Kosovo ed è stata impostata sul modello tedesco e quello danese. Altri progetti si sono focalizzati sugli Imam che insegnano in prigione, dando centralità alla diffusione di narrazioni contro la radicalizzazione. Inoltre, i vari donatori internazionali hanno finanziato la creazione di meccanismi di segnalazione basati sui modelli statunitensi e danesi, in quali sono stati implementati congiuntamente dalle autorità municipali, gli imam e i funzionari di polizia.

La lotta contro l’estremismo violento in Kosovo solleva molte domande sul fenomeno stesso e sulle conseguenze di come è stato contrastato, domande che possono essere applicate anche a simili contesti balcanici quali l’Albania o la Bosnia. Mentre l’ammontare complessivo di fondi che è previsto in crescita suggerisce che vi sia un pericolo di radicalizzazione sempre presente, i dati su tale pericolo e il fenomeno stesso sono contraddittori e spesso solo sostenuti da un sensazionalismo mediatico. Inoltre, non c’è consenso riguardo a cosa estremismo violento e radicalizzazione significhino nel contesto kosovaro. Spesso le definizioni usate riproducono la stessa vaghezza problematica che si trova nei discorsi di politiche internazionali sullo stesso tema. L’equivalenza dell’estremismo violento con l’estremismo islamico religioso nel paese rischia di stigmatizzare la comunità musulmana che rappresenta anche la maggioranza della popolazione. Modelli esplicativi correnti enfatizzano il ruolo giocato da fondazioni straniere e allo stesso tempo trascurano altri fattori sottostanti il legame tra giovani e radicalizzazioni in Kosovo quali la questione dell’anomia, l’inattività e un’assenza di opportunità lavorative per la generazione nata dopo la guerra.

Il coinvolgimento di leader religiosi, famiglie, insegnanti, nelle politiche contro la radicalizzazione e l’estremismo violento può danneggiare l’inclusione, la fiducia e la coesione sociale in un paese fragile quale il Kosovo. Un’analisi critica delle politiche messe in campo mostra un inquadramento del ruolo dei giovani, dell’istruzione e di altri attori locali secondo una logica securitaria. In quest’ottica, i giovani rischiano di essere identificati tra due visioni opposte: da un lato, come oggetti di radicalizzazione e quindi potenzialmente pericolosi per la sicurezza del paese; dall’altro, come strumenti di prevenzione dell’estremismo e della radicalizzazione. Ciò ha portato a uno spostamento semantico secondo il quale i giovani non sono più visti come soggetti radicali ma come soggetti potenzialmente radicalizzati. Il rischio che tale spostamento comporta è che la loro immanente potenzialità a fungere come attori di cambiamento sociale, emancipazione e critica è ristretta significativamente. Allo stesso modo vi è il timore che la strumentalizzazione dell’istruzione nel servire scopi di contro-radicalizzazione possa minare la fiducia nel settore stesso e generare risentimento ed esclusione, e quindi generare più radicalizzazione. Inoltre, tale strumentalizzazione rischia di restringere la funzione dell’istruzione come un’istituzione fondamentale per la messa in discussione dei valori prestabiliti e delle autorità, così come il suo potere di sfidare e superare lo status quo.

 Note:

1. Kundnani A., Hayes B. 2018. The Globalisation of Countering Violent Extremism Policies, (Amsterdam: Transnational Institute).

2. Ragazzi, F. 2017. Students as Suspect. The challenges of counter-radicalisation policies in education in the Council of Europe member states. Interim report. Council of Europe. Strasbourg

3. Bigo, D., Bonelli, L., Guittet, E.P. and Ragazzi, and Ragazzi, F. 2014. “Preventing and Countering Youth Radicalisation in the EU,” PE 509.977

Council of Europe. 2014. Revised EU Strategy for Combating Radicalisation and Recruitment to Terrorism, 9956/14 (http://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-9956-2014-INIT/en/pdf, last access 15 December 2018).

4. Intervista dell'autrice con un giornalista investigativo, Pristina, 24 settembre 2018. 


5. Kursani, S. 2018. Kosovo Report. Western Balkans Extremism Research Forum, April 2018, funded by the British Council. 


6. Author's interview with a local scholar, Prishtina, 25 September 2018; Author's interview with a local o cial working with an international organization active in CVE, 26 September 2018.

7. Kursani, S. 2018. Kosovo Report. Western Balkans Extremism Research Forum, April 2018, funded by the British Council 


8. Kursani op cit.

* Questo studio è stato finanziato dalla Kosovo Foundation for Open Society come parte del progetto “Building knowledge about Kosovo (2.0), i cui risultati verranno pubblicati a breve.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Aprile 15, 2019, 01:00:50 am
E da chi pro viene ques'estremismo violento? Forse dagli ortodossi? :shifty:
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 20, 2019, 18:08:03 pm
https://www.eastjournal.net/archives/97543

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UCRAINA: E se un comico potesse salvare il paese?
Oleksiy Bondarenko  1 giorno fa

A pochi giorni dal secondo turno elettorale che domenica prossima deciderà il futuro presidente del paese, sembra molto probabile che il vincitore possa essere davvero Volodymyr Zelensky, il comico che ha sorpreso gli osservatori internazionali dominando il primo turno con oltre il 30% di voti. Ad inseguire, sempre più in affanno, il presidente uscente, Petro Porošenko.

Una figura nuova

In molti, in Ucraina e all’estero, sostengono che Zelensky oltre ad essere un comico, giovane ed inesperto, sia anche una figura debole. “Ve lo immaginate un comico a negoziare con Putin?” ci è stato ripetuto nelle ultime settimane. Una domanda legittima, ma che ha il torto di dismettere troppo rapidamente quello che Zelensky potrebbe rappresentare.

Se da una parte Ze è sicuramente inesperto, dall’altra essere una figura nuova potrebbe rappresentare un grande vantaggio. In primo luogo perché difficilmente amici, colleghi e partner di vario tipo verranno a bussare alla porta chiedendo il conto dei vecchi favori. È sempre successo in Ucraina, e Porošenko non è un’eccezione, dato che ha disseminato i propri compagni politici e vecchi partner in affari tra le principali istituzioni dello stato. Anche se i nomi dei vari Kononenko e Svinarchuk (che ha cambiato il suo cognome in Gladkovskij, proprio quello coinvolto nel recente scandalo di UkrOboronProm) possono risultare sconosciuti ai molti, sono proprio loro ad aver beneficiato maggiormente della presidenza di Porošenko negli ultimi 5 anni, contribuendo in buona misura ad offuscare la sua immagine. Zelensky, al contrario, non ha un proprio clan politico-economico fatto da amici fidati e vecchi compagni di merende.

Un presidente debole e un ruolo nuovo per il parlamento?

Una delle conseguenze positive della probabile presidenza di Volodymyr Zelensky potrebbe toccare anche l’assetto istituzionale del paese. Non va dimenticato, infatti, che formalmente l’Ucraina è una repubblica semipresidenziale. Anche se quel ‘semi’ viene ricordato oggi soprattutto dai sostenitori di Porošenko che ci suggeriscono come il presidente, de jure, non sia responsabile dei problemi nella sfera economica (men che meno nella lotta alla corruzione!!!), spesso ci si dimentica che de facto i poteri del presidente oggi si estendono ben oltre i limiti formali. Uomini fidati al comando dei servizi di sicurezza (SBU), un amico a capo della procura generale e la posizione di Primo ministro occupata da un alleato di vecchia data (che non a caso ha rimpiazzato un meno malleabile Yatseniuk) hanno permesso, seppur informalmente, di concentrare il potere nelle mani del presidente rendendo l’Ucraina de facto una repubblica presidenziale.

Proprio da questo punto di vista la presidenza di Zelensky, uomo nuovo e per certi versi debole al cospetto dei vecchi squali della politica ucraina, potrebbe rappresentare una novità istituzionale positiva, avviando una lenta transizione verso il consolidamento di un modello veramente semipresidenziale. Non è nemmeno detto che questo passaggio debba avvenire per volontà dello stesso Zelensky. La storia dei regimi ibridi in transizione (soprattutto in Asia e America Latina) è piena di cambiamenti istituzionali ‘accidentali’.

L’importanza di questo fattore va ben oltre un ruolo più attivo del parlamento che dovrebbe rappresentare il principale limite ai poteri del presidente. Come sostengono numerosi studiosi, infatti, il principale effetto di un sistema semipresidenziale in contesti caratterizzati da un alto livello di corruzione e clientelismo, è proprio quello di limitare la concentrazione del potere nelle mani di una singola figura con la conseguente creazione di una singola piramide (di un singolo clan) intorno al presidente. Una presidenza più debole potrebbe così comportare la nascita di più centri di potere (parlamento e presidente) in competizione tra loro, limitando di conseguenza le possibilità di un nuovo accentramento del potere. Gli oligarchi non scompariranno certo con Zelensky, i cui legami con Igor Kolomoisky sono ben noti, ma un gioco più competitivo potrebbe paradossalmente consolidare l’assetto semipresidenziale del paese, promuovere un ruolo più attivo del parlamento e dare il via a una lenta transizione verso un modello più democratico, seppur mai ideale rispetto ai parametri delle democrazie consolidate.

Un candidato pro-russo?

Quello per Zelensky non appare solo un voto di protesta nei confronti dell’attuale politica economica, sociale e culturale, ma anche contro la posizione dell’attuale presidente sul conflitto. Il 63% degli ucraini, infatti, considerano la guerra in Donbass come il principale problema del paese.

Anche se la sua posizione sui rapporti con Mosca rimane poco strutturata e nonostante quello che dicono molti detrattori, difficilmente Zelensky come nuovo presidente potrà invertire il corso della politica internazionale e scendere ad accordi inaccettabili per Kiev (e per l’opinione pubblica) su Crimea e Donbass con il Cremlino. Sebbene il suo punto fermo sul tema più caldo – guerra in Donbass – sembra essere la consapevolezza di non poter determinare le sorti del conflitto con la forza, quindi lasciando le porte aperte ad un possibile dialogo con la Russia, ha sempre mantenuto una posizione piuttosto chiara, anche se pragmatica, nei confronti della direzione europea del paese. Pur partendo dall’idea che un allargamento dell’Unione non è in agenda per il prossimo futuro e che l’ingresso nella NATO non è tecnicamente possibile quando parte del territorio del paese è occupato dalla Russia, l’Ucraina continuerà a guardare all’Europa come punto di riferimento. Qualcuno può legittimamente gridare all’appeasement, ma quale altra soluzione realistica sia oggi disponibile, rimane una domanda senza risposta.

Se tutti sappiamo che sul piano internazionale le carte migliori non sono nelle mani di Kiev ma in quelle del residente del Cremlino, sul piano interno, però, la figura e la posizione di Zelensky potrebbe offrire più prospettive per la reintegrazione del Donbass. Il suo bilinguismo, nonostante un ucraino non perfetto e il russo come lingua principale, la sua posizione piuttosto moderata sulla natura multi-identitaria del paese – espresse anche tramite un sostegno selettivo alla decomunizzazione – e i suoi richiami ad una forma di ‘democrazia diretta’ secondo la quale le decisioni più importanti e controverse debbano essere sottoposte a referendum, potrebbero essere tutti elementi in un certo senso riconcilianti per una parte della popolazione dell’est del paese. Di certo sarebbe una cesura piuttosto chiara rispetto alla posizione sempre più etnonazionalista del presidente uscente (suo lo slogan: Esercito, Lingua, Fede). Non a caso, anche se il sostegno per il vincitore del primo turno è più forte nel sud-est, Zelensky è riuscito a vincere anche nella maggioranza delle regioni occidentali del paese, quelle storicamente più ucrainofone.

Tra populismo e società civile

È vero che il successo di Mr. Ze è probabilmente da attribuire alla sua vena che oggi chiameremmo populista. Il richiamo diretto alla contrapposizione tra popolo ed élite, l’uso dei social media, la grande popolarità tra i giovani sono solo alcuni degli elementi centrali del comico che vuole diventare presidente. Per capire davvero il suo successo però bisognerebbe fare attenzione ad usare semplici parallelismi con i populismi di matrice europea. La realtà in Ucraina è ben diversa e la qualità della classe politica e dei problemi legati ad essa (corruzione su tutti) sono imparagonabili con quelli delle democrazie europee, nonostante tutti i loro problemi. Nel contesto ucraino una possibile vittoria di Zelensky potrebbe essere letta come un segnale positivo per la società civile, quella reduce da EuroMaidan, che nonostante i numerosi problemi degli ultimi 5 anni, può ancora aspirare ad avere una voce senza per forza soccombere ai soliti volti noti della vecchia classe dirigente. Il punto quindi non riguarda tanto Zelensky e le sue capacità, quanto il fatto che la sua figura potrebbe rappresentare un punto di non ritorno nella lunghissima transizione del paese e nella complessa relazione tra società civile e politica nell’Ucraina post-sovietica.

Il giullare non cambierà di certo il paese in un baleno, ma gli effetti positivi potrebbero essere più di quelli che siamo capaci di vedere oggi.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 20, 2019, 18:09:07 pm
https://www.eastjournal.net/archives/97528

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RUSSIA: La Duma approva la legge sul controllo di internet
Eleonora Febbe  3 giorni fa

L’isolamento del RuNet è sempre più realtà. La Duma ha votato per la terza e definitiva volta a favore della legge “per garantire un funzionamento stabile e sicuro di internet”. Una legge controversa, che implicherebbe un maggiore controllo statale dei contenuti condivisi sul web e che potrebbe “disconnettere” la Russia dalla rete internet mondiale in caso di non meglio precisati cyberattacchi.

La stretta del Cremlino su internet

La legge è stata approvata con 307 voti favorevoli e 68 contrari. Prevede che, nel caso in cui un cyberattacco minacci l’accesso a internet della Russia, il Roskomnadzor – l’agenzia statale che controlla connessioni e comunicazioni di massa – possa prendere il controllo di internet, filtrando tutto il traffico web del Paese.

Perché questo possa avvenire, sarà necessaria l’installazione di sistemi di sorveglianza, che il Cremlino consegnerà gratuitamente ai fornitori di servizi internet di tutta la Russia, i quali saranno tenuti a bloccare l’accesso a determinati siti qualora richiesto dal Roskomnadzor. Si tratta di un sistema che dovrebbe essere attivato soltanto in caso di cyberminacce, ma molti temono che le autorità possano sfruttarlo anche per bloccare contenuti di opposizione, implementando un modello di censura sul web sempre più simile a quello cinese.

Una Russia sempre più autoritaria, anche online

La libertà di espressione sul web è già da tempo sotto attacco in Russia: nel suo rapporto sulla Freedom of the Net del 2018, Freedom House ha piazzato Mosca al 53° posto su 65 Paesi, stabilmente nella categoria degli Stati “non liberi”. Già l’anno scorso, il Roskomnadzor aveva bloccato Telegram in Russia dopo il rifiuto del fondatore, Pavel Durov, di consentire all’FSB di accedere ai messaggi degli utenti. Il blocco però era stato molto poco preciso, con siti e sistemi di messaggistica che venivano accidentalmente bloccati insieme a Telegram.

E anche nel caso della legge appena votata, una sua implementazione capillare rischia di essere imprecisa e di causare disagi al traffico internet, se approvata in via definitiva. Per ora, sarà sottoposta al voto nella camera alta del parlamento, il Consiglio Federale, il prossimo 22 aprile, prima della firma di Putin. Entrerebbe in vigore a partire dal 1 novembre 2019.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 20, 2019, 18:11:12 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Liberta-di-informazione-sempre-piu-giu

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Libertà di informazione: sempre più giù
19 aprile 2019

L'indice 2019 di Reporters senza frontiere mostra alcuni significativi peggioramenti. Anche in aree da cui ci si aspetterebbero situazioni meno problematiche. E nel Sud Est Europa si fanno notare - in negativo - Serbia e Ungheria

Il 6 ottobre 2018 la giornalista bulgara Viktoria Marinova veniva uccisa  . Quest’anno la Bulgaria rimane ferma al 111esimo posto  nella classifica sulla libertà di stampa stilata da Reporter senza frontiere, su un totale di 180 paesi esaminati. Con la presidenza di turno del Consiglio d’Europa, che la Bulgaria ha tenuto nei primi sei mesi del 2018 - si legge nella pagina dedicata al paese - ci si poteva aspettare un miglioramento nella condizione della stampa, ma appunto così non è stato.

Secondo i dati appena pubblicati, 88 paesi hanno peggiorato la loro posizione nel ranking rispetto allo scorso anno, 12 sono rimasti stabili e 68 hanno registrato un qualche miglioramento. In generale, dunque, le cose non vanno bene per la libertà di informazione. In questa classifica, tra i paesi dell’area balcanica, si fa notare il calo di 14 posizioni registrato dalla Serbia, arrivata alla 90esima posizione e dove appunto la situazione per i giornalisti e l’informazione è definita “non sicura  ”. “Il numero di attacchi nei confronti dei media è in aumento, comprese le minacce di morte - si legge nella pagina sulla Serbia - retorica incendiaria nei confronti dei giornalisti viene sempre più utilizzata dai funzionari del governo”.

Altrettanto consistente (-14) la perdita di posizioni registrata dall’Ungheria, che a livello di classifica risulta all’89esimo posto. In evidente peggioramento anche la situazione dell’Albania, che perde 7 posizioni e si ritrova all’82esimo posto, tra campagne denigratorie e minacce di morte ai giornalisti, ma anche azioni legali intese a intimidire e usate come deterrente dall’attività investigativa sulla corruzione. Tra l’altro Reporters senza frontiere inserisce l’Albania tra i paesi su cui tenere sotto stretto controllo la situazione della proprietà dei media  , insieme a Serbia, Turchia e Ucraina per quanto riguarda la regione Europa e Asia centrale.

Solo l’8% dei paesi a livello internazionale risulta avere una situazione “buona” per la libertà di informazione. I paesi che rientrano in questa ristretta fetta sono quasi tutti europei, con l’unica aggiunta del Costa Rica. Tuttavia anche in Europa i problemi non mancano. Se per esempio si prende il punteggio assegnato in base alla presenza di abusi e atti di violenza nei confronti dei giornalisti, la situazione nell’area Unione Europea e Balcani  risulta peggiorata: l'indicatore registra infatti un aumento di 1,7 punti percentuali, una differenza da notare visto che si parla di una delle regioni da cui ci si aspettano standard elevati e in cui, almeno in teoria, è garantitoun livello di libertà dei giornalisti tra i più alti. Invece la situazione risulta problematica non solo per l’intensificarsi di atti intimidatori in zone con governi considerati autoritari, dove sono sempre più diffuse le azioni legali nei confronti della stampa investigativa e in particolare le inchieste sulla corruzione. Ma desta particolare preoccupazione anche l'emergere di un più generale atteggiamento ostile nei confronti dei reporter, come nel caso degli attacchi e delle minacce nei confronti dei giornalisti durante le proteste dei gilet gialli in Francia  .

Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 26, 2019, 14:39:21 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Florian-Bieber-l-UE-non-tollerera-all-infinito-gli-autocrati-dei-Balcani-194216

Citazione
Florian Bieber: l’UE non tollererà all’infinito gli autocrati dei Balcani

Esperto di Balcani ed Europa orientale, professore presso l'Università di Graz, Florian Bieber traccia un profilo dei rapporti tra Balcani e Unione europea, spiegando perché Bruxelles sostiene leader autoritari

26/04/2019 -  Darvin Murić
(Originariamente pubblicato dal quotidiano Vijesti  )

In uno dei suoi articoli ha affermato che l’Unione europea sostiene i leader autoritari dei paesi dei Balcani. Perché, secondo lei? Solo per mantenere la stabilità nella regione oppure c’è qualche altro motivo?

Il motivo principale risiede nel fatto che negli ultimi cinque/sei anni l’Unione europea si è concentrata su altre priorità, come Brexit, le relazioni con gli Stati uniti, diverse crisi, lasciando in secondo piano la questione dell’allargamento. L’UE non vuole occuparsi molto dei Balcani, per cui le va bene ogni leader balcanico che sostiene di tenere la situazione nel paese sotto controllo e di essere filoeuropeo.

Ovviamente, non tutti i politici europei sono uguali; ci sono governi che prestano attenzione a ciò che sta realmente accadendo nei Balcani. La questione dell’allargamento non sarà mai una priorità assoluta nell’agenda dell’UE, ma finché non le verrà prestata maggiore attenzione l’UE continuerà a sostenere i leader balcanici che si offrono come garanti di stabilità, a patto che si dichiarino filoeuropei.

La leadership al potere in Montenegro sta sfruttando questa situazione a proprio vantaggio, per nascondere i problemi interni sotto il tappeto. Lo stesso vale per Vučić e il governo serbo. Ma non si può andare avanti così all’infinito, non è questa la strada che porta all’Unione europea. Tale comportamento viene tollerato solo prima dell’adesione all’UE. Molti stati membri si opporrebbero all’ingresso nell’UE dei paesi guidati dai leader autocratici, soprattutto a causa dei problemi avuti con l’Ungheria, la Polonia, la Romania e la Bulgaria. Se parlate con i diplomatici tedeschi e francesi vi diranno che non vogliono altri paesi simili nell’UE. I funzionari europei non hanno nulla contro i leader autocratici fintanto che restano fuori dall’UE, ma molti di loro non vorranno sedere allo stesso tavolo con Đukanović e Vučić né farsi fotografare con loro. La domanda è in quale misura gli stati membri sono disposti ad accettare il Montenegro e la Serbia nell’UE. Questo tema ora non è sul tavolo, ma un giorno lo sarà.

La Commissione europea ha più volte definito il Montenegro e altri paesi dei Balcani occidentali come paesi imprigionati. Anche lei è dello stesso parere? Come i leader dei Balcani occidentali sono riusciti a imprigionare i loro paesi?

L’espressione “paese imprigionato” illustra bene l’attuale stato di cose nei Balcani. La situazione però non è uguale in tutti i paesi. In Montenegro questa fenomeno si manifesta in maniera molto più accentuata rispetto agli altri paesi perché non c’è mai stato un cambio ai vertici dello stato. Il potere esecutivo non è mai stato svincolato dal controllo del partito, come avvenuto in altri paesi della regione dopo la caduta del comunismo.

Il motivo principale di questa situazione risiede nella debolezza delle istituzioni. Nei Balcani, compresi quei paesi dove c’è stato un cambio di regime, le istituzioni non sono mai state sufficientemente rafforzate, non sono diventate abbastanza forti da poter operare in modo indipendente. È un processo difficile.

Alcune persone in Macedonia mi hanno raccontato quanto sia difficile cambiare questa dinamica, quando, ad esempio, i giudici si aspettano che il governo dica loro come procedere in determinati casi. Non si tratta solo di pressioni da parte del potere; il problema è che anche i dipendenti delle istituzioni statali sono abituati ad obbedire agli ordini.


Il secondo motivo riguarda il controllo esercitato dai principali partiti politici. In Serbia il Partito progressista serbo (SNS) ha più iscritti del primo partito in Germania, che è 12 volte più grande della Serbia. La situazione è simile anche in Montenegro e in Macedonia, dove il numero di iscritti ai partiti politici è molto superiore alla media europea. Ciò si spiega con il fatto che per ottenere un lavoro bisogna essere iscritti a un partito. Questo dimostra che lo stato non funziona in modo indipendente rispetto ai partiti politici, che non sono partiti democratici bensì agenzie per l’impiego controllate da una ristretta élite. È un problema che affligge l’intera regione. All’interno di questa struttura, i leader autoritari agiscono esclusivamente nel proprio interesse. E anche quando cadono, la struttura resta in piedi, come dimostra l’attuale situazione in Macedonia.


In Kosovo, invece, non c’è solo un leader come Đukanović o Vučić, ma ce ne sono tre, e si scontrano reciprocamente. Questa situazione in un certo senso contribuisce a rafforzare il pluralismo politico, ma le istituzioni restano comunque imprigionate, solo che non sono controllate da una, bensì da più persone. Un eventuale cambio di potere in Montenegro o in Serbia non comporterebbe alcun cambiamento immediato del quadro istituzionale. È un processo che richiede molto tempo, le istituzioni non si costruiscono da un giorno all’altro.

Milo Đukanović di solito reagisce alle critiche, proteste e altre mobilitazioni anti-governative sostenendo che siano orchestrate da un nemico esterno, ovvero dalla Russia. Pensa che la presenza della Russia nei Balcani sia davvero così forte da poter rappresentare una minaccia alla stabilità che Đukanović e altri leader dei Balcani pretendono di difendere?

La Russia svolge un ruolo distruttivo nei Balcani, questo è fuori di dubbio. Dall’altra parte, però, la leadership al potere in Montenegro utilizza la narrativa del nemico esterno in modo strumentale ai suoi interessi. Sono d’accordo sul fatto che, prima dell’ingresso del Montenegro nella Nato, la questione della presenza russa nel paese era molto delicata, perché la Russia aveva un forte interesse nell’impedire che il Montenegro aderisse alla Nato. Ma il Montenegro è ormai membro della Nato ed è una questione chiusa. Come anche la questione dell’indipendenza del Montenegro. La decisione è ormai presa e non si torna indietro.

La Russia era contraria anche alla proposta di risolvere la disputa sul nome tra la Macedonia e la Grecia, ma quando l’accordo è stato raggiunto, Mosca lo ha salutato positivamente. I russi sono pragmatici, non hanno interessi strategici nei Balcani, vogliono solo creare caos per causare problemi all’UE e impedire l’allargamento della Nato. Se falliscono si concentrano su altri obiettivi, perché non hanno interessi strategici nei Balcani come in Ucraina e in altri paesi confinanti con la Russia, dove vogliono ad ogni costo bloccare l’allargamento della Nato. In Serbia la situazione è un po’ diversa perché il paese non vuole aderire alla Nato. La stabilità può essere costruita solo in una democrazia dotata di istituzioni indipendenti che poggia le sue basi sullo stato di diritto. È il modo migliore per impedire derive autoritarie.

In Montenegro sono in corso proteste anti-governative, iniziate dopo lo scoppio del cosiddetto “scandalo della busta”, ovvero dopo la pubblicazione di video che mostra un uomo d’affari consegnare una busta piena di soldi a un alto funzionario del partito al governo. Nel frattempo sono scoppiati anche altri scandali che coinvolgono i vertici dello stato. Pensa che questi eventi potrebbero far vacillare la leadership politica montenegrina al potere da 30 anni?

Forse è questa l’occasione giusta per un vero cambiamento per quanto riguarda il sistema di governo e la democrazia in Montenegro. Tutto dipenderà dalla pazienza dei cittadini che protestano e dalla loro capacità di formulare le richieste che potrebbero portare a qualche risultato. Le mobilitazioni e manifestazioni di protesta si svolgono in tutta la regione, in Serbia, in Albania; anche in Macedonia qualche anno fa ci sono state proteste anti-governative. I movimenti di protesta a volte ottengono certi risultati, a volte falliscono. Molto dipende dalla pazienza e dalla prontezza dei cittadini a protestare per un periodo sufficientemente lungo, nonché dalla loro capacità di formulare richieste realistiche.

È inoltre necessario che il movimento di protesta instauri una qualche forma di collaborazione con le forze che offrono un’alternativa politica. In Serbia, come abbiamo visto, il problema principale è che le forze di opposizione sono deboli, nel senso che non offrono alcuna soluzione concreta e i cittadini non le percepiscono come una valida alternativa politica.

In Macedonia la situazione era diversa, perché i manifestanti avevano instaurato stretti rapporti con l’opposizione, e questa collaborazione aveva portato risultati concreti. Tutto era cominciato con lo scoppio di una serie di scandali, che avevano dimostrato come il governo abusasse dei suoi poteri; poi i cittadini erano scesi in strada ed era riuscita a imporsi una forza politica alternativa in grado di offrire un approccio diverso. Solo mettendo insieme tutti questi fattori è possibile giungere a un vero cambiamento politico, e in Montenegro evidentemente mancano ancora questi presupposti. Vedo che l’opposizione montenegrina è profondamente divisa; le forze di opposizione hanno idee diverse su come guidare il paese e godono di scarsa fiducia dei cittadini. I cittadini scendono in strada per protestare anche a dispetto dell’opposizione, non sulla spinta dell’opposizione.

L’opposizione montenegrina ha recentemente firmato un accordo con gli organizzatori delle proteste e ha appoggiato i cittadini che scendono in piazza per protestare. Pensa che i partiti di opposizione abbiano capito che le divisioni non portano da nessuna parte e che solo uniti possono combattere il potere?

Questo è sicuramente un segnale. È ovvio che un’opposizione divisa non può conseguire alcun risultato. Il problema è che tra i partiti di opposizione montenegrini esistono differenze sostanziali, nel senso che alcuni partiti offrono un’alternativa filoeuropea focalizzata sulle riforme, e altri invece una politica piuttosto retrograda e nazionalista, ed è molto difficile unire tutte le forze di opposizione quando ci sono alcuni politici, come Nebojša Medojević, che diffondono le teorie del complotto dell’estrema destra. Questa retorica è in contrasto con l’idea di un cambiamento finalizzato all’attuazione di riforme serie, alla creazione di istituzioni indipendneti e al miglioramento delle condizioni di vita. Questo è un problema per l’opposizione. Se l’opposizione dovesse decidere di ritirare l’appoggio alle proteste perderebbe ogni credibilità. Non intravedo nella situazione attuale alcuna possibilità che venga compiuto un passo decisivo verso un cambiamento della dinamica politica nel paese. Il Montenegro ha bisogno di un cambiamento sostanziale del sistema politico; è necessario separare lo stato dal partito al potere e rompere l’egemonia di quest’ultimo, ma è un processo che avanza un passo alla volta, e al momento non intravedo alcuna strategia finalizzata al raggiungimento di questo obiettivo.

Secondo lei è possibile raggiungere questo obiettivo senza l’aiuto della comunità internazionale?

Penso che sia molto difficile. L’energia, le iniziative e le idee devono venire dal paese, se vengono da fuori non porteranno ad alcun risultato. Dall’altra parte, è molto difficile ottenere il sostegno della comunità internazionale, ma è altrettanto difficile riuscire senza di esso. Prendiamo l’esempio della Macedonia. All’inizio delle proteste, i principali attori internazionali, soprattutto l’Unione europea, erano piuttosto scettici. Per loro, purtroppo, in queste situazioni la stabilità è più importante dello stato di diritto. È sufficiente che il governo dichiari formalmente di essersi impegnato ad assicurare lo stato di diritto. Un altro aspetto che può rivelarsi problematico è legato al fatto che i governi possono sfruttare l’inerzia degli attori internazionali a proprio vantaggio, sostenendo di godere del loro appoggio. Questo ostacola ulteriormente ogni tentativo di introdurre cambiamenti interni.

Inoltre, se l’opposizione è favorevole all’ingresso del paese nell’Unione europea deve essere credibile, affermando di essere in grado di perseguire questo obiettivo con maggiore efficacia rispetto al governo, e deve cercare di ottenere il sostegno della comunità internazionale. Credo che ciò sia possibile, ma bisogna agire secondo una precisa strategia. Abbiamo visto che la cancelliera tedesca Angela Merkel non ha incontrato Milo Đukanović durante la sua recente visita a Berlino, e questo non senza motivo. La Merkel non ha voluto incontrare Đukanović, dimostrando in tal modo che Berlino sta perdendo la pazienza nei confronti dell’élite al potere in Montenegro. Bisogna sfruttare questo momento. Secondo me, l’opposizione montenegrina dovrebbe cercare di instaurare e rafforzare buoni rapporti non solo con i governi dei paesi occidentali ma anche con i partiti politici europei. Le coalizioni di partiti politici europei sono molti forti e possono giocare un ruolo negativo, fornendo sostegno ai regimi autoritari. Orbán gode del sostegno dell’Alleanza dei conservatori e dei riformisti europei, mentre il partito al governo in Montenegro, il Partito democratico dei socialisti, ha ottenuto il sostegno dell’Alleanza dei socialisti e democratici europei. Quindi, se volete criticare e cambiare la situazione politica nel paese dovete intrattenere buoni rapporti con i partiti politici europei.

Il Montenegro e la Serbia si trovano in una situazione simile per quanto riguarda sia i negoziati di adesione all’Unione europea sia il sistema di governo. Vučić e Đukanović a volte sembrano andare d’accordo, a volte si criticano a vicenda, ricorrendo alla retorica nazionalista. Pensa che questi scontri tra Vučić e Đukanović, ma anche tra gli altri leader dei paesi dei Balcani, siano solo una messinscena?

Vučić e Đukanović usano strategie molto simili. Ricorrono alla retorica nazionalista quando conviene loro, per provocare tensioni. Sono allo stesso tempo piromani e pompieri. Hanno sempre bisogno di crisi per poter presentarsi come garanti di stabilità. Se non ci fossero crisi, scontri, problemi bilaterali, nazionalismi, cosa farebbero Vučić e Đukanović? Il loro potere si nutre di crisi. Sono molto pragmatici, è proprio grazie al fatto di essersi dimostrati più pragmatici di altri leader politici che sono riusciti a salire al potere. Io non ci vedo alcuno scontro, è una messinscena. Anche per quanto riguarda le relazioni tra Serbia e Kosovo, non credo che Thaçi e Vučić siano migliori amici, ma quel gioco in cui si odiano a vicenda non è nient’altro che una messinscena, pensata soprattutto per il pubblico locale.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 04, 2019, 20:11:50 pm
https://www.eastjournal.net/archives/97758

Citazione
RUSSIA: Primo maggio all’insegna di arresti e violenze
Leonardo Scanavino  2 giorni fa

Mercoledì primo maggio, durante le manifestazioni per la Festa dei Lavoratori, la polizia e i servizi di sicurezza hanno arrestato oltre cento persone in tutta la Russia, in particolare nella città di San Pietroburgo. Nella lista spuntano i nomi di attivisti dell’opposizione e membri dei sindacati, alcuni dei quali sono stati fermati ricorrendo all’uso della forza.

I disordini a San Pietroburgo

Nella seconda città più grande del paese, la polizia ha interrotto una protesta dell’opposizione e ha arrestato 66 persone dopo che i partecipanti, secondo quanto riportato da un attivista del gruppo di monitoraggio OVD-Info, avevano intonato dei cori critici nei confronti del presidente Vladimir Putin. Alcuni manifestanti gridavano “Putin è un ladro” oppure “questa è la nostra città”, mentre altri mostravano cartelli riportanti le scritte “Putin non è immortale”, “per libere elezioni” o “San Pietroburgo contro Russia Unita”, il partito che sostiene il presidente.

Secondo quanto riportato da Radio Free Europe, il primo maggio nella sola San Pietroburgo sarebbero stati presenti circa duemila sostenitori del leader dell’opposizione Aleksei Navalny, il quale su Twitter ha commentato gli arresti scrivendo “Tremendo. Sono stati catturati durante una manifestazione senza nessuna valida motivazione”. Il deputato locale Maksim Reznik, che è stato a sua volta arrestato e poi rilasciato, ha condiviso una foto che mostra gli agenti della polizia mentre lo trascinano violentemente sull’asfalto.

La situazione nel resto del paese

In altre città del paese, inclusa la capitale Mosca, migliaia di persone hanno manifestato all’interno dei cortei che erano in programma per la Festa dei Lavoratori. Alcuni sventolavano bandiere rosse, altri intonavano cori di protesta e altri ancora innalzavano cartelli con scritte contro il presidente Putin.

Secondo il conteggio riportato sul sito di OVD-Info, sarebbero 125 in totale le persone arrestate in tutto il paese. Anche se il maggior numero degli arresti è concentrato a San Pietroburgo, nel resto del paese la situazione non si è rivelata particolarmente tranquilla, con sedici persone arrestate e poi rilasciate  a Petropavlovsk-Kamchatsky, 10 a Tomsk, 8 a Kursk e altri ancora in diverse località. Alcuni non sarebbero ancora stati rilasciati.

Le proteste del primo maggio hanno luogo in un momento particolarmente complicato per Putin, il quale vede il suo consenso scivolare al di sotto del 60 percento, dopo aver toccato picchi di oltre il 90 percento. Secondo i sondaggisti, le motivazioni di questo abbassamento sarebbero parzialmente dovute all’annuncio del governo di voler alzare l’età pensionabile e aumentare l’imposta sul valore aggiunto dopo cinque anni di abbassamento costante dei redditi, misure poco gradite alla maggior parte dei russi.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 04, 2019, 20:18:46 pm
https://www.balcanicaucaso.org/Tutte-le-notizie/Il-freno-alla-mobilita-dell-Europa-orientale-194263

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Il freno alla mobilità dell’Europa orientale

Le nuove norme europee sul trasporto di merci su strada, che impongono restrizioni all’accesso delle aziende dell’Europa orientale ai mercati occidentali, sono percepite da diversi paesi dell’Est come l’ennesimo tentativo di impedire ai cittadini dei nuovi stati membri Ue di beneficiare dei vantaggi del mercato unico

03/05/2019 -  Ilin Stanev
(Articolo pubblicato originariamente da Capital su EDJnet   il 16 aprile 2019)

"Oggi siamo testimoni di una grave tragedia". L'europarlamentare svedese Peter Lundgren non si riferisce alle terribili conseguenze della Brexit, l’attuale dramma che coinvolge l’Ue. Né all'incapacità dell'Europa di intervenire e prevenire la sanguinosa guerra civile in Siria. La disillusione di Lundgren è causata da qualcosa di completamente diverso: il voto fallito del 27 marzo per l’adozione delle modifiche al cosiddetto Mobility Package 1  , la normativa comunitaria che disciplina i tempi di lavoro e la retribuzione degli autotrasportatori. Gli emendamenti sono stati poi adottati una settimana più tardi.

Questo tema, a prima vista, non sembra meritare toni tanto drammatici. Ma il Mobility Package 1 costituisce una delle normative Ue più controverse degli ultimi tempi. Non ha attirato l'attenzione mondiale riscossa dalla riforma del diritto d’autore, in occasione della quale Bruxelles ha cercato di tenere a bada giganti come Google e Facebook; né le controversie hanno mai raggiunto il livello del dibattito sui migranti. Ma negli ultimi due anni, da quando la Commissione europea le ha proposte, le nuove regole per il trasporto di merci su strada contrappongono est e ovest, creando una nuova spaccatura tra i paesi più ricchi, che cercano di proteggere i loro posti di lavoro ben remunerati, e i paesi dell’ex blocco sovietico, che cercano a tutti i costi di recuperare il divario.

Cos’è e come funziona il Mobility Package
In sostanza la nuova legislazione pone restrizioni all’accesso delle aziende dell’est ai floridi mercati dell'Europa occidentale. Gli autotrasportatori dovranno infatti assicurarsi che i loro guidatori tornino a casa per riposare almeno una volta ogni quattro settimane (il Parlamento europeo ha votato un emendamento che richiede che anche i camion rientrino alla base). Ciò significa che le aziende dei paesi periferici come Bulgaria o Lettonia possono operare per non più di 2 settimane consecutive nei vantaggiosi mercati ad esempio di Francia e Paesi Bassi. Inoltre la retribuzione dei conducenti dovrà raggiungere il minimo salariale locale (se è superiore rispetto al livello del loro paese nativo) non appena attraversano il confine, e questo annullerà il vantaggio in termini di costi per gli autotrasportatori e i conducenti dell’Europa orientale.

Le imprese dell'est Europa sfruttano la vantaggiosa possibilità di avere dipendenti relativamente economici, soprattutto per i minori versamenti previdenziali nei loro paesi di origine, e per la loro disponibilità a trascorrere molto tempo sulla strada. Il vantaggio in termini di costi, chiaramente, mostra anche aspetti negativi: i camionisti raramente trascorrono la notte in hotel, dormendo all’interno dei loro mezzi, e spesso tornano dalle loro famiglie solo una volta ogni tre mesi. Nel quadro dell’attuale legislazione, dovrebbero essere adottati i congedi obbligatori richiesti. Molti dipendenti in ogni caso accettano questi lavori perché sono ben remunerati, almeno per gli standard dei loro paesi d’origine.

La domanda è dunque: dovremmo impedire ai lavoratori di accettare lavori più duri? 

I governi, i sindacati e le imprese dell’area occidentale dicono di sì. Secondo loro, i conducenti sono sfruttati dai datori di lavoro che si rifiutano di rispettare le norme sociali più stringenti tipiche dell’Europa occidentale.

I governi e le aziende di trasporti dell’est europeo, invece, dicono di no: sostenendo che il libero mercato consente a tutti di perseguire i propri interessi, dando agli autotrasportatori dell'est la possibilità di guadagnare salari equivalenti a quelli dei colleghi occidentali. 


Secondo la cosiddetta “Road Alliance" (Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Svezia e Norvegia), il Mobility Package 1 impedirà la concorrenza sleale provocata dal social dumping, la pratica per cui le società creano sedi in paesi con salari più bassi e meno norme sociali. Nella sua recente lettera ai cittadini europei  , Emmanuel Macron ha dipinto l’immagine di un’Unione europea più forte e con nuove energie, ma ha minimizzato l'importanza del mercato unico del continente: “Un mercato unico è di certo utile, ma non dobbiamo dimenticare la necessità di mantenere frontiere di protezione e valori unificanti".

L'alleanza dei cosiddetti "paesi che condividono la stessa posizione"   (una variabile coalizione di paesi guidata da Polonia, Bulgaria, Lettonia, Lituania, Estonia, Ungheria e Romania) ha assunto una posizione opposta: secondo loro, la nuova normativa è un altro esempio di politica protezionistica mascherata da preoccupazione sui diritti sociali, che mira a impedire alle aziende dell’Europa orientale di competere a parità di condizioni coi loro colleghi ad ovest. "Ho la sensazione che se le aziende con sede in grandi paesi svolgono attività commerciale in Europa orientale, questo si chiama libero mercato. Se invece le aziende orientali operano nei paesi occidentali, si tratta di concorrenza sleale e social dumping", sostiene l’europarlamentare socialista bulgaro Pietro Kouroumbashev, esprimendo i sentimenti condivisi da molti nell’est Europa.

Tuttavia, sembra che il Mobility Package 1 diventerà presto legge, malgrado l'opposizione dei paesi orientali. È stato approvato in prima lettura dal Parlamento europeo e dal Consiglio. Entrambe le istituzioni dovranno trovare un compromesso dopo le elezioni di maggio, quando si comporrà il nuovo Parlamento europeo.

Ovest contro est
In ogni caso gli scontri non accennano a placarsi. Queste controversie continueranno a gettare ombre sul rapporto tra i paesi membri in Europa occidentale e in quella orientale.

La Commissione europea ha proposto  il Mobility Package 1 nel 2017 per rispondere all’adozione da parte di diversi paesi, come Francia e Germania, di normative che puntavano a limitare le operazioni delle imprese dell’est europeo nei loro mercati. Nel suo ruolo di custode dei trattati, la Commissione ha inizialmente risposto adottando azioni legali   nel 2016 nei confronti di entrambi i paesi, affermando che "l'applicazione sistematica delle norme relative al salario minimo da parte di Francia e Germania a tutte le operazioni di trasporto nei loro rispettivi territori limita in modo sproporzionato la libera prestazione di servizi e la libera circolazione delle merci". Tuttavia più tardi la Commissione europea ha assunto una posizione largamente a favore della "Road Alliance", adottando tutte le misure proposte dagli 8 stati membri. Improvvisamente, le nuove norme sono entrate nell’agenda “A Europe that Protects” dell'esecutivo dell’Unione europea.

Il cambiamento di opinione della Commissione europea è in gran parte determinato dalla Brexit: il referendum per l’uscita del Regno Unito, tenutosi poche settimane dopo l’avviamento delle procedure d’infrazione contro Francia e Germania, è stata una doccia fredda per le istituzioni di Bruxelles, impegnate a bloccare qualsiasi fonte reale o percepita di malcontento del Regno Unito verso l’Ue. Mentre uno di questi problemi è stata senza dubbio l'immigrazione, l'altro era la concorrenza da parte della manodopera proveniente dall’Europa orientale.

Di fronte al crescente sentimento antieuropeo in Francia e in Germania, la Commissione europea si è precipitata a smorzare eventuali voci riguardo alla Frexit, dando a Macron una potente arma contro i suoi avversari nelle elezioni presidenziali del 2017. Invece di combattere le disposizioni nella cosiddetta Loi Macron  , che ha introdotto una serie di misure percepibili come contrarie alla lettera e allo spirito del mercato unico, la Commissione europea ha deciso di approvarle, solo pochi giorni   dopo le elezioni presidenziali   in Francia. Questa mossa ha fornito a Macron un buon elemento di discussione sul social dumping durante la sua campagna, e un inizio in discesa come neo-eletto Presidente.

Questa successione di eventi non è stata accolta con piacere in Europa orientale. Attualmente, le norme abbastanza liberali del mercato unico dell'Unione hanno consentito al Pil pro capite della Romania di aumentare di oltre il 60% dal 2006, mentre la Repubblica Ceca risulta già più ricca del Portogallo. Qualsiasi misura che danneggi questo processo di recupero è considerata un affronto dalla maggior parte dei governi dell’est Europa. Mentre le politiche come Mobility Package 1 possono contribuire a calmare gli animi in Occidente, sempre più spesso fanno nascere sentimenti antieuropei nella parte orientale del continente.

Nel corso dell’ultimo decennio, i paesi più ricchi si sono lamentati sempre più riguardo al minor livello fiscale e retributivo che caratterizza i nuovi stati membri, accusati di favorire una forma di social dumping. I governi dei nuovi stati membri temono che una nuova serie di proposte legislative in materia, quali l'armonizzazione fiscale e il salario minimo, teoricamente positive, seguirà l’esempio del Mobility Package 1, soffocando il loro potenziale di crescita e provocando un'altra ondata di emigrazione di lavoratori qualificati.

Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network   ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 04, 2019, 20:26:10 pm
E' un articolo di sette anni fa; ma lo riporto ugualmente.

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Le-strade-pericolose-dell-Albania-119957

Citazione
Le strade pericolose dell’Albania

In Albania circa 350 persone muoiono ogni anno in un incidente stradale. Questo è quanto hanno reso pubblico Open Data Albania, il ministero dei Trasporti e il ministero della Sanità del paese balcanico. Molte le cause, tra cui la rete stradale inadeguata all’enorme traffico attuale e l'indisciplina degli automobilisti albanesi che non sono proprio i più scrupolosi d’Europa

18/07/2012 -  Marjola Rukaj
Un bilancio da guerra, che riferendosi ai dati resi pubblici recentemente sembra peggiorare di anno in anno. L’Albania si aggiudica per via di queste statistiche sconcertanti, il primo posto nei Balcani per quanto riguarda la pericolosità stradale, e sprofonda nella lista nera con un bilancio comparabile a quello del Sudafrica. Nel 2010 secondo un preoccupante report reso pubblico da Open data Albania, sono rimasti coinvolti in incidenti stradali ben 1564 veicoli, facendo degli incidenti una normalità quotidiana, dall’incidenza di 39 su 10 mila veicoli ogni anno.

Oltre a numerosissimi incidenti di autovetture e motocicli, negli ultimi due anni sono avvenuti diversi incidenti gravi, dal bilancio fatale: un autobus di studenti è precipitato da uno strapiombo nella zona di Puka, nel nord del paese, un altro ha avuto la stessa sorte nell’Albania del sud percorrendo l’asse Tirana-Atene, mentre poche settimane fa il paese è rimasto sconvolto da un altro incidente avvenuto a Himara, sempre un autobus precipitato mentre trasportava degli studenti universitari di Elbasan in gita verso il sud del paese. Tutti episodi drammatici, che sono costati la vita a decine di passeggeri, e che hanno attirato l’attenzione degli albanesi su un fenomeno che oltre a essere cronaca quotidiana preoccupante, costituisce un problema da affrontare seriamente.

Orgoglio su quattro ruote
La causa principale: in Albania circolano troppe macchine. La rete stradale seppur notevolmente migliorata negli ultimi anni, rimane poco adeguata all’enorme traffico attuale e gli albanesi non sono proprio gli autisti più scrupolosi d’Europa.

Possedere una macchina, possibilmente una immortale Mercedes, è ormai una questione di prestigio. Che in questo paese ci siano più Mercedes che in Germania, è ormai una frase iperbolica strausata dal giornalismo mainstream nei reportage sull’Albania. Per un paese che prima degli anni '90 offriva un paesaggio urbano privo di macchine private, qua e là attraversato da qualche bicicletta austera di produzione cinese, ora possedere un'automobile è indispensabile, sia per chi proviene dallo spazio urbano sia per gli abitanti delle zone rurali.


Voglia di riscatto? Certamente. Occidentalizzazione e conti aperti con le frustrazioni del comunismo. Ma non solo. La causa principale è che dopo il crollo del comunismo, i trasporti pubblici albanesi sono sprofondati in una crisi irreversibile. Le stazioni interurbane si sono trasformate in luoghi malfamati abbandonati, rifugio per i senzatetto e per traffici poco decorosi, malgrado la loro centralità nello spazio urbano. I privati che si sono sostituiti al deceduto sistema dei trasporti pubblici statali, hanno contribuito a complicare ulteriormente la situazione in balia della disorganizzazione, e delle rivalità tra gli autisti e le compagnie di autobus o furgoni. Basti pensare che in quasi tutti i centri urbani albanesi trovare dove partono i mezzi per determinate destinazioni è un’impresa tutt’altro che facile per i forestieri. Se si vuole essere efficienti e autonomi, disporre di un'automobile propria è l’unica soluzione. Il risultato è il traffico perennemente caotico e le strade bloccate. A tutto ciò c’è da aggiungere il traffico proveniente dall’estero in particolar modo nei mesi estivi, mentre molti migranti rientrano in Albania per trascorrere le ferie tra il mare e i parenti.

Io parto in treno

Autostrade di campagna
La rete stradale albanese è notevolmente migliorata negli ultimi anni. In particolar modo gli assi più importanti del paese, come quello che collega Valona e Tirana, o Tirana e Morina - la famosa autostrada della nazione [vedi box sotto]. Numerosi anche gli assi secondari, e prossimamente tra diverse inaugurazioni gli albanesi avranno un miglior collegamento anche con la Macedonia e con la Grecia.

Questi due ultimi assi stradali, dove avviene il maggior flusso di trasporti internazionali dell’Albania, con i suoi partner economici principali per via terra, la Grecia e la Macedonia, sembrano essere le ultime priorità nella rete stradale albanese, nonostante l’importanza economica. Se ne è parlato circa un anno fa, quando nelle colline a sud-est di Fier un autobus della linea Tirana-Atene ha perso il controllo causando la morte di almeno una decina di passeggeri. Le scarse simpatie del governo Berisha per il sud socialista, la poca professionalità e l’arbitrarietà delle politiche intraprese sono solo alcune delle spiegazioni che circolano tra gli albanesi.

L’incidente sulla Tirana-Atene ha gettato luce anche sul fatto che il sistema stradale albanese rimane in parte in balia degli errori fatti dai progettisti durante il comunismo, in cui si cercava di lasciare liberi i pochi terreni agricoli del paese, costruendo in altitudine con minor costo possibile anche laddove il terreno è geologicamente poco stabile. Ma appunto le vecchie strade sono state progettate in tempi in cui l’Albania era un paese agricolo, isolato dal mondo, dal traffico assolutamente non paragonabile a quello odierno.

Spesso gli esperti denunciano che alcuni difetti di quel sistema dalle corte vedute non sono stati migliorati, tra cui le autostrade a due corsie che rimangono pur sempre insufficienti a lungo termine. Come in passato spesso sono considerate con enorme relativismo le misure di sicurezza, come le barriere ai bordi delle strade esposte in altitudine. Riguardo l’ultimo grave incidente a Himara, gli esperti hanno dichiarato ai media albanesi che l’incidente non sarebbe stato così grave se la nuova strada nel sud del paese fosse stata costruita rispettando tutte le norme di sicurezza. Inoltre sono numerosi gli errori progettuali, le deviazioni per via di conflitti con i proprietari dei terreni, o la segnaletica non ben studiata. Nonostante gli assi nazionali albanesi siano parte di vari corridoi geopolitici che attraversano i Balcani, il nuovo sistema stradale sembra appena sufficiente ai flussi attuali del paese.

La via della Nazione

Automobilisti si nasce
Gli albanesi scommettono sempre che non sarà lontano il giorno in cui nella Formula Uno sbarcherà qualche albanese che toglierà il fiato a tutti. Perché guidare spericolati sembra essere lo sport preferito e quotidiano degli albanesi. Sfidare la segnaletica, le regole e arrangiarsi è all’ordine del giorno. La polizia stradale è un ostacolo sormontabile, addirittura sulla corruzione dei suoi dipendenti circolano molti aneddoti divertenti. Ma spesso la relatività con cui gli albanesi trattano le regole della circolazione stradale poggia nelle scarse conoscenze, e nella pessima preparazione delle scuole guida. E’ facilissimo ottenere la patente in Albania, dopo solo un mese di scuola guida, e poca pratica, in scuole sovraffollate, mentre spesso gli istruttori sono solo degli autisti che hanno ben poco a che fare con la didattica. Secondo le statistiche rese pubbliche di recente dall’Associazione delle vittime degli incidenti stradali più della metà degli incidenti viene causata da cittadini che hanno la patente da meno di cinque anni. Mentre nel 40% dei casi le vittime sono dei pedoni che attraversano la strada.


La scarsa sicurezza stradale è un problema quotidiano degli albanesi. Diverse associazioni, e persino le autorità riconoscono la necessità di dover intervenire, ma per ora, oltre alla volontà più volte espressa nei media, passi concreti sembrano ancora lontani.



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Colpa degli automobilisti
Fatmir

(09/08/2012 11:15)

Più che colpa delle strade darei la colpa agli automobilisti albanesi che sono i peggiori che ho mai visto. La citta messa peggio è Tirana, per entrare nelle rotonde ti devi fare la crocce perchè sembra che la gente non abbia mai vista una rotonda in vita sua, per non dire che passano quasi sempre con il rosso, in Italia le loro patenti durerebbero si e no una settimana, altro che strade pericolose....

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Strade albanesi
Simona

(23/07/2012 12:15)

E' giusto dire quello di positivo c'è in Albania. Purtroppo circolano molte macchine con targhe italiane con autisti dalla guida che dire spericolata è un eufemismo. Vivo a Tirana e spesso mi dico che in Italia certe cose non le farebbero perchP a forza di punti sottratti la patente durerebbe pochi mesi: Purtroppo manca una repressionee punizione vera delle trasgressioni. Le strade sono molto migliorate e solo raramente sono la causa degli incidenti per lo più dovuti all'imperizia e alla prepotenza dei guidatori


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incidenti
daniel

(20/07/2012 08:30)

il caos delle machine e vero pero solo nella "metropoli" di Tirana e Durazzo e forse causato per di piu dall piano urbanistico che nn ha mai previsto i posti machina nei nuovi condomini, l'incidenti poi vengono causati per una massicia presenza di automobilisti che vivono all estero e tornano per le vacanze, il grande flusso che poi dal porto di durazzo porta a Kossova e oviamente come nel caso dei autobus un controlo mecanico da paura


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La causa principale è davvero il numero di macchine???
Leyla

(19/07/2012 09:00)

leggo sempre con molto interesse gli articoli delle Sig. Rukaj, trattano sempre temi e problemi reali, la cosa di cui mi spiaccio però è questo taglio negativo e pessimistico che viene sempre dato. Non vengono mai esaltati i cambiamenti postivi che questo Pese sta vivendo. Le strade sono tuttora un problema, è vero, però negli ultimi anni - autostrada a parte- vi sono state apportate molte migliorie, ad esempio è stato creato il nuovo ponte a Scutari utilissimo nel periodo estivo per i collegamenti con il MOntenegro, e la stessa strada per la capitale non è più la stessa di tre anni fa, i tempi di percorrenza si stanno abbreviando. Sul fatto di possedere troppe automobile bhe... non concorderei pienamente. Vada a farsi un giro al nord in periodo di bassa stagione e faccia un po' una stima tra il numero di biciclette e di auto in circolazione, poi mi sappia dire. Le do pienamente ragione sulla guida, alquanto spericolata e troppo spesso causa di incidenti mortali.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Maggio 04, 2019, 20:55:37 pm
In Russia circolano tutti con la telecamera
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: gluca - Maggio 05, 2019, 00:48:03 am
Qui si capisce anche il perché :D
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 05, 2019, 01:38:07 am
https://www.corriere.it/esteri/12_novembre_17/guidare-russia_fba2d6f6-30f7-11e2-baec-20f01743e162.shtml

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Guidare in Russia, una follia
Il video collage degli incidenti più assurdi è stato cliccato un milione di volte
Dal nostro corrispondente Fabrizio Dragosei

Lo sanno tutti che le strade russe non sono le più tranquille del mondo, ma il collage di filmati che è già stato visto in internet da un milione di persone, è veramente scoraggiante, terrificante e allo stesso tempo esilarante.

Guidare in Russia, una follia- Il video cha ha fatto un milione di clic

Decine di incidenti e di eventi assolutamente inattesi, tutti risoltisi per fortuna senza vittime e, sembrerebbe, perfino senza feriti seri. La vecchia Zhigulì, copia della nostra Fiat 124 d’annata, che viaggia completamente coperta da un covone di fieno; i furbetti della strada che tentano di infilarsi a destra e finiscono dentro a buche orrende o sul guard rail. E poi le inattese apparizioni: cavalli, elicotteri, jet da combattimento.
Con appena 143 milioni di abitanti, la Russia ha quasi lo stesso numero di morti sulle strade degli Stati Uniti che di abitanti ne hanno più del doppio (315 milioni): 28 mila morti contro 38 mila. Per avere una idea di quello che avviene in Europa, il numero dei morti nel 2011 sono stati 3860 in Italia e 4000 in Germania (con una popolazione di 82 milioni, contro i nostri 60 milioni), dove le autostrade spesso non hanno limiti di velocità. Si, perché si muore in città e sulle strade extraurbane e non sulle autostrade che sono enormemente più sicure: in Italia nel 2011 sono decedute circa 1750 persone nelle città, altrettante sulle strade extraurbane e solo 340 in autostrada. E in effetti anche i filmati russi sono stati tutti ripresi in città o su strade normali, non in autostrada.

Assolutamente incomprensibili alcuni degli incidenti: l’auto che incappa in un cavo elettrico penzolante e che si rovescia; i camionisti folli che sorpassano anche se vedono benissimo vetture che arrivano in senso contrario; pedoni che attraversano senza guardare (in Russia!!!); passeggeri di pulmini sbalzati fuori in curva, eccetera. L’alcool è ovviamente una delle principali cause degli eventi registrati. In Russia la tolleranza è ufficialmente tornata da qualche mese a zero ma, chiaramente, non è rispettata. Da notare il fatto che sono ormai moltissimi gli automobilisti che girano con a bordo un videoregistratore montato sul cruscotto e tenuto sempre acceso. Serve a incastrare i tantissimi poliziotti che estorcono pagamenti in contanti per non far scattare fantasiose multe. E vengono pure utilizzati per documentare gli incidenti con le sospettosissime compagnie di assicurazione. Naturalmente quando chi ha registrato è coinvolto ed ha ragione. Guidare in Russia, dunque, non è da tutti. Ed è certamente una bella avventura. Buon viaggio!

17 novembre 2012 | 21:48
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 05, 2019, 01:53:50 am
http://www.ansa.it/nuova_europa/it/notizie/rubriche/economia/2017/03/16/romania-mille-poliziotti-protestano-contro-bassi-salari_57458845-1af4-4656-a499-fcedde186c59.html

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Romania: mille poliziotti protestano contro bassi salari
Circa 38mila fra agenti e impiegati guadagnano meno di 320 euro
16 marzo, 18:05


(ANSA) - TRIESTE, 16 MAR - Un migliaio di poliziotti rumeni ha protestato a Bucarest per chiedere aumenti salariali. Lo riporta l'agenzia Ap, secondo cui decine di migliaia di agenti sono pagati col salario minimo o anche di meno. Marius Barbulescu, leader del sindacato Mihai Viteazul, ha dichiarato che gli agenti dovrebbero ricevere un salario minimo mensile di 1.450 lei, pari a 320 euro circa, cui si dovrebbero aggiungere una serie di benefit in linea con altri lavoratori pubblici. Il mese scorso, circa 38mila poliziotti e impiegati del ministero degli Interni hanno ricevuto invece un salario mensile compreso fra 1.250 e 1.450 lei.

Agenti provenienti da varie zone della Romania si sono raccolti davanti al ministero degli Interni, urlando "ladri", suonando fischietti e vuvuzela, agitando bandiere della Romania.

Barbulescu ha dichiarato all'agenzia nazionale Agerpress: "Stiamo fronteggiando umiliazioni difficili da descrivere a parole". I leader sindacali hanno incontrato il ministro degli Interni, Carmen Dan, per discutere le proprie rivendicazioni.

(ANSA).
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 05, 2019, 01:56:47 am
https://it.rbth.com/turismo/80899-le-cinque-strade-pi%C3%B9-pericolose

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Ponti senza protezioni, carreggiate sdrucciolevoli e a strapiombo sul fiume... Se non volete rovinarvi la vacanza, evitate di avventurarvi su questi percorsi sperduti e assolutamente sconsigliabili
1 La vecchia strada di montagna della Adler-Krasnaya Polyana (Kraj di Krasnodar)

Viktor Klyushkin/TASS
Prima che venisse aperto il nuovo tunnel Akhtsu, che collega la città di Adler e l’insediamento urbano di Krasnaya Polyana, nel 2005, la gente era costretta a usare una vecchia e pericolosa strada di montagna. Costruita nel XIX secolo, la strada è stata frequentata per tutto il XX secolo.
Piena di curve, questa strada presenta un tratto particolarmente pericoloso, ribattezzato “Che Dio ce la mandi buona”. E non è un caso che in questo tratto si incrocino un sacco di monumenti commemorativi alle vittime di questa strada.
Al giorno d’oggi questa via è chiusa al traffico e gli ingressi sono sorvegliati. Ma i motociclisti e gli amanti del brivido estremo riescono comunque a raggiungerla.
2. R504 Autostrada Kolyma (Estremo oriente)

Legion Media
Una delle strade principali dell’Estremo oriente russo, l’autostrada Kolyma che collega le città di Magadan a Yakutsk, lunga 2.032 km, si inserisce perfettamente nella lista dei percorsi più pericolosi. Sebbene gli operai cerchino in tutti i modi di mantenere la carreggiata in condizioni decenti, Kolyma è piena di insidie: dalle pietre taglienti che lacerano le ruote delle auto alla fitta polvere che si alza dalla strada e che riduce la visibilità quasi a zero.
Il traffico qui viene occasionalmente paralizzato dalle inondazioni che ogni tanto colpiscono questo tratto. E in inverno la temperatura scende a -60 gradi. Quindi è vivamente sconsigliato attraversare questo tratto, soprattutto in inverno... potreste essere un pasto succulento per gli animali selvatici che vivono lì.
3 La strada che scorre parallela alla linea ferroviaria Baikal-Amur (Siberia, Estremo oriente)


La carreggiata che fiancheggia la linea ferroviaria è una lunga strada sterrata e di ghiaia, caratterizzata in vari punti da paludi e fiumi.
Ci sono alcuni ponti che consentono l’attraversamento dei fiumi, il più grande dei quali è il ponte sul fiume Vitim: lungo 560 metri, non ha alcuna recinzione, e i grossi camion che lo attraversano rischiano di cadere nel precipizio di 15 metri che si apre a strapiombo sul fiume.
Il ponte Vitim non è mai stato aperto ufficialmente, ma la gente lo ha utilizzato lo stesso per anni.
4 Strada Akhty-Khnov (Daghestan)

Legion Media
Situata nella Repubblica del Daghestan, questa strada di montagna collega i villaggi di Akhty e Knhov. La strada è particolarmente pericolosa quando piove, per via della caduta di rocce e della carreggiata sdrucciolevole.
5 La strada per il monte Ai-Petri (Crimea)

Legion Media
La strada verso il monte Ai-Petri, nel sud della Crimea, fa parte dell’autostrada Yalta-Bakhchisaray e rappresenta il tratto più pericoloso. Il percorso di 23 km che da Yalta arriva fino all’altopiano conta più di 280 curve.
Durante l’inverno la strada è spesso chiusa al traffico, ad eccezione dei fuoristrada con pneumatici chiodati e catene da neve.
Per guidare in questo tratto è necessaria grande concentrazione; assolutamente da evitare se siete guidatori principianti o poco esperti.
Se state programmando un viaggio in Russia, scoprite i 5 stravaganti tipi di guide per la vostra prossima avventura!


Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: gluca - Maggio 05, 2019, 02:32:41 am
Io ho l'impressione che il loro principale problema col traffico sia quello di non essere esattamente degli assi del volante :D
Tutto sommato mi sa che era meglio quando giravano con le 124
Almeno quelle non facevano 200 all'ora :D
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 16, 2019, 01:02:03 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bulgaria/Europee-in-Bulgaria-sotto-il-segno-della-corruzione-194466

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Europee in Bulgaria, sotto il segno della corruzione

Una serie di scandali ha scosso la Bulgaria alla vigilia delle prossime elezioni europee, e rischia di condizionare i risultati e mettere in secondo piano il dibattito sui grandi temi del futuro dell'Unione

15/05/2019 -  Francesco Martino   Sofia
Appartamenti acquistati a prezzi stranamente agevolati da parte di politici e funzionari pubblici. Fondi europei utilizzati per costruire “guesthouse” e agriturismi, poi utilizzati come case-vacanza o abitazioni private, sempre da parte di amministratori pubblici, spesso dietro la cortina fumogena di ditte compiacenti, prestanomi e parenti vari.

La campagna elettorale per le elezioni europee in Bulgaria è segnata da una serie di scandali - esplosi nelle scorse settimane - che hanno messo di nuovo sotto accusa la classe dirigente di un paese che, secondo Transparency International, conserva stabilmente da anni il poco invidiabile primato di paese Ue con la corruzione percepita più forte.

A pagarne lo scotto al momento è soprattutto GERB (Cittadini per lo Sviluppo Europeo della Bulgaria), il movimento conservatore del premier Boyko Borisov, che nonostante le dimissioni di alcune figure chiave, oggi arranca nei sondaggi, e secondo le ultime rilevazioni, potrebbe finire superato dall'opposizione socialista.

Case, immobili e fondi europei
Il primo scandalo - presto ribattezzato “Apartamentgate” dai media locali - è scoppiato lo scorso marzo, quando un'inchiesta giornalistica ha portato alla luce acquisti immobiliari a Sofia dai prezzi sospetti, con alcune delle figure chiave di GERB tra i protagonisti: personaggi politici del calibro di Tsvetan Tsvetanov, eterno scudiero di Borisov e numero due del partito, o della ministra della Giustizia Tsetska Tsacheva, già candidata di GERB nelle ultime elezioni presidenziali.

In un contesto tutt'altro che chiaro, i fortunati acquirenti avevano potuto usufruire di drastici sconti sull'acquisto di appartamenti di lusso in alcuni dei quartieri “in” della capitale. I prezzi di favore erano gentilmente garantiti dalla compagnia “Arteks”, che caso o meno, ha goduto di una modifica di legge che ha esteso i permessi (ormai scaduti) relativi alla costruzione di un controverso grattacielo nel quartiere di Lozenets. Tutti i politici coinvolti hanno negato qualsiasi illecito, ma le teste sono rotolate: Tsvetanov ha dovuto rinunciare alla carica di deputato e capogruppo di GERB in parlamento, la Tsacheva al ministero (in compagnia di altri due vice-ministri).

E ancor prima che l'“Apartamentgate” si placasse, un nuovo scandalo ha scosso i piani alti del potere: un numero indefinito di “guesthouse” e agriturismi, costruiti o rinnovati utilizzando generosi contributi europei per lo sviluppo delle aree rurali, si sono rivelati lussuose case private, utilizzate da politici e funzionari, e spesso intestate a parenti e amici.

Il primo caso a fare scalpore ha coinvolto il vice-ministro dell'Economia Aleksander Manolev (dimessosi anche lui il 17 aprile scorso), che avrebbe utilizzato come casa per le vacanze una guesthouse costruita su un terreno di sua proprietà nella regione termale di Sandanski, in Bulgaria sud-orientale. L'opera, finanziata dai fondi per lo sviluppo regionale dell'Ue, ha ricevuto un sostanzioso contributo di 380mila leva (195mila euro): denaro che (forse) ora dovrà essere restituito.

Esposte dai media, le istituzioni preposte si affannano ora ad effettuare verifiche su tutte le circa 700 guesthouse realizzate negli ultimi anni coi contributi europei. Le prime sentenze intanto sono di stampo prettamente politico: martedì 14 maggio anche il ministro dell'Agricoltura Rumen Porozhanov, che nel suo precedente ruolo di direttore del “Fondo Agricoltura” era responsabile dei controlli sul versamento dei contributi europei, ha presentato ufficialmente le sue dimissioni.

Testa a testa
Come già fatto in passato in occasione di scandali e difficoltà, il premier Borisov ha rispolverato la carta della severità (in passato Borisov è stato a capo della polizia) e della disciplina di partito, promettendo “le punizioni più pesanti a tutti [i membri di GERB] che non hanno pensato alle conseguenze delle proprie azioni e che si sono abbandonati all'idea che tutto fosse loro permesso”. “Presentare le proprie dimissioni è solo metà dell'opera”, ha tuonato corrucciato il premier.

Secondo gli ultimi sondaggi, la strategia di contenimento del danno sta funzionando solo in parte. Dopo lunghi anni di egemonia politica, GERB subisce un'emorragia di consensi legata in modo esplicito agli scandali in corso, ed è stata raggiunta e forse superata dal Partito socialista bulgaro (BSP), in un testa a testa che verrà deciso negli ultimi giorni di campagna elettorale.

Anche i socialisti, però, sembrano più impegnati nelle lotte interne di partito che concentrati ad approfittare delle evidenti difficoltà di GERB. Le divisioni sono culminate durante la definizione delle liste elettorali, sfociata in una lotta senza esclusione di colpi, che per poco non ha portato alla clamorosa esclusione di Sergei Stanishev, attuale leader del Partito socialista europeo.

Oltre ai due principali partiti, dati appaiati intorno al 32% delle preferenze, anche il Movimento per i Diritti e le Libertà (DPS), tradizionale riferimento politico della minoranza turca, accreditato del 9-10% dovrebbe riuscire con certezza ad inviare eurodeputati a Bruxelles. Reali chance di raccogliere voti a sufficienza per almeno un europarlamentare le hanno anche i nazionalisti della VMRO e l'alleanza “Bulgaria democratica”, che raccoglie le varie anime della destra liberale e ambientalista.

La serie di scandali ha riacutizzato la tradizionale sfiducia degli elettori nei confronti della politica bulgara, e il numero di cittadini che si dichiarano pronti a votare è in calo costante (32,9% a fine aprile). Con un'affluenza che si preannuncia addirittura più bassa di quella del 2014 (35,84%), il risultato del voto dipenderà sostanzialmente dalla capacità dei principali partiti di mobilitare il “nucleo forte” del proprio elettorato, mentre lo spazio per il cambiamento risulta inevitabilmente ridotto.

Dibattito sul futuro dell'Ue: non pervenuto
Schiacciate dagli scandali, interpretate come un referendum sull'attuale esecutivo, snobbate da una fetta sostanziale dell'elettorato, le prossime elezioni europee rischiano di essere per la Bulgaria un'occasione mancata per discutere sul futuro dell'Unione europea in quella che è probabilmente la sua fase storica più delicata.

I temi centrali di come riformare e rendere più efficiente l'Ue restano, almeno per il momento sullo sfondo, inesplorati da un serio dinamico dibattito politico. Un vero e proprio paradosso, considerato che per la Bulgaria l'Unione ha rappresentato in questi decenni – e continua a rappresentare - il pilastro della stabilità politica e il principale motore dello sviluppo economico.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 21, 2019, 21:08:22 pm
https://www.eastjournal.net/archives/98165

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UCRAINA: “Nella vita ho cercato di farvi ridere, ora farò di tutto perché non piangiate”. Il discorso d’inaugurazione di Zelenskij
Martina Napolitano  3 ore fa

Lunedì 20 maggio Volodymyr Zelenskij è ufficialmente diventato presidente dell’Ucraina, avendo prestando giuramento alla Rada. Il nuovo presidente con il suo discorso di inaugurazione ha marcato una netta distanza dai suoi predecessori, optando per un linguaggio “popolare” e per un atteggiamento apertamente critico verso la “vecchia politica”, che negli ultimi 28 anni ha, a suo avviso, creato nel paese solo le condizioni per la prosperità di illegalità e corruzione.

Zelenskij nel suo discorso ha sottolineato in più occasioni il carattere “collettivo” della sua vittoria e si è rivolto anche ai milioni di ucraini all’estero, invitandoli a rientrare per dare inizio a una nuova stagione per l’Ucraina.

Dopo aver sottolineato che il paese ha imboccato il cammino verso l’Europa, Zelenskij ha affermato che il primo compito della sua presidenza sarà la risoluzione del conflitto nel Donbass, “senza alcuna perdita di territori”. Per questo, in una parte del discorso, il neo-presidente si è rivolto direttamente ai membri dell’esercito, “eroi sia ucrainofoni che russofoni” verso cui il governo deve osservare il massimo rispetto. Il discorso è passato in due occasioni dalla lingua ucraina a quella russa proprio toccando l’argomento Donbass (in corsivo nel testo).

Concludendo, Zelenskij ha affermato che “gli ucraini vogliono fatti, non parole”: il neo-presidente, come aveva già annunciato di voler fare, ha così sciolto la Rada e indetto elezioni anticipate, invitando i vecchi politici a lasciar spazio a nuovi volti pronti a “mettersi al servizio del popolo”.

Zelenskij ha infine chiuso il discorso di inaugurazione ricordando il suo lavoro come attore (Ronald Reagan, suo “predecessore” come presidente-attore, è stato inoltre da lui citato): “Caro popolo, nella vita ho cercato di fare di tutto per far sorridere gli ucraini. Nei prossimi cinque anni farò di tutto perché non piangiate”.

Di seguito la traduzione integrale del discorso di Zelenskij:

 

Ognuno di noi è presidente

«Cari ucraini! Dopo la vittoria delle elezioni, mio figlio di sei anni mi ha detto: “Papà, per tv dicono che Zelenskij è presidente, quindi anche io sono presidente!”. Allora, questa era suonata come una battuta; solo poi ho capito che, al contrario, è proprio così, poiché ognuno di noi è presidente. Non lo è solo il 73% degli ucraini che per me ha votato, ma il 100%. Non è la mia vittoria, ma la nostra comune vittoria e la nostra comune chance della quale ci assumiamo la comune responsabilità. Or ora non sono stato solo io a prestare giuramento, ma ognuno di noi ha posto la mano sulla Costituzione e ognuno di noi ha giurato fedeltà all’Ucraina.

Immaginatevi dei titoli di giornale come “Il presidente non paga le tasse”, “Il presidente è passato con il rosso in stato di ebbrezza”, “Il presidente ruba, ‘perché così fan tutti’”. Siete d’accordo con me che questa è una vergogna? Ecco cosa intendo quando dico che ognuno di noi è Presidente. Da oggi ognuno di noi è responsabile dell’Ucraina che lasceremo ai nostri figli. Ognuno di noi può fare ciò che è in suo potere per lo sviluppo del paese.

Abbiamo scelto la via dell’Europa

Un paese europeo parte dal singolo. Sì, abbiamo scelto la via dell’Europa. Ma l’Europa non è lì da qualche parte, l’Europa è proprio qui [indica la testa con il dito]. E una volta che l’Europa sarà qui, allora sarà in tutta l’Ucraina. E questo è il nostro sogno comune.

Siamo tutti ucraini (e siamo 65 milioni)

Tuttavia, abbiamo anche un dolore comune: ognuno di noi è morto nel Donbass – ogni giorno perdiamo qualcuno di noi – e ognuno di noi è sfollato – sia colui che ha perso la casa, sia coloro che hanno aperto le porte della propria casa, per condividere il dolore.

E ognuno di noi è emigrato per lavoro, sia colui che non si è realizzato a casa e ha trovato lavoro all’estero, sia colui che lottando contro la povertà si è visto privato della propria dignità personale.

Ma supereremo tutto questo, perché ognuno di noi è ucraino. Siamo tutti ucraini, non ci sono  maggioranze, minoranze, giusti, non-giusti. Da Užhorod a Luhans’k, da Černihiv a Sinferopoli, a Leopoli, Charkiv, Donetsk, Dnipro, Odessa, siamo tutti ucraini. E dobbiamo essere uniti, perché solo così siamo forti.

Oggi mi rivolgo anche a tutti gli ucraini nel mondo. Siamo 65 milioni. Sì, non stupitevi, siamo in 65 milioni noi, nati dalla terra ucraina. Ucraini in Europa e Asia, in America settentrionale e latina, in Australia e Africa, mi rivolgo a tutti gli ucraini sul pianeta. Noi abbiamo molto bisogno di voi. A tutti coloro che sono pronti a costruire una nuova Ucraina forte e di successo garantirò con gioia la cittadinanza ucraina. Voi non dovete venire come ospiti in Ucraina, ma come se tornaste a casa vostra; vi aspettiamo. Non occorrono souvenir dall’estero. Portateci il vostro sapere, la vostra esperienza e le vostre qualità intellettuali. Tutto ciò ci aiuterà a dare inizio a una nuova epoca. Gli scettici diranno che è tutta fantasia, che non è possibile. Mentre invece questa può proprio essere la nostra idea nazionale: una volta uniti, realizzare l’impossibile. Contro ogni aspettativa.

Ricordate la nazionale islandese di calcio al campionato europeo, quando un dentista, un regista, un pilota, uno studente e un custode hanno difeso l’onore del proprio paese e hanno fatto quello che tutti credevano impossibile. Questa è la nostra strada. Dobbiamo divenire islandesi nel calcio, israeliani nella difesa della nostra terra, giapponesi nella tecnologia, svizzeri nella convivenza felice e a prescindere da qualsiasi diversità.

Porre fine alla guerra nel Donbass

Nostro compito primario è porre fine alla guerra nel Donbass. Mi hanno chiesto spesso cosa sono pronto a fare perché si giunga a un cessate il fuoco. È una domanda bizzarra. Cosa siete pronti a fare voi, ucraini, per salvare la vita dei vostri cari? Posso assicurarvi che perché i nostri eroi non muoiano più sono pronto a tutto. Non ho affatto timore di prendere decisioni difficili. Sono pronto a perdere la mia popolarità, i miei rating e, se sarà necessario, sono pronto a perdere senza esitazione la mia carica perché si abbia la pace. Senza perdere i nostri territori.

La storia è ingiusta, è vero. Non abbiamo iniziato noi questa guerra. Non l’abbiamo iniziata, ma sta a noi concluderla. Siamo pronti al dialogo, [Zelenskij passa qui dall’ucraino al russo] ma sono certo che un ottimo primo passo verso l’apertura di questo dialogo sia il rientro di tutti i prigionieri ucraini.

La nostra sfida seguente è la riacquisizione dei territori perduti. Onestamente mi pare che non sia corretta questa formulazione, visto che non è possibile perdere ciò che è nostro. Sia la Crimea che il Donbass sono terra ucraina. E lì abbiamo perso la cosa più importante: le persone. [Zelenskij passa qui dall’ucraino al russo] Oggi siamo tenuti a far riprendere loro la coscienza. Abbiamo perso questa coscienza. In questi anni il governo non ha fatto nulla perché loro si sentissero di nuovo ucraini. Non sono stranieri, sono dei nostri. Sono ucraini. Capiscono l’ucraino. Siamo tutti ucraini, a prescindere da dove viviamo. Perché “ucraino” non è una scritta sul passaporto; l’Ucraina è qui [indica il cuore]. Questo lo so per certo, lo so attraverso le parole di chi lotta per difendere l’Ucraina, attraverso i nostri eroi, sia ucrainofoni che russofoni. Non esiste un esercito forte lì dove il potere non dimostra rispetto verso coloro che danno la propria vita per il paese, ogni giorno. Farò ogni cosa perché vi sentiate rispettati. Si parla di una degna e soprattutto stabile garanzia economica, di condizioni abitative, di permessi dopo le operazioni militari, di riposo per voi e le vostre famiglie. Non serve a nulla parlare di standard NATO; è necessario concretizzare questi standard.

Oltre il Donbass

Certamente, oltre alla guerra, ci sono molti altri problemi che rendono infelici gli ucraini. Sono le tasse e i prezzi esorbitanti, gli stipendi e le pensioni umilianti, i posti di lavoro inesistenti. È la sanità, del cui miglioramento parlano soprattutto coloro che non sono mai stati in un comune ospedale con un bambino. Sono le mitologiche strade ucraine, che vengono costruite e rifatte solo nella fantasia di qualcuno.

Gli ucraini sono stanchi della vecchia politica

Permettetemi ora di citare un attore americano che è stato un grande presidente americano: “Il governo non è la risoluzione del nostro problema, il governo è il nostro problema” [R. Reagan al suo primo discorso inaugurale, 1981]. È solo una citazione. Ma io non capisco sinceramente il nostro governo che fa spallucce e dice “non possiamo farci nulla”. Non è vero, potete. Potete prendere carta e penna e lasciare i vostri posti a coloro che penseranno alle generazioni future, e non alle prossime elezioni. Penso che le persone apprezzeranno. E la mia elezione lo dimostra: i cittadini sono stanchi dei politici con esperienza, sistemici, boriosi, che in 28 anni hanno creato il paese delle possibilità: delle possibilità di corruzione, traffici, ladrocini.

Noi costruiremo un paese di altre possibilità. Dove tutti saranno uguali davanti alla legge, dove le regole del gioco saranno oneste e trasparenti, uguali per tutti. E per questo al potere devono venire persone che si metteranno al servizio del popolo.

E voglio che nei vostri uffici non ci siamo mie immagini, che non ci siano miei ritratti, perché il presidente non è un’icona, non è un idolo. Il presidente non è un ritratto. Appendete piuttosto le fotografie dei vostri figli e prima di prendere qualsiasi decisione guardateli negli occhi.

Il popolo vuole fatti, non parole: Zelenskij scioglie la Rada

Sapete, potrei dire ancora molte cose, ma gli ucraini non vogliono parole, vogliono azioni. Pertanto, stimati deputati, voi stessi avete fissato l’inaugurazione di lunedì, giorno feriale. Vedo in questo un lato positivo. Vuol dire che siete pronti a lavorare. E pertanto vi chiedo di accettare: la legge che cancella l’immunità parlamentare, la legge che assegna responsabilità penale per l’arricchimento illecito, il tanto atteso Codice elettorale; e facciate in modo, per favore, che le liste siano aperte al pubblico. Vi chiedo inoltre di destituire il capo dei Servizi di sicurezza ucraini, il procuratore generale dell’Ucraina, il ministro della difesa dell’Ucraina. Questo è ben lungi dall’essere tutto ciò che potete fare, ma tanto per iniziare è sufficiente. Avrete due mesi di tempo. Fatelo e guadagnatevi le vostre medaglie. E questa è l’occasione giusta per annunciare elezioni parlamentari anticipate. Sciolgo la Verchovna Rada dell’ottava legislatura.

Gloria all’Ucraina! Vi ringrazio.

E infine, sarò breve: caro popolo, nella vita ho cercato di fare di tutto per far sorridere gli ucraini. Questo – lo sentivo nel cuore – è stato in realtà non soltanto il mio lavoro, ma la mia missione. Nei prossimi cinque anni farò di tutto, ucraini, perché voi non piangiate. Grazie».
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 21, 2019, 21:10:33 pm
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UCRAINA: Storie di miniere, guerra ed ecologia
Claudia Bettiol  1 giorno fa

Da KIEV – Sono più di 5 anni che nelle regioni orientali dell’Ucraina si combatte un conflitto armato con la vicina Russia che ha portato alla morte di più di 13.000 persone tra soldati e civili e quasi 2 milioni di sfollati interni. Numeri che, invece di arrestarsi, continuano a salire giorno dopo giorno.

Ad aggiungersi a tutto ciò, c’è un altro disastro, questa volta di tipo ambientale, che ricade sulla popolazione civile e minaccia la salute dei cittadini di questi territori. Il problema è principalmente legato alle inondazioni e alle condizioni precarie delle miniere di carbone presenti nel bacino del Donbass, una zona fortemente industrializzata che produce elevate quantità di rifiuti. Il degrado ambientale causato dalla guerra si presenta così sotto forma di scorie che favoriscono la diffusione di malattie a causa della contaminazione delle risorse idriche, del suolo e dell’aria. La guerra impedisce di effettuare la manutenzione delle infrastrutture e di gestire queste difficoltà in maniera adeguata, mentre i governi interessati non riescono a coprire le spese per i servizi ambientali, i cui fondi finiscono per lo più ai bisogni legati al conflitto.

Le miniere e la contaminazione da rifiuti radioattivi

Nel bacino del Donbass ci sono attualmente 222 miniere di carbone, di cui 33 sono ancora sotto il controllo degli ucraini; le restanti 189 sono sotto il controllo delle repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk. Secondo i dati forniti da alcuni specialisti di idrogeologia, ben 39 miniere sono in fase di allagamento (di cui solo una situata nel territorio controllato dalle repubbliche separatiste), 99 sono ancora in funzione (24 nella zona controllata dagli ucraini e 75 tra DNR e LNR), 70 (rispettivamente 6 e 64) sono in fase di liquidazione e altre 14 in modalità di drenaggio (2 e 12).

Il motivo che suscita questo allarme ambientale di vasta scala è il massiccio allagamento di queste miniere di carbone sparse nell’area dove oggi si combatte la guerra tra Russia e Ucraina. Le conseguenze di queste inondazioni sono catastrofiche per la regione: inquinamento dell’acqua potabile, cedimento del suolo e derivata distruzione delle infrastrutture.

L’Organizzazione per la Cooperazione e la Sicurezza in Europa e il ministro ucraino dell’Ambiente Ostap Semerak hanno già sollevato la questione a livello internazionale sui pericoli ambientali causati, in particolare, dalla miniera di carbone Yunkom, dove nel 1979 venne condotto un test nucleare. Nel 2002, la miniera è stata definitivamente chiusa in modo da evitare che i materiali radioattivi di cui si compone entrassero a contatto con le falde acquifere e i rifiuti tossici salissero in superficie. Nell’aprile 2017, tuttavia, l’amministrazione della repubblica di Donetsk – DNR (che attualmente gestisce la miniera) ha deciso di inondare una delle miniere adiacenti, collegata a quella di Yunkom. Potrebbe trattarsi di una ragione prettamente economica, ma si teme l’ennesimo ricatto politico nei confronti del popolo ucraino. Il risultato? Acqua contaminata e materiali radioattivi finiscono nei fiumi della regione, per poi sboccare nel Mar d’Azov. Il Seversky Donets, principale fonte di acqua potabile, già rivela un elevato grado di salinità e di mineralizzazione, a causa delle quali l’acqua diventerà definitivamente non potabile.

Il bacino del Donbass rischia di affondare

Il ministro degli Affari Interni dell’Ucraina Arsen Avakov osserva che il terreno di alcuni territori del bacino del Donbass è affondato di ben 25 centimetri in alcuni punti. “Il bacino minerario di Donetsk forma un gigantesco sistema geologico e industriale in cui la maggior parte delle miniere hanno una connessione idraulica l’una con l’altra”, precisa Avakov. E aggiunge: “In tal modo, la chiusura di qualsiasi miniera porta a riempire i vuoti sotterranei con l’acqua; ne consegue un cedimento del terreno, che danneggia strutture,  edifici e punti di comunicazione”. In altre parole, il Donbass si sta avvicinando a un punto di non ritorno, dove la vita e il lavoro diventeranno semplicemente impossibili.

Le miniere non sono, naturalmente, l’unico problema ambientale da risolvere nei territori occupati del Donbass. La guerra continua e c’è sempre il rischio che un proiettile o una granata cada in uno di questi stabilimenti industriali pericolosi. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite, solamente a seguito del conflitto sono stati distrutti almeno 530 mila ettari di ecosistemi, tra cui 18 riserve naturali, a cui si aggiungono anche 150 mila ettari di foreste.

Le conseguenze ambientali sembrano irreversibili. Numerosi ambientalisti ucraini e alcune organizzazioni umanitarie internazionali hanno lanciato l’allarme, chiedendo aiuto non solo per monitorare la situazione e discuterne, ma soprattutto per agire e impedire una catastrofe ecologica. Nel frattempo, il pericolo si estende alla vita quotidiana: approvvigionamento idrico, fognature, linee elettriche, tubi del gas e altre infrastrutture non sono agibili. Nei pozzi e nelle sorgenti l’acqua è contaminata e sta causando infezioni intestinali e avvelenamento. Le acque sotterranee infette danneggiano il paesaggio e il rischio di terremoti causati dall’uomo è a portata di mano.

L’idrogeologo Yevgeny Yakovlev assicura che, nonostante il fattore di irreversibilità del processo stia crescendo, la situazione può ancora essere corretta, ma le decisioni devono essere prese subito. “Altri 2-3 anni e avremo conseguenze irreversibili per la maggior parte del Donbass e non solo”, aggiunge.

Un desiderio di pace anche per l’ambiente

Al fine di prevenire incidenti e catastrofi, ed evitare un’altra Chernobyl, è necessario porre fine a questa guerra. “Le minacce ambientali derivanti dal conflitto nell’est dell’Ucraina non possono essere ignorate, perché possono colpire la popolazione civile che vive e lavora nella zona, così come il personale delle missioni di monitoraggio dell’OSCE”, ha affermato il capo della missione Ertugrul Apakan.

Il collasso ecologico del bacino del Donbass e dei territori circostanti non sembra essere nell’interesse di nessuna delle parti in questo conflitto. Sia il governo ucraino che quello russo, in primis, dovrebbero iniziare ad affrontare le implicazioni di questo disastro ambientale che potrebbe estendersi oltre il confine nazionale ucraino-russo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 29, 2019, 23:47:19 pm
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ROMANIA: Dragnea in carcere. I due giorni che hanno sconvolto il paese
Francesco Magno  2 giorni fa

La Corte di Cassazione romena ha oggi confermato la condanna a tre anni e sei mesi di carcere per Liviu Dragnea, uomo forte del partito social-democratico (PSD) e presidente della Camera dei Deputati. Dragnea era accusato di abuso d’ufficio a seguito dello scandalo delle assunzioni fittizie quando era presidente del consiglio provinciale di Teleorman, sua regione natia.

L’ormai ex leader del PSD avrebbe favorito l’assunzione presso l’ufficio provinciale per la protezione dei minori di due donne, che non avrebbero però mai lavorato presso tale ente; entrambe, pur percependo regolarmente lo stipendio statale, continuavano infatti a svolgere attività lavorativa presso la sezione locale del partito social-democratico.

Alle 17.20 ora romena Dragnea è arrivato nel penitenziario Rahova, alla periferia di Bucarest, dove si è consegnato spontaneamente. La leadership ad interim del PSD è stata assunta dalla premier, Viorica Dancila.

Si chiude un’era

Liviu Dragnea ha monopolizzato la vita politica romena negli ultimi anni, da quando è succeduto a Victor Ponta alla guida del più importante partito politico del paese. I suoi avversari lo hanno sempre etichettato come un leader populista, corrotto,  interessato soltanto a risolvere i suoi guai con la giustizia.  Dai suoi sostenitori (ormai sempre meno, anche all’interno del partito) Dragnea veniva visto come un leader patriottico ma perseguitato dal famigerato “stato parallelo“, un insieme di uomini e corpi dello stato (primi fra tutti i servizi segreti) che avrebbero lavorato al suo annientamento politico e alla distruzione del PSD. Esce di scena, almeno per un paio d’anni, uno dei personaggi più ambigui che la Romania, pur prolifica nello sfornare figure controverse, abbia partorito ultimamente. Un uomo capace di stravincere le elezioni parlamentari non più di due anni e mezzo fa, ma nello stesso tempo di trascinare in piazza con le sue politiche migliaia di cittadini inferociti. Dragnea, nella sua complessità, è figlio della Romania profonda, quella periferica, rurale, governata ancora secondo metodologie da regime comunista. In lui vi erano anche pulsioni che in occidente verrebbero definite populiste, paternaliste, autoritarie, ma che nascevano comunque da un modo di intendere la politica tipicamente romeno. Per questo, non è detto che la sua uscita di scena segni per sempre un cambiamento in positivo nel dibattito politico. Dragnea è stato l’effetto, non la causa.

La crisi del PSD

I guai non vengono mai da soli. E l’incubo per il PSD, oggi privato del suo leader, era iniziato già ieri con la pubblicazione dei primi exit poll dopo la lunga domenica delle elezioni europee. I social-democratici si sono fermati ad un modesto 23,44 %, scavalcati nettamente dal partito liberale (27%) e tallonati dalla coalizione di centro-destra europeista USR-Plus (20%). Un risultato che sovverte chiaramente gli equilibri politici del paese. Il presidente della repubblica Klaus Iohannis, immarcescibile avversario del PSD, ha gioiosamente dichiarato che il voto segna la fine della fiducia dei romeni nei confronti dell’esecutivo, che dovrebbe prendere atto del voto e dimettersi. La premier Viorica Dancila, tuttavia, ringalluzzita dall’arresto del suo vecchio protettore, si è presa la scena del partito assumendone la leadership ad interim ed affermando che non intende assolutamente abbandonare l’incarico.

E adesso?

Seguiranno giorni di violente lotte intestine all’interno del PSD. Difficile credere che Viorica Dancila possa mantenere a lungo la guida del partito. Nella sua ultima dichiarazione pubblica prima dell’arresto, ieri sera, Liviu Dragnea ha detto che la più probabile candidata del PSD per le elezioni presidenziali del prossimo autunno potrebbe essere il sindaco di Bucarest Gabriela Firea, donna che gode di molta forza all’interno del partito. La soluzione, in ogni caso, non arriverà nel breve, e sembra avviarsi un lungo periodo di crisi per il PSD. Ad oggi, non è improbabile che la sfida presidenziale possa essere tutta interna al centro-destra europeista, tra Klaus Iohannis e Dacian Ciolos.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 29, 2019, 23:48:53 pm
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KOSOVO: Maxi arresto delle unità speciali, la Serbia allerta l’esercito
Eleonora Febbe  13 ore fa

Il presidente serbo Aleksandar Vucic ha posto l’esercito in stato d’allerta dopo che nella giornata di martedì la polizia kosovara ha compiuto una serie di arresti  – per la maggior parte poliziotti – nel nord del Kosovo, area a maggioranza serba del paese.

Lotta al crimine o ritorsioni etniche?

Per Pristina, l’operazione è da inserirsi nel quadro della lotta alla criminalità organizzata, senza distinzioni etniche: tra gli arrestati risultano difatti 11 serbi, 4 albanesi e 4 bosgnacchi, appartenenti alle forze di polizia kosovare. Per Belgrado, però, si tratta di un’inaccettabile provocazione ai danni della minoranza serba in Kosovo. Una parte della comunità locale non ha esitato a opporsi all’arrivo della polizia: nel villaggio di Zubin Potok, gruppi di cittadini hanno eretto barricate e dato fuoco a pneumatici per impedire il passaggio alle forze dell’ordine. Quattro poliziotti sono rimasti feriti negli scontri.

Tra gli arrestati, anche un funzionario dell’UNMIK, la missione ONU in Kosovo. Si tratta di un cittadino russo, che secondo i kosovari avrebbe finto di essere un diplomatico per bloccare l’operazione di polizia. Dopo che l’UNMIK ha espresso preoccupazione per la sorte del suo funzionario, il russo è stato rilasciato, mentre le organizzazioni internazionali presenti in Kosovo invitavano la popolazione alla calma. Mosca, storica alleata di Belgrado, non ha mancato di esprimere la sua indignazione. La portavoce del Cremlino Maria Zakharova ha definito l’accaduto una provocazione.

Contrabbando e illegalità nel nord del Kosovo

Dal Kosovo, il primo ministro Ramush Haradinaj e il ministro degli esteri Behgjet Pacolli hanno accusato la Serbia di esagerare i fatti a fini politici, sostenendo che l’operazione non avesse come obiettivo i serbi, quanto la criminalità organizzata e le sue infiltrazioni tra le forze di polizia.

Il nord del Kosovo, a maggioranza serba, rifiuta il controllo di Pristina. Nella regione la criminalità organizzata è piuttosto diffusa, anche grazie al confine molto poroso, che consente ai criminali locali di cercare rifugio in territorio serbo. Il contrabbando è in continua crescita dal novembre scorso, quando Pristina ha aumentato i dazi doganali per i prodotti provenienti dalla Serbia. Quest’ultima, a undici anni dalla dichiarazione unilaterale del Kosovo, non ne ha ancora riconosciuto l’indipendenza.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 29, 2019, 23:52:24 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bulgaria/Europee-in-Bulgaria-sotto-il-segno-della-corruzione-194466

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Europee in Bulgaria, sotto il segno della corruzione

Una serie di scandali ha scosso la Bulgaria alla vigilia delle prossime elezioni europee, e rischia di condizionare i risultati e mettere in secondo piano il dibattito sui grandi temi del futuro dell'Unione

15/05/2019 -  Francesco Martino   Sofia
Appartamenti acquistati a prezzi stranamente agevolati da parte di politici e funzionari pubblici. Fondi europei utilizzati per costruire “guesthouse” e agriturismi, poi utilizzati come case-vacanza o abitazioni private, sempre da parte di amministratori pubblici, spesso dietro la cortina fumogena di ditte compiacenti, prestanomi e parenti vari.

La campagna elettorale per le elezioni europee in Bulgaria è segnata da una serie di scandali - esplosi nelle scorse settimane - che hanno messo di nuovo sotto accusa la classe dirigente di un paese che, secondo Transparency International  , conserva stabilmente da anni il poco invidiabile primato di paese Ue con la corruzione percepita più forte.

A pagarne lo scotto al momento è soprattutto GERB (Cittadini per lo Sviluppo Europeo della Bulgaria), il movimento conservatore del premier Boyko Borisov, che nonostante le dimissioni di alcune figure chiave, oggi arranca nei sondaggi, e secondo le ultime rilevazioni, potrebbe finire superato dall'opposizione socialista.

Case, immobili e fondi europei
Il primo scandalo - presto ribattezzato “Apartamentgate” dai media locali - è scoppiato lo scorso marzo, quando un'inchiesta giornalistica ha portato alla luce acquisti immobiliari a Sofia dai prezzi sospetti, con alcune delle figure chiave di GERB tra i protagonisti: personaggi politici del calibro di Tsvetan Tsvetanov, eterno scudiero di Borisov e numero due del partito, o della ministra della Giustizia Tsetska Tsacheva, già candidata di GERB nelle ultime elezioni presidenziali.

In un contesto tutt'altro che chiaro, i fortunati acquirenti avevano potuto usufruire di drastici sconti sull'acquisto di appartamenti di lusso in alcuni dei quartieri “in” della capitale. I prezzi di favore erano gentilmente garantiti dalla compagnia “Arteks”, che caso o meno, ha goduto di una modifica di legge che ha esteso i permessi (ormai scaduti) relativi alla costruzione di un controverso grattacielo nel quartiere di Lozenets. Tutti i politici coinvolti hanno negato qualsiasi illecito, ma le teste sono rotolate: Tsvetanov ha dovuto rinunciare alla carica di deputato e capogruppo di GERB in parlamento, la Tsacheva al ministero (in compagnia di altri due vice-ministri).

E ancor prima che l'“Apartamentgate” si placasse, un nuovo scandalo ha scosso i piani alti del potere: un numero indefinito di “guesthouse” e agriturismi, costruiti o rinnovati utilizzando generosi contributi europei per lo sviluppo delle aree rurali, si sono rivelati lussuose case private, utilizzate da politici e funzionari, e spesso intestate a parenti e amici.

Il primo caso a fare scalpore ha coinvolto il vice-ministro dell'Economia Aleksander Manolev (dimessosi anche lui il 17 aprile scorso), che avrebbe utilizzato come casa per le vacanze una guesthouse costruita su un terreno di sua proprietà nella regione termale di Sandanski, in Bulgaria sud-orientale. L'opera, finanziata dai fondi per lo sviluppo regionale dell'Ue, ha ricevuto un sostanzioso contributo di 380mila leva (195mila euro): denaro che (forse) ora dovrà essere restituito.

Esposte dai media, le istituzioni preposte si affannano ora ad effettuare verifiche su tutte le circa 700 guesthouse realizzate negli ultimi anni coi contributi europei. Le prime sentenze intanto sono di stampo prettamente politico: martedì 14 maggio anche il ministro dell'Agricoltura Rumen Porozhanov, che nel suo precedente ruolo di direttore del “Fondo Agricoltura” era responsabile dei controlli sul versamento dei contributi europei, ha presentato ufficialmente le sue dimissioni.

Testa a testa
Come già fatto in passato in occasione di scandali e difficoltà, il premier Borisov ha rispolverato la carta della severità (in passato Borisov è stato a capo della polizia) e della disciplina di partito, promettendo “le punizioni più pesanti a tutti [i membri di GERB] che non hanno pensato alle conseguenze delle proprie azioni e che si sono abbandonati all'idea che tutto fosse loro permesso”. “Presentare le proprie dimissioni è solo metà dell'opera”, ha tuonato corrucciato il premier.

Secondo gli ultimi sondaggi, la strategia di contenimento del danno sta funzionando solo in parte. Dopo lunghi anni di egemonia politica, GERB subisce un'emorragia di consensi legata in modo esplicito agli scandali in corso, ed è stata raggiunta e forse superata dal Partito socialista bulgaro (BSP), in un testa a testa che verrà deciso negli ultimi giorni di campagna elettorale.

Anche i socialisti, però, sembrano più impegnati nelle lotte interne di partito che concentrati ad approfittare delle evidenti difficoltà di GERB. Le divisioni sono culminate durante la definizione delle liste elettorali, sfociata in una lotta senza esclusione di colpi, che per poco non ha portato alla clamorosa esclusione di Sergei Stanishev, attuale leader del Partito socialista europeo.

Oltre ai due principali partiti, dati appaiati intorno al 32% delle preferenze, anche il Movimento per i Diritti e le Libertà (DPS), tradizionale riferimento politico della minoranza turca, accreditato del 9-10% dovrebbe riuscire con certezza ad inviare eurodeputati a Bruxelles. Reali chance di raccogliere voti a sufficienza per almeno un europarlamentare le hanno anche i nazionalisti della VMRO e l'alleanza “Bulgaria democratica”, che raccoglie le varie anime della destra liberale e ambientalista.

La serie di scandali ha riacutizzato la tradizionale sfiducia degli elettori nei confronti della politica bulgara, e il numero di cittadini che si dichiarano pronti a votare è in calo costante (32,9% a fine aprile). Con un'affluenza che si preannuncia addirittura più bassa di quella del 2014 (35,84%), il risultato del voto dipenderà sostanzialmente dalla capacità dei principali partiti di mobilitare il “nucleo forte” del proprio elettorato, mentre lo spazio per il cambiamento risulta inevitabilmente ridotto.

Dibattito sul futuro dell'Ue: non pervenuto
Schiacciate dagli scandali, interpretate come un referendum sull'attuale esecutivo, snobbate da una fetta sostanziale dell'elettorato, le prossime elezioni europee rischiano di essere per la Bulgaria un'occasione mancata per discutere sul futuro dell'Unione europea in quella che è probabilmente la sua fase storica più delicata.

I temi centrali di come riformare e rendere più efficiente l'Ue restano, almeno per il momento sullo sfondo, inesplorati da un serio dinamico dibattito politico. Un vero e proprio paradosso, considerato che per la Bulgaria l'Unione ha rappresentato in questi decenni – e continua a rappresentare - il pilastro della stabilità politica e il principale motore dello sviluppo economico.


https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bulgaria/Europee-in-Bulgaria-vince-Borisov-astensione-record-194844

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Europee in Bulgaria: vince Borisov, astensione record

Contraddistinte da un tasso di astensione record, le elezioni europee in Bulgaria hanno segnato una nuova affermazione per il premier Borisov, che vince nonostante gli scandali e le previsioni sfavorevoli della vigilia

29/05/2019 -  Francesco Martino   Sofia
Dovevano essere un emozionante testa a testa da risolvere al fotofinish, e invece anche stavolta non c'è stata storia: GERB (Cittadini per uno Sviluppo Europeo della Bulgaria), il movimento conservatore del premier Boyko Borisov, ha vinto le elezioni europee di domenica scorsa con un largo margine sul Partito Socialista Bulgaro (BSP).

Sono stati così smentiti i numerosi sondaggi della vigilia, che davano Borisov e il suo partito in difficoltà dopo la serie di scandali di corruzione che ha scosso il paese alla vigilia del voto. Alla fine dello spoglio, GERB ha ottenuto il 31,07% dei voti e sei seggi al parlamento di Bruxelles, superando di più di sei punti percentuali i socialisti, fermi al 24,26%.

Ottengono seggi in parlamento anche il Movimento per i diritti e le libertà (DPS), tradizionale riferimento della minoranza turca (16,55% - 3 seggi), i nazionalisti della VMRO (7,36% - 2 seggi) e la destra liberale di “Bulgaria democratica” (6,06% - 1 seggio).

I risultati elettorali, però vanno tutti letti tenendo presente la fortissima astensione. In controtendenza rispetto al resto dell'Unione europea, dove la partecipazione elettorale è stata in rialzo rispetto al voto di cinque anni fa, in Bulgaria il numero dei votanti è sceso ancora, passando dal risicato 35,84% registrato nel 2014 ad un ancor più risicato 33,28%.

"Una percentuale di votanti così bassa è uno schiaffo a tutto il sistema politico da parte della grande maggioranza dei cittadini bulgari", ha dichiarato a seggi chiusi il presidente Rumen Radev. "Dovremmo chiederci come mai il tasso di affluenza è la metà rispetto alla maggior parte degli altri paesi europei".

Nessun ribaltone
A queste elezioni GERB si era presentata con non poche difficoltà. Nelle settimane prima del voto una serie di pesanti scandali, come il cosiddetto “Apartamentgate”, ha toccato e bruciato alcune tra le personalità di spicco del partito, tra cui l'eterno scudiero di Borisov, Tsvetan Tsvetanov.

Per rispondere alla situazione complicata, Borisov ha reagito con decisione. Prima ha messo in campo la strategia del “pulire il cortile di casa”, già utilizzata con successo più volte in passato, costringendo alle dimissioni i quadri del partito più compromessi. Poi ha preso il controllo personale della campagna elettorale, battendo il paese soprattutto nelle ultime settimane, per motivare il nucleo duro del partito ad andare alle urne.

Seguito da una frotta di telecamere Borisov ha inaugurato, tagliato nastri, visitato buona parte dei centri più importanti del paese. Per il premier attirare la luce dei riflettori si è rivelata, ancora una volta, la mossa vincente.

Per Borisov e il suo governo, i risultati di domenica rappresentano una boccata d'aria fresca, dopo i venti di tempesta dei mesi scorsi. GERB, spina dorsale dell'esecutivo, ha rafforzato le proprie posizioni, e il governo dovrebbe ora navigare con una certa tranquillità, almeno fino alle elezioni amministrative del prossimo autunno.

Umori opposti invece nella storica sede del Partito socialista Bulgaro, in via Positano a Sofia (per la cronaca, intitolata al diplomatico italiano Vito Positano). A lungo i socialisti hanno apertamente sperato di superare GERB: nelle visioni più ottimistiche, le europee dovevano segnare il primo passo verso la caduta del governo e nuove elezioni anticipate.

Per vincere, però, i socialisti hanno fatto più affidamento alle difficoltà di GERB che alle proprie forze. Anzi, si sono presentati all'appuntamento elettorale spaccati, con una lotta di potere e posizioni che ha visto una di fronte all'altro la segretaria del partito Kornelia Ninova e l'attuale segretario dei Socialisti europei, Sergey Stanishev.

Alla fine Stanishev, inizialmente escluso dalle liste, si è preso la sua rivincita, conquistando a suon di preferenze un nuovo seggio a Bruxelles. La Ninova, invece, si è dovuta assumere la responsabilità politica del risultato deludente, e ha presentato ieri le proprie dimissioni.

Equilibri che cambiano, equilibri che restano
Come previsto, i risultati di domenica hanno ribadito il Movimento per i diritti e e le libertà (DPS) come terza forza nel paese. Rispetto a cinque anni fa, il partito, oggi guidato da Mustafa Karadayi ha milgiorato il proprio risultato di qualche punto percentuale, anche se ha perso un eurodeputato.

Ora l'interrogativo più grande riguarda il controverso deputato e tycoon mediatico Delyan Peevski, secondo nella lista del DPS e quindi con in tasca un seggio assicurato a Bruxelles. Peevski, però, per il momento non ha sciolto le riserve e non ha ancora annunciato se accetterà il mandato nel parlamento europeo, oppure se resterà ad occuparne uno in quello di Sofia.

Più dinamica invece la situazione nel campo dei nazionalisti, uniti nella coalizione “Patrioti uniti” e partner minore della coalizione di governo, ma presentatisi separatamente alla tornata europea. Il chiaro vincitore in questo settore dell'elettorato è la VMRO: ha raccolto l'intera posta o quasi, portando a Bruxelles non solo il capolista Angel Dzhambaski, ma anche il colorito ex-regista Andrey Slabakov, distintosi negli ultimi anni soprattutto per la sue posizioni pro-tabacco.

Gli altri due movimenti della coalizione nazionalista, ATAKA e il Fronte nazionale per la salvezza della Bulgaria (NFSB) raccolgono le briciole, un cambiamento nei rapporti di forza che probabilmente lascerà il segno. I segni di inquietudine, in una coalizione segnata da rapporti spesso burrascosi, sono in crescita: dopo la chiusura delle urne, Dzhambaski ha annunciato di voler portare in tribunale per diffamazione e ingiurie lo storico leader di ATAKA Volen Siderov, che lo ha ripetutamente attaccato durante la campagna elettorale.

Come analizzare i risultati
Tra forte astensione e la quasi totale assenza dal dibattito di temi e questioni europee, il voto di domenica in Bulgaria è stato un voto dominato dallo scontro politico interno. Borisov ne esce vincitore per le sue indubbie capacità di mattatore elettorale, rafforzate da un sistema mediatico molto indulgente nei confronti del potere. Se il voto di domenica era un referendum sull'operato del governo, il risultato è un “sì”, mentre i socialisti incassano un risultato interlocutorio e insoddisfacente.

Difficile dire se i cittadini bulgari abbiamo perdonato e dimenticato così in fretta gli scandali, la corruzione e la cattiva amministrazione: di certo, al momento non vedono alternative valide nell'opposizione storica, né nuovi movimenti o leader politici in grado di rivaleggiare con Borisov. L'esigua base elettorale su cui poggiano i risultati delle europee, però, dovrebbe indurre le forze al potere alla prudenza: nel paese la voglia di cambiamento resta palpabile, e potrebbe coagularsi in fretta intorno ad un progetto o ad un leader credibile.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 30, 2019, 00:02:44 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Turchia/Hasankeyf-l-acqua-alla-gola-194470

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Hasankeyf: l’acqua alla gola

Nel mese di giugno diverrà operativa in Turchia la diga Ilisu. Spariranno per sempre sott'acqua un centinaio di villaggi. Tra questi anche il simbolo di questo disastro sociale ed ambientale, la città di Hasankeyf e le sue millenarie architetture. Un reportage

29/05/2019 -  Francesco Brusa
La decisione, insindacabile, viene comunicata per mezzo di una telefonata. "È stata costruita per voi una casa sull’altra sponda del fiume. Prendere o lasciare". I più prendono, che cosa si potrebbe fare altrimenti? C’è chi, invece, magari si è già spostato verso centri più grandi, come Batman, a circa 40 km di distanza. In ogni caso, per quelli che decidono di accettare la proposta del governo, sembra esserci un prezzo da pagare: le “case sull’altra sponda” sono nuove, appena edificate, e – in fin dei conti – valgono più di quelle vecchie, millenarie, che stanno dall’altra parte. C’è quindi da saldare la differenza: “Prendere o lasciare”.

Hasankeyf, cittadina di circa 7000 abitanti scavata nelle rocce della valle del Tigri, sta per essere completamente evacuata. I suoi monumenti sono stati smembrati pezzo per pezzo e ricomposti altrove, oppure sono stati ricostruiti ex-novo, oppure ancora lasciati dove l’acqua li sommergerà a breve. La diga Ilisu – progettata per la prima volta nel 1954, rievocata da Erdoğan e autorizzata nel 2006 – diventerà operativa a giugno di quest’anno. L’innalzamento del fiume provocherà la scomparsa di più di un centinaio di villaggi, lo spostamento di migliaia di persone, pericolosi cambiamenti idrogeologici, mutazioni microclimatiche poco (o per nulla) studiate. E, secondo le stime, una produzione di energia elettrica di 3800 Gwh all’anno.

Una città simbolo
"Non è tanto importante il fatto che perdiamo il lavoro o le nostre occupazioni. Quello che lasciamo sono le nostre radici, lasciamo 10.000 anni di storia!". Il piccolo bar all’aperto di Süleyman si trova nella parte alta della cittadina, dove la strada in salita lascia spazio alle dritte pareti di roccia e si trasforma in stretti canyon che si incuneano fra le montagne. Attorno alle sedie rosse, oltre alla vista mozzafiato, c’è il filo spinato che delimita l’area dei lavori in corso. "Come tutti, la notizia l’abbiamo saputa attraverso i social media. Poi abbiamo ricevuto la telefonata da parte dell’amministrazione, che ci proponeva una casa nella nuova Hasankeyf".

Le principali attività del villaggio curdo sono l’agricoltura e l’allevamento. Ma, nel corso del tempo, si è sviluppato anche un forte afflusso di turisti e molti degli abitanti hanno dunque aperto esercizi di ristoro o negozi di artigianato. Niente di invasivo o eccessivamente posticcio: superato il ponte sul Tigri, la “zona turistica” - se così si può chiamare – si estende sulla destra in uno stretto e corto vialetto che in breve tempo si conforma ai giardini e alle modeste abitazioni del villaggio. Artukidi, hurriti-mitanni, assiri, urartu, medi, persiani, romani, sasanidi, bizantini, selgiuchidi, ayubbidi e ottomani: sono innumerevoli le civiltà che si sono insediate a Hasankeyf e che hanno lasciato le proprie tracce. In generale, gli abitanti sanno di essere “cittadini di un simbolo”. Simbolo di una storia millenaria che si radica nella terra, cittadini di una patria immateriale che prende forma nella solidarietà di chi si sente curdo e condivide le medesime sorti di segregazione e invisibilità.

Ribaltare lo sguardo
"Ecco, vedi là sopra? Io da bambino vivevo vicino al castello, nella parte alta della città". Adesso Mafhuz Akgül abita a Batman. Già militante del partito HDP, ora nel consiglio comunale di Hasankeyf, fa parte anche del Centro per l’Ecologia della Mesopotamia. Ripercorrere con lui le strade del villaggio significa ripercorre una parabola biografica e politica insieme. "I centri che verranno sommersi dalla diga sono 199. Per la nostra lotta, abbiamo puntato su Hasankeyf perché la sua immagine era la più spendibile, anche a livello internazionale. Purtroppo, la nostra richiesta di farne un Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco non è stata accettata: “solo” 9 criteri approvati su 10".

Mafhuz ha lo storico delle decisioni e dei numerosi ricorsi nella sua macchina. Continua a “guidare” chiunque glielo chieda attraverso la storia della città e delle battaglie che sono state intraprese per salvarla. "Abbiamo prodotto dei dossier, abbiamo formato dei comitati e organizzato sit-in nel villaggio. Nel 2012 mi hanno accusato di terrorismo e sono rimasto in carcere per un anno e mezzo". Ma perché a Hasankeyf vince l’AKP? A differenza infatti di altri centri dell’area orientale della Turchia, non c’è stato “bisogno” di imporre il commissariamento. Il partito di Erdoğan è saldamente al controllo del villaggio. "È stato disposto un rimescolamento delle circoscrizioni. Vedi quella parte della città che si trova appena dopo il ponte? Ecco, loro per esempio hanno votato a Batman. Viceversa, abitanti di altri villaggi – che magari non conoscono la causa di questo centro o non le sono vicini – hanno votato alle urne di Hasankeyf".

Quello che Erdoğan ottiene attraverso l’attivazione della diga di Ilisu sono sostanzialmente tre cose: un maggiore controllo nell’area della Turchia orientale, un parziale annullamento della storia e dell’identità curde, una leva di “ricatto” verso le popolazioni curde del nord della Siria e dell’Iraq, che sarebbero interessate da una potenziale chiusura o riduzione dell’approvvigionamento idrico.

Nel corso degli ultimi anni, in realtà, Hasankeyf di visibilità ne ha ottenuta molta. La sua vicenda chiama in causa importanti questioni geopolitiche e la stampa, anche internazionale, si è interessata alla zona con reportage, servizi e documentari.

"Ma non è questo che conta!", dice uno degli accompagnatori (che non risiede nell’area), tra il serio e il faceto. "Si è fatto di Hasankeyf una questione politica, e lo è. Ma oramai la politica è tutta marketing ed è su quello che bisogna puntare!". Mentre lo dice è davanti alla “Nuova Hasankeyf”. Una distesa di villette “standard”, che si sviluppa sulla sponda opposta del fiume Tigri. Una caserma, la scuola e qualche piazza di cemento appena aggregato. Alcuni monumenti sono già stati trasportati qui e delle persone si fermano a guardarli, non sappiamo se futuri residenti o semplici visitatori. "Immagina un mockumentary girato per questa città fantasma. Sembra che sia stata appena abbandonata. Cos’è successo? Una catastrofe? Gli abitanti non si trovavano bene? Occorre ribaltare lo sguardo. Qui, ora, è la vera Hasankeyf".

Fino alla fine
Pare che nella Nuova Hasankeyf, dove alcuni già vivono e dove sono già in funzione alcuni servizi (come la scuola), l’elettricità sia ancora intermittente e l’attuazione di un vero e proprio piano urbanistico sia lungi dall’essere completato. "Lì è tutto cemento. In più la coltivazione e l’allevamento sono vietati". Eyüp ha ben chiaro quello che attende lui e la sua famiglia. "Non potrò più lavorare e non potrò più continuare l’attività del piccolo punto ristoro che gestisco alla sommità del paese, dove ci sono le cave". Il piccolo spiazzo in cui serve il çay a visitatori e locali mostra la valle nella sua interezza, e il Tigri sembra ormai più una divisione temporale che geografica. "Che cosa mi mancherà di più di Hasankeyf? Le rocce, il panorama, tutto!". A Eyüp fa eco İlyas, che invece ha una locanda proprio a ridosso del fiume. "La storia della diga va avanti da 40 anni e con questa scusa, qui, non hanno mai costruito una fabbrica, una scuola o un ospedale. Lo sappiamo che ci devono spostare, tanto vale che accada in fretta. Meglio che restare in un limbo dove né ci permettono di vivere dignitosamente né ci sgomberano".

Verrebbe da dire che la Nuova Hasankeyf non sarà mai realmente abitata, poiché nessuno sta realmente scegliendo di farlo. La sua cifra è già quella dell’abbandono, ancor prima che venga vissuta e nonostante - almeno in parte – stia funzionando come città. Ma è una mockucittà, l’imitazione di un passato che, per i suoi prossimi “dis-abitanti”, diventa il segno presente di un’oppressione. "Sono tutte bugie", dice senza mezzi termini Mehmet, uno degli ultimi tessitori dell’area. "Non è vero che devono veramente far passare la diga da qua, potevano tracciare un percorso diverso oppure mantenere il livello del fiume più basso. Vogliono solo distruggere la nostra storia e la nostra cultura. Io, comunque, resterò qua fino all’ultimo. Rimarrò qui col mio corpo, fino a quando non avrò l’acqua alla gola". Con la mente e col cuore, sicuramente anche oltre.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Maggio 30, 2019, 05:51:13 am
Un villaggio millenario e questi lo inondano con un progetto degli anni '50. E' successo anche in Italia con questi risultati:

(https://www.suedtirolerland.it/images/cms/1540905448_D_RS267416_2987-turm-von-graun-im-reschensee-1.JPG)
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 05, 2019, 01:00:16 am
https://www.eastjournal.net/archives/98294

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STORIA: 4 giugno 1989, le prime elezioni semilibere in Polonia
Donatella Sasso  6 ore fa

Le elezioni semilibere del 4 giugno 1989 in Polonia, frutto di un poderoso lavoro di concertazione e dialogo, non arrivarono come un fulmine a ciel sereno, ma sicuramente rappresentarono uno stravolgimento radicale all’interno di una società avvezza a consultazioni blindate e a una democrazia imbavagliata.

L’evento passò, tuttavia, in secondo piano all’estero perché in quegli stessi giorni l’attenzione dei media internazionali era rivolta a Pechino, in Piazza Tienanmen. Dopo quasi due mesi di contestazione alla leadership comunista da parte di studenti, intellettuali e operai, proprio nella notte fra il 3 e il 4 giugno la protesta fu repressa nel sangue dall’esercito popolare di liberazione, che provocò migliaia di vittime, il cui numero complessivo è ancora ignoto. Con gli occhi puntati sulla Cina, la schiacciante vittoria di Solidarność alle elezioni non ebbe l’attenzione dovuta, ma rappresentò ugualmente un evento epocale che innescò un sommovimento silenzioso quanto irreversibile conclusosi con l’abbattimento del Muro di Berlino, il 9 novembre, e con le transizioni verso la democrazia negli altri paesi dell’Europa centro-orientale.

Le elezioni polacche rappresentarono la felice conclusione di un lungo cammino di dissenso e opposizione, sorto con la morte di Stalin nel 1953 e le denunce di Chruščëv alla sua politica durante il XX Congresso del Pcus nel 1956, ma che ebbe un’improvvisa accelerazione tra il 1988 e il 1989. Durante il XIX Congresso del Partito, nell’estate del 1988, Michail Gorbačëv sancì formalmente la rinuncia all’inferenza negli affari interni dei paesi del Blocco sovietico e, il 7 dicembre, di fronte all’Assemblea dell’Onu, annunciò il ritiro di truppe e mezzi militari dagli stati satelliti.

In questo clima di rinnovamento, che coincise con la ripresa degli scioperi in Polonia, il 6 febbraio 1989 si aprì a Varsavia, presso la sede del Consiglio dei ministri, una lunga discussione che verrà ricordata come la trattativa della Tavola Rotonda per via dell’enorme tavola, attorno alla quale si sedettero esponenti delle istituzioni al potere, della Chiesa e dell’opposizione. I lavori, aperti dopo mesi di trattative segrete fra la parti, affrontarono tre grandi temi: riforma politica, pluralismo sindacale e partitico, obiettivi economici e sociali; presiedettero i dibattiti Lech Wałęsa e Czesław Kiszczak, ministro degli Interni. Fra i rappresentanti di Solidarność presenti al prestigioso tavolo, ciascuno con una propria storia di lotte sindacali, detenzione, isolamento, vi furono nomi di grande rilievo: Tadeusz Mazowiecki, futuro primo ministro, Marek Edelman, unico comandante sopravvissuto all’Insurrezione del Ghetto di Varsavia nel 1943, Jacek Kuroń e Adam Michnik, fondatori nel 1976 del Kor, il Comitato di difesa degli operai.

Le discussioni furono accese e spesso ostiche, con riserve soprattutto da parte governativa, riluttante a cedere parte del proprio potere e assecondare le richieste di pluralismo. Tuttavia si conclusero in maniera del tutto positiva il 5 aprile con la sottoscrizione di un accordo storico: dopo nove anni di illegittimità Solidarność tornava a essere legale – la registrazione ufficiale avvenne il 16 a Varsavia –, fu istituito il Senato e fu introdotta la carica di Presidente della Repubblica in sostituzione di quella di Segretario generale del Partito. Alla denominazione di Repubblica Popolare di Polonia fu tolto l’aggettivo “popolare” quale chiara presa di distanza dall’eredità sovietica. Si stabilirono, infine, le regole delle elezioni indette per inizio giugno: al Sejm, la Camera dei Deputati, il 65% dei seggi fu assicurato ai comunisti, mentre al Senato non furono imposti vincoli. Per la Presidenza della Repubblica fu concessa la sola candidatura di Wojciech Jaruzelski.

Tra aprile e maggio la Polonia si trovò in una inedita e irripetibile congiuntura che le permise non solo di determinare il proprio destino, ma anche di influenzare quello dei paesi fratelli. Infatti, pur trattandosi di elezioni parzialmente libere, aprivano uno scenario di libertà, cui i polacchi erano poco avvezzi, ma che non intendevano sprecare nel nuovo clima di ebbrezza collettiva. Wałęsa concentrò ogni sforzo per recuperare consenso presso i suoi concittadini, a partire da quei dieci milioni di lavoratori che, fra il 1980 e il 1981, si erano iscritti a Solidarność.

La campagna elettorale si svolse fra entusiasmi e incertezze: il regime era ancora in vigore e, nonostante le notevoli aperture, l’esito delle elezioni rimaneva incerto. Per questo la diffusione di volantini e manifesti elettorali non fu così capillare, ma la creatività degli autori dei testi, di grafici e disegnatori raggiunse livelli molto alti.

In maggio, Adam Michnik fondò la «Gazeta Wyborcza», la gazzetta elettorale, nata, come rivela il nome, per le imminenti votazioni, ma che ancora oggi è uno dei principali quotidiani in Polonia. La macchina per la campagna elettorale a favore di Solidarność si mise in moto molto in fretta, cercando di sfruttare tutte le suggestioni più care ai polacchi.

Da sempre il cinema americano aveva esercitato presso molti di loro un fascino particolare. Da qui l’intuizione del grafico Tomasz Sarnecki che riprese per un volantino l’immagine di Gary Cooper nei panni del protagonista di Mezzogiorno di fuoco. Oltre al fotogramma, riportava la scritta di Solidarność in alto e sopra la stella da sceriffo dell’attore, nella mano destra, a coprire la pistola, un foglio con la scritta wybory (elezioni), quindi il titolo del film, che nella versione polacca suona solamente come A mezzogiorno e, infine, la data delle elezioni. In breve divenne il simbolo più vivo della ritrovata democrazia, trasformandosi, in maniera del tutto inaspettata, in un’icona del Novecento. Nel 2010 fu addirittura esposto al Moma di New York per la mostra Polish Posters.

A pochi, però, è noto che le copie del volantino furono stampate a Modena dalla tipografia Coptip, legata a una cooperativa finanziata dal Partito comunista italiano, che offrì buone condizioni economiche e tempi rapidi. I dipendenti vi lavorarono assiduamente con passione. Tutti, ancora oggi orgogliosi del lavoro svolto, ne rimasero coinvolti da un punto di vista emotivo e ideale. La solidarietà internazionale fra lavoratori prevalse sulle convinzioni ideologiche che stavano, in ogni caso, frantumandosi ineluttabilmente.

I risultati elettorali furono forse prevedibili, ma certamente entusiasmanti per quanti avevano lottato per il pluralismo, la libertà e il consolidamento delle istituzioni democratiche appena riconquistate. Al Sejm Solidarność ottenne l’intera percentuale disponibile e al Senato raggiunse il 99% dei seggi. Jaruzelski fu eletto dalle Camere unite presidente della Repubblica per un solo voto di differenza.

Dopo un lungo e articolato dibattito parlamentare, alle 13.09 del 24 agosto 1989, Tadeusz Mazowiecki, di formazione saggista e giornalista, fu eletto primo presidente del Consiglio non comunista dalla fine della guerra. Sulla sua candidatura vi fu la convergenza non solo dei suoi sostenitori, ma anche del partito contadino Zsl, dei 27 deputati del gruppo democratico Sd e di 23 esponenti delle formazioni cristiano-marxiste Pax, Uchs e Pzks, già militanti nella precedente coalizione di regime. Solo 37 deputati su 460 risultarono assenti.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 05, 2019, 01:04:33 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Bosnia-Erzegovina-corruzione-nella-magistratura-194975

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Bosnia Erzegovina: corruzione nella magistratura

Uno scandalo di corruzione coinvolge il presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, un poliziotto e uomo d’affari. L’ennesimo episodio del malfunzionamento dello stato in Bosnia Erzegovina e i tentativi per insabbiarlo

04/06/2019 -  Ahmed Burić Sarajevo
Sarebbe sbagliato affermare che la Bosnia Erzegovina sia scossa da uno scandalo di corruzione che vede protagonista il presidente del Consiglio Superiore della Magistratura Milan Tegeltija. Perché una società non può rimanere veramente scossa se non c’è un’opinione pubblica (sensibilizzata), ovvero se non succede quel Qualcosa che dovrebbe succedere quando trapela un video che mostra il presidente del più alto organo giudiziario del paese mentre discute – in presenza di un ispettore di polizia che funge da tramite – con un uomo che chiede che un procedimento penale ormai da tempo avviato nei suoi confronti davanti al tribunale di Sarajevo venga velocizzato, cioè concluso.

Dunque, nel video in questione, pubblicato sul portale Žurnal, compaiono un uomo d’affari, Nermin Alešević, e un ispettore di polizia, Marko Pandža. Il poliziotto porta l’uomo d’affari da un giudice di Banja Luka, Milan Tegeltija. Quest’ultimo ascolta l’uomo d’affari, chiede il numero di ruolo del procedimento, e poi chiede che tale numero venga riferito al poliziotto che ha organizzato l’incontro. Una volta andato via il giudice, l’uomo d’affari conta 2000 euro e li dà al poliziotto, il quale gli promette che il giudice, tramite una sua collega a Sarajevo, “risolverà” il problema.

Solo nove giorni dopo la pubblicazione del video, l’Agenzia per la sicurezza nazionale (SIPA) ha sospeso temporaneamente, fino alla conclusione delle indagini, l’ispettore di polizia, uno dei tre protagonisti di questo scandalo denominato “Potkivanje” [Ferratura]. Il giorno successivo, la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ha avviato un procedimento disciplinare contro il giudice Tegeltija.

All’indomani dell’avvio del procedimento disciplinare nei suoi confronti, Tegeltija ha reso noto che “se ne va in ferie”, aggiungendo che ritiene di non aver commesso alcuna infrazione disciplinare e che non si sente responsabile in alcun modo. Alcuni giorni prima, durante una seduta straordinaria del Consiglio Superiore della Magistratura, Tegeltija aveva esposto l’intero caso agli altri 13 componenti del Consiglio.

Nonostante abbia ricevuto il sostegno unanime dei colleghi, Tegeltija non ha compiuto alcuna azione concreta, né tanto meno ha cercato di mettere in moto il procedimento di cui sopra. La procura – in linea con il suo ruolo di complice nella derisione della giustizia in Bosnia Erzegovina – ha continuato a rimandare qualsiasi intervento e ha fatto (e continua a fare) di tutto per insabbiare lo scandalo, come già avvenuto molte volte in passato.

E come avviene quasi sempre: si chiude un occhio di fronte a una palese criminalità e ci si aspetta che i giudici praticamente accusino se stessi.

Tutti i paradossi del sistema giudiziario della Bosnia Erzegovina sembrano essere racchiusi in questo caso che definitivamente non dovrebbe rimanere irrisolto, nonostante sia soltanto la punta dell’iceberg.


Il tentativo di insabbiare lo scandalo però è fallito perché i tre principali organismi internazionali presenti in Bosnia Erzegovina – la missione OSCE, l’ambasciata degli Stati Uniti e la delegazione dell’UE – hanno inviato una lettera al presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, nella quale si legge, tra l’altro, che “si ha l’impressione che il Consiglio, nel prendere le sue decisioni, sia guidato da ragioni politiche o di altro tipo”.

Tale tono diplomatico è quasi sempre accompagnato da una quantità insopportabile di eufemismi, ma dal momento che tutte e tre le istituzioni internazionali hanno firmato suddetta lettera, ci si può aspettare che il presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, una volta rientrato dalle “ferie”, non torni al suo lavoro (sovrapagato) bensì venga sottoposto a indagini.

Ma solo se su questa vicenda dovesse insistere la comunità internazionale. Perché la magistratura bosniaco-erzegovese, impigritasi nella posizione ideale di chi gode dei massimi diritti con i minimi doveri, da sola non risolverà alcun caso importante. Almeno finché “funzionerà” la corruzione, che al momento funziona molto meglio dello stato, perché si è insinuata nelle più alte istituzioni statali.

Proprio come dice Bakir Izetbegović, leader del più grande partito dei musulmani bosniaci (il Partito di azione democratica, SDA), la cui ottusità è superata solo dal suo cinismo. Come se non avesse contribuito in alcun modo all’attuale situazione e come se essa non lo riguardasse affatto, Izetbegović sostiene: “Tutti in Bosnia Erzegovina concordano sul fatto che il sistema giudiziario non goda di buona salute e che per questo l’Unione europea debba intervenire”.

Se non fosse tragico, sarebbe comico. Il leader del più grande partito del paese dice che il paese non funziona e che lui non c’entra nulla.


Nel frattempo, l’entità della Republika Srpska, con l’aiuto della Russia e della Serbia, si sta preparando per diventare uno stato indipendente. A giocare a suo favore sono le trasformazioni globali, tali per cui quello che vale oggi domani non varrà più (come ad esempio la folle politica estera di Trump), nonché il fatto che l’attuale leadership bosgnacca, se dovesse trovarsi ad affrontare il rischio della dissoluzione della Bosnia Erzegovina, cercherebbe di salvare se stessa anziché il paese. O meglio, esorterebbe alla difesa del paese, ma al contempo cercherebbe disperatamente di preservare il capitale accumulato rubando durante (e dopo) la guerra.

È in questa chiave che bisogna leggere l’attuale situazione in Bosnia Erzegovina: ci si aspetta che la comunità internazionale risolva tutti i problemi interni.

Ciò non è mai accaduto nella storia dell’umanità. E non accadrà nemmeno adesso in Bosnia Erzegovina.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 22, 2019, 09:49:34 am
https://www.eastjournal.net/archives/98563

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MOLDAVIA: La crisi nasce da lontano
Francesco Magno  8 giorni fa

Questo pezzo è frutto della collaborazione tra East Journal e Osservatorio Balcani e Caucaso

Sabato 8 giugno la Moldova è salita agli onori delle cronache internazionali a seguito della nascita di un nuovo governo sostenuto da una coalizione formata dai social-democratici filorussi e il blocco ACUM, dichiaratamente favorevole a un legame sempre più stretto tra Chisinau e l’Unione Europea. Obiettivo di questa ambigua alleanza è mettere fuori gioco Vladimir Plahotniuc, leader del Partito Democratico di Moldavia (PDM) e più potente oligarca del paese. Il nuovo esecutivo, guidato dalla leader di ACUM, Maia Sandu ha ricevuto il sostegno congiunto di Bruxelles, Washington e Mosca, ma è stato quasi subito dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale moldava, su cui Plahotniuc esercita una pericolosa influenza. Il governo, sarebbe nato quando già erano scaduti i 90 giorni concessi per la formazione di un esecutivo dopo le elezioni.

Si è venuta a creare quindi una situazione di pericoloso stallo politico e istituzionale, con un governo legittimato dai più forti attori internazionali e con una maggioranza parlamentare da un lato, e la decisione vincolante della Corte Costituzionale dall’altro. Difficile prevedere oggi quali saranno gli sviluppi della vicenda. Per domenica sono previste nella capitale delle manifestazioni a favore del governo Sandu. E’ forse la prima volta dal 2014, anno dell’annessione della Crimea, che occidente e Russia si schierano dalla stessa parte per raggiungere un obiettivo politico condiviso. Tuttavia, ridurre la vicenda a un semplice accordo tra euro-americani e russi contro un nemico comune rischia di semplificare un quadro ben più complesso.

Certo è che quel che è accaduto sabato scorso non può essere slegato dalla visita, il 3 giugno scorso, del commissario UE per le politiche di vicinato e i negoziati per l’allargamento Johannes Hahn. questi, dopo aver incontrato tutti i principali leader di partito, ha ribadito la necessità impellente di un governo per la Moldova, paventando addirittura dei rischi estremamente concreti per il paese nel caso in cui non si fosse giunti al risultato, primo fra tutti una diminuzione degli aiuti economici provenienti da Bruxelles.

Quello stesso 3 giugno si trovavano a Chisinau anche Dmitri Kozak, rappresentante del Cremlino e autore del famoso memorandum Kozak promotore di una federalizzazione della Moldova, e Bradley Freden, responsabile dell’ufficio Europa orientale presso il dipartimento di stato americano. La presenza simultanea dei rappresentanti di Russia, Europa e Stati Uniti ha sicuramente dato un impulso decisivo alle negoziazioni per la formazione del nuovo governo, culminate poi con la nascita dell’esecutivo Sandu. I tre grandi attori internazionali si son trovati d’accordo nel rifiuto di una prosecuzione del binomio di potere formato da Plahotniuc dal presidente Igor Dodon, che negli ultimi anni ha monopolizzato la vita politica moldava.

Sebbene nelle ultime ore Dodon abbia pronunciato parole incendiarie contro Plahotniuc, i due hanno collaborato spesso, egemonizzando lo spettro politico del paese. Celebre è la famosa legge elettorale varata nel 2017 e figlia della collaborazione tra il PDM e il partito socialista di Dodon. Essa, trasformando il tradizionale sistema proporzionale moldavo in un sistema misto con parte dei parlamentari eletti tramite competizione in collegi uninominali ha mirato alla marginalizzazione politica del blocco pro-occidentale della Sandu. Nel contesto moldavo infatti la competizione in collegi uninominali facilitava i partiti più strutturati nel territorio e più propensi ad abusare del loro potere amministrativo.

Cosa si è rotto pertanto nel dialogo tra il potente oligarca e il presidente filorusso? E’ difficile credere che a Dodon interessi davvero liberare il paese dalle oligarchie. Più probabile è che la negoziazione personale tra i due sulla distribuzione del potere e delle influenze sia naufragata. Una trattativa provata anche da un video casualmente pubblicato da ‘Publika’ (un’emittente controllata dallo stesso Plahotniuc) proprio nella tumultuosa giornata di sabato che ritrae un incontro del 7 giugno. Nel video Dodon spiega a Plahotniuc come il partito socialista abbia puntualmente ricevuto sostegno finanziario dalla Russia, tramite Alexey Miller, amministratore delegato di Gazprom, e Dmitri Kozak, senza tuttavia entrare nel dettaglio delle operazioni. Il partito avrebbe ricevuto dal Cremlino più di 1 milione di dollari, secondo le stime di Dodon, il quale successivamente pone come condizione fondamentale per un accordo il famigerato progetto di federalizzazione.

L’accordo tra i due è naufragato, e il resto è storia. La Moldova, paese più povero d’Europa, rischia di uscire distrutta dalla crisi politica scoppiata nei giorni scorsi. Molto dipenderà ovviamente da come Europa, Stati Uniti e Russia, si porranno di fronte all’evolversi degli eventi e quanto vorranno impegnarsi nella soluzione della crisi sostenendo l’esecutivo Sandu.

Secondo l’analista romeno Dan Dungaciu, direttore dell’istituto di scienze politiche dell’accademia delle scienze romena, da sempre attento alle questioni moldave, la nascita del governo Sandu, visto come un ottimo segnale nella lotta alla corruzione e all’oligarchia, è segno in realtà di obiettivi più ampi perseguiti dalle grandi potenze. Plahotniuc è soltanto un pretesto per ridisegnare la situazione geopolitica del confine sud-orientale d’Europa, dal momento che “si dovrà discutere a un certo punto sia della soluzione del conflitto congelato in Transnistria sia di una soluzione di quello in Ucraina, e pertanto tutta la zona acquista un’importanza strategica fondamentale, sul futuro della quale tutti dovranno trovarsi d’accordo”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 22, 2019, 09:51:09 am
https://www.eastjournal.net/archives/98708

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GEORGIA: Scontri a Tbilisi per la presenza di un politico russo in Parlamento
Aleksej Tilman  19 ore fa

Sono giorni di scontri a Tbilisi. Con la città carica di tensioni e divisioni legate all’organizzazione del gay pride, un altro caso, molto geopolitico, rischia di mettere in discussione la stessa maggioranza di governo.

Lo scorso 20 maggio, nella sede di Tbilisi del Parlamento georgiano, si è aperta la ventiseiesima Assemblea interparlamentare sull’ortodossia, un’organizzazione il cui scopo è favorire il dialogo tra paesi accomunati dalla confessione cristiana ortodossa. Il presidente dell’Assemblea, il parlamentare russo Sergej Gavrilov, è stato invitato a sedersi al posto normalmente assegnato allo Speaker dell’Assemblea legislativa georgiana.

Questo gesto, in apparenza innocuo, è bastato a scatenare un vespaio di polemiche nel paese caucasico, dove la Russia è considerata come una potenza occupante a causa del sostegno di Mosca a Ossezia del Sud e Abkhazia, le due repubbliche separatiste in territorio georgiano.

Un gruppo di parlamentari dell’opposizione è entrato nell’aula durante un intervallo. Elene Khoshtaria, un membro del Partito della Georgia europea, indosssando una bandiera georgiana, ha urlato: “Dov’è Gavrilov? Dov’è l’occupante?”, e, accompagnata da alcuni colleghi, ha strappato i fogli che contenevano il discorso del parlamentare russo, dichirando che l’evento non sarebbe andato avanti finchè la delegazione russa non avesse lasciato l’assemblea.

Gavrilov è stato velocemente scortato prima in albergo e poi all’areoporto e ha minacciato ritorsioni nei rapporti commerciali tra Russia e Georgia. Nel frattempo, una folla si è radunata sul viale Rustaveli, davanti al Parlamento. Durante la serata, la protesta è diventata violenta quando alcuni manifestanti hanno provato ad aprirsi la via all’interno dell’edificio. La polizia ha sparato pallottole di gomma e gas lacrimogeni per disperdere la folla e la manifestazione si è sciolta solo verso l’una e mezzo del mattino. Al momento, le cifre ufficiali parlano di 240 persone, inclusi 12 giornalisti e 80 poliziotti, ferite durante gli scontri.

Con il degenerarsi della situazione, la coalizione di governo del Sogno georgiano è dovuta correre rapidamente ai ripari. Bidzina Ivanishivili, l’eminenza grigia della politica del paese caucasico, si è detto in accordo con i manifestanti e ha spiegato che è inaccettabile che il rappresentante di uno stato occupante presieda una qualsiasi forma di assemblea in Georgia. La presidente, Salome Zurabishvili, ha criticato la scelta di invitare Gavrilov, ma ha anche condannato il tentativo della folla di entrare con la forza nell’edificio del Parlamento.

Nonostante le parole dei rappresentanti del governo, l’ondata di proteste non si è esurita. Questa mattina, il partito di opposizione Movimento Nazionale Unito ha indetto una nuova manifestazione per ottenere le dimissioni del Ministro dell’Interno, Giorgi Gakharia, e dello Speaker del Parlamento, Irakli Kobakhidze – quest’ultime arrivate poco dopo –, e spingere il paese ad elezioni parlamentari anticipate.

L’autogol della coalizione di governo e un uso della forza da parte delle forze di sicurezza che non si vedeva da anni in Georgia lasciano qualsiasi opzione aperta. Gli scontri di Tbilisi mostrano anche quanto politiche di apertura alla Russia trovino l’opposizione, quasi compatta, dell’opinione pubblica georgiana.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 28, 2019, 21:27:15 pm
https://www.eastjournal.net/archives/98735

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BOSNIA: Un paese senza governo, di nuovo
Angelo Massaro  2 giorni fa

Sono passati otto mesi dalle ultime elezioni in Bosnia Erzegovina e non si è ancora giunti ad un accordo per la formazione di un nuovo esecutivo. Allo stato attuale, le posizioni divergenti dei partiti bosniaci in merito al processo di adesione della Bosnia Erzegovina alla NATO sono tra gli ostacoli maggiori verso la risoluzione dello stallo istituzionale. Mentre la classe politica bosniaca resta divisa, gli organismi internazionali temono che il ritardo nella formazione del governo possa rallentare il consolidamento delle riforme necessarie al paese.

La NATO al centro della disputa

Un primo passo formale verso l’adesione della Bosnia Erzegovina alla NATO è stato compiuto lo scorso 5 dicembre, quando i ministri degli Esteri dei paesi dell’organizzazione euro-atlantica si sono espressi a favore dell’attivazione del Piano d’azione per l’adesione (Membership Action Plan, MAP). Il MAP, che è stato progettato come un programma di assistenza e sostegno pratico per i paesi che intendono aderire all’Alleanza Atlantica, è a sua volta subordinato alla preparazione di programmi annuali nazionali (National Annual Programme, ANP). In questi ultimi, i paesi interessati a una futura adesione alla NATO indicano alcune misure da attuare in campo militare, economico, giuridico e politico.

Mentre i rappresentanti dei partiti politici bosgnacchi si sono espressi a favore dell’attivazione del MAP, i serbo-bosniaci si oppongono. Questi ultimi, attraverso le posizioni dell’Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti (SNSD) sono principalmente in contrasto con il principale partito conservatore bosgnacco, il Partito d’Azione Democratica (SDA). Entrambi i partiti si accusano a vicenda di causare l’attuale impasse istituzionale: se l’SDA pone l’attivazione del MAP come una condizione essenziale per la formazione del governo, l’SNSD rifiuta vivamente tale ipotesi, non dicendosi disposta ad accettare ulteriori misure per l’integrazione della Bosnia nella NATO.

La natura dello stallo istituzionale

Al momento l’SDA e l’SNSD, insieme ai croato-bosniaci dell’HDZ-BiH, sono riusciti a trovare un accordo solamente in merito alla distribuzione dei ministeri. Oltre alla paralisi sulla formazione del governo, l’inconciliabilità delle posizioni tra i partiti bosniaci è esemplificata dalla mancata costituzione del governo della Federazione di Bosnia Erzegovina – una delle due entità del paese – nonché dall’inattività degli organi parlamentari della Bosnia Erzegovina.

Sullo stallo politico del paese si sono espressi sia l’Alto Rappresentante per la Bosnia Erzegovina , Valentin Inzko sia il Consiglio per l’attuazione della pace  (Peace Implementation Council, PIC) sottolineando entrambi la necessità di una formazione delle autorità esecutive e parlamentari a tutti i livelli di governo. Una posizione simile è stata espressa dalla Commissione europea nell’Opinione sulla domanda d’adesione della Bosnia Erzegovina all’Unione europea, dove è stata evidenziata la “necessità di coordinamento e armonizzazione delle posizioni politiche del paese, in particolare per quanto riguarda l’allineamento e l’attuazione della legislazione derivante dall’acquis dell’UE.” Mentre il Consiglio UE ha sostenuto che “la politica di partito e la mancanza di volontà di compromesso non dovrebbero bloccare le legittime aspirazioni dei cittadini bosniaci di avanzare verso l’Unione europea”.

Quando verrà superata l’impasse?

L’incapacità dei partiti bosniaci di risolvere l’attuale impasse politica è indice di una mancata lungimiranza della classe dirigente, interessata a porre veti piuttosto che fornire soluzioni concrete ai problemi della cittadinanza. Il costo di queste inadempienze ricade in larga misura sulle nuove generazioni, sempre più propense ad abbandonare il paese in ricerca di migliori opportunità lavorative. Come sottolineato dal Rapporto analitico 2019 della Commissione europea la disoccupazione giovanile si attesterebbe intorno al 40%, comprovando, oltre alla sfiducia crescente verso le istituzioni, la grave mancanza di prospettive di realizzazione personale nel proprio paese. In aggiunta a questi fattori, l’aumento estivo dei flussi migratori attraverso la Bosnia Erzegovina costituisce una problematica ulteriore per le autorità locali. Con il protrarsi della crisi istituzionale nel paese vi è il rischio di fornire risposte ancora più insufficienti riguardo la gestione dei transiti, a discapito delle popolazioni locali, dei migranti e delle associazioni che lavorano sul campo.

Alla luce di quanto espresso, la risoluzione dell’attuale stallo istituzionale richiede un’assunzione condivisa di responsabilità tra i maggiori partiti bosniaci. Secondo il leader del HDZ-BiH Dragan Cović, l’esecutivo verrà formato a breve, un’opinione che tuttavia non sembrerebbe essere pienamente condivisa dagli esponenti degli altri schieramenti in campo. Per Bakir Izetbegović, presidente del partito bosgnacco SDA, il blocco istituzionale verrà sciolto soltanto se i partiti troveranno un compromesso sul processo di adesione alla NATO. Mentre il leader dei serbo-bosniaci del SNSD, Milorad Dodik, non si dice al momento ottimista sul raggiungimento di un accordo tra le parti. Nel frattempo a pagarne le conseguenze sono i cittadini bosniaci, ormai scoraggiati da otto mesi di lunghe attese e preoccupati che ulteriori rallentamenti possano minare il normale funzionamento dei vari livelli di governo nel paese
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 28, 2019, 21:28:59 pm
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ALBANIA: Alle elezioni amministrative un paese sull’orlo di una crisi di nervi
Pietro Aleotti  3 giorni fa

Da mesi ormai l’Albania è attraversata da pulsioni di piazza che non sembrano avere tregua. Avevano iniziato gli studenti universitari a cavallo di fine anno, ha proseguito, senza soluzione di continuità, l’opposizione parlamentare al governo socialista di Edi Rama, quella della compagine di centrodestra del Partito Democratico guidata da Lulzim Basha. Tra le due cose, è bene precisarlo, non vi è alcuna correlazione, né politica né di intenti, se non la mera coincidenza temporale. Ma è un fatto che esse rappresentino, entrambe, un paese in crisi politica e sull’orlo di una crisi di nervi.

Elezioni sì, elezioni no, elezioni forse…

E’ in questo clima di veleni che il paese si appresta a recarsi alle urne il prossimo 30 giugno, per una tornata elettorale amministrativa. Elezioni che l’opposizione di Basha boicotterà non presentando propri candidati in segno di protesta contro un governo, a suo dire, illegittimo e corrotto. L’Albania non è certo nuova a queste prese di posizione e, storicamente, i partiti d’opposizione hanno brandito un vasto campionario di minacce, più o meno credibili, più o meno gravi, portando i propri sostenitori per strada e spaccando la popolazione albanese in una contrapposizione più simile a quella delle tifoserie da stadio che a quella di parti che, legittimamente, si confrontano nell’alveo del riconoscimento reciproco.

Ma la tensione e la confusione, anche istituzionale, di queste giornate di vigilia ha davvero pochi precedenti ed è, anzi, per certi versi inedita. L’8 giugno scorso, con una mossa a sorpresa, il presidente della Repubblica, Ilir Meta, ha annullato il decreto riguardante la data delle elezioni rimandandole a data da destinarsi, motivando tale decisione come conseguenza del fatto che nessuna delle parti si è impegnata a risolvere la crisi politica e facendo un preciso riferimento al fatto che, a causa del boicottaggio dell’opposizione di centrodestra, le elezioni non sarebbero state “vere, rappresentative e inclusive”. L’ennesimo capitolo, questo, della saga che vede come protagonisti il presidente Meta e il primo ministro socialista Edi Rama, da sempre in aperta polemica e, spessissimo, in aspra contrapposizione, nonostante sia stato Rama stesso il vero fautore dell’elezione di Meta a presidente.

La reazione di Rama non si è fatta attendere: bollando, senza mezzi termini, l’estemporanea iniziativa del presidente e le prese si posizione dell’opposizione come “comportamenti di un gruppo disperato, costretti a perdere disperatamente”, il premier ha confermato lo svolgimento delle elezioni secondo quanto previsto. Posizione ribadita dal parlamento e dalla commissione elettorale centrale (monopolizzati, entrambi, dal partito socialista a seguito dell’auto-esclusione di gran parte delle opposizioni) che, a stretto giro, ha annullato il decreto presidenziale dando il via libera definitivo al “regolare” svolgimento delle elezioni. In questo marasma di decreti e contro-decreti si è sentita, più che mai, l’assenza di una Corte Costituzionale funzionante, paralizzata da tempo per mancanza di giudici.

Opposizione, tra moti di piazza e boicottaggio

Fallita la via maestra del decreto presidenziale, l’opposizione ha proseguito con quella ben più collaudata dei moti insurrezionali. Con un novità, però: ai soliti tumulti e alle consuete rimostranze a base di vetrine rotte e lacrimogeni che sono, ormai, cronaca quotidiana in tutto il paese, se n’è aggiunta una, per certi versi più preoccupante ed eversiva.

Quella in atto in alcune municipalità governate dal Partito Democratico, dove si sta perpetrando un vero e proprio ostruzionismo al libero svolgimento delle elezioni: il sindaco di Scutari, da esempio, la democratica Voltana Ademi, ha schierato le forze di polizia davanti ad uno degli uffici elettorali impedendo l’ingresso ai membri della commissione elettorale. A Tropoja i dipendenti del municipio guidati dal primo cittadino democratico, Besnik Dushaj, hanno preso possesso del materiale elettorale e l’hanno buttato per strada. Più in generale tutti i municipi a guida democratica (ma anche quelli governati dell’altro partito d’opposizione, il Movimento Socialista per l’Integrazione fondato dallo stesso Meta) hanno invocato la chiusura degli uffici elettorali a seguito dal decreto presidenziale e l’annullamento delle elezioni.

La tenuta democratica a rischio

Non è ben chiaro, allo stato, come andrà a finire. Quello che è chiarissimo, invece, è che l’atteggiamento di Basha appare politicamente fallimentare e strategicamente autolesionistico. Storicamente, l’isolamento e l’auto-esclusione, quello che in Italia chiameremmo “Aventino”, non hanno portato bene a chi l’ha promosso e, stanti così le cose, Basha sta consegnando il paese nelle mani di Rama e del Partito Socialista. Il che potrebbe sembrare addirittura paradossale se non fosse che il leader del centrodestra sta giocando col fuoco, con la credibilità dell’intero paese e, persino, con la tenuta democratica dell’Albania.

Non è un caso che, proprio in queste settimane, il processo di adesione dell’Albania all’Unione europea abbia subito un drastico raffreddamento. Sebbene le ragioni di tale raffreddamento siano di natura geopolitica più complessiva, non tutte nobilissime, è del tutto evidente che la posizione dell’Albania appare oggi più fragile alla luce dello spettacolo deprimente che la propria classe dirigente sta offrendo a chi la guarda.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 28, 2019, 21:31:08 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Macedonia-del-Nord/Macedonia-del-Nord-Skopje-tiene-il-suo-primo-Pride-195360

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Macedonia del Nord, Skopje tiene il suo primo Pride

Domani Skopje tiene il suo primo Pride, col sostegno di rilevanti rappresentanti delle istituzioni. Un importante passo in avanti per i diritti della comunità LGTBI della Macedonia del Nord, in un contesto storicamente difficile

28/06/2019 -  Ilcho Cvetanoski   Skopje
Con la prevista considerevole protezione della polizia, circa 500 attivisti e sostenitori LGBTI daranno vita alla prima Pride Parade di Skopje sabato 29 giugno. Il comitato organizzatore, la "Rete nazionale contro l'omofobia e la transfobia", ha annunciato che l'inizio dell'evento è programmato per le ore 11 presso il parco Woman Warrior nel centro della capitale.

"La sfilata dell'orgoglio sarà una forma di protesta per l'affermazione, il sostegno e la protezione dei diritti umani delle persone LGBTI nella Macedonia del Nord", ha detto durante la conferenza stampa a Skopje Antonio Mihajlov, un attivista LGBTI.

Oltre agli attivisti LGBTI dei paesi vicini, sono attesi al Pride anche politici macedoni di alto profilo. Tra loro ci sarà il ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Mila Carovska, che dovrebbe rivolgersi gli attivisti alla fine della sfilata. Inoltre, il presidente eletto Stevo Pendarovski e il sindaco di Skopje Petre Shilegov hanno annunciato la propria presenza, dando così all'evento il necessario supporto politico.

La registrazione dei partecipanti e l'inizio della marcia avranno luogo al parco Woman Warrior nel centro della città. La sfilata dovrebbe iniziare a mezzogiorno e terminare verso le 13 nel principale parco cittadino, ma l'evento continuerà per molte altre ore con numerosi concerti. La rappresentante del paese all'Eurovision di quest'anno, Tamara Todevska, canterà la sua canzone "Proud". Il Pride dovrebbe terminare dopo le 16:00.

La Macedonia del Nord, insieme alla Bosnia Erzegovina, era l'unico paese balcanico a non aver mai organizzato un Pride. Questo cambierà a partire da domani. Da alcune dichiarazioni, pare che Sarajevo seguirà l'esempio di Skopje e terrà la sua prima sfilata arcobaleno entro la fine del 2019. Tuttavia, a prescindere dai segnali positivi, la situazione generale nella regione non è così positiva. La Macedonia del Nord ha depenalizzato l'omosessualità nel 1996, ma da allora non sono stati fatti progressi importanti nei diritti delle persone LGBTI.

Diritti LGBTI
L'organizzazione del Pride è un passo nella giusta direzione, ma anche oggi le persone LGBTI rimangono la comunità più emarginata dello stato, oggetto di quotidiane aggressioni fisiche, incitamento all'odio e discriminazione.

"La violenza e l'inefficiente protezione dalla violenza, dalla discriminazione, dall'impunità per l'incitamento all'odio, dall'elevato rischio di diventare senzatetto, dall'accesso limitato alle posizioni lavorative e così via sono tra i principali problemi che le persone LGBTI devono affrontare quotidianamente", ha detto a OBCT un rappresentante del Centro di supporto LGBTI di Skopje.

La cupa situazione è stata descritta in dettaglio da numerose organizzazioni internazionali. Nell'estate 2015, il National Democratic Institute (NDI) ha condotto una ricerca sulle principali questioni LGBTI nei Balcani. Il sondaggio ha mostrato che "la maggioranza degli intervistati in Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Macedonia (del Nord), Montenegro e Serbia ha bassi livelli di conoscenza sulle comunità lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali, e di conseguenza un livello alto di resistenza a conferire uguali diritti e opportunità indipendentemente da orientamento sessuale e identità di genere". Sul versante positivo, i residenti giovani, istruiti e urbani mostrano un supporto visibile per i diritti LGBTI.

La Universal Periodic Review delle Nazioni Unite, che comporta un'analisi dello stato dei diritti umani in tutti gli stati membri sotto gli auspici del Consiglio dei diritti umani, durante la valutazione della Macedonia del Nord che si è svolta il 24 gennaio 2019, si è concentrata principalmente sui diritti delle persone rom e LGBTI come i gruppi più vulnerabili del paese.

Secondo l'Annual Review di ILGA (International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association), l'anno scorso la Macedonia del Nord era al 41° posto su 49 paesi europei. Quest'anno è al 34°, tra Cipro (33°) e Italia (35°).

Tuttavia, secondo gli attivisti LGBTI, la situazione sul campo è rimasta più o meno la stessa. A riprova di questa conclusione, vengono riportati i costanti attacchi al Centro LGBTI a Skopje e l'impunità per tali incidenti. Inoltre, discorsi di odio e discriminazione sono onnipresenti in una parte significativa della società macedone. Indipendentemente dal background politico, etnico o religioso, parte della società è unita nella discriminazione contro la comunità LGBTI.

Uranija Pirovska, presidente del Comitato Helsinki per i diritti umani della Macedonia del Nord, ha dichiarato ai media che uno dei passi nella giusta direzione sarebbe identificare e perseguire tutti gli autori degli attacchi al Centro LGBTI.

"Questo sarà un definitivo segnale dell'esistenza della volontà politica di affrontare tali questioni e cambiare il clima per la comunità LGBTI", ha detto Pirovska.

Attacchi al Centro LGBTI
Incidenti e attacchi sono iniziati subito dopo l'apertura del Centro nell'ottobre 2012, nel vecchio bazar di Skopje. Poche ore dopo il termine dell'evento, verso le 3.30 del mattino, diverse persone hanno lanciato pietre contro il Centro. Due mesi dopo, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre, teppisti sconosciuti hanno disegnato una svastica sulle barre protettive di metallo del Centro e scritto "Tremiti", facendo riferimento alle Isole Tremiti dove Benito Mussolini imprigionò centinaia di omosessuali. La notte successiva il Centro è stato nuovamente attaccato nel tentativo di incendiarlo.

"Gli attacchi al Centro sono stati la concretizzazione di precedenti dichiarazioni omofobiche e transfobiche, minacce e pressioni portate avanti con lo scopo di fermare l'apertura di tale istituzione", hanno spiegato a OBCT i rappresentanti del Centro.

Gli incidenti sono continuati negli anni seguenti. Nel marzo 2013, il Centro è stato attaccato da una folla di vandali che hanno causato danni significativi alla proprietà. L'incidente è stato registrato sulla telecamera di sicurezza. Tre mesi dopo, il 22 giugno 2013, il Centro LGBTI è stato nuovamente attaccato, questa volta durante l'evento della Pride Week, mettendo in pericolo la sicurezza di 40 ospiti.

L'anno successivo, nell'ottobre 2014, circa 20 teppisti incappucciati hanno vandalizzato il caffè Damar nell'Antico Bazar, dove la comunità LGBTI festeggiava il secondo anniversario del Centro. Durante gli incidenti, come riportato dai media, una donna è stata ferita alla testa da una bottiglia lanciata dai teppisti. Fino ad oggi nessuno di questi tentativi di danneggiare o incendiare il Centro è stato chiarito, mentre i responsabili rimangono non identificati.

Sulla strada giusta
L'organizzazione del Pride di quest'anno, insieme al sostegno dei più alti funzionari statali, è sicuramente un grande passo avanti considerando la mancanza di azioni positive mostrata dal precedente governo conservatore, guidato dal VMRO-DPMNE di Nikola Gruevski. Dopo l'adozione di quest'anno della nuova legge sulla prevenzione e la protezione contro la discriminazione, che per la prima volta vieta la discriminazione basata sull'orientamento sessuale e l'identità di genere, il paese si sta muovendo verso una società più inclusiva e tollerante.

Il nuovo ministro dell'Istruzione si è impegnato a rivedere alcuni libri di testo e cancellare o riscrivere le affermazioni discriminatorie che vi sono contenute, ad esempio "l'omosessualità è una stasi dello sviluppo psico-sociale ad un livello inferiore" e "le relazioni omosessuali sono parassitarie rispetto a quelle eterosessuali".

ILGA-Europe ha sottolineato che la Macedonia del Nord dovrebbe adottare leggi contro l'incitamento all'odio con menzione esplicita di tutte le motivazioni (orientamento sessuale, identità di genere, caratteristiche sessuali), mentre i social media sono invasi dall'incitamento all'odio dopo l'annuncio della parata imminente.

A giudicare dalle esperienze precedenti e dalle attuali reazioni dei cittadini, servono ancora molti passi per arrivare ad una società inclusiva. Il Pride è un passo in quella direzione, ma ciò non porterà i cambiamenti attesi finché ci sarà impunità per l'incitamento all'odio e gli assalti motivati dall'odio. Il segno del successo sarebbe avere la Skopje Pride Parade senza necessità di protezione della polizia.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Giugno 28, 2019, 23:41:56 pm
Poteva mancare il pride anche nell'Europa dell'Est?
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 05, 2019, 20:58:12 pm
https://www.eastjournal.net/archives/98871

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ALBANIA: Il dopo elezioni, tutti vincenti, tutti perdenti
Pietro Aleotti  2 giorni fa

Mutuando la battuta di una nota campagna pubblicitaria, si potrebbe dire che a Edi Rama, primo ministro albanese socialista, in carica dal 2013, “piace vincere facile”. Questo perché alle elezioni amministrative di domenica scorsa, nei 61 comuni dove si è votato, i candidati del Partito Socialista (PS) hanno vinto a mani basse. Non si può dire che abbiano vinto sbaragliando la concorrenza, tuttavia, perché in oltre metà dei casi, il candidato socialista era l’unico in lizza e nelle rimanenti municipalità il contendente apparteneva a liste largamente minoritarie e poco rappresentative.

Astensione protagonista: una vittoria per l’opposizione?

Questa situazione, che ricordava vagamente (ma nemmeno troppo), i tempi in cui al governo c’era il partito unico, quello comunista di Enver Hoxha, e il muro di Berlino era ancora ben saldo al suo posto, si è venuta a creare, come noto, in conseguenza del boicottaggio promosso e portato fino a compimento dalle opposizioni. Lulzim Basha, leader del Partito Democratico (PD, compagine di centro destra) e Monika Kryemadhi, capo del Movimento Socialista per l’Integrazione (LSI), nonché moglie del presidente della Repubblica Ilir Meta, entrambi all’opposizione, non hanno infatti anteposto alcun candidato: questo, all’apice di un periodo di proteste in atto da mesi in tutto il paese, non privo di manifestazioni violente e disordini di piazza.

Stanti così le cose, la vera cartina di tornasole per capire come effettivamente siano andate le elezioni, chi le abbia vinte e chi perse, è quella relativa al dato dell’affluenza: e ciò, anche, in ragione del fatto che Basha, alla vigilia del voto, aveva esortato i cittadini albanesi a disertare le urne restandosene a casa. E il dato dell’affluenza è, effettivamente, molto basso, poco superiore al 20%: una percentuale che appare in tutto il suo significato se raffrontata non solo al valore di affluenza media che in Albania è pari al 50% circa (elezioni nazionali), ma soprattutto, se comparato al risultato elettorale del Partito Socialista negli ultimi due decenni.

Dal 2001 il Partito Socialista è stabilmente oltre il 40% e alle ultime elezioni politiche, quelle del 2017, aveva addirittura sfiorato la maggioranza assoluta assicurandosi oltre il 48% dei consensi. Al netto del fatto che le elezioni politiche nazionali non sono quelle amministrative e che il boicottaggio delle opposizioni non ha certo incentivato la corsa ai seggi elettorali nemmeno dei fedelissimi di Rama, il dato politico resta, ed è, piuttosto impressionante. Ne è ben consapevole Rama stesso che, infatti, nelle dichiarazioni a caldo post-voto ha immediatamente dato disponibilità ad aprire un confronto con le opposizioni con toni concilianti che, in Albania, non si vedevano da un bel pezzo (“se l’opposizione vuole la pace, allora l’avrà”). E ne sono ben consapevoli i leader delle opposizioni: la Kryemadhi, in particolare, ha parlato di “tentativo fallito di istituire uno stato dittatoriale” dicendosi certa che “l’85% degli albanesi è nostro alleato”.

L’auto-esclusione: un favore alla maggioranza?

Vista da fuori, tuttavia, la presunta vittoria delle opposizioni appare in tutta evidenza come quella, epica, di Pirro. A riassumere perfettamente questo sentimento, per non dire questa certezza, è Jozefina Topalli, ex presidente del parlamento albanese ed esponente del Partito Democratico, che in un post pubblicato sulla propria pagina Facebook, definisce come “tradimento” dei propri sostenitori la linea dettata da Basha, annotando amaramente che “il PD non ha più alcun potere” e che, in pratica, “non esiste più”.

Difficile dare torto alla Topalli, difficile non vedere che il duo Basha- Kryemadhi si sia, nei fatti, infilato in un cul de sac: se l’atteggiamento “aventiniano” non dovesse cambiare, infatti, né il PD, né l’LSI potranno essere parte attiva nelle predisposizione di quelle riforme di cui l’Albania si dovrà dotare nei prossimi mesi, quella della giustizia in primis. Né, tanto meno, potranno giocare alcun ruolo nel definire la composizione di alcuni organi statali di fondamentale importanza, come la corte costituzionale, ad esempio, congelata da mesi per mancanza di giudici.

Un futuro di cooperazione?

L’auspicio, corroborato dall’approccio inusualmente accomodante di Rama, è che queste elezioni amministrative abbiano rappresentato il fondo del barile di una crisi politico-istituzionale senza precedenti nella storia recente albanese. Crisi ulteriormente fomentata dall’atteggiamento del presidente della Repubblica che, abbandonato il proprio ruolo super-partes, è diventato parte attiva della disputa politica, arrivando ad evocare presunte (e non comprovate) teorie cospirative per destabilizzare l’Albania: il suo tentativo, poi abortito, di posporre, se non addirittura annullare, le elezioni del 30 giugno, poteva apparire come un endorsment politico all’azione delle opposizioni se non, addirittura, giustificazionista dell’atteggiamento ostruzionistico e persino violento da loro promosso.

Se effettivamente si sia toccato il fondo potremmo dirlo solo nelle settimane e nei mesi prossimi, così come servirà tempo per capire se ci troviamo di fronte ad una possibile collaborazione tra maggioranza e opposizione o, magari, ad un governo di unità nazionale. Fa ben sperare, in questa direzione, il fatto che la giornata di domenica sia passata senza i temutissimi scontri, in un clima tutto sommato sereno, cosa nient’affatto scontata alla vigilia. La tenuta democratica sembra esserci stata, la crisi istituzionale scongiurata. Tira un sospiro di sollievo l’Europa (e non solo) che, ad ottobre, dovrà riaprire il fascicolo Albania e decidere, una buona volta, cosa fare.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 05, 2019, 21:01:13 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Ex-Jugoslavia-i-politici-non-vogliono-la-verita-sulle-guerre-di-dissoluzione-195486

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Ex Jugoslavia: i politici non vogliono la verità sulle guerre di dissoluzione
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Srebrenica, 2013 (© umut rosa / Shutterstock.com)

Oggi si chiude a Poznań il vertice annuale del Processo di Berlino. Presenti anche i rappresentanti di molte organizzazioni della società civile, tra cui REKOM, che da anni si batte per istituire una commissione regionale sui crimini di guerra e sull'accertamento delle vittime dei conflitti della disgregazione jugoslava

05/07/2019 -  Radomir Kračković
(Pubblicato originariamente da Deutsche Welle  il 30 giugno 2019 tit. orig. "Političari ne žele istinu o ratu i zločinima devedesetih")

Il vertice annuale del Processo di Berlino, che si svolge a Poznań dal 3 al 5 luglio, è un’occasione per discutere della prospettiva europea dei paesi dei Balcani occidentali e della cooperazione economica. Al summit di Poznań partecipano anche i rappresentanti delle organizzazioni della società civile attive nei Balcani occidentali, che hanno l’opportunità di presentare le loro attività, tra cui spicca per importanza un’iniziativa che, pur essendo avviata undici anni fa, ancora fatica a concretizzarsi.

Si tratta dell’iniziativa REKOM, acronimo di Commissione regionale per l’accertamento dei fatti relativi ai crimini di guerra e ad altre gravi violazioni dei diritti umani commesse sul territorio dell’ex Jugoslavia nel periodo compreso tra il 1 gennaio 1991 e il 31 dicembre 2001.

Nel 2008 è stata creata la Coalizione per REKOM, che ad oggi raccoglie oltre 2000 organizzazioni non governative per la difesa dei diritti umani, attive nei paesi nati dalla dissoluzione della Jugoslavia, diverse associazioni degli ex internati dei campi di concentramento, degli sfollati e delle famiglie delle persone scomparse durante le guerre degli anni Novanta, nonché numerosi intellettuali di spicco.

La Coalizione si batte affinché venga istituita una commissione riconosciuta da tutti i paesi ex jugoslavi e incaricata di accertare i fatti relativi alle tragiche vicende degli anni Novanta, più precisamente di creare un elenco di tutte le vittime, sia civili che militari, delle guerre jugoslave; di appurare le circostanze della loro morte o scomparsa, e di creare un registro dei campi di concentramento in ex Jugoslavia.

L’iniziativa ha raccolto finora circa 600mila firme nei paesi ex jugoslavi, ma la commissione non è ancora stata istituita a causa della mancanza di volontà politica di alcuni paesi della regione. REKOM ha infatti ottenuto l’appoggio formale dei capi di stato di Serbia, Montenegro, Kosovo e Macedonia del Nord, ma manca ancora l’appoggio di Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia.

Difficile aspettarsi una svolta al summit di Poznań
Circa un mese fa, una delle promotrici dell’iniziativa REKOM e nota attivista per i diritti umani Nataša Kandić ha invitato i leader dei paesi dell’ex Jugoslavia a sostenere l’istituzione di REKOM. Oggi, tuttavia, non è particolarmente ottimista al riguardo.

"Temo che a Poznań non sarà firmata la Dichiarazione sull’istituzione di REKOM, anche se ci aspettavamo che venisse firmata, considerando che la Commissione europea ha fortemente sostenuto l’iniziativa alla riunione dei ministri [degli Esteri] dei paesi della regione, tenutasi a Varsavia nell’aprile 2019. Nel frattempo, la Presidenza della Bosnia Erzegovina e la Croazia non hanno nominato i propri esperti giuridici nel Gruppo di lavoro per la finalizzazione della Bozza dello Statuto di REKOM, ragione per cui il Gruppo di lavoro non ha potuto proseguire nella propria attività", spiega Nataša Kandić.

Alla domanda perché alcuni leader dei paesi della regione sono restii ad appoggiare l’iniziativa REKOM, Vesna Teršelič, direttrice di “Documenta” (Centro per l’elaborazione del passato) di Zagabria, risponde che alcuni politici temono che, qualora decidessero di sostenere REKOM, potrebbero perdere il potere.

"Nelle nostre società polarizzate e traumatizzate, i politici temono di perdere consensi, soprattutto su questioni delicate, come quelle relative all’interpretazione della guerra, che da queste parti spesso vengono usate per creare miti e fomentare l’intolleranza. Per i leader politici rendere giustizia alle vittime non è una priorità. Nessuna sorpresa quindi se manca ancora la volontà politica di istituire REKOM", afferma Teršelič.

La direttrice di Documenta aggiunge inoltre che la Croazia, che all’epoca in cui Ivo Josipović era presidente della Repubblica ha fornito un forte sostegno all’iniziativa REKOM, oggi si rifiuta di sottoscrivere la Dichiarazione sull’istituzione di REKOM.

"Gli esponenti del governo croato partono dal presupposto che la Croazia sia in grado di stabilire, senza l’aiuto di nessuno, tutti i fatti relativi non solo alla guerra in Croazia, ma anche a quella in Bosnia Erzegovina. Inoltre, la Croazia e la Slovenia sono membri a pieno titolo dell’Unione europea e non devono più sforzarsi di dare di sé l’immagine migliore possibile", spiega Teršelič.

Per quanto riguarda la Bosnia Erzegovina, ad ostacolare la creazione di REKOM sono le autorità della Republika Srpska. "Il membro serbo della Presidenza della Bosnia Erzegovina Milorad Dodik ha implicitamente affermato che REKOM per loro è inaccettabile perché l’accertamento dell’identità delle vittime e delle circostanze della loro morte sarebbe basata sulle sentenze del Tribunale dell’Aja", afferma Nataša Kandić.

Tamara Milaš, del Centro per l’educazione civica (CGO) di Podogorica, concorda sul fatto che il confronto con il passato sia una questione che non si presta a facili consensi, sottolineando però che il Montenegro ormai da tempo ha assunto un atteggiamento positivo nei confronti dell’iniziativa REKOM.

"L’anno scorso il governo montenegrino ha adottato un rapporto in cui ha espresso il proprio sostegno all’iniziativa REKOM. Così il Montenegro è diventato il primo paese della regione a dare pieno sostegno politico a questa iniziativa", spiega Milaš, aggiungendo tuttavia che l’appoggio fornito a REKOM non ha comportato alcun cambiamento nell’atteggiamento del governo di Podgorica nei confronti dei crimini di guerra commessi in Montenegro. "Le autorità montenegrine si impegnano sistematicamente per far dimenticare i crimini di guerra accaduti sul territorio del Montenegro e quelli commessi da cittadini montenegrini", afferma Milaš.

Investire nel futuro
Le nostre interlocutrici concordano sul fatto che negli ultimi anni l’ascesa dei movimenti populisti e nazionalisti abbia contribuito a relegare in secondo piano la questione del confronto con il passato e a rafforzare la riluttanza ad assumersi le proprie responsabilità e a riconoscere le vittime di nazionalità diversa dalla propria.

Vesna Teršelič ritiene che REKOM possa contribuire a “porre simbolicamente fine alle guerre” jugoslave e a superare i traumi. "[REKOM] ridurrebbe la possibilità di negare i crimini e al posto dell’attuale clima di intolleranza creerebbe uno spazio per riflettere criticamente sulle politiche sbagliate e su come costruire una società sana", spiega Teršelič, aggiungendo che non solo le persone che hanno vissuto la guerra, ma anche le nuove generazioni hanno bisogno di sapere la verità.

"Senza piena verità non c’è vera riconciliazione. Per noi il vero confronto con il passato è fondamentale per affrontare il futuro", afferma Tamara Milaš.

Stando alle sue parole, i paesi ex jugoslavi potrebbero contribuire alla riconciliazione anche attraverso altri meccanismi, come i programmi di riparazione delle vittime. "Bisognerebbe creare un unico sistema di riparazione delle vittime a livello regionale. Ciò implicherebbe l’accertamento dei fatti relativi alle vittime e ai luoghi dei crimini, riparazioni adeguate, lo sviluppo della cultura della memoria attraverso la costruzione di memoriali e monumenti e la creazione di materiali didatici adeguati, ma anche le attività volte ad evitare che simili crimini si ripetano in futuro", spiega Milaš.

Nataša Kandić dice che alla società civile non resta che continuare ostinatamente a esercitare pressioni sui politici. "Tuttavia, senza l’aiuto dell’Unione europea difficilmente riusciremo a far sì che i politici si rendano conto delle loro responsabilità nei confronti del passato e del futuro. I nostri politici non capiscono che investire nella riconciliazione significa investire nel futuro", conclude Kandić.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 05, 2019, 21:03:16 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Bosnia-Erzegovina-il-diritto-allo-stato-di-diritto-195519

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Bosnia Erzegovina, il diritto allo stato di diritto
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Manifestazione per chiedere giustizia tenutasi lo scorso sabato a Sarajevo (foto di Alfredo Sasso)

Le morti di Dženan e David sono solo alcuni dei “casi silenziati”, i tanti episodi di malagiustizia che stanno agitando la Bosnia Erzegovina negli ultimi anni. Da qui è sorta una delle poche mobilitazioni capaci di attraversare i confini amministrativi e quelli cosiddetti “etnici” del paese nel dopoguerra

05/07/2019 -  Alfredo Sasso
"Mio fratello è un simbolo di lotta e resistenza, e voi siete la dimostrazione che non tutti in questo paese hanno una pietra al posto del cuore". Anche quando è rotta dall’emozione, la voce di Arijana Memić risuona forte nella piazza del Teatro nazionale di Sarajevo, di fronte a circa un migliaio di manifestanti, sotto il sole torrido di questo sabato di fine giugno. Arijana è la sorella di Dženan Memić, ragazzo di 22 anni morto a Sarajevo nel febbraio 2016 in circostanze ancora non chiarite dalla giustizia, e su cui proprio in questi giorni si sta riaprendo l’ennesima e contestata fase processuale.

La morte di Dženan è uno dei “casi silenziati”, i tanti episodi di malagiustizia che stanno agitando la Bosnia Erzegovina negli ultimi anni: omicidi irrisolti, incidenti sospetti, abusi e omissioni degli organi giudiziari e di sicurezza. Da qui è sorta una delle poche mobilitazioni capaci di attraversare i confini amministrativi e quelli cosiddetti “etnici” del paese nel dopoguerra. In piazza, insieme al collettivo di Pravda za Dženana (“Giustizia per Dženan”), sono rappresentate tante cause: Edita Malkoć e Selma Agić, due studentesse universitarie sarajevesi uccise da un pirata della strada nel 2016; Jovan Arbutina, giovane di Banja Luka investito nel 2015; Harun Mujkić, undicenne di Zenica morto a scuola, nel 2014, con una sospetta frattura alla testa; e poi Ivona Bajo di Bijeljina, Nikola Djurović di Banja Luka e tanti altri, tutti giovanissimi.

Arrivato in massa con diversi pullman da Banja Luka, in questa piazza c’è anche il movimento fratello di Pravda za Dženana: è quello di Pravda za Davida (“Giustizia per David”), che chiede giustizia per il caso di David Dragičević, il 21enne ucciso a Banja Luka nel marzo 2018. Movente e colpevoli restano ignoti dopo una serie sofisticata di omissioni e insabbiamenti da parte delle autorità. Dopo un presidio non-stop durato nove mesi che l’ha trasformato in un attore centrale della vita pubblica bosniaca, dallo scorso dicembre Pravda za Davida è oggetto di una dura repressione da parte delle autorità della Republika Srpska (una delle due entità della Bosnia Erzegovina, di cui Banja Luka è capitale).

Le fotografie
 
Sabato 29 giugno centinaia di manifestanti si sono riuniti nella capitale bosniaca per esprimere sostegno ai genitori di David Dragičević e Dzenan Memić uccisi in circostanze ancora non chiare e per chiedere che venga rispettato lo stato di diritto. Foto di Alfredo Sasso

Il papà di David, Davor Dragičević, ha mandato un saluto in diretta video dall’Austria, dove risiede temporaneamente per sfuggire all’arresto (proprio a seguito delle proteste in cui ha chiesto verità per il figlio). Così gli ha risposto dalla piazza Muriz Memić, il papà di Dženan: "Il mio fratello Davor cerca la verità per suo figlio. Sia Davor che io ce lo meritiamo. Invito l’attuale presidente Milorad Dodik a venire oggi in piazza, perché veda quanta umanità c’è qui". Appena la piazza sente il nome di Dodik (già leader della Republika Srpska e considerato il mandante della repressione contro il movimento) partono bordate di fischi. Lo stesso succede quando si nomina Bakir Izetbegović, ex-presidente statale e leader dei nazionalisti bosgnacchi, insieme a Dodik visto come il volto della politica bosniaca dell’ultimo decennio, e quindi del malfunzionamento dello stato e della giustizia.

Tutte queste cause sono apparentemente lontane per geografia, moventi e sviluppi dei casi, ma hanno trovato un terreno comune, fondato sulla lotta contro l’impunità e sulla rivendicazione di un paese normale. Nessuna di queste cause è nata come “politica”, un’etichetta costantemente rifiutata con sdegno. Eppure tutti sollevano i problemi nevralgici dell’etnopoli bosniaca (e non solo, a guardare lo scenario europeo di oggi): lo stato di diritto, la minima credibilità degli organi di giustizia e sicurezza, il diritto all’incolumità individuale, persino la libertà d’espressione.

In piazza c’è Suzana Radanović, la madre di David Dragičević, diventata ormai un’icona del coraggio civile in Bosnia Erzegovina per avere sfidato i divieti a manifestare e i muri di gomma che circondano l’omicidio del figlio. Decine di persone, prevalentemente donne e anziane, fanno letteralmente la fila per salutarla e abbracciarla. "Oggi è stata una bella manifestazione - spiega a OBC Transeuropa - per me è importante che qui si possa cantare la canzone di David, o meglio, che la gente possa cantarla: io ancora non ci riesco, è troppo doloroso. Ma almeno abbiamo potuto scandire ‘Pravda za Davida’, alzare i pugni (il gesto-simbolo del movimento, ndA). Sono tutte cose che a Banja Luka non si possono più fare. Ci battiamo anche per la libertà di parola e, letteralmente, per la libertà di vivere".

Il caso Memić: tre anni senza verità
La lotta per la verità della famiglia Memić dura da quasi tre anni e mezzo. Nella notte dell’8 febbraio 2016, un’ambulanza soccorre Dženan e la fidanzata Alisa Mutap alla Velika Aleja, il lungo viale pedonale di Ilidža, sobborgo di Sarajevo. Dženan è riverso per terra privo di conoscenza, in condizioni serie, con un grave ematoma alla testa. Alisa invece è in stato confusionale ma con ferite più lievi. Ricoverato all’Ospedale Universitario di Sarajevo, Dženan muore il 15 febbraio, dopo sette giorni di coma. Da qui inizia una girandola di ipotesi ed errori giudiziari.

Secondo la perizia del medico che ha operato Dženan durante il coma, il ragazzo è stato senza dubbio oggetto di un’aggressione violenta. Nessuna ferita sarebbe compatibile con l’investimento di un’auto, che è però l’ipotesi su cui si concentreranno le indagini della procura del cantone di Sarajevo. Tre mesi dopo, nel maggio 2016, viene arrestato Ljubo Seferović, accusato di avere travolto i due ragazzi con il proprio furgone mentre guidava in stato di ebbrezza, per poi darsi alla fuga e cercare di manomettere le prove insieme al padre e alla moglie, anch’essi arrestati. Inizialmente Seferović ammette l’incidente colposo, ma in seguito ritratterà e si dichiarerà innocente. Nel primo processo davanti al Tribunale cantonale di Sarajevo, alcune tracce e reperti decisivi spariscono, altri diventano inservibili. Mancano i filmati delle videocamere sulla strada nei minuti decisivi, la prova dell’ebbrezza di Seferović, le tracce che confermino che il furgone coinvolto fosse effettivamente il suo. Emergono pesanti incoerenze tra le diverse perizie. La fidanzata, unica testimone diretta dei fatti, afferma di soffrire di amnesia sulla notte della tragedia.

Si forma così il collettivo Pravda za Dženana, guidato dal papà del ragazzo Muriz e dalla sorella Arijana. Iniziano le prime manifestazioni di protesta in città. Quella di sabato scorso è la diciottesima, affermano più volte dal microfono con un misto di orgoglio e stanchezza. La famiglia Memić sostiene con forza la tesi dell’omicidio. Quella del furgone, secondo loro, è una montatura creata dagli aggressori di Dženan, che avrebbero approfittato della vulnerabilità dei Seferović, una famiglia povera di origine rom, per incastrarli. Il movimento accusa gli organi giudiziari, in primis la procura del cantone di Sarajevo, di non fare il proprio lavoro, per insipienza o perché stanno intenzionalmente allontanando la verità.

Media e istituzioni locali seguono costantemente il caso, e circolano sospetti di ogni tipo, molti privi di fondamento: si mormora del coinvolgimento di familiari di politici, imprenditori o criminali nell’omicidio, della fidanzata Alisa e sul suo silenzio che starebbe coprendo i responsabili, delle ambizioni politiche della famiglia Memić (la sorella Arijana, sull’onda del caso, nel 2018 viene eletta nel parlamento cantonale). Si crede a tutto e a niente, con un sistema giudiziario altamente frammentato e inefficace, che segue la divisione amministrativa del paese (municipi, cantone, entità, stato) e permanentemente soggetto a pressioni di politici e gruppi di potere, a cooptazioni e scambi di favori. Anche il Parlamento del cantone di Sarajevo prende posizione sulle lacune nell’operato degli organi di giustizia e sicurezza: raccomanda l’apertura di inchieste interne che, tuttavia, non vedranno mai la luce.

Nel luglio 2018 avviene un nuovo colpo di scena. La sentenza del tribunale cantonale assolve i Seferović per assenza di prove e rigetta la tesi dell’incidente. La famiglia Memić ora vuole l’acquisizione di nuove prove e soprattutto chiede che sia il Tribunale statale, e non più il cantonale, a prendere il caso in carico. Muriz Memić denuncia più di 40 persone tra procuratori, giudici e membri delle forze dell’ordine che avrebbero commesso gravi irregolarità nel caso. Invece, nel giugno 2019 il Tribunale supremo della Federazione di BiH (il livello intermedio tra stato e cantone) ribalta nuovamente il quadro, ordinando la ripetizione del processo di primo grado. La tesi processuale torna a basarsi sull’incidente anziché sull’omicidio. Tutto daccapo. La reazione del movimento è durissima: Muriz Memić e il suo avvocato Ifet Feraget parlano di “crimine organizzato dentro gli organi di giustizia”.

Giustizia latitante
Proprio a inizio giugno 2019 scoppia lo scandalo della corruzione nel Consiglio della magistratura statale. Il presidente del maggiore organo giudiziario del paese è filmato mentre si impegna a chiudere un procedimento penale dietro pagamento di denaro. È la conferma di quello che i movimenti per la giustizia dicono da anni. Ma i partiti politici rispondono con indifferenza, assorbiti dalle negoziazioni per formare il governo statale che durano ormai da nove mesi. Buona parte dell’opinione pubblica appare inerte e rassegnata.

Non è un caso che le posizioni tradizionalmente felpate della comunità internazionale si fanno ora più incisive, come per dare una scossa. "Tre mesi fa ho incontrato i genitori di David e Dženan. Ieri loro e molti altri genitori e cittadini frustrati hanno manifestato pacificamente a Sarajevo contro l’assenza di giustizia in Bosnia Erzegovina. I lunghi ritardi nella gestione giuridica di questi ed altri casi sono inaccettabili per un paese che cerca l’accesso alla UE", è il duro commento alla manifestazione del Commissario UE all’allargamento Johannes Hahn in un tweet  .

Messi alle strette nel proprio paese, i movimenti cercano agibilità in campo internazionale. Suzana Radanović spiega a OBC Transeuropa: "A Banja Luka il nostro movimento ora non può esistere, ma noi abbiamo rifondato l’associazione a Vienna, e il prossimo 12 settembre organizzeremo un convegno a cui inviteremo politici, giornalisti e diplomatici internazionali. Vogliamo informare l’Europa di ciò che sta avvenendo". Nel frattempo, le tante battaglie per la verità e lo stato di diritto continuano, per non permettere che ragazzi giovanissimi che si sono trovati in posti sbagliati e in momenti sbagliati debbano perdere la vita, come è successo troppe volte in questi anni. O perché non decidano di lasciare il paese, come avviene in decine di casi ogni giorno.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 05, 2019, 21:04:18 pm
Poteva mancare il pride anche nell'Europa dell'Est?

Ovviamente no.
E ancora non è niente.
Tempo al tempo.
...
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Luglio 06, 2019, 00:10:42 am
Almeno Putin uno stop ai pride l'ha dato.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 06, 2019, 13:25:33 pm
Sai bene che di Putin ce n'è uno.
Peraltro il capo del Cremlino agisce e può agire in un contesto sociale ben diverso da quello occidentale.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Luglio 06, 2019, 13:45:11 pm
Peraltro il capo del Cremlino agisce e può agire in un contesto sociale ben diverso da quello occidentale.
Certo, in Russia (ma credo anche in altri Paesi dell'Est) non ci sono legioni di uomini che accorrono a difendere la cosca LGBT alla prima legittima misura di ordine pubblico e buon costume.
Gli uomini occidentali sono, per una buona metà almeno, così mesmerizzati dal politicamente corretto che appoggiano attivamente le stesse forze che li stanno affossando come maschi e come esseri umani.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 16, 2019, 00:19:36 am
https://www.eastjournal.net/archives/98998

Citazione
STORIA: La lunga catena di omicidi dei servizi segreti jugoslavi
Riccardo Celeghini  7 ore fa

Il 28 luglio del 1983, Stjepan Đureković, ex partigiano, successivamente direttore della compagnia petrolifera statale jugoslava INA e poi dissidente critico del regime di Tito, veniva freddato a colpi di pistola nella cittadina tedesca di Wolfratshausen. Come dimostrato da un tribunale tedesco nel 2018, l’omicidio fu pianificato dalla famigerata UDBA, il servizio segreto jugoslavo. Quella di Đureković, però, non è una storia isolata: dal 1946 al 1990, la lista di omicidi perpetuati dall’UDBA in giro per il mondo è lunghissima. Una storia tragica, per anni celata dietro ai buoni rapporti vigenti tra la Jugoslavia di Tito e il blocco occidentale, e successivamente messa a tacere dalle élite dei nuovi Stati balcanici.

L’UDBA

L’UDBA, letteralmente l’Amministrazione Sicurezza Statale, fu istituita nel 1946 dal regime del Maresciallo Tito con il compito di garantire la sicurezza dello Stato jugoslavo. Sottoposta al controllo centrale del ministero degli Interni ed organizzata in modo decentrato nelle sei repubbliche che costituivano la Federazione, negli anni l’UDBA venne ristrutturata più volte, senza mai perdere il proprio potere di polizia politica e il suo interesse a perseguire ogni forma di dissidenza.

L’UDBA, negli anni, fu protagonista dell’arresto e dell’eliminazione di centinaia di cosiddetti “nemici dello Stato”: le eliminazioni avvenivano non solo all’interno dei confini jugoslavi, ma arrivarono a colpire i dissidenti in Europa, in primis nell’allora Germania Ovest, ma anche negli Stati Uniti, in Australia, in Argentina e in Sud Africa.

Gli omicidi

La lista delle persone uccise dall’UDBA in giro per il mondo non è completa e negli anni ben poco è venuto alla luce di quei fatti. Quel che è certo è che tra le vittime figurano soprattutto croati, ma anche serbi ed albanesi del Kosovo. Se ad accomunare le vittime vi è la critica al regime jugoslavo, tra loro esistono però profonde differenze.

Alcune delle personalità uccise dai servizi segreti jugoslavi erano veri e propri collaboratori del regime filonazista degli ustaša, che governò la Croazia negli anni della Seconda guerra mondiale macchiandosi di atroci crimini contro oppositori, ebrei e serbi. Scappati dalla Jugoslavia dopo la vittoria dei partigiani di Tito, alcuni di loro vennero raggiunti ed uccisi negli anni seguenti: è il caso di Vjekoslav “Maks” Luburić, generale responsabile della gestione dei campi di concentramento istituiti dal regime fascista croato, trovato morto nel 1969 nella sua abitazione in Spagna, dove il regime di Francisco Franco gli aveva dato ospitalità. Altre vittime erano invece attivisti dei circoli nazionalisti croati del dopoguerra. Tra questi, si ritrovano membri del Movimento Croato di Liberazione (HOP) o della Fratellanza Rivoluzionaria Croata (HRB), organizzazioni della diaspora croata dalle note simpatie verso il movimento ustaša, come ad esempio, Nahid Kulenović, ucciso dall’UDBA a Monaco nel 1969, o Stjepan Ševo, freddato nel 1972 a San Donà di Piave, vicino Venezia.

Tra le vittime croate, però, vi sono anche figure più moderate, dissidenti del regime di Tito ma non per questo sostenitori dell’ideologia ustaša. È questo il caso proprio di Đureković, avvicinatosi tardi ai circoli nazionalisti croati, dopo aver lasciato la Jugoslavia dopo una vita passata nella compagnia petrolifera statale dell’INA, e autore di alcuni testi che mettevano in luce tutte le criticità dell’economia della Federazione. O, ancora, di Bruno Bušić, perseguitato dal regime per alcuni suoi articoli sostenitori della causa croata, fuggito a Parigi, dove venne raggiunto ed ucciso nel 1978.

Le vittime dell’UDBA, però, non si limitano alla dissidenza croata. Nel 1977, lo scrittore serbo Dragiša Kašiković, caporedattore del giornale della diaspora serba anticomunista negli Stati Uniti, veniva violentemente assassinato con 64 coltellate nel suo ufficio a Chicago. Nel 1981, l’attivista, musicista, scrittore Jusuf Gërvalla, promotore della causa degli albanesi del Kosovo, veniva ucciso insieme al fratello Bardhosh e ad un altro attivista, Kadri Zeka, a Stoccarda, in Germania Ovest. Kosovaro albanese era anche l’attivista Enver Hadri, ucciso a Bruxelles nel 1990, probabilmente l’ultima vittima di questa scia di sangue.

Il metodo

Anche le modalità con cui questi omicidi furono perpetuati sono di diverso tipo. Spesso l’UDBA inviava infiltrati nei circoli delle diaspore nel mondo, membri dei servizi segreti che instauravano rapporti professionali o di amicizia con le vittime. Altre volte, si utilizzava una “manodopera” composta da membri della criminalità organizzata, assoldati in cambio di compensi economici: secondo alcune fonti, tra questi vi sarebbe stato anche Željko Ražnatović, tristemente noto con il nome di Arkan per i massacri compiuti nelle guerre degli anni ’90.

Alcune delle esecuzioni, inoltre, non mancano di particolari ancora più tragici: a San Donà di Piave, insieme a Ševo, persero la vita anche la moglie Tatjana, di 26 anni, e la figlia Rose Marie, di soli 9 anni, freddate dallo stesso killer; a Chicago, invece, il responsabile dell’uccisione di Kašiković non risparmiò nemmeno la giovanissima Ivanka, figlia della moglie del giornalista serbo.

Il silenzio

Ad anni di distanza da quei tragici avvenimenti, i passi avanti fatti per fare chiarezza sono stati molto pochi. Per lungo tempo, difatti, i paesi dove questi omicidi sono stati commessi hanno preferito non approfondire i casi: nel contesto della Guerra Fredda, la Jugoslavia godeva di un consolidato credito internazionale e diversi paesi occidentali vedevano di buon occhio il regime di Belgrado. Non è perciò da escludere che i servizi segreti di questi paesi fossero a conoscenza delle operazioni, preferendo chiudere un occhio e scegliendo di non impegnarsi nella ricerca dei responsabili.

A mancare, però, è stata anche la volontà politica dei paesi sorti sulle ceneri della Jugoslavia. Morta la Federazione, molti dei membri dell’UDBA si sono abilmente riciclati nei servizi segreti dei nuovi Stati, mantenendo spesso stretti legami con le élite locali. Emblematico è il caso della Croazia, proprio con riferimento all’omicidio di Đureković. La volontà di un tribunale tedesco di perseguire Zdravko Musac e Josip Perković, due croati ai vertici dell’UDBA all’epoca dei fatti, ha difatti portato ad uno scontro politico tra Berlino e Zagabria. Il governo croato ha ostacolato per anni la richiesta di estradizione proveniente dalla Germania, proteggendo i due. Solo dopo forti pressioni, inclusa la minaccia della Commissione europea di tagliare i fondi di sviluppo per la Croazia, nel 2014 Musac e Perković sono stati arrestati e consegnati alle autorità tedesche. Nel 2018, entrambi sono stati condannati all’ergastolo per aver favorito l’omicidio di Đureković e solo pochi giorni fa, l’11 luglio, Perković è stato trasferito in un carcere croato.

Si è trattato di uno dei pochi processi volti ad accertare le responsabilità dei servizi segreti jugoslavi nelle uccisioni all’estero dei dissidenti del regime. Un piccolo passo, quello del processo sull’omicidio di Đureković, che ci ricorda quanto questa storia drammatica meriti ben più attenzione e volontà di fare chiarezza.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 16, 2019, 00:22:20 am
https://www.eastjournal.net/archives/98983

Citazione
BOSNIA: Il diritto allo stato di diritto
Alfredo Sasso  8 ore fa

Questo articolo è frutto di una collaborazione editoriale con OBCT.

Le morti di Dženan e David sono solo alcuni dei “casi silenziati”, i tanti episodi di malagiustizia che stanno agitando la Bosnia Erzegovina negli ultimi anni. Da qui è sorta una delle poche mobilitazioni per il diritto allo stato di diritto capaci di attraversare i confini amministrativi e quelli cosiddetti “etnici” del paese nel dopoguerra

“Mio fratello è un simbolo di lotta e resistenza, e voi siete la dimostrazione che non tutti in questo paese hanno una pietra al posto del cuore”. Anche quando è rotta dall’emozione, la voce di Arijana Memić risuona forte nella piazza del Teatro nazionale di Sarajevo, di fronte a circa un migliaio di manifestanti, sotto il sole torrido di questo sabato di fine giugno. Arijana è la sorella di Dženan Memić, ragazzo di 22 anni morto a Sarajevo nel febbraio 2016 in circostanze ancora non chiarite dalla giustizia, e su cui proprio in questi giorni si sta riaprendo l’ennesima e contestata fase processuale.

La morte di Dženan è uno dei “casi silenziati”, i tanti episodi di malagiustizia che stanno agitando la Bosnia Erzegovina negli ultimi anni: omicidi irrisolti, incidenti sospetti, abusi e omissioni degli organi giudiziari e di sicurezza. Da qui è sorta una delle poche mobilitazioni per il diritto allo stato di diritto capaci di attraversare i confini amministrativi e quelli cosiddetti “etnici” del paese nel dopoguerra. In piazza, insieme al collettivo di Pravda za Dženana (“Giustizia per Dženan”), sono rappresentate tante cause: Edita Malkoć e Selma Agić, due studentesse universitarie sarajevesi uccise da un pirata della strada nel 2016; Jovan Arbutina, giovane di Banja Luka investito nel 2015; Harun Mujkić, undicenne di Zenica morto a scuola, nel 2014, con una sospetta frattura alla testa; e poi Ivona Bajo di Bijeljina, Nikola Djurović di Banja Luka e tanti altri, tutti giovanissimi.

Arrivato in massa con diversi pullman da Banja Luka, in questa piazza c’è anche il movimento fratello di Pravda za Dženana: è quello di Pravda za Davida (“Giustizia per David”), che chiede giustizia per il caso di David Dragičević, il 21enne ucciso a Banja Luka nel marzo 2018. Movente e colpevoli restano ignoti dopo una serie sofisticata di omissioni e insabbiamenti da parte delle autorità. Dopo un presidio non-stop durato nove mesi che l’ha trasformato in un attore centrale della vita pubblica bosniaca, dallo scorso dicembre Pravda za Davida è oggetto di una dura repressione da parte delle autorità della Republika Srpska (una delle due entità della Bosnia Erzegovina, di cui Banja Luka è capitale).

Il papà di David, Davor Dragičević, ha mandato un saluto in diretta video dall’Austria, dove risiede temporaneamente per sfuggire all’arresto (proprio a seguito delle proteste in cui ha chiesto verità per il figlio). Così gli ha risposto dalla piazza Muriz Memić, il papà di Dženan: “Il mio fratello Davor cerca la verità per suo figlio. Sia Davor che io ce lo meritiamo. Invito l’attuale presidente Milorad Dodik a venire oggi in piazza, perché veda quanta umanità c’è qui”. Appena la piazza sente il nome di Dodik (già leader della Republika Srpska e considerato il mandante della repressione contro il movimento) partono bordate di fischi. Lo stesso succede quando si nomina Bakir Izetbegović, ex-presidente statale e leader dei nazionalisti bosgnacchi, insieme a Dodik visto come il volto della politica bosniaca dell’ultimo decennio, e quindi del malfunzionamento dello stato e della giustizia.

Tutte queste cause sono apparentemente lontane per geografia, moventi e sviluppi dei casi, ma hanno trovato un terreno comune, fondato sulla lotta contro l’impunità e sulla rivendicazione di un paese normale. Nessuna di queste cause è nata come “politica”, un’etichetta costantemente rifiutata con sdegno. Eppure tutti sollevano i problemi nevralgici dell’etnopoli bosniaca (e non solo, a guardare lo scenario europeo di oggi): lo stato di diritto, la minima credibilità degli organi di giustizia e sicurezza, il diritto all’incolumità individuale, persino la libertà d’espressione.

In piazza c’è Suzana Radanović, la madre di David Dragičević, diventata ormai un’icona del coraggio civile in Bosnia Erzegovina per avere sfidato i divieti a manifestare e i muri di gomma che circondano l’omicidio del figlio. Decine di persone, prevalentemente donne e anziane, fanno letteralmente la fila per salutarla e abbracciarla. “Oggi è stata una bella manifestazione – spiega a OBC Transeuropa – per me è importante che qui si possa cantare la canzone di David, o meglio, che la gente possa cantarla: io ancora non ci riesco, è troppo doloroso. Ma almeno abbiamo potuto scandire ‘Pravda za Davida’, alzare i pugni (il gesto-simbolo del movimento, ndA). Sono tutte cose che a Banja Luka non si possono più fare. Ci battiamo anche per la libertà di parola e, letteralmente, per la libertà di vivere”.

Il caso Memić: tre anni senza verità
La lotta per la verità della famiglia Memić dura da quasi tre anni e mezzo. Nella notte dell’8 febbraio 2016, un’ambulanza soccorre Dženan e la fidanzata Alisa Mutap alla Velika Aleja, il lungo viale pedonale di Ilidža, sobborgo di Sarajevo. Dženan è riverso per terra privo di conoscenza, in condizioni serie, con un grave ematoma alla testa. Alisa invece è in stato confusionale ma con ferite più lievi. Ricoverato all’Ospedale Universitario di Sarajevo, Dženan muore il 15 febbraio, dopo sette giorni di coma. Da qui inizia una girandola di ipotesi ed errori giudiziari.

Secondo la perizia del medico che ha operato Dženan durante il coma, il ragazzo è stato senza dubbio oggetto di un’aggressione violenta. Nessuna ferita sarebbe compatibile con l’investimento di un’auto, che è però l’ipotesi su cui si concentreranno le indagini della procura del cantone di Sarajevo. Tre mesi dopo, nel maggio 2016, viene arrestato Ljubo Seferović, accusato di avere travolto i due ragazzi con il proprio furgone mentre guidava in stato di ebbrezza, per poi darsi alla fuga e cercare di manomettere le prove insieme al padre e alla moglie, anch’essi arrestati. Inizialmente Seferović ammette l’incidente colposo, ma in seguito ritratterà e si dichiarerà innocente. Nel primo processo davanti al Tribunale cantonale di Sarajevo, alcune tracce e reperti decisivi spariscono, altri diventano inservibili. Mancano i filmati delle videocamere sulla strada nei minuti decisivi, la prova dell’ebbrezza di Seferović, le tracce che confermino che il furgone coinvolto fosse effettivamente il suo. Emergono pesanti incoerenze tra le diverse perizie. La fidanzata, unica testimone diretta dei fatti, afferma di soffrire di amnesia sulla notte della tragedia.

Si forma così il collettivo Pravda za Dženana, guidato dal papà del ragazzo Muriz e dalla sorella Arijana. Iniziano le prime manifestazioni di protesta in città. Quella di sabato scorso è la diciottesima, affermano più volte dal microfono con un misto di orgoglio e stanchezza. La famiglia Memić sostiene con forza la tesi dell’omicidio. Quella del furgone, secondo loro, è una montatura creata dagli aggressori di Dženan, che avrebbero approfittato della vulnerabilità dei Seferović, una famiglia povera di origine rom, per incastrarli. Il movimento accusa gli organi giudiziari, in primis la procura del cantone di Sarajevo, di non fare il proprio lavoro, per insipienza o perché stanno intenzionalmente allontanando la verità e il diritto ad essa.

Media e istituzioni locali seguono costantemente il caso, e circolano sospetti di ogni tipo, molti privi di fondamento: si mormora del coinvolgimento di familiari di politici, imprenditori o criminali nell’omicidio, della fidanzata Alisa e sul suo silenzio che starebbe coprendo i responsabili, delle ambizioni politiche della famiglia Memić (la sorella Arijana, sull’onda del caso, nel 2018 viene eletta nel parlamento cantonale). Si crede a tutto e a niente, con un sistema giudiziario altamente frammentato e inefficace, che segue la divisione amministrativa del paese (municipi, cantone, entità, stato) e permanentemente soggetto a pressioni di politici e gruppi di potere, a cooptazioni e scambi di favori. Anche il Parlamento del cantone di Sarajevo prende posizione sulle lacune nell’operato degli organi di giustizia e sicurezza: raccomanda l’apertura di inchieste interne che, tuttavia, non vedranno mai la luce.

Nel luglio 2018 avviene un nuovo colpo di scena. La sentenza del tribunale cantonale assolve i Seferović per assenza di prove e rigetta la tesi dell’incidente. La famiglia Memić ora vuole l’acquisizione di nuove prove e soprattutto chiede che sia il Tribunale statale, e non più il cantonale, a prendere il caso in carico. Muriz Memić denuncia più di 40 persone tra procuratori, giudici e membri delle forze dell’ordine che avrebbero commesso gravi irregolarità nel caso. Invece, nel giugno 2019 il Tribunale supremo della Federazione di BiH (il livello intermedio tra stato e cantone) ribalta nuovamente il quadro, ordinando la ripetizione del processo di primo grado. La tesi processuale torna a basarsi sull’incidente anziché sull’omicidio. Tutto daccapo. La reazione del movimento è durissima: Muriz Memić e il suo avvocato Ifet Feraget parlano di “crimine organizzato dentro gli organi di giustizia”.

Giustizia latitante
Proprio a inizio giugno 2019 scoppia lo scandalo della corruzione nel Consiglio della magistratura statale. Il presidente del maggiore organo giudiziario del paese è filmato mentre si impegna a chiudere un procedimento penale dietro pagamento di denaro. È la conferma di quello che i movimenti per la giustizia dicono da anni. Ma i partiti politici rispondono con indifferenza, assorbiti dalle negoziazioni per formare il governo statale che durano ormai da nove mesi. Buona parte dell’opinione pubblica appare inerte e rassegnata.

Non è un caso che le posizioni tradizionalmente felpate della comunità internazionale si fanno ora più incisive, come per dare una scossa. “Tre mesi fa ho incontrato i genitori di David e Dženan. Ieri loro e molti altri genitori e cittadini frustrati hanno manifestato pacificamente a Sarajevo contro l’assenza di giustizia in Bosnia Erzegovina. I lunghi ritardi nella gestione giuridica di questi ed altri casi sono inaccettabili per un paese che cerca l’accesso alla UE”, è il duro commento alla manifestazione del Commissario UE all’allargamento Johannes Hahn in un tweet.

Messi alle strette nel proprio paese, i movimenti cercano agibilità in campo internazionale. Suzana Radanović spiega a OBC Transeuropa: “A Banja Luka il nostro movimento ora non può esistere, ma noi abbiamo rifondato l’associazione a Vienna, e il prossimo 12 settembre organizzeremo un convegno a cui inviteremo politici, giornalisti e diplomatici internazionali. Vogliamo informare l’Europa di ciò che sta avvenendo”. Nel frattempo, le tante battaglie per la verità e lo stato di diritto continuano, per non permettere che ragazzi giovanissimi che si sono trovati in posti sbagliati e in momenti sbagliati debbano perdere la vita, come è successo troppe volte in questi anni. O perché non decidano di lasciare il paese, come avviene in decine di casi ogni giorno.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 16, 2019, 00:32:04 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Albania-rotta-contraria-195375

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Albania: rotta contraria

Chi sono i ragazzi albanesi dei call center? E cosa pensano dei colleghi italiani – che hanno intrapreso la “rotta contraria”, dall’Italia all’Albania, in cerca di lavoro? E qual è il mondo – e l’idea di mondo – che si muove grazie a loro ma soprattutto dietro di loro? Un'intervista a Stefano Grossi, regista del documentario "Rotta contraria"

15/07/2019 -  Valentina Vivona
Presentato in anteprima al festival Bif&st di Bari lo scorso 28 aprile, il documentario “Rotta contraria” di Stefano Grossi si annuncia come racconto dell’emigrazione dall’Italia di quei ragazzi e quelle ragazze impiegati nei call center di Tirana.

Il boom del telemarketing in Albania è stato più volte trattato da OBCT negli ultimi anni. Gli autori che si occupano per noi di questo paese hanno cercato di contrastare la retorica dei media italiani riguardo al presunto ‘miracolo economico albanese’. Tra questi anche l'intellettuale Fatos Lubonja che, in un articolo del 2015, definiva ‘schizofrenico’ il tentativo di "vendere all’estero questa realtà come una sorta di paradiso, per fare poi di questi articoli e reportage la superficie su cui invitare i cittadini a specchiarsi".


La locandina di "Rotta contraria"

Lubonja è una delle principali fonti e voci del documentario di Stefano Grossi, al punto che una sua citazione appare anche nella locandina: “Se volete vedervi allo specchio, guardate l’Albania”. La metafora dello specchio aiuta a decifrare non soltanto la scelta del regista di riprendere gli intervistati e le intervistate attraverso un vetro, ma il senso dell’opera. Più che un racconto, “Rotta contraria” è infatti un saggio sulle conseguenze delle politiche neoliberiste, di cui l'Albania rappresenta un caso-studio o, per l'appunto, un riflesso. I call center sono, per stessa ammissione del regista, solo un pretesto per parlare di un modello di sviluppo fuori controllo.

Il documentario si può dividere in tre blocchi: la questione call center viene esaurita nei primi venticinque minuti dalle diverse esperienze degli otto operatori intervistati, equamente divisi tra donne e uomini, albanesi e italiani. L’ammonimento di Agron Shehaj, proprietario della catena di telemarketing IDS e deputato del Partito Democratico, sul rischio di nuova diaspora della gioventù albanese nel caso in cui i call center chiudano, segna l’inizio del secondo blocco. Le immagini scivolano all’indietro verso la fine del regime di Hoxha, l’emigrazione albanese dei primi anni Novanta, la transizione democratica che culmina nella terza e ultima parte con il racconto della discarica di Sharre alle porte di Tirana. Un viaggio mentale scandito, dall’inizio alla fine, dai guaiti dei cani rinchiusi nelle celle dell’International Pet Hospital della capitale albanese. Il regista Stefano Grossi ha raccontato le sue scelte stilistiche al Cinema Astra di Trento lo scorso 18 giugno.

Stefano, cosa rappresentano i cani nel tuo documentario?

Ho scoperto l’International Pet Hospital di Tirana quasi per caso, rimanendo colpito dalla contraddizione in cui vivono gli animali ospitati. Mi spiego: in Albania non esistono canili, per cui i randagi rischiano di essere uccisi se non vengono ricoverati. In questo centro ricevono ogni tipo di cura, le loro celle sono spaziose, tuttavia ne sono allo stesso tempo prigionieri. Vivono la stessa contraddizione degli operatori dei call center, catturati dietro i vetri dei call center da condizioni contrattuali favorevoli, o meglio, più favorevoli rispetto a quello che offre, in media, il mercato in Albania. In questo senso i cani rappresentano la sintesi dei vari livelli del film. I loro guaiti sono il lamento di una vita che non hanno deciso.

Come nasce il film? E quali sono state le sue fasi?

Per me i documentari sono un’opera di saggistica. Anche nel mio precedente documentario “Nemico dell’Islam” sul regista tunisino Nouri Bouzid, ho usato le vicende biografiche del protagonista per parlare di religione e altri temi più complessi. In un periodo storico dove si parla tanto di migrazioni, io volevo offrire una prospettiva sul tema ‘dalla sponda opposta’. I numeri della migrazione italiana in Albania sono piccoli, ma dicono tanto del nostro paese. Mi interessava questa contro-narrazione per andare a sviscerare cosa è davvero la migrazione: una lacerazione psichica, prima che fisica. In definitiva, si emigra solo se si deve. C’è poi una dimensione letteraria che deve tanto al mio amico Fatos Lubonja, che conosco dal 2009 dopo averlo voluto tra i protagonisti del mio “Diari del Novecento”. Ho letto tantissimo durante la produzione di questo film.

Come sei arrivato alla discarica di Sharre? Per caso, come per i cani, o per scelta?

No, sapevo dall’inizio che avrei parlato della discarica e sapevo dall’inizio cosa avrebbe rappresentato nel film. A me non interessava raccontare la vita degli operatori di call center, italiani o albanesi che siano. Le loro testimonianze sono solo un contrappunto musicale, una metafora del nostro modello di sviluppo che riconosce solo la funzione merceologica della vita. L’Albania è il laboratorio a cielo aperto di tutte le contraddizioni del nostro modello, la discarica il suo emblema, il punto di arrivo del ragionamento. Luigi Pintor, fondatore de “Il Manifesto”, in un’intervista mi aveva parlato del “mondo come mattatoio sopra un immondezzaio”. Così l’ho voluto riproporre, come grido di allarme. Sapevo anche che i volti degli attivisti di Akip intervistati sarebbero stati gli unici nitidi perché rappresentano la realtà. La storia di questo movimento ambientalista albanese meriterebbe un documentario a parte.

Cosa hanno pensato gli intervistati della tua scelta di sfocare i loro visi?

Nessuno di loro ha ancora visto il film, ma presto ci sarà una proiezione a Tirana. Per me sarà molto dura tornarci, la capitale albanese mi sembra davvero esprimere la follia del mondo in cui viviamo. La maggior parte delle riprese sono notturne perché i contrasti di questa città-flipper sono ancora più forti.

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https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Albania-stress-da-call-center-180680

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Albania: stress da call-center

I call-center che offrono i propri servizi ad aziende italiane impiegano migliaia di giovani albanesi, ma le condizioni di lavoro sono pessime. A lungo andare lo stress danneggia la salute fisica e psicologica di chi ci lavora

16/06/2017 -  Nkiruka Omeronye,    Klevis Paloka,    Anxhela Ruci   Tirana
(Articolo originariamente pubblicato dal portale investigativo albanese PSE   il 10 maggio 2017)

Migena L. ha 22 anni e uno dei momenti più duri delle sue giornate è quando, finito di lavorare, riceve una telefonata da sua madre. Esita a risponderle. Migena si è da poco laureata in giornalismo e da tre anni e mezzo lavora in un call-center di Tirana, da dove ogni giorno, per otto ore filate, contatta persone che abitano a 400 chilometri di distanza, dall'altra parte dell'Adriatico. Il suo lavoro è quello di “convincerli” a registrarsi per ricevere servizi e accettare offerte proposte da diverse compagnie italiane.

Oltre ad averla portata a sviluppare una generale riluttanza a parlare al telefono, come risultato delle molte ore in cui indossa le cuffie, Migena racconta di aver perso la sua serenità, e di ritrovarsi spesso a provare un senso di tensione e disagio nella vita di tutti i giorni. “A fine giornata mi sento davvero esausta e in ansia”, ci dice. “Se una persona mi ripete due volte la stessa cosa mi irrito e mi sento infastidita. Sono sempre stata una persona calma e rilassata ma ora ho perso la mia serenità”.

Sono circa 25.000 i giovani albanesi che, come Migena, lavorano per aziende che offrono servizi di tele-marketing rivolti ai consumatori italiani. L'età media delle persone occupate in questo tipo di servizi si aggira attorno ai 23 anni, e quasi il 90% sono studenti universitari o laureati.

In un paese come l'Albania, in cui il tasso di disoccupazione dei giovani nella fascia d'età tra i 19 e i 29 anni era del 33,2% nel 2015, i call-center italiani sono considerati un'industria importante che contribuisce a migliorare le possibilità di lavoro per i giovani. Per questa ragione, le istituzioni albanesi hanno seguito con preoccupata attenzione le recenti modifiche alla legislazione italiana, volte a rendere più difficile la delocalizzazione dei servizi di tele-marketing al di fuori dell'Italia e dell'Unione Europea.

Sembra tuttavia molto limitato l'interesse che le stesse istituzioni dimostrano verso le condizioni di lavoro dei giovani albanesi impiegati nei call-center. In particolare, è praticamente nulla l'attenzione rivolta agli effetti sulla salute fisica e psicologica dei dipendenti provocati dalle molte ore trascorse a dialogare, ascoltare e stare davanti a un computer.

Intervistando i giovani centralinisti, emerge che le aziende non offrono loro alcuna assistenza psicologica o servizi di counseling, né tanto meno i controlli medici a scadenza periodica indispensabili per monitorare il loro udito, la vista e le corde vocali o qualsiasi problema che potrebbe manifestarsi alla spina dorsale a seguito delle lunghe ore passate seduti su una sedia. La mancata erogazione di questo tipo di assistenza viene candidamente ammessa dagli stessi dirigenti e dai rappresentanti delle aziende che operano nel settore dei call-center in Albania.

L'Istituto nazionale di statistica, INSTAT, riporta che i call-center attivi in Albania nel 2015 erano 804 – un incremento di dieci volte rispetto ai numeri registrati nel 2000, quando solo 76 imprese offrivano questo tipo di servizio nel paese.

Quando il bisogno di sopravvivere prevale sui rischi per la salute
Denada M. ha 21 anni e riassume in due parole i molti anni spesi come operatrice di call-center: “stress e soldi”. Studentessa di psicologia, Denada ha lavorato per tre diverse compagnie di tele-marketing a Tirana e Durazzo. Per illustrare la forte pressione in questi ambienti lavorativi, racconta di ritmi di lavoro che prevedono una sola pausa di 15 minuti nell'arco di un intero turno di lavoro, che dura otto lunghe ore. La pausa, dopo le prime quattro ore, è l'unico momento per sgranchirsi: rimanere seduti così a lungo può essere doloroso e stressante, e può causare problemi alla spina dorsale. “Il momento più bello della mia giornata di lavoro sono quei 15 minuti di pausa”, racconta. Tutti i call-center del paese sono operativi sei giorni alla settimana.

Xhuliana Jakimi dice di aver sofferto seri problemi di vista nel periodo in cui lavorava per un call-center. Klaudia, 23 anni, ha lavorato nel settore per tre anni, sviluppando problemi all'udito a causa dell'alto volume delle conversazioni con i consumatori italiani e delle cuffie che era costretta a indossare costantemente. Fjoralb Hodaj, uno studente che ha lavorato per quattro mesi in un call-center, riporta di aver sofferto di seri disturbi del sonno a causa dello stress accumulato durante il lavoro. “Non riuscivo assolutamente a dormire, era semplicemente impossibile continuare a lavorare in quel posto”, dice Fjoralb.

Nonostante queste difficoltà, i giovani continuano a lavorare nei call-center perché per alcuni di loro si tratta dell'unica maniera per poter continuare gli studi. Anche i neolaureati guardano ai call-center come a una prospettiva che permette loro di avere un'entrata economica sufficiente a garantirsi uno standard di vita base, in un contesto dove integrarsi nel mondo del lavoro è un'impresa tutt'altro che facile.

Un'ora di lavoro in un call-center viene pagata tra i 180 e 250 lek (1,30-1,80 euro circa), ma il compenso può essere più alto per casi o servizi particolari. Un normale giorno di lavoro prevede turni di quattro o otto ore, però in alcuni casi i giovani che hanno bisogno di qualche soldo in più scelgono di fare turni più lunghi. Gli stipendi pagati da queste compagnie sono ben al di sopra del minimo previsto in Albania, che è fissato a 22.000 lek (165 euro) al mese. Denada ci dice che al call center guadagna abbastanza per garantirsi una vita ordinaria, mentre se avesse dovuto lavorare come psicologa lo stipendio non sarebbe bastato nemmeno per coprire la spesa e il cibo.

D'altra parte, le procedure estremamente semplificate per l'assunzione nei call-center hanno spinto molti giovani a riversarsi in queste compagnie e a guadagnarsi da vivere vendendo servizi al telefono. Emona Alla, capo delle risorse umane per il Tregi Marketing Group – gruppo che impiega all'incirca mille giovani – dice a PSE che tutto ciò che serve per iniziare a lavorare per la compagnia è una conoscenza discreta dell'italiano e la volontà di lavorare dalle quattro alle sei ore al giorno.

La preoccupazione di medici e psicologi
Jetmira Fejzaj, otorinolaringoiatra presso l'ospedale universitario Madre Teresa, ci dice che i problemi alle corde vocali e all'udito sono alcune delle principali conseguenze legate al lavoro prolungato nei call-center, e che controlli medici frequenti sono necessari per prevenire questi rischi. “Parlare senza sosta può causare problemi alle corde vocali, mentre un uso prolungato delle cuffie può danneggiare il nervo uditivo”, dice Fejzaj. “È consigliabile che i lavoratori dei call-center si sottopongano a controlli medici ogni sei mesi, così da tenere sotto controllo lo stato del loro apparato uditivo”.

Uno dei problemi più seri provocati dal lavorare per queste compagnie è l'alto livello di stress a cui sono soggetti i lavoratori, che devono passare molto tempo di fronte a un computer senza potersi muovere, continuamente presi a parlare e ascoltare. La psicologa Fleura Shkëmbi, professoressa all'Università europea di Tirana, ci dice che lavorare per lunghi periodi di tempo in un call-center può causare insonnia, stress e stanchezza. Se si manifestano questi sintomi “bisognerebbe lasciare il lavoro, sarebbe il momento giusto per i giovani per iniziare ad avere più attenzione per se stessi e la propria salute”, suggerisce.

Secondo Shkëmbi, il problema maggiore è che le compagnie non offrono servizi di counseling o terapia psicologica, lasciando quindi peggiorare una situazione già di per sé difficile. Le sessioni di terapia normalmente costano 1.500 lek (11 euro) all'ora, e i dipendenti dei call-center non possono permettersi di pagarle di tasca propria. “Le compagnie non pagano per la terapia”, dice Shkëmbi, “di conseguenza i giovani si ritrovano in un circolo vizioso. Lavorano per guadagnare denaro, ma poi lo devono spendere per una terapia da uno psicologo: alla fine quanto gli rimane?”. Emona Alla ammette che la compagnia per cui lavora ha pensato di offrire un servizio di counseling ai propri dipendenti, ma non ha ancora preso una decisione e non è detto che pagherà le sessione di terapia.

Secondo Shkëmbi, lo stress deriva anche dalla mancanza di prospettive di carriera all'interno dei call-center. “A un certo momento i giovani si rendono conto di ritrovarsi bloccati in questo specifico frangente della loro vita”, dice la psicologa. “Capiscono che tutto quello che hanno fatto fino a ora non è altro che cercare di vendere offerte o promozioni per telefono ad altre persone”.

La mancanza di attenzione verso i possibili problemi fisici e psicologici degli impiegati nei call-center è un problema serio, che potrebbe portare i giovani a pensarci due volte prima di iniziare a lavorare per queste compagnie.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Luglio 16, 2019, 00:36:56 am
Già perché ora non si delocalizza più il lavoro, ma i lavoratori che vengono deportati trasferiti in Albania, Portogallo, Romania. E mica per sempre, l'anno dopo se ne vanno in altri Paesi, cambiano lavoro e via da capo (v. caso dell'utente Artemisia). Poi dicono che non ci sono più famiglie.
La globalizzazione mercifica gli esseri umani e crea un marasma sociale ingestibile, un frullato che alla lunga non fa neppure bene agli affari.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 16, 2019, 00:40:34 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-il-muro-del-suono-189069

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Romania: il muro del suono

Più di 23.000 rumeni soffrono di deficit all'udito. E sono per questo sottoposti a molteplici discriminazioni. Un reportage

19/07/2018 -  Delia Marinescu
(Pubblicato originariamente da Digi24  , selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans  e OBCT)

All'età in cui la maggior parte dei neonati parlottano e reagiscono in qualche modo al mondo degli adulti loro non lo fanno. “Picchiettavo su di una stufa, ma lui non reagiva”, ricorda Bogdana Stîngaciu, la mamma di Brad. “Mi sono resa conto che era sordo, e quel giorno è stato molto doloroso”. Più tardi è arrivata anche la diagnosi: “Sordità bilaterale profonda”, detto in altre parole mancanza parziale o totale di udito, che colpisce anche la voce. Questi bambini non hanno quindi mai avuto la possibilità di ascoltare le ninne nanne, le storie lette dai loro genitori o la voce dei personaggi dei cartoni animati.

In Romania più di 23.000 persone soffrono di deficit dell'udito. Vivono in universi che chi ha un buon udito non conosce. Delia Păştin è un'insegnante specializzata per bambini con deficit uditivi. “Li si chiama sordo-muti ma è una denominazione impropria perché sono sordi e non muti. Con molto lavoro riescono a parlare”. In scuole specializzate, con il sostegno di logopedisti ed insegnanti, riescono effettivamente ad imparare a parlare.

Al Liceo tecnologico numero 3 di Bucarest sono iscritti 127 studenti con problemi all'udito. Cristi Zota ha 13 anni e i suoi genitori non sono privi d'udito. Una differenza che può essere determinante. “I bambini che provengono da famiglie che non hanno problemi d'udito vengono solitamente mandati ad una scuola normale per vedere se riescono a cavarsela” spiega Delia Păştin. “Nel caso di Cristi non ha funzionato e quindi è poi arrivato da noi. Quando hanno contatti con chi è dotato d'udito tendono ad isolarsi perché non capiscono e non riescono a farsi capire. Alcuni si rifiutano addirittura di uscire a giocare con gli altri bambini”.

Lo stato poco presente
Lo stato non ha attivo alcun programma per insegnare ai genitori o ad altri membri della famiglia la lingua dei segni. Questi ultimi allora si inventano, per comunicare, dei propri segni ma quando i bambini arrivano nelle scuole specializzate ed imparano la lingua dei segni ufficiale un nuovo muro sorge tra figlio o figlia e genitori.

Anche nelle stesse scuole specializzate la situazione non è ideale perché alcuni insegnanti insegnano in lingua parlata non accompagnandola con il linguaggio dei segni. “Mi trovo in difficoltà quando un insegnante mi domanda qualcosa e non lo fa scandendo le parole bene e ad alta voce”, racconta la giovane Laura Sotir. “Non capisco niente quando si parla a bassa voce ma se si apre bene al bocca e si parla forte allora capisco”. Per compensare Laura legge il movimento delle labbra, ma la scuola rimane difficile.

Per coloro le cui famiglie non abitano nella capitale e i cui genitori non possono accompagnarli ogni giorno a scuola vi è il collegio. Vi restano l'intera settimana. Il fine settimana ritornano a casa. Per fare il viaggio Laura e Cristi utilizzano il “treno personale”. Si chiama così, in Romania, il treno meno caro e più lento del paese. Essendo non-udenti i trasporti per loro sono gratuiti. Ma i loro genitori spendono circa 300 lei (67 euro) ogni mese per accompagnarli perché sono troppo giovani per viaggiare da soli. Altro dettaglio logistico ed ostacolo: i loro genitori devono avere un lavoro flessibile che permetta loro di accompagnare i figli a Bucarest il lunedì mattina e ritornare a prenderli il venerdì pomeriggio.

Nicoleta, la madre di Laura, è anche lei non-udente. Ne soffre dall'infanzia, lo testimonia la sorella Mihaela. “E' stata dura perché la maggior parte della gente non la capiva e la prendeva in giro”, racconta. Mihaela aiuta Nicoleta a far fronte a situazioni che non sarebbe in grado di affrontare da sola. “Ero con lei durante il parto in cui ha dato alla luce Laura. Medici ed infermieri mi dicevano cosa doveva fare e io glielo comunicavo e tutto è andato bene. Vado con lei ovunque io possa, dai dottori, all'ospedale, presso tutte le istituzioni”.

136 interpreti della lingua dei segni in tutta la Romania
Quando non c'è Mihaela e l'unica interprete della lingua dei segni di Ploieşti è occupata, Nicoleta e suo marito, anch'egli non-udente, si fanno a vicenda coraggio per sbrigare le loro questioni amministrative. “Il più grande problema di discriminazione riguarda l'interazione con le istituzioni”, spiega Daniel Sotir, marito di Nicoleta. “Veniamo la maggior parte delle volte respinti. Ormai sono abituato, ma in cuor mio, ogni volta, mi sento soffocare”.

La famiglia Sotir vive del salario di Nicoleta che lavora in una fabbrica di tessile e degli indennizzi riconosciuti allo stato ai non-udenti: circa 700 lei (150 euro) per Nicoleta e Daniel. Quando Laura è andata all'asilo i suoi genitori si sono resi conto che l'apparecchio acustico che le dovevano comperare costava 7000 lei (1500 euro). La Cassa nazionale di assicurazione sanitaria (CNAS) se ne prendeva in carico solo 1800. “Ci ha aiutati mia sorella, degli amici, il mio padrino...”, racconta Nicoleta “ma abbiamo dovuto smettere con le ore con la logopedista”.

Claudia Iordache è una psicologa e interprete specializzata nella lingua dei segni. Ha imparato a comunicare nella lingua dei segni fin da piccola dato che entrambi i suoi genitori sono non-udenti. Di solito è a lei che si rivolgono i principali canali televisivi nazionali quando hanno bisogno di una traduzione simultanea nella lingua dei segni.

Per dei genitori non-udenti non sentire i propri figli piangere, segnale che indica che hanno fame o che qualcosa non va, è sicuramente una prova molto dura. “La notte i miei genitori si addormentavano e non mi sentivano piangere e allora mia zia sbatteva sul muro. A volte veniva a suonare all'ingresso e avevamo un sistema speciale: suonando si accendevano le luci della casa”.

A 19 anni Claudia è partita per Bucarest per studiare psicologia. E' stata dura lasciare i suoi genitori a Ploieşti. “Mi ero abituata a stare con loro tutto il giorno per aiutarli, per essere le loro orecchie e a volte i loro occhi, perché i sensi sono particolarmente connessi. Quando sono partita ho sentito una sorta di rottura, come se li avessi traditi. I figli di non udenti sanno che non si possono allontanare troppo dai propri genitori”.

Trovare lavoro, missione impossibile
Trovare lavoro, ecco uno dei problemi più rilevanti per i non-udenti. Anche se nelle scuole specializzate apprendono a fare le parrucchiere, la manicure e pedicure, ad essere cuochi, a lavorare nel settore tessile sono in realtà in pochi i datori di lavoro a dar loro una possibilità. Carolina Verko lavora presso l'associazione nazionale dei non-udenti. “Ho subito enormi discriminazioni. Ho mandato il cv in molti luoghi ma quando poi mi recavo al colloquio e si rendevano conto che ero sorda mi dicevano che erano dispiaciuti ma che non mi potevano assumere”.

Vi è un'eccezione in Romania: un'azienda di Ploieşti, specializzata in tessile per automobili. Ha recentemente assunto 18 persone non-udenti. Costin Trâmbiţaşu è il suo direttore: “Il modo di comunicare con i non-udenti, anche se non avviene attraverso i suoni, è molto umano e arricchente. Ho assistito agli sforzi di tutto il gruppo di lavoro per avvicinarsi a loro e alla fine capirsi, è una lezione fantastica”. “Sono persone molto coscienziose e serie”, conferma la collega Iulia Negulescu.

Dopo aver identificato i bisogni dei nuovi dipendenti la direzione ha apportato numerose modifiche all'interno dello stabilimento. Per esempio, un segnale luminoso accompagna l'allarme anti-incendio. I non-udenti portano inoltre delle magliette gialle affinché gli altri colleghi si adattino al loro handicap.

Andreea Stîngaciu ha da poco compiuto 20 anni. E' divenuta sorda a 4 anni a seguito di una successione di otiti e ad una predisposizione genetica propizia alla sordità. Al suo compleanno metà degli amici presenti erano non-udenti, la eco delle emozioni passava attraverso il roteare a destra e sinistra nell'aria delle mani, che rappresenta l'applaudire nella lingua dei segni.

Malgrado il suo deficit all'udito Andreea ha sempre voluto studiare presso scuole “normali”, dove il livello di insegnamento è più alto. Il grado del suo handicap glielo permetteva. Ora studia all'università. “Studio diritto perché voglio battermi per i diritti delle persone non-udenti. Perché so cosa significa, in questo mondo, essere portatori di handicap e voglio fare tutto il possibile per rendere questo mondo più accogliente”.

Al posto di ricevere un po' di aiuto dalle istituzioni e dalle persone che hanno attorno i non-udenti sono sempre costretti ad adattarsi. Devono leggere il labiale se qualcuno parla troppo veloce e non abbastanza forte, devono subire la derisione delle persone che non li comprendono. Ciononostante non chiedono la luna: solo di avere accesso all'educazione e al lavoro, a un interprete quando ne hanno bisogno e che si smetta di guardarli con sospetto e mancanza di fiducia. Vogliono un po' di rispetto, che li si accetti, che si dia loro una possibilità.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 16, 2019, 00:45:30 am
Già perché ora non si delocalizza più il lavoro, ma i lavoratori che vengono deportati trasferiti in Albania, Portogallo, Romania. E mica per sempre, l'anno dopo se ne vanno in altri Paesi, cambiano lavoro e via da capo (v. caso dell'utente Artemisia). Poi dicono che non ci sono più famiglie.
La globalizzazione mercifica gli esseri umani e crea un marasma sociale ingestibile, un frullato che alla lunga non fa neppure bene agli affari.

Premesso che per me è roba vecchia, quando (ri)leggo roba del genere, mi girano i coglioni a mille...

Citazione
Un'ora di lavoro in un call-center viene pagata tra i 180 e 250 lek (1,30-1,80 euro circa)

Pazzesco.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 17, 2019, 23:39:38 pm
https://www.eastjournal.net/archives/99012

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CULTURA: Sette motivi per vedere “Novine”, la serie croata su giornali e politica
redazione  1 giorno fa

di Biljana Prijić

La serie imperdibile dell’anno non è né americana né inglese. E non è nemmeno italiana. L’anno è ormai a metà, ma voi dedicatevi a guardare Novine e non ve ne pentirete. La trovate su Netflix con il titolo internazionale The Paper, perché “novine” significa giornale quotidiano, e delle vicende di un giornale tratta, con una qualità che forse non ti aspetteresti da una produzione tutta croata. Chi scrive l’ha iniziata a vedere per motivi biografici, essendo nata in Dalmazia che della Croazia è la regione costiera più bella, e per noia, avendo una volta oziosamente digitato “serbocroatian” nella barra di ricerca di Netflix, poi dice che divanarsi non serve a nulla… Ma voi potete vederla anche senza avere un cognome in -ić perché le cosebelle sono universali. Ecco 7 buonissimi motivi per non perderla.

Europea, ma esotica
La croazia è un vicino lontano, di cui sappiamo pochissimo perché i media se ne disinteressano, e che visitare una settimana d’estate non basta. Guardando Novine la si avverte esattamente così, vicina come tanti altri paesi dell’UE (dal 2014) e remota come può esserlo un luogo in cui “prima della guerra” vuol dire meno di trenta anni fa.

Dark, molto dark, e cattivi cattivissimi
Novine racconta la vita travagliata di una redazione di giornalisti bravi e dediti, alle prese con lo strapotere di politici, poliziotti, giudici e uomini e donne d’affari dal passato sempre inevitabilmente opaco e privi di ogni scrupolo morale. Il più pulito ha la rogna, e House of cards pare un collegio di educande al confronto.

Tutti i mali del sovranismo, spiegati bene
Soprattutto nella seconda stagione (uscita su Netflix a inizio di quest’anno) la connessione tra deriva morale e nazionalismo cieco è palese e raccontata attraverso le azioni, i gesti e le parole di personaggi eterogenei tra loro, di parti politiche avverse e di estrazioni tra le più varie. Non si scende mai nella retorica del “tutto un magna magna”, però: le contraddizioni sono mostrate in modo piano e crudo, con una sensazione di inevitabilità che mette angoscia ma tiene pure incollati allo schermo.

Fiume fotogenica
Novine non è girato né ambientato nella scontata capitale Zagabria, ma in una città costiera e portuale che fu a lungo italiana. Rijeka d’inverno è una scenografia livida perfetta, ripresa da ogni angolazione anche con droni parsimoniosi e benevoli. Ci sono le calli del centro, i portoni socialisti di periferia, le opulente stanze del potere, le ville di design in collina, i bar dall’aria densa.

Croatian way of life, sesso fumo e alcool.
Non siamo più abituati (per fortuna) a vedere fumare ovunque, dal bar al ristorante alla casa di qualcun altro. In Novine tutti fumano e bevono (whisky, soprattutto) tantissimo, in continuazione e con voluttà disperata. Può essere utile per ricordarci che tutto sommato stiamo meglio ora che si fuma solo all’aperto, ma anche per rivedere dei gesti che da decenni abbiamo associato ai film su crimini e complotti, con gente che fuma a prescindere, ovunque, e se ne frega. Persino per i non fumatori, liberatorio.

Il serbocroato in tante sfumature, imprecazioni comprese
Le serie (e internet) hanno compiuto il miracolo che tutte le VHS di English movie collection non potevano sperare di raggiungere. È molto bello godersi le voci originali degli attori e aiutarsi con i sottotitoli se lo slang di Boston (o di LA, o di Londra) non sono alla nostra portata. È altrettanto bello però godersi lingue di cui non capiamo quasi nulla ma che sono intimamente legate all’ambientazione che le caratterizza. Pur trattando temi universali in cui vi riconoscerete di certo, Novine è balcanica fino al midollo, e i personaggi devono parlare una lingua slava. Godetevi Novine in lingua, assaporate gli accenti (una delle giornaliste è serba e non lo nasconde), non arrossite per le parolacce e bestemmie a ripetizione, fanno parte del gioco.

La qualità sta dove si sa esprimerla
Attori bravi, fotografia curata e chirurgica, regia sapiente del folletto pluripremiato del cinema croato Dalibor Matanić, quello di Sole alto. La realizzazione della serie è stata all’altezza delle ambizioni della produzione, e dei migliori prodotti internazionali in circolazione.
Novine parla di noi e a noi senza pretese universalistiche o pipponi morali. Lo fa perché chi meglio di un vicino lontano può aiutarci a fare quel passetto indietro per guardarsi un po’ da fuori, che è sempre tanto utile quanto difficile? Ci pare che il vantaggio valga lo sforzo di saggiare la prima puntata.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 17, 2019, 23:42:07 pm
https://www.eastjournal.net/archives/99087

Citazione
ROMANIA: Un secolo di disastri in Moldavia
Francesco Magno  1 giorno fa

Fino a qualche anno fa i muri e i pali della luce di Bucarest venivano tempestati di piccoli adesivi neri sui quali troneggiava una scritta tanto lapidaria quanto chiara: “Basarabia este România” (la Bessarabia e Romania). Ancora oggi è possibile vederli. I romeni non si riferiscono mai alla Repubblica di Moldavia con il suo nome officiale; ancora oggi la chiamano Bessarabia, un termine dall’etimologia incerta che deriva verosimilmente dal nome della dinastia medievale dei Basarab. “Basarabia pământ românesc”, “Bessarabia terra romena”. Spesso i romeni chiudono con questa sentenza una qualsiasi discussione sull’identità della Moldavia, sbeffeggiando chiunque cerchi di problematizzare la questione etnico-nazionale del loro vicino nord-orientale. Un vicino, quasi un fratello minore, da proteggere, spesso da prendere in giro, il cui ritorno a casa (prima o poi) è dato quasi per certo. Un atteggiamento paternalistico che nel corso della storia non ha caratterizzato solo l’opinione pubblica, ma anche la classe dirigente, che dal 1918 ad oggi ha mostrato più volte di aver compreso poco della terra tra il Nistro e il Prut. La peculiare auto-identificazione ibrida dei moldavi, sospesi tra mondo romenofono a spazio-post sovietico, non si deve solo a 50 anni di appartenenza all’U.R.S.S., ma anche agli errori (passati e presenti) di Bucarest.

Gli errori di ieri

Quando 100 anni fa, dopo la prima guerra mondiale, la Bessarabia divenne ufficialmente una regione della Romania, pochi la conoscevano realmente. Per più di un secolo essa aveva fatto parte dell’impero russo, periferia sud-occidentale di un regno sconfinato, abitata per lo più da contadini romenofoni che, tuttavia, non sentivano un grande trasporto verso la Romania. Si trattava di uomini e donne analfabeti, dediti ad un’agricoltura di sussistenza in villaggi spesso isolati e difficilmente raggiungibili dall’unico grande centro urbano, Chișinău. Una città costruita da architetti italiani, abitata soprattutto da ebrei, che di romeno aveva poco o nulla.

La popolazione contadina bessarabena veniva però idolatrata nei salotti intellettuali della capitale come elemento portante dell’identità nazionale nella regione, focolare di resistenza dei valori culturali ancestrali. Bastarono poche settimane ai funzionari giunti dalla capitale per smontare i sogni dell’intellighenzia nazionalista. Nel novembre del 1918, a soli otto mesi dall’unione, un delegato del ministro della giustizia descrive in toni pessimistici ai suoi superiori l’atteggiamento della popolazione

Dal mio arrivo nella regione ho potuto constatare che la nostra popolazione romena (moldava) è molto insubordinata e non ha preso per niente bene l’arrivo dei nostri funzionari e della nostra amministrazione

Diversi impiegati pubblici spediti nella regione vi avevano sin da subito visto una terra di nessuno dove poter sfruttare la confusione istituzionale seguita alla prima guerra mondiale, alla rivoluzione russa e al cambio di appartenenza statale per arricchirsi. Frequenti furono i soprusi ai danni della popolazione contadina, vessata dalle tasse e da nuove leggi e istituzioni che essi non comprendevano e, di conseguenza, non accettavano. I russi avevano permesso ai villaggi bessarabeni quasi di autogovernarsi, seguendo ritmi sedimentatisi nel corso dei secoli. L’insediamento del nuovo potere interruppe il lento scorrere della vita contadina. Intollerabile per la popolazione locale fu l’atteggiamento della gendarmeria, che non perdeva occasione per abusare del suo potere.

Emblematico un episodio del 1920, quando un contadino e un maestro vennero picchiati e poi rinchiusi per tre giorni in cella senza cibo o acqua dai gendarmi solo perché avevano chiesto che la legge sull’espropriazione delle proprietà ecclesiastiche venisse applicata in modo corretto.[1]

Una relazione talmente traumatica, quella tra gendarmeria e contadini, che nella Repubblica di Moldavia odierna le forze dell’ordine hanno abbandonato il nome di gendarmeria (che conservano in Romania) per adottare la denominazione di carabinieri.

Bucarest trattò Chisinău per tutto il periodo interbellico come una sorta di colonia interna, ignorando le peculiarità della regione e puntando ad una nazionalizzazione completa della vita pubblica. Se a ciò si unisce l’inefficienza e la corruzione dell’amministrazione, non sorprende che nel 1940, al ritorno dei sovietici, molti contadini non si siano strappati le vesti.

Gli errori di oggi

 Nonostante 50 anni di potere sovietico e la successiva indipendenza, non sorprende che la Moldavia continui a rappresentare una delle principali preoccupazioni strategiche della Romania, in virtù di comunanze storiche e linguistiche. Risulta difficile giustificare, pertanto, il comportamento romeno in occasione della crisi istituzionale moldava del mese scorso. La Romania è stata uno degli ultimi attori internazionali a sostenere il governo Sandu, proponendo fino all’ultimo un dialogo chiaramente insostenibile con l’oligarca Vladimir Plahotniuc. Quest’ultimo ha goduto per anni di numerose e influenti simpatie negli ambienti istituzionali e politici romeni, soprattutto all’interno del partito social-democratico, il più importante del paese. C’è addirittura chi sostiene, come l’analista Sorin Ionita, che Plahotniuc sia stata un’invenzione dei servizi segreti romeni per mettere un piede nelle stanze dei bottoni di Chișinău; uno strumento sul quale, tuttavia, Bucarest avrebbe successivamente perso il controllo.

Certo è che l’ambiguo legame che lega l’oligarca al mondo politico finanziario della Romania è chiaro: questi già nel 2001 era riuscito ad ascendere ai vertici di Petrom, compagnia petrolifera all’epoca di proprietà dello stato, secondo Ionita grazie allo stretto rapporto da lui intrattenuto con il leader dell’epoca del PSD Adrian Nastase. Successivamente Plahotniuc è diventato amministratore delegato della sezione moldava della stessa Petrom. Per anni i governi monopolizzati dai social-democratici hanno individuato in Plahotniuc l’uomo che avrebbe guidato la Moldavia sulla strada filo-europea.

La Romania è rimasta con lui fino all’ultimo, anche quando UE e Stati Uniti lo avevano ormai abbandonato, trovandosi così realmente isolata. Una vicinanza, quella tra l’oligarca e alcuni circoli politici influenti, che addirittura ha spinto alcuni giornalisti a paventare una richiesta d’asilo dell’ex uomo forte proprio alla Romania; indiscrezione poi smentita. L’impressione è comunque che la Romania non riesca a imporsi come attore importante nelle trattative che riguardano il futuro moldavo, venendo quasi sempre messa di fronte al fatto compiuto. L’inconsistenza strategica sul tema è una macchia in un quadro diplomatico che negli ultimi 20 anni è stato abbastanza roseo, con l’ingresso nella Nato, nell’UE e il rapporto sempre più stretto con Washington, che ha proprio nel paese carpatico il suo principale alleato nell’area del Mar Nero.

L’errore compiuto dalla classe dirigente attuale è, pur con tutte le differenziazioni del caso, lo stesso compiuto dai suoi antesignani di un secolo fa: ignorare la complessità della regione. Un’ignoranza che si unisce ad una mancanza di visione sul lungo periodo, e ad una convinzione che, ieri come oggi, non ha mai vacillato: a Bucarest tutti, chi più chi meno, credono che i moldavi vogliano ardentemente tornare a casa, in Romania, where they belong. Non era vero nel 1918, e non è vero neanche oggi. Sebbene non manchino in gli unionisti, il panorama dell’opinione pubblica è ben più frastagliato; c’è chi ritiene indispensabile un legame economico-culturale con la Russia, c’è chi vorrebbe tenere equidistanza, c’è chi è totalmente indifferente al tema. E anche all’interno della compagine unionista, siamo sicuri che questo afflato “romenista” non sia in realtà una ben più banale voglia di occidente, identificato con la Romania in virtù della sua appartenenza all’Unione Europea?

Il legame tra i due paesi resta innegabile, non fosse altro per una comunanza linguistica e culturale innegabile. Non è un caso che il primo capo di stato incontrato dalla premier moldava Maia Sandu dopo la fine della crisi istituzionale sia stato il presidente romeno Klaus Iohannis, al quale ha chiesto soprattutto di perorare la causa del nuovo esecutivo a Bruxelles. Richiesta alla quale Iohannis ha risposto affermativamente, da fratello maggiore. La strada per diventare partner strategico e attore tenuto in considerazione dalle grandi potenze sembra, tuttavia, ancora lunga.

[1] A. Basciani, Dificila Unire. Basarabia si Romania Mare 1918-1940, Cartier, Chișinău, 2018
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 19, 2019, 21:29:01 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Armenia/Armenia-hai-30-anni-Troppi-per-aver-diritto-ad-un-lavoro-195565

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Armenia: hai 30 anni? Troppi per aver diritto ad un lavoro

In Armenia la discriminazione sul lavoro basata sull'età è un problema serio, come dimostrano le testimonianze di Karine, Karen e Anna. Una proposta di legge che cambierebbe la situazione è però in fase di discussione in parlamento

19/07/2019 -  Armine Avetysian   Yerevan
Nella Repubblica di Armenia si sta discutendo la proposta per cui i datori di lavoro non avranno più il diritto di specificare restrizioni di età nelle offerte di lavoro, in quanto verrà proibito per legge.

A giugno, un progetto di legge è stato discusso e adottato in prima lettura dall'Assemblea Nazionale che, se adottato in via definitiva, modificherà il Codice del lavoro dell'Armenia, prevedendo che l'età dell'impiegato non può essere un limite legale o una ragione per non firmare un contratto di lavoro eccetto che per specifici casi regolati per legge.

Karine
Karine, 40 anni, ha lavorato per 5 anni come addetta alle pulizie in un salone di bellezza a Yerevan. Dice di avere dovuto fare quel lavoro in quanto non aveva altre alternative.

"Sarei dovuta diventare sociologa, ma ho abbandonato gli studi. Ero al mio secondo anno in università quando ho incontrato il mio futuro marito, mi sono innamorata, sposata, sono rimasta incinta subito e ho dovuto sospendere gli studi. Poi non sono più tornata all'università, anche se ho sempre pensato che l'avrei finita più avanti", racconta Karine.

All'età di 25 anni Karine era già madre di tre figli. All'inizio le piaceva stare a casa con i figli, vivevano grazie al salario del marito ma quest'ultimo ha poi avuto problemi alla schiena e non ha più potuto fare lavori pesanti. Karine ha allora iniziato a cercare un lavoro.

"Avevo solo 35 anni quando ho cominciato a cercare un lavoro. Pensavo, per esempio, che avrei trovato un lavoro come commessa, ma dovunque mi candidassi, ricevevo rifiuti: dicevano che ero troppo vecchia. Roba da non credere. guardano in faccia una donna di 35 anni e le dicono che è vecchia, che non è adatta al lavoro. Mi sono candidata in più di 12 posti e ho sentito le stesse risposte. Alla fine sono dovuta andare a fare la donna della pulizie. Insomma, avevamo bisogno di soldi", dice la donna.

Karen
Karen è originario di Gyumri, ma vive a Yerevan. Ha 38 anni ed è un economista di professione. Ha lavorato in un'azienda privata per circa 5 anni. Sono già passati due anni da quando ha perso il lavoro e da allora non è riuscito a trovare un'occupazione nel suo campo. Oggi lavora come tassista.

"Quando l'azienda in cui lavoravo ha chiuso, ero più che sicuro che avrei trovato un lavoro in un'altra azienda molto velocemente, ma non è successo. Ovunque mi candidassi, dicevano che rispettavano le mie competenze e la mia esperienza, ma che avevano bisogno di una squadra più giovane", ricorda Karen.

Karen non ha trascorso molto tempo alla ricerca di un lavoro da dipendente. Racconta di aver compreso la realtà dei fatti molto velocemente ed ha allora deciso di iniziare il lavoro di tassista. "Non potevo perdere tempo, ho due bambini, dovevo nutrire la mia famiglia. Ho registrato la mia macchina come taxi e ho cominciato a lavorare. Non mi lamento ora, viviamo normalmente. È solo un peccato non lavorare nel mio campo", racconta Karen.

Anna
Anna, 35 anni, risiede a Vanadzor, Armenia settentrionale. È da diversi anni che cerca un lavoro. È laureata in storia. "Dopo essermi laureata non riuscivo a trovare un lavoro in nessun scuola. Ho provato a candidarmi per la posizione vacante di insegnante di storia in parecchi posti, ma non sono stata presa da nessuna parte. Sono stata rifiutata per varie ragioni. Di fatto sino ad alcuni anni fa era impossibile ottenere un lavoro in Armenia senza nessuna "conoscenza", e io non avevo questa "conoscenza", dice Anna.

Un anno fa ha avuto luogo in Armenia una rivoluzione non-violenta, denominata la rivoluzione di velluto, che ha implicato grandi cambiamenti nella classe dirigente. Da quel giorno, Anna era convinta che sarebbe finalmente riuscita a trovare il lavoro desiderato perché le cose erano cambiate.

"Ho partecipato a un concorso di lavoro e non l'ho ottenuto; come storica avevo bisogno di un po' di preparazione in più, dovevo rinfrescare la memoria. Ero così stanca che ho deciso di abbandonare il sogno di diventare un'insegnante di storia e ho cercato un altro lavoro. Si è rivelato impossibile", dice Anna.

Anna ha seguito vari annunci di impiego ma è ancora disoccupata. "Non ricordo nemmeno dove mi sono candidata. Le mie richieste di lavoro, da commessa a maestra di asilo, sono state rifiutate. In tutti i posti insistevano sul fatto che sono troppo vecchia".

Ogni tipo di discriminazione dovrebbe essere proibita in Armenia
Nel 1995, l'Armenia ha ratificato la Convenzione di Ginevra adottata nel 1958 dall'Organizzazione Mondiale del Lavoro, che proibisce la discriminazione di assunzione basata sull'età. Anche la Costituzione della Repubblica di Armenia vieta la discriminazione. Secondo l'articolo 29 della Costituzione, la discriminazione basata su genere, razza, colore della pelle, origine etnica o sociale, caratteristiche genetiche, lingua, religione, visione del mondo, visione politica, essere parte di una minoranza nazionale, patrimonio, nascita, disabilità, età o altre circostanze personali o sociali, è proibita. Quest'anno a giugno l'argomento è stato anche trattato dell'Assemblea Nazionale; poi il progetto di legge summenzionato è stato adottato in prima lettura.

L'autore del progetto di legge è il Deputato Tigran Urikhanyan del partito Armenia Prospera. Il giorno della discussione Heriknaz Tigranyan, vice-presidente della Commissione permanente sulla sanità e gli affari sociali dell'Assemblea Nazionale, nel suo intervento ha sottolineato che il governo ha dato una valutazione negativa sul progetto di legge, ma durante la discussione in sede di commissione a Tigran Urikhanyan è stato suggerito di aggiornare la bozza di legge e definire la descrizione di discriminazione sulla base di quanto già contenuto nella Costituzione.

"La proibizione della discriminazione basata solo sull'età non è stata considerata sufficiente, vi è il bisogno di una formulazione più esauriente, per questo abbiamo aggiunto altre specifiche", ha dichiarato Tigranyan, sottolineando che al primo firmatario del progetto di legge verrà proposto di sottoporlo a revisione durante il periodo tra la prima e la seconda lettura del documento, inserendo che negli annunci di lavoro il datore di lavoro non potrà indicare quelle qualità che non sono condizionate dalle qualifiche professionali dell'impiegato o che non hanno a che fare con la sua preparazione, ad eccezione dei casi dove quelle restrizioni emergono dalla natura specifica del lavoro.

Al momento, la versione aggiornata della progetto di legge si trova sul sito dell'Assemblea Nazionale  in stato di seconda lettura.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 28, 2019, 18:18:28 pm
https://www.eastjournal.net/archives/99178

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Omicidi, bombe e dirottamenti aerei: breve storia del terrorismo anti-jugoslavo
Riccardo Celeghini  3 giorni fa

Il 7 aprile del 1971, due giovani ragazzi croati, Miro Barešić e Anđelko Brajković, entrano nella sede dell’ambasciata jugoslava a Stoccolma. Nonostante quella sia l’ambasciata del loro paese, la Jugoslavia appunto, i due ragazzi non sono lì per richiedere assistenza o il rilascio di un documento: sono entrati armati, e dopo essere penetrati all’interno dell’edificio arrivano fino all’ambasciatore Vladimir Rolović, che uccidono a colpi di pistola. Si tratta di un atto terroristico, uno dei tanti attacchi condotti negli anni ’60 e ’70 contro obiettivi legati alla Jugoslavia di Tito.

La galassia del terrorismo croato

Circa venti diplomatici e funzionari uccisi nelle loro missioni all’estero, quattro dirottamenti di aerei, almeno ottanta morti in totale, decine di attentati in giro per il mondo: questo è il bilancio di una vera e propria guerra, condotta dai nazionalisti e dagli anticomunisti, per lo più croati, contro la Jugoslavia socialista.

L’uccisione dell’ambasciatore Rolović a Stoccolma, difatti, non è che l’evento più eclatante di una scia di attentati organizzati in giro per il mondo da gruppi terroristici attivi soprattutto negli anni ’60 e ’70. Sigle come il Movimento Croato di Liberazione (HOP), la Fratellanza Rivoluzionaria Croata (HRB) o la Resistenza Nazionale Croata (HNO-Otpor) assursero alla ribalta per azioni violente e rocambolesche contro obiettivi jugoslavi.

Nonostante metodi diversi, queste organizzazioni erano difatti accomunate da un unico obiettivo: combattere con ogni mezzo per l’indipendenza della Croazia, liberandola dal “giogo” jugoslavo e riportandola ai presunti fasti dello Stato Indipendente di Croazia, lo stato fantoccio governato dal regime filonazista degli ustaša negli anni della Seconda guerra mondiale, macchiatosi di atroci crimini contro oppositori, ebrei e serbi. Proprio i superstiti di quel regime, fuggiti all’avvento dei partigiani titini, erano stati i fondatori delle organizzazioni nazionaliste, a cui, secondo le stime della CIA, si avvicinarono negli anni circa 3.000-5.000 estremisti croati in diversi paesi del mondo: si trattava spesso di giovani generazioni, figli della diaspora del dopoguerra, radicalizzati lontani dalla propria terra di origine.

Gli attentati in Jugoslavia

I primi grandi attentati organizzati dai nazionalisti croati avvennero in territorio jugoslavo. Il 13 luglio del 1968 una bomba esplose al cinema “20 Oktobar” di Belgrado, provocando una vittima e ben 85 feriti; poche settimane dopo, il 25 settembre, tre bombe colpirono la stazione ferroviaria della capitale jugoslava, causando 13 feriti. Il responsabile fu individuato dalle autorità in Miljenko Hrkać, membro del movimento nazionalista croato HOP, fondato dopo la guerra dallo stesso Ante Pavelić, leader degli ustaša fuggito in Spagna. Hrkać verrà poi arrestato e condannato a morte nel 1978.

Un altro tentativo di colpire il regime di Tito all’interno dei propri confini avvenne nel luglio del 1972. Un gruppo paramilitare costituito e addestrato in Germania Ovest dall’HRB, con fondi provenienti dalla diaspora croata in Australia, entrò in Jugoslavia con l’obiettivo di innescare una ribellione dei croati contro le autorità. La missione finì però tragicamente: a seguito di diversi scontri a fuoco, 18 membri del commando furono uccisi, e uno arrestato. Anche 13 soldati jugoslavi persero la vita nei combattimenti.

Le azioni all’estero

Ben presto, apparve chiaro ai terroristi che agire all’interno dei confini jugoslavi era una missione quasi impossibile. I gruppi si concentrarono perciò in azioni all’estero. Dopo alcune azioni minori, l’uccisione dell’ambasciatore in Svezia attirò l’attenzione del mondo. L’azione dei terroristi, in quel caso, aveva un obiettivo mirato: prima di divenire ambasciatore, difatti, il montenegrino Rolović era stato ai vertici dell’UDBA, i servizi segreti jugoslavi, nonché responsabile del campo di prigionia per i dissidenti del regime di Goli Otok. Proprio l’UDBA rappresentava il nemico numero uno del terrorismo croato, essendo impegnata nella ricerca e nell’eliminazione delle cellule nazionaliste in tutto il mondo, in una guerra senza esclusione di colpi.

Agli attacchi mirati, si sommarono presto azioni su larga scala. Il 26 gennaio 1972, una bomba esplose sul volo JAT 367 Stoccolma-Belgrado, causando 27 morti. L’unica sopravvissuta fu la hostess Vesna Vulović, in una storia che ha dell’incredibile. Ben presto, apparve chiaro che i responsabili erano terroristi croati.

Il 15 settembre dello stesso anno, un gruppo di terroristi dell’HNO dirottò il volo 130 della Scandinavian Airlines Goteborg-Stoccolma, richiedendo il rilascio degli arrestati per l’attentato all’ambasciata di Stoccolma. Lo scambio avvenne solo a metà, dato che una volta atterrati in Spagna i dirottatori trovarono la polizia ad aspettarli. E ancora, il 10 settembre 1976, un gruppo di nazionalisti croati dirottò il volo TWA 355 da New York a Chicago, un’avventura che finì con l’arresto di tutti i responsabili una volta atterrati a Parigi.

Il cacciatore di Tito

Tra i dirottamente aerei, uno in particolare ha delle caratteristiche peculiari. Nel 1979, l’aereo 727 New York-Chicago venne dirottato non da nazionalisti croati, ma dal serbo Nikola Kavaja, successivamente arrestato e condannato a 20 anni di prigione.

Kavaja è una figura unica: fervente anticomunista, fuggì dalla Jugoslavia nel 1953, e arrivato negli Stati Uniti tentò più volte di organizzare l’uccisione di Tito, forse dietro arruolamento della CIA. Tentativi mai portati a termine, ma che gli valsero il soprannome di “cacciatore di Tito”. Kavaja diventò poi membro del SOPO, il Movimento di Liberazione della Patria Serbia, un gruppo della diaspora anticomunista serba responsabile di una serie di attentati a consolati e uffici jugoslavi negli Stati Uniti. Kavaja uscì dal carcere nel 1997, quando tornò in Serbia e strinse legami con criminalità e gruppi nazionalisti e paramilitari locali, aggiungendo ulteriore alone di mistero ad una vicenda personale assolutamente controversa.

La guerra degli anni ‘90

Dagli anni ’80 in poi, le attività dei terroristi croati iniziarono a ridursi. Negli anni ’90, però, per molti di loro arrivò il momento della rivalsa: diversi esponenti di quegli stessi gruppi tornarono in patria, arruolandosi nella guerra che porterà alla nascita della Croazia democratica ed indipendente.

Tra questi, vi era anche Miro Barešić, l’assassino dell’ambasciatore a Stoccolma. Barešić, rientrato in patria alla fine degli anni ’80, morì in azione durante la guerra nel 1991, assurgendo a simbolo nazionale per i nazionalisti croati. Nel 2016 una sua statua venne eretta nel villaggio di Drage, nella contea di Zara, alla presenza di ministri e membri del parlamento croato, scatenando reazioni sdegnate da parte dei governi di Serbia e Montenegro.

Una dimostrazione, questa, di come ancora oggi la lettura di quei tragici eventi continua a dividere i paesi nati sulle ceneri di quella stessa Jugoslavia.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 28, 2019, 18:20:29 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Inquinamento-se-in-Bosnia-l-emergenza-diventa-normalita-195729

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Inquinamento: se in Bosnia l'emergenza diventa normalità

A distanza di pochi giorni due report indipendenti fotografano il gravissimo inquinamento industriale in Bosnia Erzegovina. Secondo gli attivisti, all'inefficienza di vecchi impianti si somma quella delle istituzioni, che forniscono dati incompleti e parziali. Così l'emergenza diventa una normalità camuffata

26/07/2019 -  Marco Ranocchiari
In una conferenza stampa tenutasi lo scorso 17 giugno a Zenica, le associazioni ambientaliste Arnika ed Eko Forum hanno presentato un rapporto sull'inquinamento dell'aria dovuto all'attività industriale in Bosnia Erzegovina. Lo studio, mettendo in rassegna i dati ufficiali disponibili, compila una sinistra top ten dei dieci impianti più responsabili di quella che nel paese balcanico sembra avere raggiunto le dimensioni di una piaga ambientale e sanitaria.

Sul primo gradino del podio figura l'acciaieria Arcelor Mittal di Zenica, responsabile, tra l'altro, dell'emissione di 5200 tonnellate di solfati e nitrati nel 2017. Seconda classificata, la centrale termoelettrica di Tuzla.

La lista comprende tabelle sull'emissione di particolato, gas serra e altri inquinanti.

La notizia forse più rilevante, però, è quello che non c'è. Sono infatti scarsissimi, denunciano gli attivisti, i dati messi a disposizione dei cittadini. Quando pure presenti, sono spesso incompleti o inaccurati. La lista è quindi incompleta: non è stato possibile inserire, ad esempio, le centrali termoelettriche di Gacko e Uglijevik, che pure sono stimati considerano tra le più inquinanti d'Europa.

Sebbene la legge imponga l'obbligo da parte dei gestori degli impianti di comunicare i dati sulle proprie emissioni, questo avviene con estrema difficoltà. "Le informazioni sono accessibili solo su richiesta ufficiale. Le autorità competenti rispondono di solito con grande ritardo, quando ormai è troppo tardi per permettere ai cittadini di influire sul processo decisionale", dice il professor Samir Lemeš, dell'associazione Eco Forum.

L'acciaieria di Zenica
L'impianto più inquinante della Bosnia Erzegovina risulta essere la storica acciaieria di Zenica. Ai tempi della Jugoslavia, quando dava lavoro a oltre ventimila persone, era il cuore pulsante della città sul fiume Bosna. L'impianto chiuse a causa della guerra degli anni '90 e rimase in stato di abbandono fino al 2004, quando il colosso dell'acciaio Arcelor - Mittal (proprietario, tra l'altro, dell'ex-Ilva di Taranto) ne rilevò la proprietà. Quattro anni dopo gli altoforni ripresero la produzione. La speranza di rinascita derivante da questa impresa era scritta nel nome del progetto: Feniks, come l'uccello mitologico che rinasce dalle sue ceneri. Ma dopo undici anni, solo duemila (tremila, se consideriamo gli operai esternalizzati) lavoratori sono tornati al loro posto. L'unica cosa che, oggi, ricorda la mitica fenice sono proprio le ceneri.

Come il particolato PM10: 1400 le tonnellate emesse nel 2017. La soglia di diossido di zolfo (125 microgrammi al metro cubo), che la legge raccomanda di non raggiungere più di tre volte in un anno, è stata superate 124 volte nel 2018. Sempre meglio che nel 2012, la soglia era stata passata 192 volte, e migliaia di cittadini di Zenica erano scesi in piazza, ma la situazione resta disastrosa. Un odore acre di smog impregna perennemente i quartieri vicino agli fornaci, mentre la fornace a ossigeno sparge un fumo marrone che, nelle giornate senza vento, ristagna indisturbato nella città. Numerose evidenze mostrano un aumento nei casi di cancro e di patologie respiratorie nella città di Zenica. Eppure le autorità non hanno finora fatto molto più che fornire rapporti di poche pagine che si limitano a fare un elenco dei casi, rendendo difficilissimo dimostrare una correlazione con l'inquinamento industriale.

Alle manifestazioni, negli ultimi anni, sono seguite le azioni legali. Le associazioni, in particolare Eko Forum, che è riuscita a coinvolgere la municipalità di Zenica, all'inizio recalcitrante, contestano ritardi e irregolarità, oltre alla cronica riluttanza a fornire informazioni.

Vengono in particolare contestate le modalità di rinnovo dei permessi ambientali dell'acciaieria, scaduti nel 2014 e 2015 e rinnovati senza difficoltà dal ministero nonostante numerose inadempienze. Come i filtri per la fornace a ossigeno, che doveva arrivare sei anni fa ed è stata invece appena installata. "È già qualcosa, ma ne servirebbero almeno altre tre", dice il professor Lemeš. Gli attivisti, dopo lunghi negoziati, hanno ottenuto criteri più stringenti per i nuovi permessi. Ma nel febbraio 2019, per una sorta di cortocircuito legale, il tribunale cantonale di Sarajevo pur riconoscendo nel merito molte ragioni agli attivisti, ha respinto il ricorso.

A Zenica si mantiene quindi lo status quo, in una cornice di formale regolarità. Gli attivisti continuano a negoziare, chiedendo, in primo luogo, maggiore trasparenza.

Il rapporto "Lifting the Smog" a Tuzla
Negli stessi giorni della conferenza di Zenica, Bankwatch e altre associazioni presentavano un altro rapporto indipendente, "  Lifting the Smog", che accende i riflettori su Tuzla, dove sorge il secondo impianto più inquinante del paese.

La città dell'est del paese, già scintilla delle imponenti proteste di piazza del 2014 e da sempre a vocazione industriale e mineraria, detiene un altro secondo posto, ancora più inquietante: quello della mortalità da inquinamento dell'aria (dati della World Health Organization  ). Il complesso della centrale termoelettrica di Tuzla, che comprende anche una miniera di lignite a cielo aperto e una discarica, è stato costruito tra gli anni '60 e '70.

In 5 mesi di monitoraggio, si legge nel report, i livelli di particolato PM10 risultavano doppi rispetto al limite medio imposto dalla legge. Al particolato PM2.5, secondo lo studio, sono dovute ben 136 morti precoci nel 2018, cioè il 17% del totale dei decessi tra gli adulti.

La piaga dell'inquinamento è nota alle autorità. La soluzione che propongono, però, appare paradossale agli attivisti: la costruzione di una nuova centrale. Un impianto a carbone da 450 MW, più moderno, che dovrebbe consentire di ridurre gli impatti. Peccato che invece di sostituire quella vecchia, due delle vecchie unità continuerebbero a operare. Difficile quindi parlare di una reale riduzione.

Secondo gli autori dello studio, anche in questo caso, a mancare è soprattutto un reale impegno da parte delle istituzioni, e soprattutto la reticenza a ricavare e fornire informazioni. A titolo di esempio, anche se la legislazione della Bosnia Erzegovina prevede il monitoraggio del particolato, a Tuzla esistono stazioni ufficiali solo per il particolato più sottile (PM2.5), e non per il PM10.

"Le istituzioni responsabili del monitoraggio della qualità dell'aria e delle misure per migliorarla" - si legge nel documento - "non raccolgono i dati che servirebbero per capire e migliorare la situazione".

Conclusioni simili a quelle cui, a Zenica, giunge il professor Lemeš: "Sembra che le autorità, invece che ammettere il problema e cercare una soluzione adeguata, cerchino di minimizzare la gravità della situazione. Usano ancora i problemi sociali ed economici come pretesto per continuare con il business as usual e garantire un po' di occupazione mentre, in realtà, non si fa quasi niente per sviluppare o attrarre investimenti sostenibili".
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 28, 2019, 18:24:08 pm
https://www.balcanicaucaso.org/Tutte-le-notizie/Ue-porte-chiuse-ai-Balcani-195610

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Ue: porte chiuse ai Balcani

Il Consiglio europeo dello scorso giugno ha sferrato un altro colpo alle speranze di Albania e Macedonia del Nord di aprire i negoziati di adesione all’UE. Per gli altri paesi dei Balcani la situazione non è molto più incoraggiante

16/07/2019 -  Ornaldo Gjergji
Dopo aver già rimandato la decisione nel 2018, il 18 giugno scorso il Consiglio europeo non ha trovato un accordo unanime e ha stabilito che per l’Albania e la Macedonia del Nord i negoziati di adesione apriranno, forse, il prossimo ottobre. Questo potrebbe frustrare ulteriormente i due paesi che, con gli accordi di Prespa in Macedonia del Nord e il vetting giudiziario in Albania, hanno visto i rispettivi governi impegnati in riforme importanti, messe in atto per persuadere gli stati dell’Unione europea a dare il via libera alle negoziazioni.

Le motivazioni che hanno portato il Consiglio ad esprimere un parere negativo, sostenute in primis dalla Francia di Emmanuel Macron, sono state sostanzialmente strumentali e la decisione è stata figlia delle molte trattative in atto fra i massimi decisori europei, i paesi membri. Questo soprattutto se si considera che la Commissione europea aveva dato per ben due volte parere positivo all’apertura dei negoziati di adesione per Tirana e Skopje.

Per quanto riguarda gli altri paesi della regione, Serbia e Montenegro hanno già aperto le negoziazioni con l’Unione europea ma queste sostanzialmente sono in una fase di stallo. La Serbia deve affrontare il problema della soluzione delle relazioni con il Kosovo - condizione necessaria per la chiusura dei negoziati -, del deteriorarsi della libertà dell’informazione e dell’erosione degli standard democratici. In Montenegro vi è una corruzione endemica che sta rendendo difficili i negoziati con l’UE. Bosnia Erzegovina e Kosovo, invece, non sono nemmeno ancora ufficialmente candidati.

Queste difficoltà hanno alimentato nella regione un senso di scetticismo nei confronti dell’UE. Come mostrano le rilevazioni del Balkan Public Barometer, Albania e Kosovo sono i paesi in cui la popolazione vede con maggior favore un eventuale ingresso nell’Unione europea. Nel caso kosovaro il sostegno è però drasticamente sceso nel 2019 - forse anche a causa delle resistenze da parte dell’UE nel concedere ai cittadini kosovari la libera circolazione all’interno dei propri confini.

Anche in Macedonia del Nord e Montenegro si sta invertendo la tendenza che aveva visto crescere negli ultimi anni il supporto all’Unione europea. In Bosnia Erzegovina e Serbia, invece, meno della metà della popolazione vede positivamente la partecipazione del proprio paese al processo di integrazione europea.

Per quanto la Commissione europea abbia delineato nel 2018 una strategia credibile per la prospettiva di allargamento verso i paesi balcanici, la regione sembra più lontana oggi, rispetto a pochi anni fa, dall’obiettivo di diventare parte integrante dell’Unione. Da un lato, nei paesi dei Balcani si sta assistendo a una crescente resistenza alle riforme socio-economiche e politiche richieste dall’UE, se non a dei veri e propri passi indietro rispetto ai progressi fatti nel passato. Dall’altra, l’Unione europea, a causa delle sue molteplici crisi interne, è meno concentrata sull’allargamento di quanto non fosse fino ad alcuni anni fa.

Se gli stati membri dovessero continuare a strumentalizzare l’apertura o il prosieguo dei negoziati con i paesi balcanici, invece di pensare a un’Europa a 33, i Balcani rischiano di rimanere uno spazio escluso. Rischiano di essere lasciati a stagnare in una condizione di crisi permanente, verso la quale si reagisce solo con tattiche di breve periodo, tese ad arginare le degenerazioni più violente e le loro ripercussioni sull’Europa tutta. Servirebbe invece una strategia credibile in grado di risolvere i problemi di fondo, di cui le crisi non sono che i sintomi: reali prospettive di ingresso nell’Unione europea sarebbero la soluzione più efficace.

Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network   ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 03, 2019, 16:39:33 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-quando-la-cronaca-nera-smuove-il-sistema-politico-195858

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Romania, quando la cronaca nera smuove il sistema politico

L'omicidio di una ragazza di quindici anni scuote l'intero paese e non solo per l'efferatezza del delitto, ma anche a causa del comportamento delle forze dell'ordine. I romeni scendono in piazza, il ministro dell'Interno si dimette

31/07/2019 -  Francesco Magno
Negli ultimi giorni l'opinione pubblica romena dibatte soltanto del terribile omicidio avvenuto probabilmente tra il 25 e il 26 luglio a Caracal, una piccola cittadina del sud, dove una quindicenne, Alexandra Măceșanu, è stata rapita, violentata e infine uccisa. L'accusa è caduta su un uomo, tale Gheorghe Dincă, già accusato di aver assassinato un'altra ragazza nella scorsa primavera con modalità spaventosamente simili. Nel cortile della sua abitazione sono stati ritrovati resti umani, e nella sua macchina un orecchino della vittima. C’è tuttavia chi nega che Alexandra e l’altra adolescente scomparsa qualche mese fa (di cui non è mai stato ritrovato il corpo), siano state uccise da Dincă, che le avrebbe invece consegnate a criminali dediti al traffico di esseri umani. Le indagini sono ancora in corso.

Il delitto ha scosso l'intero paese, non soltanto per la sua efferatezza, ma anche e soprattutto a causa del comportamento delle forze dell'ordine. Prima di essere uccisa Alexandra è riuscita più volte a mettersi in contatto con la polizia grazie a un telefono trovato nella casa dove era sequestrata, fornendo dati importanti sull'ubicazione del luogo del rapimento; la sua disperata richiesta d'aiuto è stata tuttavia ignorata dai funzionari del centralino d'emergenza, che hanno scambiato la telefonata per una burla e hanno invitato la ragazza, secondo quanto riportano alcune testate, a non tenere la linea occupata.

Le rivelazioni sul comportamento dei poliziotti hanno scatenato un'ondata di indignazione e proteste. Come spesso accade in Romania, il tragico evento di cronaca si è trasformato in un pretesto per lanciarsi contro l'intero sistema politico e istituzionale: la scarsa efficienza, anche se potremmo addirittura parlare di totale incompetenza, dei poliziotti del 112 (il numero romeno delle emergenze) viene imputata alla corruzione e al malaffare che dominano le assunzioni pubbliche ad ogni livello.

Dimostrazioni sono state organizzate nei giorni scorsi di fronte al ministero dell'Interno e nelle principali strade di Bucarest. L’altro ieri un gruppo di manifestanti si è radunato di fronte alla sede del Partito social-democratico, urlando improperi all'indirizzo di membri del partito, accusati di essere corresponsabili dell'omicidio.

La mobilitazione di piazza ha portato alle dimissioni del ministro dell’Interno, Nicolae Moga, che aveva assunto la carica appena sette giorni fa. Moga ha motivato le dimissioni con la “necessità di proteggere il prestigio del ministero, augurandosi che eventi del genere possano non accadere più”.

Nel pomeriggio di ieri il presidente della Repubblica Klaus Iohannis, già in evidente clima da campagna elettorale per le elezioni presidenziali, ha indirettamente incolpato il governo a guida social-democratica, reo di aver “riempito le istituzioni pubbliche di incompetenti”  .

Non è la prima volta che in Romania un evento di cronaca scatena proteste e manifestazioni contro l'intero sistema politico e istituzionale. Nel 2015, a seguito dell'incendio della discoteca Colectiv di Bucarest, che causò la morte di decine di ragazzi, il governo guidato dal social-democratico Victor Ponta fu costretto a dimettersi sotto i colpi delle enormi dimostrazioni di piazza.

Anche in quel caso, la morte delle vittime venne imputata alla corruzione e all'inefficienza della pubblica amministrazione di Bucarest, che aveva concesso troppo facilmente la licenza a un locale con chiari problemi strutturali. Ovviamente i responsabili ultimi della tragedia, anche in quel caso, erano considerati i membri del governo e del Partito social-democratico, dai più ritenuto l'unico dispensatore di malaffare del paese.

Per quanto ambiguo e spesso corrotto, risulta difficile credere che anche tragici eventi di cronaca nera possano essere sempre imputati al Partito social-democratico, o alla corruzione. La corruzione sta diventando in Romania un'eminenza grigia astratta responsabile di ogni magagna che affligge il paese, e ogni occasione è buona per indignarsi contro le inefficienze del sistema. A ciò va aggiunto l'astio sempre crescente della popolazione nei confronti delle forze dell'ordine. Un rancore nato circa un anno fa, a seguito della manifestazione della diaspora terminata in violenza del 10 agosto 2018, quando manifestanti pacifici vennero massacrati senza apparente motivo dalla gendarmeria.

Per questo un evento di cronaca nera diventa l'ennesimo pretesto per scendere in piazza e mostrare indignazione contro il sistema. A volte, tuttavia, la spiegazione più banale è anche quella più semplice. La povera Alexandra è stata vittima di un uomo crudele e di poliziotti incompetenti: due tragiche fatalità, di cui difficilmente si può accusare il PSD.

Il modo in cui la gente reagisce a questi eventi ci dice però molto sulla situazione del paese e sul sentir comune: i romeni si sentono vittime di una struttura più grande di loro, alla quale imputano ogni problema che li affligge. Un sentimento che è un po' figlio della storia e del retaggio comunista: lo stato è ritenuto responsabile di qualsiasi cosa accada, sia essa bella o brutta, e il più delle volte purtroppo è brutta.

Abituarsi alla libertà significa anche abituarsi al destino, anche tragico. Il non saper rassegnarsi al fato e il dover cercare sempre una motivazione superiore, più oscura, è un altro segno della transizione post-comunista mai terminata.

Che le istituzioni pubbliche, specialmente nella remota periferia contadina, non siano efficienti e spesso si limitino ad essere vere e proprie prebende da offrire in cambio di voti, è fuor di dubbio. Che la colpa sia solo del sistema PSD e non di una cultura politica generalizzata e trasversale esistente da almeno un secolo è, tuttavia, difficile da sostenere. A ciò vanno aggiunte una formazione scadente impartita alle forze dell’ordine, e un totale stato di abbandono della provincia profonda.

È improbabile che la fine dell’egemonia politica del PSD possa risolvere nel breve questi problemi, ed è del tutto impossibile che un cambiamento politico segnerà la fine delle fatalità tragiche.



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Le rivelazioni sul comportamento dei poliziotti hanno scatenato un'ondata di indignazione e proteste. Come spesso accade in Romania, il tragico evento di cronaca si è trasformato in un pretesto per lanciarsi contro l'intero sistema politico e istituzionale: la scarsa efficienza, anche se potremmo addirittura parlare di totale incompetenza, dei poliziotti del 112 (il numero romeno delle emergenze) viene imputata alla corruzione e al malaffare che dominano le assunzioni pubbliche ad ogni livello.

Fosse accaduto in Italia, i soliti italiani esterofili e disfattisti, nonché quotidianamente impegnati a prendersi a martellate sui genitali, avrebbero urlato ai quattro venti che "certe cose accadono solo in Italia".
Certo, come no.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 03, 2019, 16:46:12 pm
https://www.eastjournal.net/archives/99245

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RUSSIA: Perché nessuno spegne gli incendi in Siberia?
Maria Baldovin  3 giorni fa

“La situazione in Siberia è catastrofica”. Con queste parole Grigorij Kuksin, responsabile della sezione antincendi di Greenpeace Russia, commenta gli incendi che, da circa dieci giorni, stanno mettendo in ginocchio un’area molto estesa del paese. Si parla di circa tre milioni di ettari di foreste in fiamme, soprattutto nelle regioni di Krasnojarsk e Irkutsk. Fiamme divoratrici che stanno colpendo il polmone verde della federazione e la cui nube si sta espandendo a vista d’occhio. Ciononostante, gli interventi, fino ad oggi, sono stati effettuati solo su novantamila ettari di terreno.

La decisione riguardo alle zone in cui intervenire, in questi casi, spetta alle autorità. Stando a diverse fonti russe, il governatore della regione di Krasnojarsk Aleksandr Uss avrebbe dichiarato che spegnere gli incendi, nella cosiddetta “zona di controllo”, non avrebbe senso e potrebbe essere addirittura dannoso.

Ma cosa sono le “zone di controllo”? La definizione è stata introdotta da una legge disegnata nel 2014 e approvata nel 2015 dal Ministero per l’ambiente. Secondo quest’ultimo, all’interno delle “zone di controllo” non sarebbe obbligatorio spegnere gli incendi. Nei casi in cui la presenza delle fiamme non rappresenti un pericolo per la popolazione e per l’economia e, in aggiunta, se l’estinzione dell’incendio venisse a costare di più dei potenziali danni, gli incendi nelle zone di controllo possono dunque divampare liberamente. Inizialmente, le zone di controllo erano state definite come aree remote, difficili da raggiungere per mezzi e persone. In realtà, secondo i calcoli del responsabile di Greenpeace, un’elevata percentuale di foreste presenti sul territorio della federazione è classificata come zona di controllo e proprio qui sono avvenuti il 90% degli incendi nella stagione passata. Incendi che nessuno spegne.

“A nessuno verrebbe mai in mente di affondare un iceberg, così da poter avere un clima più caldo. La stessa cosa vale per gli incendi nelle zone di controllo, è un normale fenomeno naturale” ha commentato il governatore di Krasnojarsk Aleksandr Uss. Totalmente in disaccordo Grigorij Kuksin, il quale ha risposto: “Non c’è niente di usuale in questi incendi. Se fossimo nella regione di Mosca, a nessuno verrebbe mai in mente di dire ‘Ma sì, è un processo naturale'”.

Non lontano dalle zone degli incendi ci sono villaggi, vivono persone, la nube rischia di intossicare migliaia di cittadini e animali. Tuttavia, l’indifferenza sembra regnare sovrana, con le autorità ad assicurare che tutto è sotto controllo. Spegnere gli incendi è oneroso e sembra che il calcolo costi-benefici non decida a favore dell’intervento. In altre parole, non ne vale la pena.

È proprio questo a far indignare i cittadini siberiani. Ancora una volta, nelle periferie del paese domina la sensazione di essere cittadini di seconda classe. È lo stesso processo in atto nella regione di Archangel’sk, dove i cittadini locali protestano da mesi contro la costruzione di una discarica che “accoglierebbe” i rifiuti provenienti dalla regione della capitale.

“Il nostro governo si comporta come un contabile”, “Ci dicono senza mezzi termini di morire”, sono solo alcune delle citazioni di cittadini siberiani riprese negli ultimi giorni dai media. Intanto sono partite le petizioni, mentre gli hashtag #SaveSiberianForests e #потушитепожарывсибири (“Spegnete gli incendi in Siberia”) sono tra i più utilizzati su Twitter. Come sempre, l’ironia sui social media non manca e c’è anche chi, tra il serio e il faceto, ipotizza una nuova fiction drammatica, dopo il successo raggiunto dalla serie tv dedicata agli eventi di Chernobyl.

Nel frattempo, lo stato di emergenza è stato dichiarato nelle regioni di Krasnojarsk, Irkutsk e, parzialmente, in Buriazia. Tuttavia, non è chiaro cosa questo comporterà e se si uscirà dalla logica che regola gli interventi nelle cosiddette “zone di controllo”. Rimarranno, per molto tempo, i danni causati dagli spaventosi incendi – definiti “senza precedenti” – e dall’immobilismo di questi dieci lunghi giorni.

In Siberia, come in altre zone del mondo, più o meno estese, più o meno periferiche, il calcolo costi-benefici  detta legge, decidendo le sorti dell’ambiente e dei cittadini che ci vivono.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 23, 2019, 19:46:09 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Emigrazione-sud-est-Europa-anemico-195857

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Emigrazione: sud-est Europa anemico

L’emigrazione di forza lavoro e la cosiddetta fuga di cervelli – due fenomeni in crescita in tutti i paesi del sud-est europeo – preoccupano esperti, politici e imprenditori da Budapest ad Atene

22/08/2019 -  Euractiv
(Originariamente pubblicato dal portale euractiv.rs  il 23 luglio 2019)

Una delle cose che accomunano i paesi del sud-est Europa è il timore che, a causa di una massiccia emigrazione dei propri cittadini verso l’estero, siano destinati a spopolarsi. Nonostante un progressivo, seppur lento, aumento del tenore di vita e dei salari in tutti i paesi della regione, molti cittadini scelgono di emigrare, perlopiù verso Germania, Austria, Italia e Spagna. L’emigrazione di forza lavoro e la cosiddetta fuga di cervelli – due fenomeni in crescita in tutti i paesi del sud-est europeo – preoccupano esperti, politici e imprenditori da Budapest ad Atene.

Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa tedesca DPA, in tutti i paesi del sud-est Europa si registra una carenza di forza lavoro. Ad andarsene sono soprattutto i giovani altamente istruiti, molto richiesti dai mercati del lavoro di alcuni paesi dell’UE.

“Il nostro paese sta scomparendo”, dice Marian Hanganu, proprietario di un’agenzia di lavoro con sede in Romania, commentando il fenomeno dell’emigrazione di massa da uno dei paesi più poveri dell’Unione europea. “Di conseguenza, molte multinazionali hanno deciso di non investire più in Romania, semplicemente perché manca forza lavoro”, ha scritto Hanganu sul sito della sua agenzia che svolge attività di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro.

La situazione è simile anche in Bulgaria. “Le imprese iniziano a ritirarsi dagli accordi e a posticipare l’avvio di nuovi progetti perché manca forza lavoro”, ha dichiarato il ministro dell’Economia bulgaro Emil Karanikolov nel corso di una trasmissione televisiva.

Di fronte al fenomeno dell’emigrazione di massa, alcune autorità locali reagiscono cercando disperatamente di convincere la popolazione che tutto va bene. Le autorità del villaggio di Ruševo, nei pressi di Slavonski Brod in Croazia, hanno recentemente provveduto a intonacare l’unica scuola del villaggio, frequentata da quattro alunni in tutto. Tuttavia, nessuna intonacatura può nascondere il fatto che in questo villaggio, che oggi conta appena 310 abitanti, la metà delle case è vuota e molti edifici versano in uno stato di degrado.

Stando ai dati diffusi dal governo di Bucarest, sono oltre 2 milioni i romeni che vivono all’estero, perlopiù in Spagna e in Italia. Cifre simili si registrano anche in altri paesi del sud-est Europa. Secondo le statistiche ufficiali, oltre 700mila cittadini bulgari vivono in un altro stato membro dell’UE.

Stando ad uno studio commissionato dalla Banca centrale croata, nel periodo compreso tra il 2013 e il 2016 dalla Croazia sono emigrati 230mila cittadini, un dato che corrisponde ad un tasso emigratorio annuo del 2% della popolazione.

Dal 2000 ad oggi 654mila persone hanno lasciato la Serbia, aggiungendosi a quel mezzo milione di cittadini serbi emigrati durante gli anni Novanta a causa della guerra e del regime di Slobodan Milošević.


I dati diffusi da alcune organizzazioni sindacali greche dimostrano che, dallo scoppio della crisi del debito pubblico nel 2010, dalla Grecia se ne sono andati circa 400mila cittadini, perlopiù giovani. Il neo premier greco, il conservatore Kyriakos Mitsotakis, ha più volte ribadito che uno dei principali obiettivi del suo governo sarà quello di migliorare le condizioni di vita di tutti i cittadini greci e di offrire nuove prospettive ai greci emigrati all’estero affinché tornino in patria.

Secondo una ricerca realizzata dalla sociologa ungherese Ágnes Hárs, la crisi finanziaria globale del 2008 ha provocato un’ondata di emigrazione dall’Ungheria – fino ad allora considerata uno dei paesi più sviluppati dell’Europa sud-orientale -, e il fenomeno ha subito una forte accelerazione a partire dal 2010, anno in cui Viktor Orbán ha assunto l’incarico di primo ministro.

Nel periodo compreso tra il 2010 e il 2017, dall’Ungheria sono emigrati 200mila cittadini, e il paese si è collocato al primo posto tra i nuovi stati membri dell’UE per numero di espatriati.

Mancanza di medici e personale sanitario
Una delle più gravi conseguenze della massiccia emigrazione dai paesi del sud-est Europa è la carenza di medici e di personale sanitario in tutta la regione. Il reparto di malattie infettive dell’ospedale di Szolnok in Ungheria è stato chiuso per mancanza di personale. L’ospedale di Tulcea in Romania è attualmente senza anestesisti: due dei tre anestesisti che vi lavoravano si sono licenziati, mentre uno è assente per malattia.


Molti medici e operatori sanitari provenienti dai paesi dei sud-est europeo decidono di continuare la loro carriera in Germania. Da un sondaggio condotto in 217 ospedali in Germania è emerso che la maggior parte degli infermieri stranieri impiegati negli ospedali tedeschi proviene dalla Bosnia Erzegovina. Stando ai dati della Federazione tedesca delle aziende ospedaliere, la maggior parte degli infermieri stranieri impiegati presso gli ospedali tedeschi è stata assunta direttamente dalle aziende ospedaliere o tramite un intermediario privato.

Cristina Mihu, 32 anni, originaria dalla Romania, ha deciso di emigrare in Germania senza troppa esitazione. Ha studiato il tedesco, come seconda lingua straniera, a scuola a Deva, in Transilvania. Successivamente, da studente di medicina presso l’Università di Timișoara ha trascorso periodi di specializzazione in Italia, Spagna e a Heidelberg. “Volevo fare un’esperienza all’estero”, dice Cristina, che ormai da sei anni vive a Norimberga, dove lavora come medico internista presso una clinica.

Mihu spiega che, oltre ai bassi salari, un altro motivo che l’ha spinta a lasciare la Romania è la corruzione, ormai dilagante, nel settore sanitario. Aggiunge inoltre che in Germania gli ospedali sono attrezzati molto meglio rispetto a quelli romeni e che i medici “parlano molto di più con i loro pazienti”.

Per far fronte alla grave carenza di manodopera, gli imprenditori romeni cercano di attrarre i lavoratori stranieri, compresi quelli provenienti dal Medio Oriente. Quest’anno il governo romeno ha autorizzato l’ingresso di 20mila lavoratori extracomunitari. Marian Hanganu dice che questa misura non può risolvere il problema, perché la Romania ha bisogno, come minimo, di 300mila lavoratori.

Stando alle parole di Andrea Tartacan, collaboratore di Marian Hanganu, i lavoratori provenienti dai paesi del Medio Oriente spesso decidono di disdire il contratto di lavoro stipulato con un datore romeno perché non riescono ad abituarsi al clima e al cibo romeno. “Ora stiamo cercando di reclutare lavoratori edili dal Tajikistan. Sono più robusti dei vietnamiti perché provengono dalle steppe”, spiega Tartacan.

Anche in Bulgaria ci sono molti gastarbeiter, anche se provengono dai paesi meno esotici, mentre nei ristoranti e alberghi sulla costa montenegrina lavorano molti cittadini ucraini, bielorussi e moldavi.

Sembra che i paesi occidentali, con le loro politiche del lavoro, favoriscano l’emigrazione da alcuni paesi meno sviluppati. Il ministro della Sanità tedesco Jens Spahn ha recentemente visitato una scuola superiore medico tecnica in Kosovo che ha stipulato una convenzione con alcune aziende ospedaliere tedesche. Anche il ginnasio tedesco di Prizren sembra favorire la fuga dei cervelli. Ogni anno fino ai 30 studenti dell’ultima classe ricevono un contributo per continuare gli studi in Germania, e sono pochi quelli che, una volta conclusi gli studi, decidono di tornare in Kosovo.

Secondo Herbert Brücker, ricercatore presso l’Istituto per la ricerca sull’occupazione (IAB) con sede a Norimberga, la Germania trae grande vantaggio dalla presenza di lavoratori provenienti dal sud-est Europa. Stando alle sue parole, senza questi lavoratori alcuni settori dell’economia tedesca, come quello dell’edilizia, ristorazione e cura della persona, sarebbero in grande difficoltà perché è praticamente impossibile trovare lavoratori tedeschi disposti a lavorare in questi settori.

Brücker afferma inoltre che la prospettiva di un buon lavoro nell’Europa occidentale spinge molti cittadini dei paesi dell’Europa sud-orientale a studiare, contribuendo così all’aumento dei livelli di istruzione in questi paesi.

Tado Jurić, politologo e docente di storia presso l’Università Cattolica di Zagabria, la pensa diversamente. Stando alle sue parole, la Germania non dovrebbe cercare di risolvere la crisi demografica che sta attraversando ormai da tempo attingendo alla forza lavoro proveniente dal sud-est Europa. “Non è giusto che la Germania si stia salvando a scapito di tutti noi”, ha dichiarato Jurić, aggiungendo che l’Unione europea dovrebbe occuparsi del problema delle “migrazioni ingiuste”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 23, 2019, 19:50:53 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bulgaria/Quale-futuro-per-il-turismo-in-Bulgaria-196104

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Quale futuro per il turismo in Bulgaria?

Secondo il ministero del Turismo di Sofia, il settore rappresenta oggi ben il 12% del prodotto interno lordo del paese, per un giro di affari di circa 4 miliardi di euro nel 2018. La Bulgaria tuttavia non è ancora riuscita a trasformarsi da “soluzione alternativa” a “destinazione preferita”

23/08/2019 -  Francesco Martino   Sofia
Colonne infinite di auto piene di villeggianti in fuga dalla Bulgaria, in chilometriche code alla frontiera con la Grecia, direzione mare Egeo. Allo stesso tempo immagini di spiagge vuote e ombrelloni chiusi sulle spiagge delle principali località turistiche bulgare sul Mar Nero. Era iniziata così, a inizio luglio, con fotografie contrastanti e cariche di cattivi presagi, la stagione turistica bulgara dell'estate 2019.

Le polemiche avevano fatto presto a seguire, rimbalzando dai social media all'arena della politica. Per alcuni, la stagione appena iniziata – evidentemente col passo sbagliato - non era che l'inevitabile conseguenza di politiche irresponsabili, prezzi fuori controllo e eccessivo sfruttamento delle coste del Mar Nero, altri invece minimizzavano, parlando di un assestamento naturale dopo anni di forte crescita del settore.

Oggi, a stagione ormai matura, è possibile fare un primo, seppur parziale punto della situazione che, pur archiviando gli scenari più apocalittici, lascia aperti numerosi punti interrogativi sulla sostenibilità di lungo corso del modello di turismo sviluppato in Bulgaria negli ultimi anni.

12%
Innanzitutto, qualche numero: secondo i dati del ministero del Turismo di Sofia, il settore rappresenta oggi ben il 12% del prodotto interno lordo del paese, una fetta dell'economia importante, soprattutto se, oltre alle entrate dirette, si considerano anche la ricadute della presenza dei turisti su altri rami, come i trasporti, i generi alimentari, i servizi, non sempre facilmente quantificabili.

Dell'intera torta del turismo bulgaro, che nel 2018 ha fatto registrare un giro d'affari totale intorno agli 8,4 miliardi di leva (4,3 miliardi di euro) il 70% è rappresentato proprio dal turismo estivo, che gravita intorno alle località di mare distribuite sui quasi 400 chilometri di coste che si affacciano sul mar Nero. Ecco perché, i primi dati statistici significativi, arrivati proprio a inizio luglio, e che mostravano un calo drastico di prenotazioni e presenze, quantificabile intorno al 20% in meno rispetto al 2018, hanno scatenato così in fretta preoccupazioni, malumori e polemiche.

C'è da dire che, effettivamente, il turismo estivo in Bulgaria negli ultimi anni ha fatto registrare una crescita importante, a tratti tumultuosa. A sentire gli esperti, però, dovuta più ai problemi della concorrenza che a virtù proprie. Gli ultimi anni, infatti, sono stati estremamente difficili per alcune delle classiche destinazioni dei flussi turistici nell'area mediterranea, come Turchia, Tunisia ed Egitto, che tra terremoti politici, problemi di terrorismo e instabilità hanno visto un crollo nelle presenze di visitatori, soprattutto stranieri.

La Bulgaria, approdo tradizionalmente meno gettonato, ma da anni stabile e tranquillo (unica eccezione, il sanguinoso attentato contro i turisti israeliani all'aeroporto di Burgas del luglio 2012) , ha saputo imporsi come “piano B” per moltissimi turisti provenienti da Germania, Regno Unito, Russia, Ucraina, e molti paesi dell'Europa centro-orientale, che spesso conoscevano già il Mar Nero bulgaro dai tempi della Cortina di ferro.

Dopo il boom il calo
Il problema però, è che la Bulgaria non ha saputo o potuto trasformarsi da “soluzione alternativa” a “destinazione preferita”: ecco perché, col relativo miglioramento della situazione nei paesi summenzionati, il vantaggio accumulato dal paese negli ultimi anni sembra essersi esaurito in fretta, e agli anni del boom è seguito quest'anno un calo imponente.

I conti finali, naturalmente, potranno essere fatti solo a stagione conclusa, ma il trend per il 2019 difficilmente potrà essere ribaltato nelle ultime settimane d'estate. Se i dati sembrano chiari, però, la loro interpretazione è invece aperta al dibattito. Uno degli elementi in discussione, ad esempio, è il tormentato rapporto dei turisti bulgari con il proprio litorale, dopo anni di sviluppo caotico, speculazione edilizia, costruzioni selvagge.

In occasione delle code al confine con la Grecia il quotidiano Dnevnik pubblicava un accorato editoriale dal titolo tanto lungo quanto esplicito: “Quest'estate rappresenta la condanna del turista bulgaro della cementificazione del Mar Nero”. “Sì, i bulgari non amano protestare”, argomentava l'editoriale, “ma non potete obbligarli ad andare sul litorale del Mar Nero, dove deve pagare ai mafiosi quaranta leva per una sdraio, o bere alcol taroccato che gli viene servito sempre dagli stessi mafiosi”.

Come gestire il Mar Nero?
Il clima politico sulla gestione del Mar Nero in realtà si era arroventato già prima, con l'approvazione a metà giugno di una nuova normativa da parte del parlamento di Sofia. Principale motivo del contendere, l'introduzione del divieto di campeggio libero, iniziativa apertamente contestata da una parte della società civile, e che aveva portato addirittura al veto parziale da parte del presidente Rumen Radev. Per i critici, la nuova normativa si accanisce contro gli amanti del campeggio libero, lasciando però mano libera a una nuova ondata di cementificazione lungo le coste, anche ai danni di aree protette.

C'è però anche chi ha interpretato il calo delle presenze sul Mar Nero sotto una luce meno negativa. Per Rumen Draganov, presidente dell'Istituto per l'analisi sul turismo, la crisi dell'estate 2019 in realtà è “salutare” per tutto il settore. Intervistato dalla tv pubblica, Draganov ha parlato di una “pausa dovuta”, dopo anni di crescita a due cifre che ha portato a “affollamento, pessimo servizio e in ultima battuta, a clienti insoddisfatti”. Nel 2019, invece, “abbiamo prezzi più contenuti, spiagge meno affollate, un servizio di gran lunga migliore”. L'ottimistica previsione di Draganov è che “l'anno prossimo avremo nuovamente un aumento nel numero dei turisti, perché chi ha visitato il Mar Nero quest'anno sarà rimasto soddisfatto, e tornerà ancora”.

Sospeso tra prospettive catastrofiche e sogni di gloria, il futuro del turismo sul litorale bulgaro resta segnato da non poche incognite rispetto ai piani di sviluppo per il futuro. Al momento, nei confronti dei turisti internazionali, il suo punto di forza restano ancora e soprattutto i prezzi bassi rispetto alla maggior parte delle destinazioni alternative in Europa. Un vantaggio che però ha generato un turismo di massa dagli effetti devastanti su molte delle località più gettonate, e che non sembra sostenibile sul lungo periodo.

Per i turisti bulgari il Mar Nero resta il “mare di casa”, carico di ricordi ed emozioni. Con la facilità di spostamento oltreconfine e la concorrenza di destinazioni alternative a portata di mano, però, la loro presenza non può più essere data per scontata. E se le località sulla costa bulgara non riusciranno a fare il salto di qualità, le code per il mare della Grecia continueranno ad allungarsi nelle prossime estati.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Agosto 23, 2019, 19:52:02 pm
Quasi sono contento che siamo pieni di rumeni, almeno sono molto più simili a noi a partire dalla lingua. Quando noi italiani non esisteremo più o quasi, pochi noteranno la differenza tra i pochi bianchi* rimasti.

Futuro del turismo in Bulgaria? Per me non c'è neanche un passato :cool:

* Ops non dovevo dirlo. Rinforzo lo stereotipo di un forum "covo di violenza" per suprematisti-stragisti bianchi.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 30, 2019, 20:20:23 pm
https://www.eastjournal.net/archives/99371

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UCRAINA: Un primo ministro tecnocratico per i “servi del popolo”
Claudia Bettiol  17 minuti fa

Durante la prima seduta della Verchovna Rada – il parlamento ucraino -, tenutasi giovedì 29 agosto, i neoeletti deputati dello scorso 21 luglio hanno nominato il nuovo governo. La carica di primo ministro è stata assegnata al giovane trentacinquenne Oleksiy Hončaruk e approvata da 290 deputati, tutti facente parte del partito maggioritario di Volodymyr Zelensky, “Il servo del popolo”. La squadra che compone il consiglio dei ministri è ora al completo e i “servi del popolo” ora dovranno dimostrare di che pasta sono fatti.

Tecnocrazia, non politica

I desideri di Volodymyr Zelensky sono stati esauditi: il 35enne Oleksiy Hončaruk è il neo primo ministro dell’Ucraina. Una figura poco nota in politica, dunque perfetta per il primo “servo del popolo” il quale era alla ricerca di un volto nuovo al comando, un tecnocrate e un economista che non fosse troppo legato al mondo della politica.

Laureato in giurisprudenza, Oleksiy Hončaruk non è solamente il primo ministro più giovane di tutta la storia dell’Ucraina, ma anche una figura con un background nella sfera politica quasi nullo – se non si tiene conto del fatto che è stato vicedirettore dell’ufficio del presidente per qualche mese (dal 28 maggio 2019). Prima di entrare in carica, Hončaruk è stato a capo del Better Regulation Delivery Office (BRDO), un’organizzazione indipendente nata nel 2015 e finanziata dall’Unione europea volta a migliorare il contesto economico e la regolamentazione statale nei settori economici. Negli anni precedenti, ha gestito il proprio studio legale e prestato servizio come consigliere del ministro dello Sviluppo Economico Stepan Kubiv, il quale ritiene che l’esperienza professionale del giovane e le sue competenze e conoscenze in ambito economico siano più che valide a coprire le funzioni di premier.

“È un bravo ragazzo, giovane, molto energico, che ha un’esperienza sia in campo economico che legale, e penso sia importante per questa carica”, ha dichiarato David Arachamija, il nuovo capo del partito “Il servo del popolo”.

Hončaruk  sembra soddisfare le esigenze del momento. O almeno quelle dei “servi del popolo”. I partiti minoritari, infatti, hanno rifiutato di sostenere la candidatura di Hončaruk, valutando diversamente la scelta. “Non conosciamo né lui né il suo programma”, ha dichiarato Yuriy Boyko, leader del partito filorusso “Piattaforma di opposizione – Per la vita” che gode di 44 seggi parlamentari. Anche i deputati del partito liberale “Voce”, appartenente alla rockstar Svjatoslav Vakarčuk, e del partito “Patria” di Julija Tymošenko, nonché il blocco di opposizione formato dalla squadra dell’ex-presidente Petro Porošenko, hanno rifiutato di votare per Hončaruk per le stesse ragioni.

Ad affiancare il lavoro del giovane premier, c’è una squadra di ministri dai volti più o meno nuovi, la maggior parte proveniente dal partito di Zelensky. Nessuna carica è stata assegnata ai membri di “Solidarietà europea”, il partito di Porošenko.

Sebbene fossero nate alcune proposte iniziali per riformare sostanzialmente il parlamento, tra cui quella di unire i ministeri per tematica, il loro numero e le loro funzioni sono rimasti invariati, almeno per ora. Solamente i capi dei ministeri sono stati sostituti con nuovi volti, eccezion fatta per il ministro delle Finanze, Oksana Markarova, in carica dal 2016, e dal ministro degli Affari Interni. Arsen Avakov è stato infatti riconfermato per questa carica che ormai mantiene dal febbraio 2014, nonostante la sua controversa reputazione e i numerosi scandali di cui è stato accusato.

A spalleggiarlo negli affari di politica estera ci sarà Vadim Prystajko, che ha iniziato la sua carriera diplomatica nel 1994 ed è stato ambasciatore dell’Ucraina in Canada tra il 2012 e il 2014. Dal 2017, come vice del ministro degli Esteri dell’Ucraina, ha guidato la missione di entrata del paese nella NATO.

L’obiettivo economico di Hončaruk

Hončaruk ha fin da subito affermato che il compito principale del nuovo governo è assicurare la crescita economica del paese, almeno del 5-7% all’anno. Il suo primo discorso va dritto al sodo: per raggiungere la crescita economica è necessario ridurre il costo delle risorse, abbassare i tassi di credito, garantire l’indipendenza della banca nazionale e, cosa non meno importante, cambiare l’atteggiamento nei confronti dell’Ucraina da parte del mondo intero. L’economia ucraina deve essere modificata strutturalmente. Un problema fondamentale che può essere risolto rapidamente attraverso investimenti esteri. Ma per attirare gli investitori nel paese, c’è bisogno di riforme strutturali e interdisciplinari: un efficente sistema giudiziario, la riduzione della pressione fiscale sulle imprese e la stabilità finanziaria in primis.

I problemi interni dell’Ucraina riscontrati ed elencati dal giovane premier sono essenzialmente legati alle infrastrutture, allo stato deplorevole degli alloggi e dei servizi comunali. Egli non dimentica, naturalmente, di citare anche la corruzione e la guerra con la Russia nell’est del paese, questione questa che riguarda indubbiamente la politica estera, ma che influisce inevitabilmente nella gestione della politica interna.

Hončaruk ha inoltre ribadito che tra poche settimane arriverà a Kiev la missione del Fondo monetario internazionale (FMI), con il quale l’Ucraina negozierà un nuovo programma di cooperazione per un periodo di tre o quattro anni.

La priorità dei “servi del popolo” era di formare un governo tecnocratico e professionale, in grado di vincere le sfide e le difficoltà economiche che l’Ucraina sta attraversando ormai da anni. Le loro speranze e quelle di milioni di ucraini sono racchiuse perciò in questo nuovo governo fatto di tecnocrati capaci di cambiare la natura e il corso dell’economia ucraina. I prossimi mesi saranno decisivi per capire se le nuove forze politiche saranno in grado di dare una svolta all’Ucraina.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 30, 2019, 20:22:12 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Georgia/Georgia-e-Russia-dietro-il-filo-spinato-196248

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Georgia e Russia: dietro il filo spinato

Un bilancio della situazione al confine tra Georgia e le regioni de facto di Abkhazia e Ossezia del Sud, dal punto di vista del rispetto dei diritti umani. Report di Amnesty International

30/08/2019 -  Amnesty International
I tentativi della Russia e delle autorità di fatto di delimitare fisicamente un confine tra i territori separatisti di Abkhazia e Ossezia del Sud/Regione di Tskhinvali e il resto della Georgia, hanno portato alla popolazione locale, gravi restrizioni alla libertà di movimento e ad altre violazioni dei diritti umani; con famiglie separate da filo spinato, private dei propri mezzi di sussistenza e a rischio di detenzione arbitraria nel caso in cui tentino di attraversare il confine.

Queste le denunce del rapporto di Amnesty International Behind barbed wire: Human rights toll of “borderization” in Georgia   (Dietro il filo spinato: il bilancio dei diritti umani della "frontierizzazione" in Georgia) che rivela l'impatto devastante degli sforzi da parte delle forze russe e delle autorità delle regioni de facto per stabilire un "confine internazionale" lungo il confine oggetto della disputa. L'installazione di filo spinato, recinzioni, fossati e altre barriere materiali, hanno diviso le comunità e tagliato l'accesso degli abitanti dei villaggi a terreni agricoli, fonti d'acqua, luoghi di culto e persino luoghi di sepoltura delle famiglie.
“Queste misure arbitrarie stanno strangolando delle vite. Centinaia di persone subiscono detenzioni arbitrarie ogni anno cercando di attraversare la linea di confine per nessun altro motivo se non quello di vedere parenti, prendersi cura dei loro raccolti o accedere alle cure sanitarie. Intere comunità vengono tagliate fuori da fonti vitali di reddito e da altri aspetti importanti della loro vita, punite solo per il luogo in cui vivono. La Russia esercita un controllo di fatto su Abkhazia e Ossezia del Sud/Regione di Tskhinvali, e perciò deve rispettare i propri obblighi ai sensi del diritto umanitario internazionale e sostenere i diritti umani in questi territori" ha affermato Marie Struthers, direttrice per l'Europa orientale e l'Asia centrale di Amnesty International.

Separare comunità, sconvolgere la possibilità di sostentamento
Le forze russe sono di stanza in Abkhazia e Ossezia del Sud/Regione di Tskhinvali senza il consenso della Georgia dal conflitto dell'agosto 2008.
Nel 2011, le forze russe hanno avviato il cosiddetto processo di "frontierizzazione" per trasformare la linea di confine amministrativa – spesso solo tratteggiata su una mappa – in una barriera fisica che separa rispettivamente Abkhazia e Ossezia del Sud/Regione di Tskhinvali dal territorio controllato dalla Georgia.
Davit Vanishvili, 85 anni, abitante del villaggio di Khurvaleti che è stato diviso durante il processo di "frontierizzazione", ha raccontato ad Amnesty International che nel 2013 le forze russe l'hanno messo di fronte ad una scelta netta: rimanere nella sua casa in Ossezia del Sud/Regione di Tskhinvali o spostarsi e vivere il resto della vita sfollato nella parte controllata da Tbilisi.

Ha scelto di restare, ma ora è separato dal resto della sua famiglia e dai suoi amici. Lui e i suoi parenti rischiano la detenzione ogni volta che provano ad attraversare la recinzione al riparo delle tenebre per ritirare la pensione, le medicine e altri beni dalla parte georgiana.
“Le guardie di frontiera russe sono venute a casa mia e mi hanno detto che non era più Georgia. Il giorno stesso hanno iniziato a installare recinzioni intorno al mio cortile. Non posso più accedere al resto del villaggio o al resto del paese", ha detto ad Amnesty International. La "frontierizzazione" ha colpito comunità di tutte le etnie su entrambi i lati del territorio diviso.
Secondo le autorità georgiane, alla fine del 2018, almeno 34 villaggi erano stati divisi da recinzioni installate dalle forze russe. Si stima che dalle 800 alle 1.000 famiglie in totale abbiano perso l'accesso ai propri terreni agricoli.

Amiran Gugutishvili, agricoltore di 71 anni del villaggio di Gugutiankari vicino alla frontiera Ossezia del Sud/Regione di Tskhinvali, deve dipendere dai sussidi sociali da quando ha perso l'accesso al suo meleto nel 2017. “Ogni anno raccoglievo dal mio frutteto più di cento casse di mele e le vendevo. Il profitto era sufficiente per mantenere la mia famiglia. Dal 2017 non riesco ad accedere al mio frutteto. Le guardie di frontiera russe hanno installato un cartello di confine di Stato. A volte passo ancora a dare un'occhiata ai miei meli attraverso il recinto”, ha detto ad Amnesty International.

La chiusura dei punti di attraversamento colpisce il commercio
La "frontierizzazione" ha comportato la chiusura di numerosi valichi ufficiali tra Ossezia del Sud/ Regione di Tskhinvali e Abkhazia e ha avuto un impatto dannoso su quello che una volta era un attivo commercio transfrontaliero. Ha gravemente eroso la situazione sociale ed economica delle comunità a cavallo del confine, poiché i produttori locali hanno perso l'accesso ai mercati più vicini", ha affermato Marie Struthers.

Il villaggio di Khurcha sul lato abkhazo del fiume Inguri, che separa la regione separatista dal resto del territorio georgiano, era un tempo uno snodo commerciale locale, grazie al suo punto di attraversamento. Ma il punto di attraversamento è stato chiuso a marzo 2017, spingendo alcuni residenti a spostarsi altrove nel territorio controllato da Tbilisi.
"Il nostro villaggio è diventato un vicolo cieco: come le nostre vite", ha detto un residente di Khurcha di 85 anni.

Gli attraversamenti effettuati fuori dai punti designati e senza documenti adeguati, spesso difficili da ottenere, sono considerati illegali dalle autorità russe e locali. Questo porta a centinaia di persone arbitrariamente detenute ogni anno, alcune delle quali presumibilmente percosse e sottoposte ad altri maltrattamenti in detenzione.
“Le autorità russe e le autorità di fatto dei territori separatisti devono riaprire i punti di passaggio precedentemente chiusi e allentare le restrizioni di movimento per i locali che vivono vicino alla linea amministrativa. Quando si applicano restrizioni alla libera circolazione, devono essere strettamente necessarie, dettate da autentiche considerazioni di sicurezza o militari, e proporzionate", ha affermato Marie Struthers.

Inoltre, Amnesty International invita la Georgia a fornire un sostegno consistente alle famiglie i cui diritti economici, sociali e culturali sono stati compromessi a causa della "frontierizzazione", comprese quelle che hanno perso i propri mezzi di sostentamento.

Informazioni di contesto:
Le grandi questioni politiche alla base delle ostilità tra Georgia, Russia e le due regioni separatiste accadute negli anni '90 e 2000 sono importanti e attuali, ma vanno oltre lo scopo della nostra ricerca.

Il briefing si basa su circa 150 testimonianze raccolte durante le trasferte in Georgia a marzo e luglio 2018 e giugno 2019. Amnesty International ha scritto al governo russo, alle autorità di fatto in Abkhazia e Ossezia del Sud/ Regione di Tskhinvali e al governo georgiano un riepilogo delle conclusioni e preoccupazioni in materia di diritti umani, offrendo alle istituzioni l'opportunità di rispondere e vedere il proprio contributo riflesso nel rapporto. Amnesty International ha ricevuto solo una risposta dalla Georgia.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 30, 2019, 20:24:33 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Europa/Lettera-all-Europa-196153


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Lettera all'Europa

L'Unione europea personifica appieno il caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. Lo scrive, in una sua "lettera all'Europa", Ilija Trojanow, scrittore, traduttore ed editore

26/08/2019 -  Ilija Trojanow
Ogni anno il festival di poesia Days of Poetry and Wine  di Ptuj, tra i più conosciuti festival dell'Europa centrale, propone ad un poeta di indirizzare una lettera all'Europa, per sottolineare le questioni che ritiene siano le più urgenti. La prima lettera venne scritta da Stefan Hertmans nel 2017 seguito da Athena Farrokhzad l'anno successivo. Nel 2019 è stata la volta di Ilja Troianow.

Cari europei, cari complici, care compagne vittime,

ho recentemente ricevuto una mail da Aisha al-Gheddafi, l'unica figlia dell'ex dittatore libico. Non ci conoscevamo, eppure la signora Gheddafi scriveva con molta fiducia che mi avrebbe affidato 27,5 milioni di dollari se l'avessi aiutata a investire i soldi nel mio paese. Mi avrebbe ricompensato con una bella commissione del trenta per cento di questa somma. Mi ha chiesto di contattarla con urgenza.

Non credevo che la signora Gheddafi mi avesse scritto personalmente, ovviamente. Dopo tutto, non era la prima volta che venivo contattato in questo modo. Probabilmente tutti hanno ricevuto una missiva simile almeno una volta nella vita: in passato per lettera, per un breve periodo via fax e da qualche tempo tramite e-mail. È l'inizio di una truffa.

I nigeriani la chiamano "419", dal relativo paragrafo del codice penale del loro paese. Qualcuno ti scrive, affermando di avere accesso a ingenti somme di denaro (appropriazione indebita). Questo qualcuno vorrebbe che tu lo aiutassi a portare questo denaro fuori dalla Nigeria (o dalla Russia o dal Brasile o da qualche altro paese). Nigeriani intraprendenti inviano milioni di questi messaggi e, se un destinatario ci casca, chiedono alcuni modesti pagamenti amministrativi per oliare le ruote per la grande manna. Accetta un incontro faccia a faccia con uno di questi faccendieri e ti faranno ballare per un bel po'.

Gli europei di solito parlano o scrivono dei casi di 419 come esempio della tremenda corruzione in paesi come la Nigeria, con un misto di indignazione e divertimento. Meno frequentemente si parla del comportamento dei truffati, generalmente considerati vittime pur essendo in realtà complici. Come fanno i mittenti di queste mail a pensare di attirare qualcuno in Europa con storie assurde di oro e pietre preziose? Il trucco funziona solo perché è chiaro a entrambe le parti che nigeriani, libici o iracheni stanno facendo riciclare i propri soldi sporchi a un europeo "che più bianco non si può". Non sorprende nessuno che agli europei si affidi ciecamente la protezione di milioni di dollari trafugati.

Questo è chiaramente uno dei nostri compiti nell'ambito della divisione globale del lavoro. Altri rubano, noi custodiamo; un dollaro lava l'altro. Ogni e-mail 419 è un segno che la corruzione nel sud del mondo è possibile solo perché i soldi rubati finiscono da qualche parte qui, che si tratti di Londra o Zurigo, Cipro o del Liechtenstein.

Eppure siamo sconvolti dalla portata della corruzione nel sud. Circa 50 miliardi di dollari vengono sottratti ogni anno nei paesi più poveri del mondo. Il capitale fugge a nord. Designare i responsabili dell'andazzo del capitalismo globalizzato non è facile come molti di noi vorrebbero pensare. Transparency International, ad esempio, pensa che la Somalia sia il paese più corrotto sulla terra, mentre il noto giornalista italiano Roberto Saviano, che ha studiato per decenni le organizzazioni in stile mafioso, è dell'opinione che sia la Gran Bretagna (Londra è degenerata in un parco giochi per truffatori internazionali).

Transparency e Saviano hanno ragione entrambi, ma come cittadini europei, dobbiamo prendere atto della nostra schizofrenia. Chiediamo buon governo e ricicliamo denaro sporco, contemporaneamente, con i nostri cuori in cielo e i nostri culi grassi sul divano della compiacenza.

Alla fine del XVIII secolo a Edimburgo viveva un uomo di nome William Brodie, un elegante signore che gestiva una bottega di ebanista ed era rispettato dai suoi concittadini. Di giorno faceva parte del consiglio comunale e soddisfaceva in modo affidabile gli ordini dei suoi clienti; di notte entrava nelle case dei suoi clienti e li rapinava. . . fino a quando un giorno fu arrestato e giustiziato.

William Brodie sarebbe stato da tempo dimenticato se Robert Louis Stevenson non avesse visto in lui un simbolo estremo di un inquietante tratto umano: la doppia personalità. Stevenson scrisse di Brodie tre volte. I primi due tentativi furono flop teatrali, il terzo – una novella frenetica intitolata The Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde – divenne un bestseller.

"Sono nato nel 18-- con una grande fortuna, dotato inoltre di qualità eccellenti, propenso all'industria, affezionato al rispetto dei saggi e dei buoni tra i miei simili, e quindi, come si poteva supporre, con ogni garanzia di un futuro onorevole e distinto”. Così inizia la confessione del dottor Jekyll nel capitolo finale del libro. È un eminente dottore, un uomo che guarisce le persone, che dà valore all'educazione e alla conoscenza e un membro di spicco della società.

Allo stesso tempo, tuttavia, è l'epitome insensibile e brutale dell'avidità cieca, un uomo di nome Mr Hyde.

Non ci sono il dottor Jekyll da un lato e Mr Hyde dall'altro, ma una creatura "impegnata in una profonda duplicità di vita". Inoltre: "Ho visto che delle due nature che si contendevano il campo della mia coscienza, se potevo giustamente dire di essere una, era solo perché ero radicalmente entrambe".

Il dottor Jekyll non è innocente né ingenuo né cieco. Riconosce il nemico dentro di sé e gli piacerebbe molto sconfiggerlo. Alla fine, però, rinuncia alla lotta.

È possibile tracciare una linea diretta tra questa storia e il presente. Ciò che è vero per gli individui può valere anche per le società nel loro insieme. L'Europa – o, per essere più precisi, l'Unione europea – è il dottor Jekyll e Mr Hyde.

Nel 2017 il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha espresso orrore per lo stato dei campi profughi in Libia. "Non riesco a dormire bene quando penso a quello che sta succedendo a quelle persone che sono andate in Libia per cercare di migliorare la propria vita, solo per ritrovarsi all'inferno". L'Europa non deve "tacere di fronte a questo scandaloso problema, che risale a un altro secolo”. Era "molto scioccato" dalle notizie secondo cui i rifugiati in Libia venivano venduti come schiavi. "Fino a due mesi fa non conoscevo la portata del problema. È diventata una situazione costante e urgente".

È facile capire l'orrore di Juncker. In Libia una trentina di rifugiati sono ammassati in celle di meno di cinque metri quadrati e muoiono di fame perché vengono nutriti solo ogni tre giorni. Secondo un rapporto dell'Ong Medici senza frontiere, le loro condizioni di vita peggiorano costantemente. Quasi un quarto dei detenuti nella prigione di Sabaa a Tripoli, la capitale, sono apparentemente denutriti, molti dei quali bambini.

L'Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM) stima che attualmente vi siano circa 670.000 rifugiati in Libia. L'ambasciata tedesca in Niger ha scritto alla Cancelleria tedesca nel 2017, descrivendo cosa succedeva ai rifugiati respinti nel Mediterraneo: "Esecuzioni di migranti che non possono pagare, torture, stupri, ricatti e abbandono nel deserto sono la routine quotidiana. Testimoni oculari hanno parlato di cinque sparatorie a settimana in una delle carceri: queste erano preannunciate e si svolgevano sempre di venerdì per liberare spazio per i nuovi arrivati".

Uno studio della Commissione per le donne rifugiate conclude che praticamente ogni donna che fugge attraverso la Libia è vittima di violenza sessuale. Ci sono testimonianze di stupri con bastoni, genitali bruciati, peni tagliati e uomini costretti a violentare le proprie sorelle. Atrocità inimmaginabili, e tutto negli ultimi due anni.

Quindi cosa ha fatto Juncker per porre fine a tali terribili circostanze?

Niente!

Cosa avrebbe potuto fare?

Molte cose.

Questo perché ciò che sta accadendo in Libia si sta verificando non solo con l'acquiescenza dell'UE, ma anche con finanziamenti diretti dal blocco, dal momento che le guardie di frontiera libiche devono utilizzare tutti i mezzi disponibili per impedire la fuga dei rifugiati. Se i rifugiati subiscono condizioni terribili e muoiono in Libia, è conseguenza diretta di una politica UE mirata.

Tuttavia, sarebbe sbagliato accusare i sostenitori di questa politica, come Jean-Claude Juncker, di ipocrisia. Il suo oltraggio era senza dubbio sincero. È un erede della tradizione europea che ha promulgato ideali universali di solidarietà in tutto il mondo dopo la Rivoluzione francese, abolito la schiavitù e svolto un ruolo decisivo nella stesura della Dichiarazione universale dei diritti umani. Il dottor Jekyll riflette su questo enigma: “Nella mia duplicità, non ero affatto un ipocrita; entrambe le parti erano genuine. Non ero maggiormente me stesso quando mettevo da parte la moderazione e mi immergevo nella vergogna, rispetto a quando lavoravo, alla luce del giorno, per promuovere la conoscenza o il sollievo dal dolore e dalla sofferenza".

L'UE dichiara di "sostenere le autorità nazionali nel migliorare la propria capacità di combattere i trafficanti". In realtà, tuttavia, la distinzione tra le autorità libiche e le bande di trafficanti è alquanto labile.

"I governi e le istituzioni europee continuano a dire che sostengono la fine della detenzione arbitraria di rifugiati e migranti, ma non hanno intrapreso alcuna azione decisa per garantire che ciò accada", ha affermato Matteo De Bellis di Amnesty International.

I politici europei parlano come il dottor Jekyll e si comportano come Mr Hyde. Il ministro tedesco dello sviluppo internazionale, Gerd Müller, elabora piani su piani per salvare il mondo, ma poco è successo durante il suo mandato.

Il ministro vorrebbe che le società occidentali cambiassero radicalmente il proprio stile di vita. "Non dovremmo più trarre la nostra prosperità dal lavoro di schiavi e bambini e dallo sfruttamento del nostro ambiente". Nel suo libro Unfair scrive: "Dobbiamo raggiungere uno stato che permetta a ogni persona sul pianeta di vivere in modo dignitoso. L'obiettivo è quello di soddisfare le esigenze fondamentali di tutti in termini di cibo, acqua, alloggio e lavoro, e per i paesi industrializzati, che hanno già acquisito questi beni materiali, ciò significa che dobbiamo imparare a condividere. A lungo termine non ci deve essere e non ci sarà ulteriore crescita a spese degli altri".

In un discorso in onore dell'agenzia di aiuti cattolica Misereor un anno fa, ha dichiarato: "Invece di 'Mi dispiace' ora dovremmo dire 'Mi prendo la responsabilità per quelle cose che sono in mio potere'. E abbiamo potere! Come consumatori. Come imprese che producono in tutto il mondo. Come politici di grandi potenze economiche".

Ha continuato citando la sfida del cardinale Frings a fare appello alle coscienze di coloro che determinano le condizioni politiche, economiche e sociali. È tutto molto onorevole: il Ministro Jekyll sta formulando una chiara missione etica, che ognuno di noi percepisce in momenti chiave. Mia figlia ha imparato a scuola che un prosperoso cittadino svizzero utilizza le stesse risorse di un intero villaggio africano. Se fossimo su una zattera, tale comportamento parassitario e antisociale non sarebbe tollerato.

La politica della vita reale è diversa, però. Ogni organismo internazionale impedisce riforme indispensabili al sistema economico e finanziario globale. Negli ultimi quattro decenni ci sono stati tentativi a vari livelli amministrativi delle Nazioni unite di collegare condotta economica e diritti umani e approvare regole vincolanti. Più recentemente, un anno fa il Gruppo di lavoro intergovernativo (IGWG) sulle società transnazionali e i diritti umani ha pubblicato un progetto di accordo su impresa e diritti umani. Questa "bozza zero" – così chiamata per dimostrare che è provvisoria e modificabile – è stata il risultato di anni di contrattazione tra i partecipanti. Verrà ora "discussa": un eufemismo per la sterilizzazione di qualsiasi restrizione rigorosa e giuridicamente vincolante sulle azioni spesso brutali e quasi sempre sfruttanti delle aziende internazionali nei paesi più poveri.

Parallelamente, agli sforzi dei paesi del Sud globale per essere ammessi al comitato per la politica fiscale internazionale dominato dall'OCSE è stato posto il ​​veto dal Nord, compresa la Germania. Questo avrebbe "aumentato le opportunità fiscali dei paesi più poveri per determinare misure normative internazionali, ad es. chiusura dei paradisi fiscali, lotta all'evasione fiscale e lotta alla concorrenza per il dumping fiscale".

Solo due decenni fa, la riduzione del debito per i paesi più poveri era una questione politica di alto profilo. Tutto ciò che ostacolava la cancellazione dei debiti dei paesi in via di sviluppo era l'avidità e l'egoismo dei paesi industrializzati. Al giorno d'oggi, questi paesi difendono i propri vantaggi con le unghie e con i denti. Quando il ciclone Idai ha recentemente devastato parti del Mozambico, gli appelli strazianti per la riduzione del debito sono caduti inascoltati. Secondo le statistiche del FMI, il Mozambico è uno dei trentacinque stati che si trovano in una crisi del debito esistenziale. Il paese è indietro con i suoi pagamenti e incapace di saldare i debiti in essere.

Ogni volta che si tratta di denaro o la "nostra" prosperità è minacciata, Hyde alza la sua brutta testa e sabota la lotta per la dignità umana e una buona vita per tutti.

Invece di regole vincolanti, l'UE e il governo tedesco (incluso il ministro Müller) optano per schemi volontari per gli standard ambientali e sociali.

Un anno fa ho guidato per due ore buone attraverso il nord del Borneo e, a perdita d'occhio su entrambi i lati della strada, non c'era nient'altro che palme da olio dove, solo una generazione fa, fioriva la giungla. La vista: monocoltura alimentata chimicamente e crescita che porta alla morte (dopo due decenni i terreni sono completamente esauriti). Le dichiarazioni di Amsterdam ora incoraggiano i commercianti, le aziende agricole e le imprese alimentari che hanno contribuito alla distruzione della natura per diversi decenni a impegnarsi volontariamente in standard più rigorosi come parte di piattaforme multi-stakeholder e a incardinare i loro modelli di business su una base più sostenibile. Questa vecchia idea ha solo uno svantaggio: non funziona.

Hyde è particolarmente dilagante in agricoltura. Sebbene l'ultimo Rapporto mondiale sull'agricoltura invochi un cambiamento radicale nell'agricoltura globale, l'UE e i suoi stati membri più potenti continuano a spingere per l'espansione dell'agricoltura industriale completa di uso intensivo di fertilizzanti, pesticidi e semi brevettati. Ciò serve principalmente gli interessi e i profitti delle società agricole coinvolte, mentre i metodi agro-ecologici sostenibili sono quasi ignorati.

Ci si potrebbe strappare i capelli di fronte a questa schizofrenia profondamente radicata, ma ci sono anche segni di speranza. La schiavitù era tanto normale alla fine del diciottesimo secolo quanto le navi container oggi. Quando piccoli gruppi in Gran Bretagna iniziarono a mettere in discussione la sua legittimità, le loro convinzioni etiche furono respinte perché il commercio di schiavi transatlantici era immensamente redditizio per il Regno Unito. Garantiva posti di lavoro, enormi ricchezze e flusso di beni di consumo. Questa era una giustificazione sufficiente. È lo stesso oggi per quanto riguarda le enormi disuguaglianze sociali e la distruzione ambientale. Le argomentazioni di Mr Hyde sono dure a morire. Eppure cinquant'anni di lotta politica alla fine hanno portato all'abolizione della schiavitù in Europa.

Anche questo fa parte della tradizione europea. In Crisis in Civilization, la forte accusa di Rabindranath Tagore al dominio britannico in India, il poeta cerca di distinguere tra resistenza all'imperialismo e rifiuto della civiltà occidentale. Da un lato, l'India era “soffocata dal peso morto dell'amministrazione inglese"; dall'altro, non dovrebbe mai dimenticare ciò che il paese aveva guadagnato attraverso il dramma di Shakespeare e la poesia di Byron e soprattutto "il liberalismo di buon cuore della politica inglese del diciannovesimo secolo". L'aspetto tragico, tuttavia, era che "ciò che era veramente il migliore nelle loro stesse civiltà, la difesa della dignità delle relazioni umane, non ha posto nell'amministrazione britannica di questo paese".

Non è un segreto che la storia del dottor Jekyll e di Mr Hyde si concluda male. Robert Louis Stevenson, grande viaggiatore scozzese, aveva incapsulato la duplice natura europea con notevole prescienza: “Henry Jekyll si trovava a volte inorridito davanti agli atti di Edward Hyde; ma la situazione era staccata dalle leggi ordinarie e allentava insidiosamente la presa della coscienza. Era Hyde, dopo tutto, e solo Hyde, a essere colpevole. Jekyll non stava peggio; si svegliava di nuovo con le sue buone qualità apparentemente intatte; si sarebbe anche affrettato, ove possibile, a cancellare il male fatto da Hyde. E così la sua coscienza sonnecchiava".
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 30, 2019, 20:28:41 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Giornaliste-e-molestie-online-la-riscossa-parte-dalla-Bosnia-195974

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Giornaliste e molestie online: la riscossa parte dalla Bosnia

Pane quotidiano nelle redazioni balcaniche e fattore di rischio per la libertà di stampa secondo gli organismi internazionali, la violenza verbale tramite internet contro le donne nei media è ovunque in aumento

22/08/2019 -  Paola Rosà
“L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno sono le leggi speciali – argomenta da Belgrado Tamara Skrozza del settimanale Vreme (Tempo) – anche perché se le donne giornaliste ottenessero delle tutele particolari questo non farebbe che peggiorare la situazione, confermando agli occhi dei colleghi l'immagine di un soggetto particolarmente vulnerabile, complicato e difficile”.

Complicata e difficile rimane invece la quotidianità di lavoro – nei Balcani ma non solo – fatta di minacce online, ingiurie, intimidazioni. Tanto che, secondo una recente inchiesta di BIRN, network di ong e giornalisti attivi su diritti umani e democrazia nei Balcani, le molestie online sarebbero per le giornaliste “pane quotidiano”.

“A causa della tendenza, profondamente radicata nella società bosniaca, a denigrare le donne emergenti in generale, molte delle mie colleghe preferirebbero ingoiare gli insulti piuttosto che denunciarli pubblicamente”, conferma da Sarajevo Elvira Jukić, caporedattrice del portale del centro ricerche Mediacentar. “Denunciare significa spesso rischiare il posto di lavoro, essere disprezzate dai colleghi o gettare un'onta sulla propria famiglia”.

Un allarme globale
Sottocategoria delle minacce ai giornalisti, la fattispecie delle molestie online declinate al femminile è una tipologia di attacco alla libertà di stampa e alla sicurezza dei reporter che il Rappresentante OSCE per la libertà dei media ha identificato già nel 2015, quando è stato lanciato il progetto SOFJO sulla tutela delle giornaliste da minacce online. Da allora, si legge in una raccomandazione dell'OSCE dello scorso febbraio, sono state raccolte innumerevoli testimonianze di molestie sessuali e campagne denigratorie subite da donne: “Le giornaliste donne affrontano un peso doppio: possono essere attaccate in quanto giornaliste e in quanto donne”. E l'escalation degli ultimi mesi è una minaccia per il giornalismo e di conseguenza per la democrazia.

Lo spazio senza regole del web, spazio di libertà di espressione ma anche territorio di abusi e censura ai danni delle voci “del dissenso e marginalizzate”, dovrebbe arricchirsi secondo l'OSCE di una cautela maggiore per i diritti umani e per la trasparenza sull'azione di algoritmi, troll e bot, mentre la politica è chiamata a impegnarsi a trovare “risposte innovative”, allargando la collaborazione alle vittime e ai gestori delle piattaforme.

Oltre all'OSCE, anche Nazioni Unite, Unesco e Parlamento Europeo hanno affrontato il tema di recente, vuoi come questione legata al rispetto dei diritti umani, vuoi come specifica tipologia di minaccia alla sicurezza dei giornalisti ma anche in quanto discriminazione di genere. “Mentre i giornalisti maschi vengono attaccati per le loro opinioni o per la competenza professionale, è più probabile che le donne vengano colpite da ingiurie sessiste e invettive a sfondo sessuale”, si legge ad esempio nella raccomandazione del Consiglio d'Europa per combattere e prevenire il sessismo adottata a fine marzo 2019.

Durante la conferenza dell'Unesco del 18 giugno scorso, quando oltre 200 delegati nazionali, giornalisti e avvocati si sono incontrati a Parigi, è stata anche annunciata l'intenzione di effettuare uno studio su “misure efficaci in grado di contrastare le molestie online che colpiscono le giornaliste”. Il fenomeno è in crescita e l'attenzione delle istituzioni non è da meno. Secondo un rapporto dell'ONU del 2018, quasi un quarto delle donne in generale ha subito qualche forma di violenza online, e ad essere più colpite, insieme alle appartenenti a minoranze etniche e a lesbiche e transgender, sono giornaliste e blogger: “Ai reati commessi in rete gli Stati dovrebbero applicare una prospettiva di genere – raccomanda l'ONU – e la pubblicazione periodica delle violazioni dovrebbe comprendere una casistica di genere”.

Una minaccia alla libertà di stampa
Che non si possa prescindere da una questione di genere sembra confermarlo l'analisi condotta dalla rivista Feminist Media Studies che ha passato al setaccio i circa 70 milioni di commenti lasciati dai lettori sul portale del Guardian nel decennio dal 2006 al 2016: a prescindere dal tema trattato, i pezzi firmati da donne hanno registrato una percentuale molto più alta di commenti poi bloccati. E un sondaggio del 2018 effettuato dalla Federazione internazionale dei giornalisti con sede a Bruxelles evidenzia che il 66% delle giornaliste vittime di violenza online lo sono state per il fatto di essere donne, mentre delle 600 interpellate dalla International Women’s Media Foundation quasi i due terzi hanno subito un attacco online intriso di minacce a sfondo sessuale. E gli attacchi avrebbero ottenuto l'effetto sperato, portandone quasi il 40% ad abbandonare il tema su cui stavano lavorando.

“Mi sono accorta che queste ondate di odio hanno cambiato il mio modo di fare giornalismo – ammette Elfie Tromp, una delle giornaliste intervistate dall'Associazione dei giornalisti olandesi lo scorso maggio – piuttosto che ritrovarmici travolta, ho preferito evitare certi argomenti per qualche tempo, dicendomi che non valeva la pena, per quel poco che guadagno col giornalismo”. La geografia delle molestie e dell'autocensura travalica i confini dei paesi tradizionalmente tutori e paladini della libertà di stampa, e anche nei Paesi Bassi c'è poco di cui rallegrarsi: su 350 intervistate, più della metà ha ammesso di essere stata minacciata e per il 70% di loro queste minacce hanno in qualche modo ostacolato il libero esercizio della professione di giornalista.

Per raccogliere segnalazioni ed elaborare strategie difensive, ci si muove anche nei Balcani: la rete di BIRN ha aperto a metà giugno una sezione dedicata. “Vogliamo conoscere la tua esperienza di vittima di violenza online, che si tratti di attacchi, molestie o minacce”, si legge sulla pagina che spiega come queste subdole tipologie di attacco ricorrano a “sessismo, discorsi degradanti e commenti su aspetto e rapporti personali, nel tentativo di screditare, umiliare e non da ultimo far tacere le donne giornaliste”.

Il Resource Centre

Per approfondimenti e altri materiali, analisi, sondaggi e studi sulla libertà di stampa in Europa si può consultare il Media Freedom Resource Centre, una piattaforma in continuo aggiornamento gestita da OBCT nell'ambito del progetto ECPMF.

Le donne si alleano contro la tempesta perfetta
“Nei Balcani denigrare le donne è qualcosa che si fa normalmente – scrive la freelance Lidija Pisker da Sarajevo – e attaccare online una donna è come dirle ciao. In molti casi, sono i media a incoraggiare tali atteggiamenti”. La conferma arriva da Duška Pejović, giornalista televisiva della rete pubblica del Montenegro (RTCG), che riporta la questione sul piano della mentalità e della cultura: “Negli anni Novanta conducevo un programma sui diritti delle donne e la decostruzione del patriarcato […] tanto che sono stata nel mirino di un fiume di insulti perché ero una donna che violava le regole della tradizione. Sono stata minacciata soprattutto di stupro”.

A distanza di anni, le minacce si sono forse modernizzate nel medium rimanendo tuttavia le stesse nei contenuti. “L'immagine stereotipata della donna resta ancora presente nei media in Montenegro”, continua Duška, e questo nonostante il principio di parità di genere sia esplicitato in numerose norme, internazionali e nazionali. Secondo Mehmed Halilović, giornalista di lungo corso ora nel direttivo del Centro per il giornalismo investigativo di Sarajevo, le giornaliste nei Balcani si trovano ad affrontare una “tempesta perfetta”, la combinazione di un'antica diffusa misoginia e di un moderno e rinnovato disprezzo per i giornalisti.

Azzeccata quindi l'analisi di Tamara Skrozza da Belgrado: non servono nuove leggi, bisogna piuttosto “riprogrammare nel complesso l'atteggiamento della società nei confronti della donna”. E per arrivarci, sono le donne, le giornaliste, a dover imparare a costituire massa critica, a solidarizzare, a denunciare. Come stanno facendo in Bosnia Erzegovina, dove a metà luglio è nata la Rete delle giornaliste, una sorta di “casa sicura” da cui trarre incoraggiamento, idee e competenze nella lotta per migliorare i propri diritti professionali.

Perché di questo si tratta. Di difendere l'accesso alla professione tutelandone la qualità, come ben spiega Maja Nikolić, giornalista di Radio Free Europe: “La creazione della rete sarà a vantaggio di tutta la comunità dei giornalisti, anche dei nostri colleghi maschi che spesso, troppo spesso se ne stanno in silenzio”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Settembre 13, 2019, 00:53:50 am
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SERBIA: L’urbicidio progressista di Belgrado
Giorgio Fruscione 1 giorno fa

Quando scriviamo di urbicidio nei Balcani sareste tenuti a pensare subito a Vukovar, Mostar o Sarajevo. E invece oggi vi parliamo di Belgrado e la guerra, questa volta, non c’entra niente.

“Non è vero che Belgrado fa schifo, ci siamo stati quest’estate, ci siamo divertiti moltissimo e ci è piaciuta un sacco”, direte. E ci mancherebbe altro. Belgrado ha un’anima e uno spirito indistruttibili. Ma oltre agli splav – i locali sulle chiatte attraccate sulla Sava – una capitale dovrebbe offrire anche un aspetto decente, e rispettoso degli spazi verdi, specie durante la stagione turistica.

Da mesi la nuova amministrazione cittadina, il cui sindaco è un medico che non viene mai nominato se non quando lo chiamano per andare a inaugurare le casette per gli uccellini (per la cronaca, e per quei belgradesi che ancora non lo sapessero: si chiama Zoran Radojicic), ha stravolto l’aspetto e l’assetto del centro di Belgrado.

Dopo aver eretto una fontana cantante con luci al neon fucsia e arancioni nel centro di Slavija – la rotonda gigante che smista (a fatica) il traffico delle principali arterie urbane della capitale – non hanno risparmiato nemmeno piazza della Repubblica. Quella col cavallo. Dove vi sarete trovati anche voi quest’estate e dove da secoli si incontrano i belgradesi. Da così tanto tempo, che quando hanno iniziato a scavare hanno scoperto dei vecchi resti archeologici. Si trattava della base di una porta barocca del diciottesimo secolo. Ma invece di farne tesoro, studiare un modo per renderla visibile ai turisti, porvi una teca e farne bene pubblico, è stata in qualche modo impacchettata e ricoperta di cemento. Pare, per il bene stesso dei resti.

Dopo più di un anno, i lavori sono finalmente finiti. Ma non i disagi derivanti dalle deviazioni del trasporto pubblico. Il traffico si congestiona proprio sulla piazza, in direzione Francuska, una delle vie principali del centro.
Oggi piazza della Repubblica è così:

Un trionfo di cemento. Anche attorno ai tronchi dei pochissimi alberi piantati, di cui uno – incredibilmente – è già morto. Qualcuno su Twitter scherza, ma neanche tanto: sembra Tirana all’epoca di Enver Hoxha. È l’estetica del partito di governo, dei progressisti del presidente Vucic. Di progressista ha l’alchimia del trasformare una bella piazza in un’accozzaglia di mattonelle pronte a distruggersi, fra qualche mese. E tutto questo cemento è costato ai contribuenti ben 10 milioni di euro.

Per chi non ci è stato se non questa estate, la piazza prima era così:

È successo anche a Slavija. Per far posto alla fontana più kitsch del sudest Europa, hanno rimosso il busto e i resti di Dimitrije Tucovic (teorico socialista morto nella Grande guerra) e sui marciapiedi adiacenti hanno impiegato mattonelle che sono durate un quarto del tempo rispetto a quanto sono durati i lavori su tutta la rotonda. Ma la Serbia progressista è così. Crea disagi là dove ci sarebbe anche bisogno di fare lavori, ricostruisce con una totale assenza di verde, e di gusto, una piazza, ma senza cambiarne la funzionalità urbana. E a Slavija ce n’era veramente bisogno. Quei getti d’acqua altissimi che ripetevano (il meccanismo in realtà ha smesso di funzionare) a disco rotto le stesse 3 canzoni sono costati quasi 2 milioni di euro. Con quei soldi avrebbero potuto migliorare la gestione del traffico che da decenni si congestiona a Slavija. E invece no. Cattivo gusto e cattivo cemento.

Le mattonelle hanno cominciato ad avere crepe e devastarsi  pochi mesi dopo la fine del “rinnovo”. Ma ci saranno dei lavori di manutenzione. E saranno pagati dai belgradesi, che avranno altri disagi, altro kitsch e altra devastazione di Belgrado.

E poi progredisce anche “Belgrado sull’acqua”. Faraonico progetto edilizio sponsorizzato dagli emiri che vogliono una Dubai nei Balcani e che è stato caratterizzato da numerosi scandali. Si tratta di un agglomerato di palazzoni “moderni” lungo la Sava, là dove correva la ferrovia (spostata ora in un posto che nessun belgradese conosce) e dove per anni non si è costruito niente di niente. Forse perché il terreno pregno d’acqua non garantirebbe la tenuta di un grattacielo? Ma Vucic l’ha definito “un progetto di interesse nazionale”. E ci mancherebbe. Tre miliardi e mezzo di euro, garantiti per lo più dal budget della Serbia, cioè dai contribuenti, mentre dagli Emirati è arrivata la società per realizzare un progetto che cambierà per sempre il magnifico skyline della capitale serba.

Una devastazione che va avanti imperterrita, e senza alcun rispetto degli spazi verdi, da quando l’amministrazione progressista è guidata – invece che dall’innominato a cui piacciono gli uccellini – dal vicesindaco Goran Vesic, piccolo quadro di partito. Di tutti i partiti. Democratico quando il Partito Democratico governava, e ora progressista fedelissimo di Vucic. Vesic, che di fatto agisce da primo cittadino, ha spesso dichiarato di voler lasciare una traccia indelebile sulla città. E ci sta ampiamente riuscendo. Ma la voglia di mostrar fedeltà alla causa progressista costa ai belgradesi questo urbicidio.

Potremmo parlarvi anche della costruzione della “gondola” (in realtà una cabina teleferica) che unirà la centralissima fortezza di Kalemegdan con la sponda di Nuova Belgrado e del come, per farle spazio, sono state abbattute decine e decine di alberi secolari senza interpellare la cittadinanza; o del come resiste parte della popolazione, organizzata o meno, contro questi continui scempi e collassi urbani.

Ma vi annoieremmo e voi forse volete comunque conservare un buon ricordo di Belgrado. Lo conserveranno anche i belgradesi, ricordando quanto fosse progressista la loro città prima che arrivassero i progressisti.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Settembre 13, 2019, 00:55:50 am
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EUROPA: Il problema è il nazionalismo tedesco (anche se nessuno lo dice)
Matteo Zola 1 giorno fa

Da molti tempo i tedeschi non si permettevano un livello di nazionalismo come quello che siamo stati costretti a osservare, con crescente preoccupazione, nell’ultimo decennio. E non s’intende solo il nazionalismo espresso dai partiti dell’estrema destra tedesca, sempre più protagonisti della politica locale, ma di un nazionalismo istituzionale, diffuso tra le élites politiche, economiche e finanziarie del paese. Un tipo di nazionalismo che non indossa camicie brune, che non è revisionista o nostalgico, che non coltiva ambizioni pangermaniste. Un nazionalismo che però, alla revanche populistica, patriottarda, euroscettica dell’estrema destra ha spianato la strada, inoculando all’interno dell’animo tedesco i germi del male antico.

L’agone dove tale nazionalismo ha dato miglior mostra di sé è l’Unione Europea, che Berlino afferma di sostenere ma che di fatto ha piegato ai propri interessi minando la “casa comune” alle fondamenta.

È stata ed è la politica tedesca ad aver proclamato il principio secondo cui i problemi dei singoli stati membri, si tratti di quello greco, portoghese, italiano, non sarebbero problemi europei. È stata ed è la politica tedesca ad aver fatto del Consiglio europeo un organo di tutela dei propri interessi nazionali, piuttosto che il luogo dove tali interessi vengono messi in secondo piano, abbassando sistematicamente l’asticella dell’integrazione europea e riducendo l’UE a un mero spazio di rivendicazione di interessi nazionali. L’UE, almeno in teoria, non dovrebbe essere questo: anzi, dovrebbe essere il luogo dove l’interesse nazionale viene tutelato in un’ottica di cooperazione post-nazionale. La tutela dei propri interessi a scapito di quelli altrui è invece stata la cifra della politica europea tedesca, alimentando frustrazioni e opposti nazionalismi negli altri paesi membri.

La Germania ne ha certo ricavato un vantaggio immediato, la sua industria è uscita quasi indenne dalla crisi iniziata nel 2009, aprendo anzi spazi di penetrazione negli stati limitrofi, specialmente quelli dell’est Europa. La Germania è oggi il primo partner economico della Polonia, dell’Ungheria, della Repubblica Ceca, della Croazia, dell’Ucraina, dei paesi baltici, e questo significa influenza politica su quella parte di continente che, salvo qualche rara sparata propagandistica, ha sempre appoggiato la linea di Berlino in Europa. Una linea che blocca regolarmente lo sviluppo di politiche condivise. Una linea di fatto contraria agli interessi “paneuropei”.

L’UE ha perso la sua missione unificatrice, è diventata luogo di confronto e competizione in cui gli stati più forti cercano di ottenere vantaggi a scapito di quelli più deboli. La reazione ‘controrivoluzionaria‘ di Orban e Kaczynski si nutre anche di questo. Il terreno fertile per il germogliare del populismo euroscettico l’hanno prodotto le élites politiche tedesche.

Il terreno fertile per il germogliare del populismo euroscettico l’hanno prodotto le élites politiche tedesche

Ma il fatto più scandaloso è stato il costruire, da parte di alcuni politici tedeschi e di un sistema mediatico non sempre responsabile, un capro espiatorio, un nemico immaginario di volta in volta incarnato nel “parassita straniero”, nel greco che non paga i debiti, nell’italiano spendaccione. E poco conta che i greci siano stati costretti da Berlino, in cambio degli aiuti economici, a comprare armamenti tedeschi: soldi che potevano servire agli ospedali e alle scuole, ma attraverso cui la Germania ha di fatto finanziato la propria industria bellica.

Ora che queste politiche miopi stanno portando la Germania alla recessione, ora che il seme dell’odio verso lo straniero è stato piantato, ora che l’UE è stata ridotta a un organismo incapace di agire sui problemi, non ci si sorprenda dell’ascesa dell’ultradestra nella stessa Germania come nel resto d’Europa. La miopia tedesca, la loro interpretazione egoistica dell’europeismo, il loro cinico sfruttare l’UE per ampliare la propria influenza sul continente e la propria competitività economica, sarà la causa del disfacimento dell’Unione.

Le recenti elezioni europee hanno portato un mediocre ministro della Difesa tedesco alla guida della Commissione. Una persona che a quella decostruzione d’Europa ha partecipato e che ebbe l’agio di dire che la Grecia, in cambio degli aiuti, doveva offrire come garanzia la propria riserva aurea, una persona che è stata coinvolta in uno scandalo legato agli approvvigionamenti militari, con sospetti di corruzione e nepotismo. Una persona inadatta a correggere la rotta del Titanic europeo.

Chi plaude all’uscita del Regno Unito dall’UE, chi schernisce le goffe e impacciate politiche di Londra in questa fase storica, sappia che non riderà per ultimo. La Germania è il malato d’Europa, e sta consumando il corpo stesso del vecchio continente. Solo un atteggiamento paneuropeo, rinnovato e consapevole, da parte dei principali paesi dell’Unione potrà forse salvare dal naufragio. Altrimenti, si spera, che da Londra ci lancino un salvagente.

O Freunde, nicht diese Töne!
Sondern laßt uns angenehmere anstimmen
und freudenvollere!
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Settembre 13, 2019, 01:02:40 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Pride-l-orgoglio-di-Sarajevo-196467

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Pride: l'orgoglio di Sarajevo

Partecipazione numerosa, nessun incidente, manifestanti visibilmente commossi. E dal palco si dedica il primo Pride di Sarajevo a tutti gli oppressi della Bosnia Erzegovina

09/09/2019 -  Alfredo Sasso
Applausi spontanei, urla di incitamento, tamburi battenti, sorrisi e abbracci, lacrime di commozione e gioia. Ieri una travolgente onda di energia, emozione e riscossa collettiva ha riempito il cuore di Sarajevo, il tratto tra il monumento della Fiamma Eterna e il piazzale del Parlamento, con circa 2000 persone. Per capire a fondo la portata dell’evento bisogna guardare indietro. “Nessuno osa nemmeno contemplare di organizzare un Pride a Sarajevo o in un’altra città della Bosnia Erzegovina” sosteneva nel 2017 un articolo  che suscitò polemiche  . Ancora nell’autunno 2018, alcuni attivisti commentavano rassegnati che sarebbe stato molto improbabile organizzarne uno a breve. Continuavano a pesare le memorie delle aggressioni violente subite dalla comunità lesbiche, gay, bisessuali, trans e intersessuali, queer (LGBTIQ) nel 2008, 2014 e 2016  .

In Bosnia Erzegovina il dogma dell’eterosessualità si è rafforzato dopo le guerre degli anni Novanta e la successiva ondata di militarismo, nazionalismo e desecolarizzazione. Ma le associazioni LGBTIQ hanno continuato ad aprire piccoli spazi di protezione e visibilità. E sono arrivati ad esigere ciò che ad alcuni, a torto, sembrava impossibile: il primo Pride nell’ultimo paese dell’ex-Jugoslavia e di tutto il sud-est Europa in cui non si era mai organizzato, dunque “L’ultimo primo Pride”. Fu annunciato cinque mesi fa, suscitando le minacce di gruppi radicali e l’indignazione delle forze conservatrici – di tutte le confessioni - che dominano la scena pubblica bosniaca, e si è tenuto ieri.

Corteo e commozione
La giornata è cominciata presto. I primi attivisti sono arrivati molte ore prima dell’inizio previsto per le 12, accompagnati da un impressionante dispiegamento di forze dell’ordine, con più di 1000 agenti - presenti anche tiratori scelti sui piani alti - e un unico punto di accesso al corteo, con controlli stretti. Su cartelli e striscioni si leggevano alcuni messaggi rivendicativi e altri con richiami universali: “L’amore non è un privilegio”, “Orgoglio senza pregiudizio”, “Quanto costa la libertà?”, “Noi siamo famiglia”, “Lui ama lui”, “Mamma, eccomi qui!”. “Uguali diritti per tutti non significa meno diritti per te!”, “Scusate se la mia esistenza distrugge i vostri pregiudizi”, “Difendiamo i rifugiati”, “C’è da vietare i fascisti” (sottintendendo “non noi”, per le richieste di proibire la marcia avanzate fino a pochi giorni fa).

A un’ora dall’inizio il corteo ha iniziato a ingrossarsi, segnale che un pezzo significativo della città ha voluto sfidare il clima di paura e di indifferenza, ha riabbracciato la propria pluralità e la vocazione all’apertura, incontrando i tanti pezzi di mondo giunti per l’occasione. C’erano le Donne in Nero di Belgrado, collettivi LGBTIQ di Serbia, Montenegro, Croazia e Albania, rappresentanti di diverse ambasciate - tra cui quella italiana -, attivisti venuti a sostenere la marcia dalla Germania, dal Regno Unito, dall’Italia, e naturalmente da tutta la Bosnia Erzegovina: Mostar, Banja Luka, Tuzla, Zenica. Appena si è capito che i pessimismi della vigilia erano infondati – sottovoce si temeva un corteo raccogliticcio limitato a poche centinaia di attivisti abituali - la tensione si è sciolta.

Per scelta degli organizzatori non c’era musica amplificata. Eppure dal corteo si è liberato subito il canto potentissimo di “Ay Carmela”, la leggendaria canzone dei repubblicani spagnoli che nei paesi post-jugoslavi è l’inno popolare contro fascismo e autoritarismo. Poi è partito lo slogan-icona del Pride sarajevese, “Ima izać!” (“C’è da uscire!”), seguito da “Ponos!” (orgoglio). A quel punto si è allentato persino il rigidissimo protocollo di sicurezza delle forze dell’ordine, una scorta talvolta apparsa perfino troppo invadente (ma va riconosciuta l’estrema professionalità e l’efficacia nel prevenire incidenti; l’organizzazione è stata impeccabile). È diventato chiaro che è la partecipazione e il sostegno civile, e non (solo) le transenne e le scorte, a creare uno spazio protetto e libero. Il momento più temuto per la sicurezza è stato quello in cui il corteo è passato a un centinaio di metri dalla contro-manifestazione di un’associazione ultraconservatrice musulmana, presente con alcune decine di manifestanti. La circostanza è passata inosservata alla stragrande maggioranza del Pride: ben più attenzione è stata riservata alle diverse persone, soprattutto anziane, che salutavano dalle finestre. Quando il corteo è giunto al piazzale davanti al parlamento, molti manifestanti erano visibilmente commossi.

“Oggi come mai finora, noi lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e queer smettiamo di essere invisibili. Oggi come mai finora, lotteremo per le nostre vite. Vogliamo costruire una società di non-violenza e comunità, dove nessuno dovrà nascondere l’amore e vivere dentro quattro mura”, ha detto dal palco Lejla Huremović, una delle organizzatrici della marcia. Le “quattro mura”, un riferimento tipico nella narrazione omofoba e transfoba, in questi giorni si ascolta quasi ossessivamente nei discorsi dei politici conservatori. “Siamo coscienti che questa marcia non cambierà il mondo. Ma sappiamo che darà speranza per cambiare davvero le cose”, ha concluso Huremović.

Antifascismo e diritti
In una piazza che brulicava di partecipazione, l’attivista Branko Ćulibrk ha ricordato chi mancava. “Sentiamo grande responsabilità verso tutti coloro che per paura di violenze e discriminazioni, non se la sono sentita di essere con noi. Ogni giorno lottiamo per la nostra esistenza. Ogni giorno il nostro amore e la nostra identità sono attaccati, non accettati, sminuiti, aggrediti”. Ćulibrk ha ricordato le lacune delle istituzioni del paese che “permettono violenza contro di noi, ci stigmatizzano, ci emarginano, ci costringono a trattamenti forzati, vietano un’educazione sessuale democratica. Continuiamo a non avere nessuna legge sulle coppie omosessuali. Alle persone trans non è permesso l’accesso alla sanità pubblica, non possono cambiare i documenti se non hanno compiuto la transizione”.

Nella conclusione Ćulibrk ha lanciato, ancora una volta in questa giornata, un messaggio trasversale: “Sentiamo, per responsabilità e solidarietà, di dover parlare di tutti i gruppi oppressi della società bosniaco-erzegovese: i rom, le persone con invalidità, lavoratori e lavoratrici, i veterani di guerra, i migranti e i rifugiati, e tutti quelli che sono lasciati ai margini. Tra tutti loro si trovano anche persone LGBTIQ, che subiscono una discriminazione multipla. Chiediamo più solidarietà ed empatia verso tutte queste persone”.

Le ultime vibrazioni della piazza si legano alla musica di Damir Imamović, celebre interprete della sevdah, il genere tradizionale bosniaco. “Che ognuno ami chi vuole” (“Neka ljubi ko god koga hoće”): Imamović ha scandito  intensamente queste parole di un celeberrimo brano d’amore della sevdah, prima di chiudere con una sorprendente – e virtuosissima, al netto di una leggera incertezza linguistica - interpretazione di Bella Ciao  . Ricordandoci che l’antifascismo, qui e altrove, non è un’etichetta o un marchio vintage, ma una presa di coscienza necessaria contro lo svilimento della dignità umana e la violenza organizzata che si abbatte su emarginati ed oppressi.

In un cerchio ideale, il Pride si è aperto e si è chiuso con due inni dell’antifascismo europeo, i frammenti migliori del secolo passato in un paese che reclama di vivere e costruire più liberamente il secolo corrente, con tanti spazi e ben più di quattro mura che restano da aprire.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Settembre 13, 2019, 01:19:50 am
Se non fanno il pride gli fanno le rivoluzioni colorate o le guerre...
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: itacel - Settembre 13, 2019, 12:20:05 pm
Nell'incellosphera ci sono alcuni polandcels, EEcels (europa dell'est). Noto che nascono adesso le prime comunità polacche che riguardano l'inceldom, nascono anche in russia e per quello che ne so io sono recenti.

I russi che ho letto con l'aiuto del google translator, usano un termine che mi è piaciuto ed è "vaginacapitalismo". Mi fa piacere che sviluppino un loro gergo e non lo stiano copiando dall'anglosfera.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Settembre 16, 2019, 00:06:32 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Zecovi-alla-ricerca-di-giustizia-196411

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Zecovi, alla ricerca di giustizia

Il 25 luglio 1992 nel villaggio di Zecovi, situato a pochi chilometri da Prijedor e abitato da bosgnacchi, vengono uccisi 150 civili. Tra di loro 29 familiari di Fikret Bačić, tornato in Bosnia a fine guerra per cercarne i corpi e portare i responsabili a processo. Nel giorno della commemorazione dell'eccidio, abbiamo raccolto la sua testimonianza

11/09/2019 -  Nicole Corritore
"Quando arrivate a Prijedor invece che andare verso il centro proseguite in direzione Sanski Most. A poco meno di 5 km troverete una stradina prima asfaltata e poi sterrata che vi porta fino a noi". È Fikret Bačić che al telefono ci dà indicazioni su come raggiungerlo. È il 25 luglio e nella frazione Gradina del villaggio di Zecovi si sta svolgendo la commemorazione dell’eccidio di 150 civili di Zecovi uccisi nel 1992, tra cui 29 familiari di Fikret.

Mentre di fronte alla sua casa donne e uomini distribuiti sul prato cominciano a seguire il “namaz” (preghiera) in memoria delle vittime, Fikret ci accompagna lungo il sentiero che costeggia il recinto del giardino e si ferma di fronte a una lapide a forma di libro.

"Lavoravo in Germania da prima che scoppiasse la guerra, mentre mia moglie e i bambini erano rimasti a vivere qui accanto alle case di tutti i nostri parenti, i miei genitori, i miei fratelli e nipoti, miei nonni, zii e cugini". Inizia così il suo racconto al gruppo di trentini venuti in Bosnia su organizzazione del "Gruppo Bosnia Mori  ", attivo sul territorio di Prijedor da anni.

"In totale massacrarono 29 dei miei parenti, tra i quali mia moglie, mia figlia Nermina di sei anni, mio figlio Nermin di 12 e, tra gli altri, anche il figlio di mio fratello che aveva solo due anni". Lo dice indicando una gettata di cemento al centro del prato. "La casa era lì, accanto a quella di mio padre. Quando sono tornato era tutto raso al suolo e ho dovuto costruirne una nuova accanto alle macerie". Poi si gira di 180 gradi e indica il bosco sul fianco del sentiero: "Ora vedete solo bosco. Dovete sapere che qui era pieno di case, le cui macerie sono state totalmente coperte in 27 anni di abbandono". Aggiunge che attorno alle case, lungo la collina, era coperto da campi coltivati e all’orizzonte, a un chilometro in linea d’aria, si vedevano le case dei vicini serbo-bosniaci: "Se oggi non ci fosse il bosco potreste vederle anche ora, le case di chi ha partecipato al massacro".

Il 23 luglio le forze militari serbo-bosniache assediarono il villaggio e deportarono tutti i maschi adulti, in maggioranza uccisi durante la deportazione o nei lager - Keraterm, Trnopolje e Omarska - in cui vennero rinchiusi, lasciando nel villaggio donne e bambini.

"A donne e bimbi della mia famiglia ordinarono di stare tutti dentro un capannone-deposito che usavamo per gli attrezzi agricoli e un gruppo di soldati rimase a controllarli. Due giorni dopo, il 25 luglio, arrivò un altro gruppo di militari e assieme al gruppo che era qui si avviarono al villaggio di cui là potete vedere il campanile della chiesa, Briševo. Donne e bambini decisero di uscire dal capannone per risalire in casa; dalle finestre del primo piano cominciarono a sentire i colpi d’arma da fuoco che arrivavano da quel villaggio, distante 2,5 km in linea d’aria [a Briševo, abitato da croato-bosniaci, quel giorno avvenne il massacro di 68 persone tra donne, anziani e bambini, ndr]".


Zecovi, la lapide "libro" - foto N.Corritore

Ciò che avvenne viene raccontato da Fikret grazie alla testimonianza di suo nipote Zijad. "Qui, dove adesso c’è questa lapide con i nomi dei miei familiari uccisi, c’era un tavolo. Nel tardo pomeriggio i soldati tornarono e si sedettero a bere un caffè, poi si avviarono alla caserma dopo aver ripetuto alle donne di restare ‘al sicuro’ e non allontanarsi per evitare di rimanere ferite visto gli scontri in corso...".

Al calar della sera cominciò a bruciare la casa di un vicino e sentirono degli spari. Da lì a poco si presentò alla porta un soldato che ordinò loro di uscire: "Le donne presero per mano i bambini e vennero portati accanto a quel muretto, sotto al frutteto. Zijad, che aveva 14 anni, si era attardato per mettersi le scarpe ed era rimasto ultimo. Mentre usciva dalla casa riconobbe nel primo soldato il nostro vicino serbo-bosniaco, Ilija Zorić. Alle prime raffiche di mitra si mise al riparo dietro al muretto e riuscì ad allontanarsi di qualche metro. Da qui, riconobbe tra gli uomini che sparavano un altro vicino, Željko Grbić. Assistette all’uccisione di tutti, compresi sua madre, due fratelli e una sorella... anche il momento in cui un soldato passò tra i corpi per dare il colpo di grazia". Lo stesso scenario si ripeterà poco dopo davanti alla casa della zia, con figli e nipoti; tra questi solo due bambini sopravviveranno alle ferite.

I soldati se ne andarono, sicuri di aver fatto “piazza pulita”. Al calar del buio Zijad decise di andare a chiedere aiuto ad un vicino, suo amico e compagno di classe, serbo-bosniaco, che abitava a 1 km di distanza. Non trovando nessuno si arrampicò al balcone del primo piano per passare la notte al sicuro. Il giorno dopo tornò verso le case dei suoi parenti sperando di trovare qualcuno vivo, ma alla vista dei corpi sul prato non resse e tornò indietro. Fikret prosegue sottolineando l'importanza dell'aiuto che venne offerto al nipote: "Trovò il suo compagno di classe S. e i due genitori, che lo nascosero per otto giorni. Ma dato che l’unità militare responsabile dell’eccidio aveva saputo che era l’unico superstite testimone e lo cercava, non era più al sicuro. Il padre di S. grazie alle sue conoscenze di alto livello da prima della guerra, riuscì a fare arrivare Zijad a Prijedor da dove con un altro zio sfollò a Travnik".

Da Travnik riuscì ad arrivare a Zagabria, in Croazia, dove lo aspettava suo zio Fikret per portarlo con sé in Germania. Appena è stato possibile, dopo la guerra, sono tornati a vivere in Bosnia, nel 1998. Una decisione, racconta Fikret, presa con due obiettivi: "Il primo era trovare i responsabili dell’eccidio e portarli a processo. Il secondo era trovare i corpi dei miei familiari".

Ad oggi i corpi non sono stati ancora trovati: come avvenuto in molti altri casi, dopo le uccisioni sommarie le vittime venivano occultate in fosse comuni. Di recente, i resti di alcuni dei 150 civili uccisi nella municipalità di Zecovi sono stati trovati nella più grande fossa comune finora scoperta, Tomašica - un'enorme area in cui vennero trovati in primi corpi nel 2004 ma soprattutto a decine dal 2013 - ad oggi sono stati esumati i resti di 430 persone.

Fikret e suo nipote Zijad, tornati in Bosnia hanno cominciato a cercare altri testimoni e prove affinché venisse emesso l’ordine di arresto degli indagati e l’avvio di un processo per crimini di guerra. Nel dicembre del 2014  sono stati arrestati 15 ex membri dell'esercito, della polizia e del Centro di crisi serbo-bosniaci di Prijedor: oltre ai due vicini di casa riconosciuti allora da Zijad, anche Dušan Milunić, Radomir Stojnić, Radovan Četić, Duško Zorić, Zoran Stojnić, Zoran Milunić, Boško Grujičić, Ljubiša Četić, Rade e Uroš Grujicić, Rajko Grbić, Zdravko Antonić e Rajko Gnjatović. Il processo a loro carico, iniziato nel giugno del 2015, è in corso presso la Corte di Sarajevo e prevede la comparizione di quasi 100 testimoni. Tra questi, oltre a Fikret e suo nipote Zijad, anche la madre del suo compagno di scuola. L’amico di Zijad e il padre, che gli salvarono la vita, vennero uccisi pochi mesi dopo mentre la madre, rimasta in vita, ha deciso di partecipare alle indagini e oggi è testimone di giustizia sotto protezione.


Zecovi, il gruppo in ascolto di Bačić - foto M.Benedetti

In attesa di ottenere giustizia, presenziando ad ogni dibattito processuale - il prossimo sarà il 13 di settembre - Fikret Bačić partecipa alla ricerca degli scomparsi anche in qualità di membro del direttivo dell’Istituto per la ricerca delle persone scomparse di Bosnia Erzegovina (IOM – Institut za nestale osobe Bosne i Hercegovine  ): "Mancano all’appello ancora 7.200 persone e non è per nulla facile ottenere informazioni da chi ha occultato i corpi o ha anche ‘solo’ visto; ogni tanto ne riceviamo ancora ma il tempo che passa ci è nemico. Eppure continuo a sperare, grazie a qualche pentito, di trovare finalmente anche la mia famiglia".

Un’ora di racconto, durante il quale le 15 persone arrivate dal Trentino sono ammutolite. Viene fatta, prima del solidale saluto a Fikret, solo una timida domanda: "Come riesci a raccontare, ogni volta, e a reggere?". Fikret, tenendo sguardo e voce ferma, ha risposto: "Ogni volta che racconto a persone come voi che hanno voglia di sapere, in realtà trasferisco un pezzo di me che voi vi portate via. Così facendo, mi alleggerite di una parte del peso che porto dentro".

Lasciamo dietro di noi la lapide voluta da Fikret per ricordare, a chi passa da quel sentiero e soprattutto ai giovani, ciò che è riassunto nell'inscrizione in testa ai nomi: “Non dite, per quelli che hanno perso la vita lungo la strada di Allah, che ‘sono morti’. No, loro sono vivi, ma voi questo non lo sapete. 25.07.1992”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Settembre 16, 2019, 00:09:47 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Allargamento-UE-l-Ungheria-a-braccetto-con-la-Serbia-196558

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Allargamento UE: l’Ungheria a braccetto con la Serbia

L'ungherese László Trócsányi è possibile divenga il prossimo Commissario europeo per l'allargamento proprio quando le relazioni tra Ungheria e Serbia sono ottime. Una vicinanza che nasconde grandi e piccoli interessi

13/09/2019 -  Corentin Léotard
(Pubblicato originariamente da Le Courrier des Balkans  l'11 settembre 2019)

Il presidente serbo Aleksandar Vučić è stato l’ospite d’onore del terzo Demographic Summit tenutosi a Budapest il 5 e 6 settembre scorsi. Ricevuto come una star, Vučić ha avuto l’onore di intervenire all’apertura del summit, prima dei rappresentanti dei paesi che, insieme all’Ungheria, fanno parte del Gruppo di Visegrád. "I rapporti tra i nostri due paesi non sono mai stati migliori e siamo felici che [il presidente serbo] sia qui con noi", ha dichiarato la Segretaria di Stato ungherese per la Famiglia Katalin Novák, responsabile dell'organizzazione del summit. Aleksandar Vučić ha ricambiato con parole altrettanto gentili. "È grazie al signor Orbán che le nostre relazioni bilaterali non sono mai state migliori. Vi assicuro che rimarremo fedeli amici del vostro paese", ha dichiarato Vučić, chiamando il primo ministro ungherese ”mio amico Viktor”.

La questione dell’allargamento dell’UE è stata sollevata da Viktor Orbán nel corso di una conferenza stampa convocata al termine dell’incontro tra Orbán e Angela Merkel, tenutosi a margine della celebrazione del trentesimo anniversario del cosiddetto “picnic paneuropeo”, organizzata nella città di Sopron lo scorso 19 agosto. "È una questione di cruciale importanza per l’Ungheria, dato che la frontiera ungherese coincide con la frontiera meridionale dell’Unione europea. Abbiamo un interesse diretto affinché i paesi dei Balcani occidentali entrino a far parte dell’UE il più presto possibile. L’Ungheria chiede quindi all’UE di continuare con l’allargamento", ha dichiarato Orbán, aggiungendo che "la Serbia è un paese chiave e accelerare i negoziati di adesione con la Serbia è nell’interesse non solo dell’Ungheria, ma dell’intera Europa".

L’appoggio di Orbán a una rapida integrazione dei Balcani occidentali nell’UE non è una novità, è una costante della politica estera ungherese ormai da diversi anni, più precisamente dal 2004 quando l’Ungheria è entrata a fare parte dell’UE. Il ministro degli Esteri ungherese Péter Szijjártó difende con fervore questa posizione ai vari summit internazionali, come ha fatto anche il suo predecessore János Mártonyi.

Budapest sostiene che il confine meridionale dell’UE – che in parte coincide con il confine tra Ungheria e Serbia – deve essere allargato (spinto in avanti) affinché l’Ungheria possa svolgere appieno il suo ruolo di crocevia mitteleuropeo. Al momento, il confine dell’area Schengen coincide in parte con il confine tra Ungheria e Serbia, ma anche con quello tra Ungheria e Romania e quello tra Ungheria e Croazia.

La questione della minoranza ungherese
La vicinanza strategica tra Budapest e Belgrado è invece una novità, ed è in gran parte dovuta ai buoni rapporti tra Orbán e Vučić, i cui regimi con tendenze autoritarie mostrano numerosi punti in comune. L’inversione di marcia nella politica estera ungherese – sempre più favorevole al mantenimento dei buoni rapporti con la Russia di Putin – iniziata nel 2014 con la firma di un accordo nucleare tra Budapest e Mosca, ha probabilmente contribuito al recente avvicinamento dell’Ungheria alla Serbia, tradizionale alleata della Russia.

Anche la questione della minoranza ungherese in Vojvodina, provincia settentrionale della Serbia, riveste grande importanza nei rapporti bilaterali tra i due paesi. A prescindere dalle relazioni con i paesi della regione, il sostegno alle minoranze ungheresi presenti nei paesi vicini è uno dei pilastri della politica estera ungherese. Durante i bombardamenti della Nato del 1999 sull’allora Federazione di Jugoslavia, Budapest minacciò di appoggiare la campagna aerea della NATO qualora i serbi avessero attaccato gli ungheresi della Vojvodina. Due anni più tardi, nel 2011, l’Ungheria minacciò di porre il veto alla concessione alla Serbia dello status di paese candidato all’adesione all’UE, a causa di una legge serba sulla restituzione dei beni confiscati durante il regime socialista, ritenuta da Budapest discriminatoria nei confronti della minoranza ungherese.

Nel 2013 i due paesi hanno compiuto uno storico gesto di riconciliazione, quando il presidente ungherese János Áder e il suo omologo serbo Tomislav Nikolić hanno reso omaggio alle vittime serbe e ungheresi dei crimini commessi in Vojvodina durante la Seconda guerra mondiale dalle forze dell’Asse e dai partigiani di Tito. Oggi Budapest considera la Serbia come il paese che ha fatto di più per la tutela della minoranza ungherese e i partiti che rappresentano la minoranza ungherese in Serbia sono diventati preziosi alleati del Partito progressista serbo (SNS) guidato dal presidente Vučić: senza il loro appoggio l’SNS non avrebbe potuto prendere il controllo della provincia della Vojvodina. Al contempo, la minoranza ungherese in Vojvodina è completamente leale a Orbán.

Rapporti d’affari poco trasparenti
L’Ungheria e la Serbia sono attualmente impegnate in un grande progetto infrastrutturale: la costruzione di una nuova rete ferroviaria ad alta velocità tra Budapest e Belgrado. I lavori di costruzione, finanziati dalla Cina, dovrebbero iniziare a breve. Nel frattempo, un’inchiesta giornalistica  , realizzata dal portale ungherese Direkt36 e da Balkan Insight, ha dimostrato che i due paesi sono legati anche da rapporti d’affari poco trasparenti. L’inchiesta ha fatto luce sulle attività dell’azienda Elios, che realizza impianti di illuminazione pubblica, indagata anche dall’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF). Nel 2015, OLAF ha rivelato l’esistenza di “gravi irregolarità” e “conflitti di interesse” nei 35 appalti pubblici vinti dall’azienda Elios, e in 17 casi ha riscontrato “meccanismi di frode organizzata”.

Ricorrendo agli stessi metodi, Elios si è aggiudicata numerose gare d’appalto anche in Serbia, per un importo complessivo di 25 milioni di euro. Dall’inchiesta condotta da Direkt36 e Balkan Insight è emerso che 12 delle 15 gare d’appalto prese in esame sono state vinte dai consorzi di cui facevano parte le aziende legate ad Elios, per un valore complessivo di 25 milioni di euro. Nel 2015, quando OLAF ha rivelato gravi irregolarità nell’attività della Elios, il genero di Viktor Orbán, István Tiborcz, figurava tra i soci dell’azienda. L’inchiesta realizzata da Direkt36 e Balkan Insight ha inoltre rivelato l’esistenza di un legame tra la filiale serba della Elios e alcune persone vicine al governo di Belgrado.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Ottobre 03, 2019, 00:24:11 am
https://www.eastjournal.net/archives/99815

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Ma quale equiparazione tra nazismo e comunismo? La solita miopia
redazione 2 giorni fa

di Francesco Magno e Matteo Zola*

Il 19 settembre scorso il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che ha fatto molto discutere “sull’importanza della memoria europea per il futuro d’Europa”. Il testo della risoluzione è stato presentato dai media  generalisti come una equiparazione tra nazismo e comunismo. Ma è davvero così?

Nessuna equiparazione

Rispondiamo subito, a nostro avviso non c’è un’equiparazione tra le due ideologie. E non c’è una condanna del comunismo nel suo senso più pieno. Certo, si legge a più riprese che l’Unione Sovietica era un regime totalitario. Ma non è forse così? Si mettono poi sullo stesso piano nazismo e stalinismo, che vengono definite ‘ideologie totalitarie’. Vogliamo forse affermare che lo stalinismo non sia stato un regime totalitario e assassino equiparabile al nazismo?

La risoluzione non parla dei partigiani, della lotta di classe, dei diritti dei lavoratori. Parla dell’Europa, com’è ovvio dato che proviene dal Parlamento europeo. Parla soprattutto dell’Europa centro-orientale, che del nazismo e dello stalinismo è stata vittima. Parla dell’URSS e dei regimi comunisti degli stati satelliti che definisce – giustamente – “autoritari”.  O vogliamo affermare che i regimi di Ceausescu, Hoxha, Gomulka, Živkov, fossero paradisi del socialismo realizzato?

Quando nel testo si dice che il Parlamento “invita tutti gli Stati membri dell’UE a formulare una valutazione […] riguardo ai crimini e agli atti di aggressione perpetrati dai regimi totalitari comunisti e dal regime nazista” è ovvio che non parla di Cuba ma dell’Europa orientale. Non c’è, insomma, una equiparazione tra comunismo e nazismo. E sarebbe anche impossibile farla, data la natura multiforme e policentrica di ciò che va sotto il nome di “comunismo”. La risoluzione parla solo di stalinismo, di Unione Sovietica, di regimi autoritari negli stati satelliti. E questo appare ancor più evidente quando si cita Witold Pilecki, eroe di Auschwitz, ucciso dai “liberatori” sovietici. Che liberatori non furono.

La memoria degli altri

Non lo furono per polacchi, boemi e moravi, slovacchi, ungheresi, romeni e moldavi, lettoni, lituani ed estoni, finlandesi. E sarebbe ora di capirlo. Sarebbe ora di saltarlo questo benedetto muro che ancora divide l’Europa in due parti che non si comprendono. Sarebbe ora che l’occidente smettesse di sostenere che esiste solo una Storia, la sua. Noi occidentali non riusciamo mai a metterci nei panni degli altri, e li giudichiamo dall’alto della nostra pseudo superiorità morale e politica. Sarebbe bello che qualcuno spiegasse perché i polacchi, i finlandesi, gli ucraini, i lituani, gli estoni e i lettoni dovrebbero ritenere il comunismo sovietico meno criminale del nazi-fascismo.

Eppure, a occidente, risulta estremamente difficile credere che a est abbiano potuto interiorizzare il passato diversamente da noi. Si badi bene: la maggioranza degli europei orientali ritiene il nazi-fascismo e l’Olocausto delle bestialità della Storia, nonostante una vulgata diffusa si diverta a definire sempre i nostri cugini dell’altra metà del continente come dei piccoli balilla sul piede di guerra con baionetta in mano e sete di sangue. Ciò non toglie che i loro traumi e, soprattutto, il loro percorso di memoria siano diversi dal nostro.

Proprio quando Hitler iniziava a consolidare il suo potere in Germania, migliaia e migliaia di ucraini morivano di fame per precisa volontà di Stalin. E se è vero che ogni vita umana è uguale, vien da chiedersi quale sia la differenza tra uccidere in nome della razza in un campo di concentramento e uccidere privando del cibo in nome della rivoluzione? Mentre in Italia e in Francia il partito comunista agiva clandestinamente in opposizione al fascismo, l’Armata Rossa massacrava i prigionieri di guerra polacchi per poi gettarli in una fossa comune nella foresta di Katyn. Sostenere che l’Europa centro-orientale sia stata liberata dall’Armata Rossa nel migliore dei casi è crassa ignoranza, nel peggiore è disonestà intellettuale. Quando nel 1956 gli ungheresi insorsero contro il dominio comunista, a stroncarli furono quegli stessi carri armati sovietici che non avevano mai lasciato il suolo magiaro dal 1944.

“I soliti fasci orientali”?

Oggi come allora la sinistra occidentale, almeno quella più radicale, compie lo stesso errore. Taccia gli est europei di fascismo per non prendersi la briga di scavare nel fondo della loro sensibilità, per non fare lo sforzo di capire l’altra Europa. Non fu capito il ’56 ungherese, non fu capita la Primavera di Praga: “reazionari, deviazionisti, fascisti”, così venivano tacciati dai compagni di allora coloro che si opponevano a mani nude contro i carri sovietici. Questa risoluzione, che è certo malfatta e inappropriata, ha scatenato gli stessi fantasmi di allora. La stessa miopia di allora.

L’indignazione di coloro che oggi gridano all’ipotetica equiparazione tra comunismo e nazismo che sarebbe contenuta in questa risoluzione, è pretestuosa. Anche quando stabilisce che il patto Molotov-Ribbentrop “ha spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale”, il testo parla di patto “nazi-sovietico”. Il termine comunismo non viene utilizzato. E quello del famigerato patto è certo l’errore più grande di questa risoluzione, poiché è già dal 1918 che vanno semmai cercate le cause del Secondo conflitto mondiale.

La memoria è plurale

In generale, bisognerebbe riflettere sull’effettiva necessità di regolamentare per legge la memoria che non è una, ma plurale. Costringere milioni e milioni di persone ad accettare un ricordo condiviso scelto a tavolino che spesso non corrisponde al vissuto reale costituisce forse il vero e più grande atto di fascismo intellettuale. La Storia insegna la complessità e sfugge dalle righe cui i politici la costringono e la piegano. È questo il torto più grande di chi l’ha votata.

Un messaggio a Putin

Non spetta ai parlamenti esprimere valutazioni storiografiche, non spetta ai politici dichiarare memorie ufficiali o proporre letture del passato. Il vero scopo di questo tipo di provvedimenti è sempre politico, quanto mai attuale. A chi parla la risoluzione? Alla Russia di oggi, quella putiniana, che ha invaso e illegalmente annesso la Crimea, che ha occupato il Donbass, l’Abcasia, l’Ossezia meridionale, che finanzia partiti russofili nel Baltico. A quella Russia viene mandato un messaggio da parte di un’Europa che, è bene ricordarlo, ha recentemente rinnovato le sanzioni economiche verso Mosca.

Si tratta quindi di un documento politico in cui la Storia viene utilizzata strumentalmente, per interessi immediati, per dar forma al presente dell’Europa e non per ragionare sul passato. Una risoluzione fortemente voluta dai paesi dell’est, polacchi in testa, di cui certo avremmo fatto tutti a meno. Non per l’equiparazione tra nazismo e comunismo, che non c’è, ma per la grossolanità dell’intera operazione. Ma questo, agli indignati della domenica, non interessa.



*Francesco Magno, direttore editoriale East Journal

*Matteo Zola, direttore responsabile East Journal
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Ottobre 03, 2019, 00:26:24 am
https://www.eastjournal.net/archives/99835

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MACEDONIA: Il caso Janeva, corruzione e politica tra veleni e colpi bassi
Pietro Aleotti 2 giorni fa

Con voto quasi unanime, il 14 settembre scorso il parlamento della Macedonia del Nord ha ufficialmente rimosso dal suo incarico la procuratrice Katica Janeva, giudice a capo della Procura Speciale. Il voto arriva poche settimane dopo l’arresto della Janeva, accusata d’abuso d’ufficio e corruzione.

E’ questa, al momento, l’unica certezza di una vicenda che, c’è da esserne certi, riserverà altre sorprese nell’immediato futuro e che potrebbe avere ripercussioni politiche, anche ai massimi livelli. Una vicenda che ha del clamoroso, se si pensa che la Janeva era considerata la nuova eroina della lotta alla corruzione e che la Procura Speciale, da lei stessa guidata fin dalla sua istituzione nel 2016, aveva proprio lo scopo di contrastare la corruzione, dilagante in tutto il paese.

I fatti

La ricostruzione dei fatti ci riporta nel cuore dell’estate scorsa, e precisamente al 15 luglio, quando Boki 13, al secolo Bojan Javanosky, ex star televisiva, conduttore di successo e proprietario dell’emittente TV 1TV, viene arrestato con l’accusa di tentata estorsione ai danni dell’imprenditore macedone Jordan Kamchev, l’uomo più ricco della Macedonia del Nord. Kamchev stesso è nel mirino della Procura Speciale e, secondo l’accusa, sarebbe stato indotto da Javanosky al pagamento di una somma di cinque milioni di euro in cambio di un trattamento più mite da parte della procura. Javanosky, infatti, può far leva su rapporti privilegiati con la Janeva e, in particolare, col figlio di quest’ultima, manager di un’associazione di volontariato intestata a Javanosky.

E’ stato il quotidiano italiano “La Verità” a pubblicare per primo le intercettazioni audio in cui si sentirebbe Javanosky millantare ottime relazioni con la Janeva (e persino con l’attuale primo ministro, il socialdemocratico Zoran Zaev, che “non avrebbe certamente causato problemi”) e da cui si evincerebbe che il tentativo di estorsione sarebbe addirittura stato concordato con la giudice. Resta il fatto che il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro ha anche pubblicato il video in cui si vede Javanosky uscire dall’abitazione di Kamchev con una borsa contenente un milione e mezzo di euro. La vera pistola fumante riguardo al coinvolgimento diretto della Janeva sembrerebbe, però, essere un’altra intercettazione audio, quella in cui si la si ascolterebbe rassicurare l’imprenditore sul fatto che “tutto andrà bene”. A ciò si devono aggiungere le perplessità espresse da alcuni dei suoi più stretti collaboratori circa la sua tendenza a prendere decisioni discutibili, senza condividerle, inclusa quella di restituire il passaporto proprio a Kamchev.

La vicenda giudiziaria farà il suo corso e solo le indagini potranno chiarire se si sia trattato, effettivamente, di un tentativo di estorsione e quale sia stato il reale coinvolgimento della giudice che, dal canto suo, ha tentato di derubricare il fatto a una “normale” attività d’ufficio finalizzata alla “estrazione delle informazioni” dagli indagati.

La politica dei veleni e dei colpi bassi

Ma è il piano politico quello ad offrire gli spunti di maggior interesse e, con ogni probabilità, la chiave di lettura più pertinente dell’intero caso. Vicenda giudiziaria e politica si intersecano, infatti, in un legame che pare indissolubile e che, dimostra, qualora ve ne fosse bisogno, quanto “tossico” sia il clima politico del paese balcanico.

Nel 2016, infatti, erano state le intercettazioni rese pubbliche da Zoran Zaev, all’epoca all’opposizione, a provocare un vero e proprio terremoto. Esse fornivano, infatti, le prove delle presunte attività illegali perpetrate da Nikola Gruevski, allora primo ministro e leader del partito conservatore VMRO-DPMNE (Partito Democratico per l’Unità Nazionale Macedone). Le proteste popolari che ne scaturirono in tutto il paese portarono alla caduta del governo Gruesvki nonché alla sconfitta alla tornata elettorale dell’anno successivo, consegnando il paese nelle mani dell’acerrimo nemico Zaev e “inducendo” Gruesvki  alla sua rocambolesca fuga nell’Ungheria del sodale politico Viktor Orban.

I ruoli si sono ora invertiti e non è da escludere che la regia, più o meno occulta, dell’intero intreccio sia proprio quella “dell’esule” Gruevski. Così come potrebbe non essere una coincidenza il fatto che il caso sia stato scoperchiato da un quotidiano, “La Verità”, vicino alle posizioni sovraniste espresse in Italia da Matteo Salvini e condivise da quest’ultimo proprio con il duo Gruevski-Orban.

Quali conseguenze?

La vicenda butta nuovo discredito sulla politica macedone facendo precipitare la fiducia dei cittadini sulla classe dirigente del paese, come dichiarato dal presidente della repubblica, Stevo Pendarovski. Dal canto loro le opposizioni chiedono le immediate dimissioni di Zaev il quale, di converso, ha tentato nei giorni scorsi di confinare i fatti alla mera sfera giudiziaria, rivendicando i presunti successi del proprio esecutivo e ricordando l’importanza epocale delle sfide che il paese si trova ad affrontare: l’adesione all’UE e alla NATO, in primis.

Il quadro tuttavia potrebbe drasticamente cambiare qualora si dovesse comprovare non solo un coinvolgimento diretto del primo ministro ma anche una qualsivoglia connessione tra alcuni dei ministri del suo esecutivo e la società “Alleanza Internazionale” gestita da Bojan Javanovski.

Sullo sfondo, lo scontro politico si sposta anche sul futuro della Procura Speciale: nata tra mille speranze è, ora, presa tra l’incudine e il martello di chi, come le attuali opposizioni, la considerano un’emanazione del partito di governo responsabile della propria sconfitta elettorale e chi, al contrario, vorrebbe che continuasse ad operare anche oltre il limite, previsto per la fine di quest’anno, per poter portare a termine le decine di indagini ancora in corso.

In tutto ciò l’Europa è spettatrice interessata e considera l’estensione delle attività della Procura come condizione necessaria per l’avvio dei negoziati di adesione alla UE.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Ottobre 03, 2019, 00:28:04 am
https://www.eastjournal.net/archives/99395

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Autoritarismo competitivo, cos’è? L’Europa orientale e la crisi democratica
Matteo Zola 10 ore fa

Su queste colonne abbiamo più volte, negli anni, richiamato al concetto di “autoritarismo competitivo” senza tuttavia mai soffermarci a spiegarlo. Eppure si tratta di un concetto chiave per comprendere la situazione politica dell’Europa centro-orientale.

In poche parole, l’autoritarismo competitivo è proprio di quei paesi in cui, pur esistendo una competizione politica (e quindi il connesso diritto di voto), essa è falsata dal partito al potere che utilizza tutte le leve a disposizione per rimanere al suo posto e impedire l’accesso al potere da parte delle opposizioni. Avvalendosi del potere giudiziario o legislativo, ma anche di quello poliziesco e mediatico, il gruppo che detiene il potere agisce per evitare che gli venga sottratto. In taluni casi, questo concetto è sostituito da quello di “democratura” a indicare la natura ibrida, tra democrazia e dittatura, di questi regimi.

L’Europa centro-orientale è il luogo ove questo concetto si applica più spesso, a volte anche impropriamente, poiché se è vero che in tutta la regione si assiste a fenomeni di regressione democratica, esistono tuttavia vistose differenze. Certo, quasi tutti quei paesi hanno avviato, dopo il 1989, percorsi di costruzione di uno stato democratico ma tali percorsi hanno seguito rotte diverse.

I paesi del gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) erano considerati esempi di una riuscita transizione alla democrazia. Da circa un decennio si constata però un’erosione e a un deconsolidamento del sistema democratico che procede a velocità diverse nei quattro paesi e che non ha sempre punti in comune. Tuttavia l’indebolimento dello stato di diritto e la costruzione di quella che chiamano “democrazia illiberale”, sono elementi diffusi in vario grado a tutti i paesi della regione.
 

I paesi dell’area carpatico-danubiana (Romania, Bulgaria, Moldavia) sono stati più che altro protagonisti di una transizione interrotta, abortita da classi dirigenti locali corrotte e irresponsabili. La Romania assiste da anni a uno sconfortante susseguirsi di politici rapaci e padronali, incapaci di incrementare il livello democratico del paese e anzi protagonisti di una regressione unica in tutto il continente. La Bulgaria da più di un decennio è in mano a una consorteria politico-mafiosa. La Moldavia ha recentemente individuato quale presidente della repubblica Igor Dodon, uomo vicino al presidente russo Putin e con il quale condivide la visione del potere. In generale, il paese soffre di faide interne, di violenza politica, della competizione di gruppi oligarchici che si contendono il potere.
 

I paesi dell’area balcanica, a seguito delle guerre jugoslave, si sono connotati per il ricorso costante a forme di nazionalismo e populismo. Queste nazioni, che si vogliono santificate dal sangue versato, sono state guidate da élites che hanno occupato lo stato e le sue istituzioni. Un contesto certo non propizio allo sviluppo del pluralismo. Anche tra questi esistono però differenze. La Croazia ha realizzato una democrazia proceduralmente corretta, benché ancora caratterizzata da scarsa inclusività e rispetto delle minoranze. La Serbia – saldamente in mano al voivoda di turno, oggi incarnato da quell’Aleksander Vucic che proclamò l’omicidio di massa dei musulmani di Bosnia, è vittima di una transizione abortita. La Macedonia e l’Albania stanno lentamente evolvendo il proprio sistema verso la democrazia ma le istituzioni restano molto rudimentali e lo stato di diritto ancora molto fragile. Il Kosovo e il Montenegro sono in mano a rispettivi gruppi di potere in stretta relazione con la criminalità organizzata. La Bosnia Erzegovina è un protettorato europeo gravato da una costituzione farraginosa e inefficace.
 

I paesi dell’area post-sovietica sono a loro volta molto variegati. Gli stati baltici hanno costruito sistemi democratici maturi e funzionali, benché restino alcune criticità. L’Ucraina, come la Serbia, ha assistito a una transizione abortita e le rivoluzioni del 2004 e del 2014 non hanno aiutato il paese a imboccare con passo sicuro la strada verso la democrazia, anzi hanno reso le istituzioni più deboli e preda di interessi oligarchici. La Bielorussia è l’ultimo regime autoritario duro presente in Europa. Nel Caucaso le cosiddette “rivoluzioni colorate” in Georgia (2003) e Armenia (2018) hanno aperto a regimi semi-autoritari.
Le direttrici attraverso cui i paesi dell’Europa centro-orientale sono giunti a realizzare regimi ibridi sono quindi diverse. Diversità su cui è necessario insistere per non appiattirsi, come troppo spesso fanno i media generalisti, su definizioni onnicomprensive che opacizzano la realtà e non aiutano a capire. Nazionalismo e populismo sono fenomeni certamente in atto nell’Europa orientale, ma non bastano a spiegare se siamo di fronte alla fine del ciclo liberale, a una sbandata temporanea, a una tappa di una sviluppo mai lineare. Una tappa, tuttavia, in cui si assiste al diffondersi di modelli di società chiusa. Un tipo di società protetta che, secondo i suoi sostenitori, non sarebbe in conflitto con la democrazia. Ma di fatto lo è. Poiché in ogni fattispecie di società chiusa la protezione arriva al punto da sostituire il pluralismo con l’unica visione possibile, quella del partito al potere, pronto a limitare libertà e diritti costituzionali in nome del monopolio politico e morale sul paese e su persone, sempre meno trattate da cittadini e sempre più da popolo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Ottobre 10, 2019, 01:02:45 am
https://www.eastjournal.net/archives/100090

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ROMANIA: Il governo sta per cadere
Rebecca Grossi 8 ore fa

Dopo mesi di instabilità e precarietà politica, è infine successo ciò che molti da tempo si aspettavano: il governo di Viorica Dancila è stato posto di fronte ad una mozione di sfiducia.

Già da maggio il partito al governo PSD (Partidul Social Democrat) si era ritrovato a fronteggiare una serie di avversità: la condanna per abuso d’ufficio del suo leader Liviu Dragnea, l’insuccesso alle elezioni europee in cui ha perso oltre il 15 percento dei consensi rispetto a quelle del 2014, e infine, ad agosto, l’abbandono della coalizione di governo da parte dell’alleato minore ALDE (Alianta Liberalilor si Democratilor) di Calin Popescu Tariceanu.

Proprio la scelta di Tariceanu di mettere fine all’esperienza governativa è stata l’evento chiave che ha confermato che la sfiducia sarebbe stata ormai solo questione di tempo.

Redatta dal maggior partito di opposizione Partidul National Liberal (PNL), e appoggiata da altre cinque formazioni, compreso l’ex alleato di governo ALDE, la mozione di sfiducia è stata deposta in parlamento venerdì 27 settembre. 237 le firme raccolte, numero che garantirebbe matematicamente la maggioranza in entrambe le camere, e quindi l’effettiva possibilità di procedere verso la sfiducia.

Stando ad alcune indiscrezioni, sarebbe stata firmata anche da alcuni esponenti del PSD stesso.

La mozione è stata discussa giovedì 3 ottobre, mentre la votazione finale è stata fissata per la settimana dopo, il 10, durante una sessione congiunta delle due camere.

Inutile il tentativo del PSD di anticipare il voto finale a sabato 5 ottobre. L’opposizione ha infatti fatto fronte comune per evitare che coincidesse con il fine settimana, durante il quale notoriamente la presenza e partecipazione ai lavori parlamentari è ridotta.

Tuttavia, la scelta di fissare il voto una settimana dopo la discussione parlamentare è stata ampiamente criticata dagli altri partiti d’opposizione, che temono una possibile riorganizzazione da parte del PSD per ricomporre una maggioranza e impedire così che la sfiducia venga approvata.

Dichiarazioni

Diverse le reazioni e dichiarazioni del mondo politico. L’attuale presidente Klaus Iohannis sostiene la sfiducia all’esecutivo di Dancila, che definisce un “governo fallito“.

Iohannis auspica un governo di transizione che possa garantire un’efficace gestione politica nella delicata situazione attuale in cui si trova il paese: a novembre infatti si terranno le presidenziali, bisogna inoltre strutturare e approvare il budget nazionale per l’anno venturo, e organizzare le elezioni locali e parlamentari fissate per il 2020. Come traspare dalle parole di Iohannis, il PNL ricoprirebbe all’interno del nuovo esecutivo sicuramente una posizione chiave; idea confermata dalla possibile nomina del leader del PNL Ludovic Orban a primo ministro.

Dall’altra parte, Viorica Dancila si dimostra fiduciosa nella tenuta del governo, data l’eterogenea e aleatoria composizione del blocco dell’opposizione, definito “un miscuglio di interessi, opportunismo e ipocrisia”.

Lo scenario futuro

Sono stati diversi i tentativi da parte dell’opposizione di far cadere il governo socialdemocratico, in carica dal dicembre 2016; finora le mozioni di sfiducia sono sempre fallite a causa del mancato raggiungimento del quorum necessario. Adesso la situazione appare notevolmente diversa, data la rinnovata forza parlamentare delle opposizioni.

Tuttavia  lo scenario politico dell’immediato futuro appare poco nitido.

I sei partiti di opposizione che hanno firmato la mozione hanno agende, interessi, ideologie e visioni molto diversi. Molto precarie sono quindi le fondamenta su cui si baserebbe l’esecutivo che potrebbe succedere a Dancila. PRO Romania di Victor Ponta, nato nel 2017 dalla scissione con il PSD, e uno dei partiti che sostengono la mozione, ha dichiarato infatti che non sosterrebbe un governo formato da partiti di centrodestra, trovando più appropriato un esecutivo di centrosinistra, formato da PRO Romania stesso, ALDE, e da quella parte di PSD ostile a Dancila.

Inoltre, nonostante il numero di firme raccolte testimoni la presenza formale di una maggioranza a favore della sfiducia, non è tuttavia scontato che tutti i parlamentari siano disposti a convertire la loro firma in voto.

In conclusione, la stabilità in Romania pare ancora lontana e il futuro rimane nebuloso, il tutto a ridosso delle presidenziali, su cui l’attuale crisi di governo avrà inevitabilmente conseguenze. Si aspetta la votazione di giovedì, a seguito della quale il quadro potrà acquisire maggiore definizione.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Ottobre 10, 2019, 01:04:24 am
https://www.eastjournal.net/archives/100030

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La Cina investe nella ferrovia Belgrado-Budapest
Gian Marco Moisé 24 ore fa

All’inizio dell’estate, il ministro delle finanze ungherese ha completato la richiesta di finanziamento per 1,42 miliardi di euro alla banca cinese Exim. Il prestito verrà finalizzato al pagamento dei lavori previsti per il miglioramento della linea ferroviaria Belgrado-Budapest.

Linea ferroviaria Belgrado-Budapest

Il progetto di investimento nella linea ferroviaria Belgrado-Budapest riguarda un piano di miglioramento della struttura ferroviaria esistente. Il progetto è pensato per ridurre il tempo di viaggio tra le due capitali dalle attuali 8 ore e mezza a 3 ore. La funzione principale di questa tratta ferroviaria sarà il trasporto di beni prodotti in Cina verso la capitale ungherese collegando Budapest al porto greco di Piraeus, la cui proprietà di maggioranza è proprio cinese.

Il costo previsto per il progetto è 3,2 miliardi di euro, di cui 1,68 a carico dalla stessa Ungheria. Il 15% di questa cifra verrà finanziato attraverso la compagnia ungherese dei trasporti ferroviari, mentre il rimanente 85% sarà finanziato con un prestito della banca cinese Exim. Questo progetto, in aggiunta al prestito di 10 miliardi ricevuto dalla Russia per l’ampiamento della centrale nucleare ungherese di Paks, esporrà il paese a creditori esterni per il 10% del proprio PIL.

L’alleanza sino-ungherese

I motivi della Cina per investire in Ungheria sono piuttosto chiari. Infatti, il progetto ricade nell’ambito della One Belt One Road Initiative, destinata a migliorare i collegamenti infrastrutturali tra la Cina e l’Europa per facilitare l’export di prodotti cinesi. I motivi dell’Ungheria, invece, risultano meno chiari. Infatti, le città attraversate da questa linea ferroviaria non superano una popolazione di 27.000 persone ciascuno, senza contare la presenza dell’autostrada M5 che collega i due paesi. Il traffico di persone sarà quindi piuttosto limitato. Secondo gli esperti intervistati da Samuel Rogers (2019), le ragioni ungheresi per appoggiare l’investimento sono quattro: 1) migliorare l’arretrato comparto ferroviario ungherese, 2) stimolare iniziative economiche complementari, 3) facilitare l’ingresso di Serbia e Macedonia nell’Unione Europea e 4) diventare centro di distribuzione di prodotti cinesi nell’Europa centro-orientale.

Questa non è la prima volta che la Cina propone all’Ungheria progetti per i miglioramenti delle sue infrastrutture. Dal 2010, i cinesi avevano proposto il Ferex, un piano per la connessione ferroviaria rapida tra l’aeroporto Liszt Ferenc e una delle stazioni ferroviarie centrali di Budapest, e la costruzione della linea ferroviaria V0, ideata con l’intento di assistere treni in transito per l’Ungheria ad aggirare il centro della capitale. Entrambi i progetti non vennero realizzati per via del fallimento della compagnia ferroviaria Malév oltre a limitazioni imposte dalla legislazione europea per gli appalti.

È quindi chiaro, che l’investimento è stato concordato in prospettiva politico-economica visto il frequente allontanamento di compagnie occidentali dal territorio ungherese. Come chiarito nei mesi scorsi su East Journal, l’approvazione della cosiddetta legge schiavitù non fu che il disperato tentativo di convincere le compagnie automobilistiche tedesche a non delocalizzare la produzione altrove. L’avvicinamento ungherese prima alla Russia e poi alla Cina dimostra l’intenzione del governo Orbán di diversificare le fonti di investimenti. Il governo cinese, invece, ha dimostrato ancora una volta di saper sfruttare a suo favore il pragmatismo dei governi euro-scettici.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Ottobre 12, 2019, 11:56:47 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Azerbaijan/Universita-in-Azerbaijan-troppe-tasse-gli-studenti-abbandonano-196788

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Università in Azerbaijan: troppe tasse, gli studenti abbandonano

In Azerbaijan vi sono le tasse universitarie più alte di tutto il Caucaso. Ed in effetti sono migliaia ogni anno gli studenti costretti all'abbandono

11/10/2019 -  Kamran Mahmudov
(Pubblicato originariamente da OC Media  il 17 settembre 2019)

Umman Safarov questo settembre non proseguirà con i suoi studi universitari presso la Facoltà di giornalismo dell'Università di Baku. Non può permettersi la retta. “Dovevo pagare ma non ho soldi a sufficienza. Magari prima o poi riuscirò a finirla”, racconta ad OC Media. “Del resto studiare in Azerbaijan per me era solo una perdita di tempo, specialmente alla facoltà di giornalismo. È stato facile decidere di abbandonare. Se non hai soldi, non hai scelta”.

Safarov è tra le migliaia di studenti dell'Azerbaijan che, negli ultimi anni, hanno abbandonato l'università per motivi finanziari.

Ogni anno, quando i termini di iscrizione stanno per scadere, i social network del paese vengono inondati di post in cui gli studenti chiedono aiuto ad amici, parenti e anche ad estranei per riuscire a pagare le loro rette universitarie.

Secondo il Centro statale per gli esami per l'anno accademico 2019/2020 sono stati ammessi agli studi universitari 42.000 nuovi studenti. Di questi 18.000 otterranno borse di studio statali mentre gli altri 24.000 devono pagarsi di tasca propria gli studi. Le rette presso le università dell'Azerbaijan vanno dai 1.000 manat all'anno (circa 590 dollari) ai 6.500 (3.800 dollari), quasi il doppio della media della regione.

Problemi sistemici
Attualmente sono circa 160.000 gli studenti iscritti presso le università dell'Azerbaijan. Di questi circa il 70% si paga gli studi mentre il 30% è coperto da budget statale.

Kamran Asadov, è a capo del Centro per l'analisi e la ricerca sui servizi educativi, una ong con sede a Baku. A suo avviso le rette universitarie nelle università dell'Azerbaijan sono più alte di molti altri paesi del mondo, in particolare di quelli con uno sviluppo economico simile. Contemporaneamente la qualità delle università del paese non è all'altezza: nessuna università dell'Azerbaijan rientra nelle classifiche mondiali del Times Higher Education  .

Il governo dell'Azerbaijan attualmente copre con borse di studio esclusivamente alcune materie. Inoltre vengono integrati i costi di studenti provenienti da situazioni particolarmente svantaggiate, persone con disabilità e dei figli di persone riconosciute “Eroi nazionali” dell'Azerbaijan.

Kamran Asadov sottolinea come negli ultimi cinque anni a più di 7.000 studenti è stato negato il diritto di studio perché non erano in grado di pagare le rette universitarie. A suo avviso uno dei problemi principali è la mancanza di prestiti d'onore per lo studio, di cui si fa garante lo stato.

“Non ci sono prestiti d'onore per gli studenti in Azerbaijan”, chiarisce. “L'unico fondo esistente è il 'Maarifchi Loan Student Fund' ma è privato e attualmente non ha budget”.

Nell'agosto scorso quest'ultimo ha annunciato ai media locali l'accordo stretto con 15 università e la concessione di 247 prestiti ad altrettanti studenti. Numeri molto inferiori rispetto agli abbandoni attesi per difficoltà finanziarie. Inoltre, aggiunge Asadov, nonostante le alte rette le università non provano nemmeno ad alleviare le precarie condizioni economiche degli studenti.

“Purtroppo in Azerbaijan i 160.000 studenti che studiano nelle 54 università del paese non ricevono alcun sconto su nulla. Altrove nel mondo è invece normale che gli studenti ottengano sconti negli abbonamenti per i trasporti, nelle mense, nei negozi di libri o a volte per gli alloggi”, aggiunge il ricercatore.

Asadov contesta anche l'approccio delle università rispetto alle rette: “Le rette si basano sugli stipendi degli insegnanti e sui costi di mantenimento dell'università. Ma governo e università dovrebbero anche tener conto dei salari medi dei laureati che poi usciranno da quelle specifiche università”. Con il livello attuale dei salari, spiega infatti, servono dieci anni per rientrare sui costi degli studi.

Come conseguenza, sottolinea, la frequenza delle università è bassa e i corsi con pochi studenti sono obbligati ad alzare ulteriormente le rette. Questo causa un circolo vizioso che spinge sempre più studenti all'estero, creando ulteriori vuoti nel sistema universitario del paese.

“Gli studenti possono andare all'estero dove ottengono un'istruzione migliore pagando meno. Stiamo creando le condizioni affinché sempre più persone se ne vadano all'estero”, chiosa Asadov.

Dibattito politico
Natig Jafarli, segretario del partito ReAl, opposizione, ha lanciato una raccolta firme – nel novembre 2018 - per introdurre una legge che garantisca una libera formazione universitaria. Secondo la normativa dell'Azerbaijan se una proposta di legge popolare raggiunge le 40.000 firme può essere presa in esame dal Parlamento. La proposta di legge sopra menzionata è stata però bloccata dalla Commissione elettorale centrale che ha sostenuto che un certo numero di firme tra quelle presentate non erano autentiche e che quindi la soglia delle 40.000 firme non era stata superata.

Jafarli, comunque, ritiene che la petizione sia stata un successo: “Prima della nostra iniziativa solo a 12-15.000 studenti veniva garantita una formazione universitaria per la quale non dovevano pagare, quest'anno ci si è alzati a 20.000”, ha dichiarato ad OC Media.

Ma, secondo Jafarli, questo è solo un primo passo. Chiarisce infatti che è necessario creare le condizioni per un libero accesso agli studi universitari non solo a vantaggio degli studenti dell'Azerbaijan ma dello sviluppo del paese.

“In molti paesi l'educazione universitaria è del tutto gratis – sottolinea Jafarli – un alto numero di laureati ha un impatto significativo sulla crescita del Pil, sulla crescita economica ed in generale sul benessere dei cittadini”.

Fazil Mustafa, parlamentare eletto tra le fila del “Grande partito dell'istituzione” ha dichiarato ai media locali che alcune università dovrebbero essere privatizzate e dovrebbero competere una con l'altra. In questo modo a suo avviso “sarebbero capaci di creare profitto” e la concorrenza abbasserebbe salari e costi amministrativi.

Kamila Aliyeva, membro del Comitato parlamentare sulla scienza e l'educazione ha dichiarato che spetta a chi si vuol iscrivere all'università aver presente i suoi costi: “Se le risorse finanziarie della famiglia dello studente sono basse non dovrebbero iscriversi ad università non coperte da borse di studio.”

La deputata è l'autrice di una proposta di legge per l'introduzione di prestiti d'onore, ciononostante è lei stessa ad affermare che i prestiti non bastano. “A mio avviso il modo più realistico di affrontare la questione è quella di tagliare di metà le rette”, ha affermato.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Ottobre 12, 2019, 12:00:29 pm
https://www.eastjournal.net/archives/100048

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Trent’anni dopo il crollo del Muro, East Journal racconta gli anni ’90 ad est
Francesco Magno 18 ore fa

Il 9 novembre 2019 verranno celebrati i trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, evento che segnò la fine della divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti. Da allora l’Europa ha ritrovato una sua unità, almeno simbolica; buona parte dei paesi ex comunisti sono entrati nell’Unione Europea, le barriere sono state quasi completamente abbattute e gli scambi tra l’occidente e l’oriente del continente sono all’ordine del giorno.

Resta, tuttavia, un’incomunicabilità di fondo tra le due aree del continente. L’esplosione dei cosiddetti governi populisti in Ungheria, Polonia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, ha riacceso la secolare “questione orientale”. Il nazionalismo è un problema atavico dell’Europa dell’est? In cosa si differenzia da quello dell’Europa occidentale? Perché personalità come Orban, Borissov, Kaczynski, Babis dominano la politica dei rispettivi paesi impedendo uno sviluppo naturale della democrazia liberale?

Le risposte a queste, e ad altre domande, possono essere rintracciate spesso nel decennio che seguì il crollo del comunismo; anni di contraddizioni, cambiamenti, riassestamenti, ambiguità il più delle volte ignorate in Occidente. Troppo forte la tentazione di presentare il trionfo del capitalismo come panacea di tutti i mali della regione: per molti ad est gli anni ’90 furono più duri delle decadi precedenti. Mentre dal lato fortunato della Cortina si ascoltavano i Nirvana, si restava scioccati da Trainspotting e iniziavano a fare capolino le prime Play Station, nell’Europa orientale si lottava con gli effetti collaterali del cambiamento di sistema economico.

Come funghi, tra il grigio del cielo e del cemento socialista, apparvero i primi brand occidentali. Bucarest, che per anni aveva sofferto la cronaca mancanza di cibo, si mise in coda per un Big Mac e una manciata di patatine fritte, temporaneo sollievo dai mali del post-comunismo.

 foto: b365.ro

Benetton aprì un negozio a Sofia, con l’idea di sfruttare il potenzialmente enorme mercato orientale, ma ci volle del tempo per rimpiazzare il tipico vestiario bulgaro.

  Foto: vagabond.bg

Alcuni non riuscirono a riadattarsi al nuovo sistema, e furono costretti all’emigrazione. L’immagine della nava Vlora stracolma di profughi albanesi resta una delle più iconiche del decennio.

 Foto: Repubblica

E’ proprio in quegli anni ’90 di euforia, miseria, senso di libertà e disillusione che si annidano molti dei mali attuali della regione. In questi anni parte della popolazione alimenta il risentimento anti-occidentale, il nazionalismo diventa un caldo rifugio contro le incertezze della povertà, contro lo spaesamento provocato dal capitalismo. East Journal nelle prossime settimane dedicherà degli articoli specifici all’ultimo decennio del XX secolo nell’Europa orientale, cercando di metterne in luce le innumerevoli contraddizioni, con l’obiettivo specifico di gettare nuova luce su quello che seguì il crollo del muro. Un evento tanto importante da oscurare quasi completamente gli eventi successivi. Lo faremo cercando di rifuggire dai luoghi comuni, con spirito volutamente provocatorio, consci che il crollo del comunismo, oltre ad una riconquistata libertà, abbia portato alla distruzione di certezze, consuetudini, legami, che avevano caratterizzato la vita di milioni di persone per cinquant’anni.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Ottobre 12, 2019, 12:04:05 pm
https://www.eastjournal.net/archives/100189

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UNGHERIA: Domenica elettorale. Budapest non è Istanbul…ma qualche analogia c’è
Lorenzo Venuti 21 ore fa

Il 13 ottobre è tempo di elezioni amministrative in Ungheria, in una cornice inedita dove l’opposizione si presenterà compatta in (quasi) tutti i comuni, cercando di spezzare il monopolio arancione – colore della FIDESz – sul paese. Il rischio di un generalizzato ricambio di amministrazioni è alto, specie nella capitale Budapest, cuore pulsante del paese. Immediato il richiamo ad Istanbul, dove il candidato Binali Yıldırım, supportato da Erdogăn, è stato sconfitto nel marzo (e poi di nuovo nel giugno) di quest’anno da Ekrem Imamoglu.

Dietro qualche analogia, tante differenze

Lo stesso candidato di Budapest Gergely Karácsony (MSZP-P-DK-Momentum-LMP-MLP), ispira in qualche misura questo collegamento fra le due esperienze, ricordando le similitudini che legano i due governi; ad agosto, quando la campagna elettorale entrava nel vivo, il giovane sociologo si recava ad Istanbul proprio in visita da Imamoglu. Del resto, anche la loro storia politica presenta qualche analogia. Entrambi hanno maturato una certa esperienza nell’amministrazione locale, e entrambi sono partiti da una situazione di profondo svantaggio nei confronti dei rivali governativi, colmato nel tempo malgrado l’ostilità dei media.

Budapest tuttavia, al netto di queste analogie, non è Istanbul. Diversa è la sua storia politica, minore il peso che il sindaco ha negli affari nazionali. Diverso è anche l’uomo del potere da sfidare: mentre Imamoglu poteva scagliarsi contro Binali Yıldırım, uomo di partito e di apparato, lo sfidante di Karácsony è István Tárlos, sindaco uscente di Budapest, personalità stimata, che gode di una popolarità superiore persino a quella generale di FIDESz.

La battaglia per la capitale

Come già sottolineato, il vantaggio di Tárlos, convinto a ricandidarsi da Orbán in cambio di maggiori investimenti e di un futuro canale diretto con il primo ministro, si è progressivamente assottigliato, grazie alla dinamica campagna di Gergely Karácsony, sindaco rionale uscente di Zugló (distretto XIV). Da agosto il giovane sfidante ha presentato iniziative che hanno riscosso un certo interesse, come quella della petizione stadiumstop, che chiedeva la fine della costruzione di impianti sportivi nella capitale – attualmente vi sono due cantieri del genere solo nella capitale magiara – per destinare i fondi alla sanità. Una campagna alla quale il settantunenne sindaco uscente ha replicato con difficoltà, ribandendo i risultati positivi della propria amministrazione, ma soffrendo le mancanze di una comunicazione limitata ai media tradizionali.

Il confronto fra i due è poi ulteriormente complicato da due fattori: in primo luogo dall’incognita del voto dei residenti di cittadinanza non ungherese; un esercito di i 140.000 persone in possesso della lakcimkartya, profondamente disomogeneo nella sua composizione, di cui sarà difficile prevedere il comportamento elettorale. Dall’altro la presenza di due ulteriori candidati: Róbert Puzsér e Krisztián Berki. Mentre ci sono pochi dubbi sul fatto che il secondo, creatura della FIDESz per frazionare il voto, raccolga un risultato tutto sommato limitato (attorno all’1%), il primo ha un’influenza ben maggiore. Giornalista ed ex conduttore radiofonico, Róbert Puzsér sembra superare a destra il partito di Orbán e può condensare su di sé il voto dei delusi: probabilmente in misura sufficiente per alterare la corsa alla poltrona.

Le schermaglie

La campagna elettorale nel frattempo infuria a tutti i livelli, e miete vittime. La più celebre è senza dubbio il ricandidato sindaco di Győr, Zsolt Borkai (FIDESz), presidente anche del MOB, il comitato olimpico magiaro. In un blog, Ez az ördög ügyvédje (questo è l’avvocato del diavolo) sono state recentemente pubblicate le foto del politico in compagnia dell’uomo d’affari Zoltán Rákosfalvy mentre si intratteneva con delle escort su uno yatch. Un attacco al quale il partito di Orbán ha replicato invocando unità, e confermando la candidatura di Borkai nella cittadina magiara, dove verrà verosimilmente rieletto. Altri scandali sessuali hanno coinvolto candidati rionali di Budapest dell’opposizione, in particolare Tamás Wittinghoff e Imre László, mentre András Pikó, celebre conduttore radiofonico candidato come sindaco rionale del distretto VIII, si è visto confiscare il computer e quello dei suoi collaboratori dalla polizia, con l’accusa di aver collezionato dati in modo illegale.

Lo stesso errore?

Al di là delle differenze, un tratto sembra però collegare effettivamente le elezioni amministrative in Turchia e Ungheria: l’atteggiamento governativo. Esattamente come Erdogăn ha dato pieno appoggio al suo candidato, spendendosi personalmente per la sua campagna, così Orbán ha garantito il pieno sostegno ai propri, ricollegando in una lettera aperta alla popolazione il piano nazionale con quello locale. Il rischio di una “guerra partigiana” delle amministrazioni dell’opposizione contro il governo spinge gli uomini della FIDESz ad alzare la posta in palio in una personalizzazione della campagna che rischia di far passare in secondo piano i punti deboli dell’opposizione, composta pur sempre da partiti molto diversi fra loro e amalgamati alla meno peggio.

Un operato che rischia di nuocere, più che favorire i propri candidati.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Ottobre 25, 2019, 19:34:03 pm
https://www.eastjournal.net/archives/100067

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Un nuovo Muro divide l’Europa?
Matteo Zola 4 ore fa

Un nuovo muro divide l’Europa, la frattura fra l’oriente e l’occidente europeo sembra oggi più profonda che mai. Quindici anni dopo l’allargamento dell’UE verso i paesi dell’area centro-orientale, il solco tra vecchi e nuovi membri si è approfondito al punto da dare luogo a una vera e propria crisi dell’assetto europeo, con una regressione democratica sempre più evidente nella parte orientale del vecchio continente.

Nei paesi fondatori, Francia in testa, si parla sempre più apertamente di “errore” o, più diplomaticamente, si definisce “prematuro” l’allargamento a est. Non a caso la Francia ha bloccato i negoziati per Albania e Macedonia del Nord. In Germania e nei paesi del nord si diffonde l’idea di un’Europa a due velocità nella quale i paesi con le economie più avanzate e meglio integrate possano procedere lungo la via delle riforme senza il gravame dei paesi centro-orientali. Ma quanto questa frattura è reale e quanto percepita? Quali sono le ragioni di questa divisione?

Storia di un malinteso

Più volte abbiamo ribadito su queste colonne quanto sia sbagliato, inutile e deleterio gettare la croce della crisi europea sui paesi dell’Europa orientale, senza nemmeno fare lo sforzo di capire le ragioni e la storia di quella parte d’Europa. Esistono infatti differenti aspettative riguardo al progetto europeo.

I paesi occidentali vedono l’UE come percorso di progressiva unificazione europea. Ai nuovi membri è stato richiesto di aderire a degli standard precedenti, incorporando nel proprio sistema istituzionale le centomila pagine di acquis communautaire di fatto fotocopiando le norme stabilite prima e senza di loro. Non c’è stata reciprocità nell’adesione dei paesi dell’est.

Non c’è stata considerazione per l’idea di Europa che, in cinquant’anni di repressione totalitaria, i paesi dell’est avevano sviluppato. Un’idea che andava molto oltre il semplice “mercato comune” ma che vedeva nell’ingresso UE un “ritorno all’Europa” che era, di fatto, un ritorno a sé stessi, alla propria tradizione nazionale e culturale dopo la cupa parentesi comunista, coltivando al contempo un certo risentimento nei confronti di un progetto che è stato costruito senza di loro. Da qui la convinzione e l’intenzione di poter affermare la propria visione dell’Europa. Una visione in cui l’unificazione politica del continente non è un orizzonte auspicabile.

I paesi fondatori ritenevano invece che, dopo l’allargamento a est, l’Unione sarebbe stata la stessa di prima, solo più grande. E sarebbero stati loro, gli occidentali, a indirizzarla in quanto ‘proprietari’ del progetto sulla scorta di una visione carolingia dell’Europa.

Occorre infine considerare che mentre da un lato i paesi dell’est finalmente liberati dalla cattività comunista procedevano nello state building, ricostruendo la nazione ritrovata, dall’altro la sovranità appena acquisita veniva reclamata dal processo di integrazione europea. Si è trattato di un passaggio difficile e per certi versi doloroso che ancora non può dirsi accettato e risolto.

Stato e nazione

In molti paesi dell’Europa occidentale è lo Stato ad avere creato la nazione. È stato così in Francia, in Spagna, nel Regno Unito. Qui lo Stato ha costruito nell’arco di secoli la nazione sviluppando il concetto di cittadinanza. Nell’Europa orientale è il contrario. Qui si trovano nazioni antiche a cui corrispondono però Stati relativamente recenti.

La nazione, a est, si è sviluppata secondo il modello etno-linguistico tedesco di Kulturnation.  La nazione è quindi il fondamento dello Stato e delle sue istituzioni. L’idea europeista occidentale secondo cui l’Unione deve rappresentare un superamento del nazionalismo e una relativizzazione dello Stato nazionale non può essere accolta a Varsavia, a Budapest, a Praga. Non è questione di essere “dalla parte sbagliata della Storia”, o di avere un qualche gene fascistoide, o di essere culturalmente reazionari: significa che, da quella parte d’Europa, hanno un’altra Storia. È l’Europa occidentale che si è unilateralmente dichiarata “post-nazionale”. Quella orientale non ha mai detto di essere d’accordo.

Impero europeo e omogeneità culturale

Il passato d’Europa è un passato imperiale. Ma c’è chi l’impero lo ha subito e chi lo ha imposto. L’Europa occidentale ha dato vita, nei secoli, a imperi globali le cui estensioni si trovavano fuori dal continente, in Africa, nelle Americhe, in Asia. L’eredità degli imperi coloniali britannico, spagnolo, portoghese e francese, è l’immigrazione proveniente dalle ex-colonie. Tali fenomeni migratori hanno contribuito allo sviluppo di società multiculturali del tutto estranee all’esperienza dell’Europa orientale.

Qui gli imperi si sono invece subiti, quello russo, asburgico e ottomano hanno variamente alimentato un’identità nazionale forte e radicata che trova nell’indipendenza e nella sovranità il senso ultimo dello Stato. Il relativo isolamento di quelle società durante il periodo comunista ha prodotto una omogeneità culturale sconosciuta in occidente e spiega, almeno in parte, la resistenza verso i fenomeni migratori in corso.

L’imposizione di quote di redistribuzione dei migranti che giungono in Europa suscita resistenze e timori abilmente cavalcati da classi politiche opportuniste e abili a descrivere l’UE come una nuova forma di impero (persino come una nuova Unione sovietica) il cui fine è schiacciare le identità nazionali locali.

Lo sgretolamento demografico

Alle accuse di neo-colonialismo politico ed economico, i paesi dell’est accompagnano i timori per lo sgretolamento demografico della nazione. Negli ultimi venticinque anni, i paesi dell’est hanno visto un calo demografico medio del 7%. La Bulgaria e la Romania hanno perso un quinto della loro popolazione. Le previsioni parlano di un calo ancora maggiore nei prossimi anni. Le società dell’Europa centro-orientale sono colpite dall’emigrazione. Per questa ragione faticano ad accettare l’idea di accogliere migranti dai paesi in via di sviluppo reclamando, piuttosto, il ritorno dei propri connazionali in patria. Un ritorno reso impossibile dalla mancata convergenza economica.

Un vero muro?

Per quanto le economie centro-orientali siano cresciute, giovandosi largamente dei fondi europei, l’obiettivo della convergenza economica non è stato raggiunto. E questo è un elemento di forte frustrazione per quelle società che ancora vedono i figli emigrare, si tratti di cervelli in fuga o di braccia per l’industria. La frustrazione, il risentimento, e più in generale un diverso approccio all’unificazione europea, sono tra le cause dell’insorgere dei cosiddetti nazional-populismi.

La divisione tra est e ovest europeo è un fatto. Ma che tale divisione debba essere necessariamente una colpa delle società est-europee, è falso. Come è falso affermare che tale solco sia incolmabile. Anzi, la linea di faglia è tutt’altro che netta. L’insorgere del nazional-populismo non riguarda solo Polonia e Ungheria ma anche, e soprattutto, Francia e Italia, Germania e Regno Unito. I fenomeni critici che stanno minando la tenuta dell’UE sono trasversali, a essere differenti sono però le cause. Capirle serve a individuare soluzioni o, almeno, a far cadere quel muro di pregiudizio che media a politica continuano tenacemente a costruire.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Ottobre 25, 2019, 19:39:06 pm
https://www.eastjournal.net/archives/100488

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SERBIA: Governo sotto accusa per i traffici d’armi verso il Medio Oriente
Marco Siragusa 5 ore fa

Negli ultimi giorni un nuovo scandalo ha colpito il governo di Belgrado. Questa volta a suscitare perplessità sullo stato di diritto nel paese è stata la vicenda dell’arresto di Aleksandar Obradović, esperto informatico della fabbrica di armamenti “Krušik” di Valjevo e protagonista della diffusione di documenti ufficiali riguardanti una compravendita di armi ai danni di imprese statali e a beneficio del padre del ministro degli Interni Nebojša Stefanović. Le armi in questione sono poi finite ai miliziani jihadisti in Yemen.

L’arresto di Obradović

Il 18 settembre scorso agenti della BIA, l’intelligence serba, hanno arrestato, durante l’orario di lavoro, Aleksandar Obradović. Le autorità hanno tenuto segreta la notizia per oltre tre settimane, fino alla denuncia pubblicata dal settimanale NIN il 10 ottobre. Obradović, che anche grazie al sostegno ricevuto dall’Associazione dei giornalisti serbi (UNS), dall’opposizione e dall’opinione pubblica è stato trasferito agli arresti domiciliari in attesa del processo, è accusato di “violazione del segreto commerciale”. L’indagine riguarda la diffusione sul portale ArmsWatch di documenti ufficiali relativi all’acquisto di un lotto di armi da parte dell’impresa privata serba GIM e alla successiva vendita delle armi all’azienda saudita Rinad Al Jazira e alla Larkmont Holdings LTD, società offshore registrata nelle Isole Vergini britanniche.

Come emerso già lo scorso anno dall’inchiesta del portale investigativo BIRN la vicenda presenta almeno tre aspetti problematici. Il primo riguarda il forte conflitto d’interesse della GIM dovuto alla presenza, in qualità di rappresentante, di Branko Stefanović, padre dell’attuale ministro degli Interni e vice-primo ministro Nebojša Stefanović. Proprio Stefanović padre avrebbe svolto il ruolo di intermediario tra la GIM e le altre imprese coinvolte. Qui il secondo aspetto poco trasparente della storia. Secondo i documenti forniti da Obradović, la GIM avrebbe acquistato le armi dall’azienda statale Krušik di Valjevo ad un prezzo di gran lunga inferiore rispetto al loro reale valore e a quanto pagato dall’impresa statale Jugoimport SDPR, provocando così un significativo danno economico per lo stato. Infine, elemento non certo secondario, secondo quanto pubblicato da ArmsWatch le armi oggetto della compravendita sarebbero finite non al governo saudita ma, grazie ad esso, direttamente nelle mani degli jihadisti dello Stato islamico (IS) presenti in Yemen.

Le reazioni politiche

Due giorni dopo la pubblicazione della notizia sul portale ArmsWatch, il ministero del Commercio serbo aveva rilasciato una nota in cui ribadiva che nessuna esportazione era stata autorizzata verso paesi soggetti a sanzioni internazionali e che la Serbia “non può in alcun modo assumersi la responsabilità di ciò che i paesi di destinazione finale fanno con le merci”. Lo stesso giorno la Krušik negava la vendita delle armi alla GIM ad un prezzo privilegiato.
Il 18 settembre, giorno dell’arresto di Obradović, il ministro degli Interni Nebojša Stefanović aveva negato che la GIM fosse di proprietà del padre definendo la notizia “un pezzo di carta che non significa nulla”.

Pochi giorni fa il presidente Aleksandar Vučić ha bollato la questione come “un’invenzione prodotta dall’opposizione che sta conducendo una brutale campagna contro le persone al potere e che solo chi denuncia qualcosa all’organismo statale o all’ufficio del procuratore può essere considerato e lui [Obradović] non l’ha fatto”. Lo scorso 20 settembre lo stesso Vučić si era detto pronto a sollecitare “la vendita di più armi possibili” all’Arabia Saudita in quanto consentito dalla legge.

Quel che appare certo è che questa storia non finirà qua, come dichiarato dallo stesso Obradović in un’intervista dopo il suo rilascio in cui afferma di avere ancora molte cose da riferire sul tema: un’azione che compie “per rendere pubblica la verità”.

Vučić e i businessmen mediorientali

La società civile e l’opposizione serba chiedono di far luce sul caso. Il 22 ottobre la deputata dell’opposizione Marinika Tepić ha tenuto una conferenza stampa in cui ha esposto ulteriori dettagli sul coinvolgimento del governo serbo nel traffico d’armi verso i fronti di guerra del Medio Oriente. In particolare, Tepić ha mostrato le fotografie di alcuni carichi sospetti, per via delle grosse dimensioni, presso gli hangar dell’aeroporto di Belgrado contrassegnati con la dicitura “VIP”, quindi esentati da controllo, con destinazione Doha, in Qatar. La deputata ha poi chiesto a Vučić di rispondere circa il ruolo di due controversi personaggi palestinesi, mostrando le fotografie ricevute da un informatore che li ritrae insieme all’aeroporto.

Si tratta di Mohammed Dahlan e Adham Abo Madalala, che da anni vivono a Belgrado e sono diventati cittadini serbi. Mentre del secondo non si sa molto se non che è stato il primo ambasciatore palestinese in Montenegro, Mohammed Dahlan è molto più noto al pubblico. Dahlan è infatti ex capo dei servizi segreti palestinesi, rivale politico del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmud Abbas, nonché consigliere dei principi sauditi. Nel 2016 venne condannato in contumacia da una corte palestinese per essersi appropriato di 18 milioni di dollari di fondi pubblici. Dahlan è stato esiliato dalla Palestina nel 2011: oggi possiede passaporto montenegrino dal 2010 e serbo dal 2013, ed è stato anche fotografato insieme ai presidenti dei due paesi (quando entrambi ricoprivano la carica di primo ministro).

Tepić chiede quindi a Vučić cosa questi abbia concordato coi due palestinesi all’epoca degli scatti e quale sia il ruolo di questi controversi businessman nel traffico di armi, così come negli affari commerciali che legano la Serbia al Medio Oriente, tra cui il progetto edilizio “Belgrado sull’acqua” e l’acquisizione di Air Serbia da parte di Etihad Airways.

Il traffico di armi dalla Serbia

Che le guerre in Yemen e Siria siano diventate terreno di scontro tra grandi potenze, assumendo la forma di “guerre per procura”, è cosa nota. Quello che però risulta meno noto al grande pubblico è il punto di partenza di buona parte delle armi che alimentano quei conflitti. Tra questi, uno dei più importanti è la Serbia che tramite le imprese statali Jugoimport SDPR e Krušik, e la mediazione delle autorità statunitensi, esporta i propri armamenti in varie parti del mondo.

Il Trattato sul commercio delle armi delle Nazioni Unite, entrato in vigore nel dicembre 2014, vieta l’esportazione diretta verso paesi in cui sussistono “gravi violazioni dei diritti umani”. La norma prevede inoltre che le esportazioni siano provviste di un certificato che specifichi l’utente finale e di un documento emesso dal governo del paese importatore che garantisce che le armi non vengano riesportate verso paesi in guerra.

Per aggirare il problema le imprese serbe si affidano spesso ad intermediari statunitensi o agli stessi governi di Turchia, Arabia Saudita e paesi del Golfo. Già nel 2016 un’indagine di BIRN denunciava che circa 50 voli carichi di armi erano partiti, nel giro di un anno, dall’aeroporto Nikola Tesla di Belgrado diretti in Arabia Saudita o negli Emirati Arabi Uniti. Il carico sarebbe poi stato trasferito proprio verso la Siria e lo Yemen.

Quanto pubblicato da ArmsWatch nel settembre scorso dimostra come ancora oggi ingenti quantitativi di armamenti prodotti in Serbia giungano nelle mani degli jihadisti yemeniti. A guadagnare da questi commerci illeciti è, manco a dirlo, proprio l’impresa GIM. Tra il 2015, anno in cui Branko Stefanović ha cominciato a collaborare con il presidente Goran Todorović, e il 2018 i profitti dell’azienda sono cresciuti in maniera esponenziale passando da appena 340 mila euro a circa 16 milioni di euro.

Foto presa dai canali di comunicazione dello Stato islamico e utilizzata dall’inchiesta di ArmsWatch
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Ottobre 29, 2019, 19:14:56 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Bosnia-Erzegovina-nel-paese-dei-villaggi-fantasma-197450

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Bosnia Erzegovina: nel paese dei villaggi fantasma
È una catastrofe demografica inedita quella che sta colpendo la Bosnia Erzegovina. Il paese si sta svuotando ed in alcune zone manca la manodopera. E le autorità guardano in silenzio

29/10/2019 -  Tatjana Čalić
(Pubblicato originariamente da Buka il 28 ottobre 2019, selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans  e OBCT)

La Bosnia Erzegovina si sta svuotando a grande velocità. In particolare nel cantone Una-Sana, nel nord-ovest del paese, al confine con la Croazia. La città di Sanski Most ha perso quasi 8000 abitanti. Investitori tedeschi vi hanno aperto tre aziende ma non riescono a trovare manodopera. Non va meglio a Bosanski Petrovac, nel cantone 10, dove una nuova fabbrica si trova a corto di operai. Ne parla Mirhunisa Zukić, presidentessa dell'associazione Unione per il ritorno sostenibile e l'integrazione della Bosnia Erzegovina.

È a causa di stipendi troppo bassi che gli operai non rispondono a queste offerte di lavoro?

Non è una questione di salari, il problema è che non ci sono più persone. La gente se ne è andata. È la prima volta che in Bosnia Erzegovina questo problema si manifesta in modo così forte. Basti vedere il numero di scuole che hanno chiuso i battenti. A Bosansko Grahovo, nel Cantone 10, la situazione è catastrofica: i liceali sono costretti ad andare a Drvar perché non sono numerosi a sufficienza per formare una classe nel loro comune di residenza. Non va meglio a Bihać. In Posavina, nel nord-est della Bosnia, si sono svuotati interi villaggi e la notte è un paesaggio terribile.

Quali i comuni della Republika Srpska che registrano le partenze più rilevanti?

Foča, Han Pjesak, Čajniče, Teslić, Rudo, Rogatica, Ribnik, la stessa Prijedor e Trebinje... Basti citare l'esempio del piccolo villaggio di Kopači, vicino a Goražde, che ha visto andarsene la quasi totalità dei suoi 227 abitanti.

Per quali ragioni partono i bosniaci? E dove vanno?

Il posto di lavoro ha smesso da tempo di essere l'unico motivo. I nostri concittadini se ne vanno a causa del destino incerto dell'intera regione. Sempre più spesso decidono di trasferirsi in un paese europeo, soprattutto Germania o Francia. Interessante notare come la popolazione della Bosnia nord-orientale – nello specifico delle regioni di Zvornik, Bratunac e Srebrenica – si sposti in particolare in Francia. Ma oltre a questi due paesi si trasferiscono anche in Austria, Norvegia e in Svezia.

Numerose donne si trasferiscono in Germania, in particolare infermiere ed addette alla cura delle persone. Una volta stabilite, ottengono il ricongiungimento familiare. Il problema maggiore e proprio la partenza di intere famiglie. Da metà 2013 a metà 2019 se ne sono andate più di 210.000 persone, vale a dire il 5% della popolazione bosniaca.

Perché le autorità non affrontano il problema?

Abbiamo insistito a più riprese affinché le autorità reagiscano ma ogni volta ci si chiedeva solo come avessimo avuto questi dati... Dopo che Eurostat ha confermato che il numero di partenze era arrivato a 234.000 le autorità non hanno detto più nulla. Nessuna parola su questi dati, nessuna soluzione proposta.

Come vi spiegate questa mancanza di reazioni?

Basti guardare anche gli espatriati che ritornano nel paese per poi andarsene nuovamente perché la vita dignitosa che era stata loro promessa non è stata garantita. Esistono ancora, a 25 anni dalla fine della guerra, in centri d'accoglienza collettivi, lo stato crolla sotto i suoi debiti e tutto accade così lentamente che sono stupita del fatto che i creditori internazionali non penalizzino più di quanto già avvenga la Bosnia Erzegovina.

I cittadini vogliono vivere una vita normale, vogliono avere la possibilità di vivere del loro lavoro... Ci dicono spesso che una parte rilevante del problema sta nel clima generale che regna da molto tempo in Bosnia Erzegovina. Dà loro fastidio che le leggi rimangano inapplicate, che gli atti illegali non vengano sanzionati, che qualcuno riceva salari per funzioni che non svolgono in modo adeguato... La gente è stufa di nepotismo ed ingiustizia, vuole sentirsi protetta, in sicurezza.


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Citazione
I cittadini vogliono vivere una vita normale, vogliono avere la possibilità di vivere del loro lavoro... Ci dicono spesso che una parte rilevante del problema sta nel clima generale che regna da molto tempo in Bosnia Erzegovina. Dà loro fastidio che le leggi rimangano inapplicate, che gli atti illegali non vengano sanzionati, che qualcuno riceva salari per funzioni che non svolgono in modo adeguato... La gente è stufa di nepotismo ed ingiustizia, vuole sentirsi protetta, in sicurezza.

Com'è che dice l' italiano medio ?
Ah, già:
"Certe cose accadono solo in Italia!"

Sì, infatti.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Ottobre 30, 2019, 21:19:32 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Dalla-cronaca-alla-piazza-violenza-di-genere-in-Croazia-197322

Citazione
Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa
Dalla cronaca alla piazza: violenza di genere in Croazia

Una recente protesta di piazza contro la decisione del tribunale di Zara di liberare dalla custodia cautelare cinque giovani accusati di aver violentato e ricattato una ragazzina di 15 anni ha riacceso l'attenzione sulle violenze di genere in Croazia

24/10/2019 -  Giovanni Vale
"In meno di un anno, il tema della violenza di genere ha conquistato per ben tre volte le piazze e lo spazio mediatico in Croazia", commenta Ivan Blažević, dell’associazione Solidarna, che dal 2015 aiuta economicamente chi non ha accesso ad alcuni diritti fondamentali. Già a fine 2018, infatti, la società croata è stata scossa dalla campagna #PrekinimoŠutnju (Rompiamo il silenzio), iniziata quando una deputata ha raccontato la sua terribile esperienza - rivelatasi poi comune ad altre donne - di un raschiamento operato senza anestesia.

A marzo 2019, è toccato al movimento #Spasime (Salvami), una protesta nata contro la violenza domestica e organizzatasi dopo un grave fatto di cronaca nera (a Pago, un uomo aveva lanciato i quattro figli dal balcone). Infine, questo fine settimana, c’è stata la mobilitazione #PravdaZaDjevojčice (Giustizia per le ragazze), ancora una volta a seguito di un terribile fatto di cronaca. "Sembra che la società croata si sia risvegliata su questi temi", aggiunge Blažević.

«Giustizia per le ragazze»
Ultima in ordine di data, la manifestazione che si è tenuta sabato 19 ottobre a Zagabria e nelle principali città della Croazia ha raccolto la partecipazione di migliaia di persone (7mila solo nella capitale, secondo gli organizzatori). All’origine della mobilitazione, vi è la decisione del tribunale di Zara di liberare dalla custodia cautelare cinque giovani (tra i 17 e i 19 anni) accusati di aver violentato e ricattato per oltre un anno una ragazzina di 15 anni.

Stando a quanto riportato dalla stampa locale, la vittima avrebbe finito per confessare la vicenda allo psicologo della scuola, dopo che tra l’agosto 2018 e il luglio 2019 i cinque - coadiuvati da altri due giovani - le avevano inflitto percosse e stupri di gruppo e l’avevano minacciata di pubblicare sui social media i video delle violenze. Tra i sospettati ci sarebbe anche l’ex ragazzo della vittima, lui stesso accusato di violenze.

La decisione del giudice ha scatenato un’ondata di proteste e di commenti, con l’intervento anche della presidente Kolinda Grabar-Kitarović e di diversi ministri, «stupiti» dal caso e decisi a «condannare ogni forma di violenza». Nel giro di pochi giorni, si sono organizzati sit-in e proteste, ponendo al centro della critica il sistema giudiziario croato. A Zara, intanto, il tribunale ha ricevuto il ricorso del procuratore e ribaltato la decisione del giudice (i cinque ora sono di nuovo in carcere).

La critica espressa sabato in diverse città va dunque oltre il caso specifico e guarda più in generale alla situazione nel paese. In Croazia, lo stupro è punibile con una pena che va fino a 10 anni di prigione, ma il codice penale prevede anche il reato di «rapporto sessuale senza consenso», con pene che vanno dai 6 mesi ai 5 anni. Secondo Amnesty International, il 90% dei casi di stupro finisce proprio in questa seconda categoria, con condanne di un anno o meno.

«Le condizioni per le donne stanno peggiorando»
"Negli ultimi cinque anni, più di 90 donne sono state uccise in Croazia dai loro mariti, partner, ex o altri uomini a loro vicini. Ogni 15 minuti, una donna è vittima di abusi e il 58% delle giovani tra i 16 e i 26 anni ha fatto esperienza di un comportamento abusivo da parte del proprio partner", analizza Svjetlana Knežević dell’associazione «B.a.B.e. - Budi aktivna. Budi emancipiran» (letteralmente: sii attiva, sii emancipato), creata nel 1994 per promuovere l’uguaglianza di genere.

Stando all’ultimo rapporto dell’Ombudsman croata per l’uguaglianza di genere, Višnja Ljubičić, nei primi otto mesi del 2019 sono stati segnalati 639 casi di violenza domestica nei confronti delle donne, contro 535 casi in tutto il 2018. Se quindi da un lato la recente reazione della società croata è certamente positiva, dall’altro le motivazioni che l’hanno scatenata - per ben tre volte in dodici mesi - non fanno ben sperare.

"Le condizioni per le donne stanno peggiorando a livello globale e la Croazia fa certamente parte di questo trend", prosegue Knežević, che si chiede: "Questo coinvolgimento del pubblico (croato, ndr.) evolverà in una richiesta di cambiamento strutturale o evaporerà facilmente?". Il problema, infatti, è più ampio dei singoli fatti di cronaca che peraltro raccontano solo una parte delle violenze. "Solo una donna su 15 o su 20 denuncia uno stupro subito", precisa Svjetlana Knežević.

A fare da corollario alla cronaca nera, c’è infatti non solo la questione della disuguaglianza di genere (salari più bassi, scarsa rappresentanza in parlamento - 12,5% dei seggi - scarsa presenza nei comuni - 9% dei sindaci), ma anche una persistente mentalità patriarcale e maschilista che fa da concime ai comportamenti violenti. Ne è un esempio l’ultima puntata della trasmissione “Nedjeljom u 2” sulla tv pubblica croata, che trattava proprio il tema della violenza sulle donne.

Maschilismo in tv e nella società
Domenica 20 ottobre, alla trasmissione presentata da Aleksandar Stanković era invitata l’attrice e attivista croata Jelena Veljača, organizzatrice della protesta #Spasime del marzo 2019 e tra le promotrici del movimento #PravdaZaDjevojčice. L’intervista, che partiva dal terribile caso di cronaca di Zara, si è rapidamente concentrata sul comportamento delle vittime di violenza sessuale piuttosto che su quello degli aggressori e sulle cause del fenomeno, dimostrando quanta confusione e incomprensione ci sia ancora sul tema.

Commentando il movimento #MeToo, Stanković ha ad esempio insistito su come l’attrice Salma Hayek abbia potuto tacere per 14 anni sulla violenza subita da parte di Harvey Weinstein. "Hayek era ricca e famosa all’epoca, perché si è piegata alla violenza? Io non lo avrei fatto", ha detto Stanković, concludendo (di fronte ad una scandalizzata Jelena Veljača): "Non dico che non ci sia stato stupro, ma la versione di Salma Hayek mi pare poco credibile".

Immediata la reazione delle associazioni di difesa delle donne. Ženska soba (La stanza delle donne), che da 17 anni lavora con le vittime di violenza sessuale, ha condannato queste affermazioni definendole "preoccupanti" e "pericolose per le vittime di violenza sessuale che hanno guardato la puntata, in quanto le espone ad un ulteriore trauma". "Ripetiamo ancora una volta che l'unica persona responsabile della violenza sessuale è l'autore della violenza", si legge nel comunicato di Ženska soba.

Sia l’associazione che il presentatore televisivo hanno ricevuto negli ultimi giorni delle minacce, segno - come ha commentato ancora Ženska soba - dello stato di "una società in cui anche la lotta alla violenza sessuale provoca nuove reazioni violente". "Stando all’ultimo censimento, l’86% dei croati è di fede cattolica. La Chiesa, in questo senso, potrebbe utilizzare di più la sua influenza per promuovere l’uguaglianza di genere", afferma Ivan Blažević di Solidarna.

Ženska soba va ancora più in là definendo la Chiesa cattolica "un partito ombra" in Croazia e ricordando come quest’ultima si sia espressa "apertamente contro la Convenzione di Istanbul", il documento del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza di genere e alla violenza domestica. L’estate scorsa, il governo ha finito per ratificare tra le proteste il documento, mentre la Chiesa e i gruppi più conservatori manifestavano contro.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Ottobre 30, 2019, 21:23:15 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/Kosovo-Occorre-depoliticizzare-l-universita-197355

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Kosovo: “Occorre depoliticizzare l'università”

Per formare le nuove generazioni che assicureranno poi il futuro del Kosovo occorre riformare profondamente le università del paese. È questo che ripete in continuazione il professor Arben Hajrullahu. Un'intervista

30/10/2019 -  Arian Lumezi
(Prodotto e pubblicato originariamente da Kosovo 2.0. È stato qui tradotto e pubblicato su loro permesso)

Nel sud-est Europa le università devono tutte affrontare sfide simili: qualità non eccellente degli insegnamenti, fuga di cervelli e influenza del mondo politico. Per contribuire a “rifondare” gli studi superiori nei Balcani, Kosovo 2.0 ha intervistato alcuni tra gli intellettuali più influenti della regione, tra cui Arben Hajrullahu, professore presso il dipartimento di Scienze politiche dell'Università di Pristina (UP), dove insegna dal 2006. Titolare di un dottorato presso l'Università di Vienna, Arben Hajrullahu è uno delle prime persone del Kosovo ad essere stato definito un “whistleblower”. Ma lui non si considera tale, ma piuttosto come “un professore che tenta di adempiere ai suoi obblighi universitari”. Nel 2017 aveva denunciato che la sua mancata promozione in seno all'Università di Pristina era conseguenza delle critiche da lui mosse sul funzionamento dell'università stessa.

Quali sono le sue impressioni sul mondo universitario del Kosovo?

Sono numerosi gli scandali che mi hanno inseguito da quando lavoro in questa università. Senza parlare di chi era alla base di questi scandali, la cosa preoccupante è la mancanza di volontà tra i professori di contestare questi atti tutt'altro che irreprensibili. Alcune nomine in seno all'università sono semplicemente scandalose. Sulle mille persone di cui è composto il personale dell'Università di Pristina solo qualcuno ha il coraggio di dar seguito ai propri obblighi intellettuali e ad esprimersi in pubblico. Quindi il problema non sono solo coloro i quali frodano, ma anche quelli che preferiscono rimanere in silenzio. Il sistema funziona in modo tale che se si risponde ai propri obblighi intellettuali e professionali e ci si esprime a favore dell'interesse pubblico su questioni relative all'università o al sistema educativo, si rischiano guai seri.


Negli anni seguiti al 1999 in seno all'università è cresciuto un sistema clientelare ad alta tossicità, come del resto si è sviluppato nel mondo della politica. In questo sistema vi sono legioni pronte a manipolare ed il silenzio viene pagato con promozioni o denaro. Ogni avanzamento di carriera è legato all'essere membro di un partito. Ed è molto difficile rompere questo circolo vizioso unicamente con forze interne all'università. I ricercatori dovrebbero farsi forza del proprio senso critico piuttosto di flirtare con la politica. Siamo in trappola e dobbiamo mobilitare la società nel suo complesso, le persone con capacità intellettuali e buona volontà. Dobbiamo mobilitare i decisori politici per "liberare" il sistema universitario e l'intero sistema educativo.


Nel novembre 2015 l'istituto Democracy for Development (D4D)  ha pubblicato un rapporto che sottolineava come l'Università di Pristina dovesse rispondere a nove grandi sfide tra cui la mancanza di personale qualificato, la politicizzazione delle organizzazioni studentesche, promozioni immeritate, ecc. Dove siamo quattro anni dopo questa pubblicazione?

Temo che potrebbero passarne quattro, otto o quaranta anni prima di fare qualche passo significativo se non vi è il desiderio di cambiare le cose. Non possiamo sperare in un miracolo e dobbiamo iniziare dalle basi. Tutti i professori di tutti i dipartimenti dell'Università dovrebbero essere supervisionati. E non solo a Pristina, ma anche nelle università pubbliche di tutto il Kosovo e in tutte le facoltà private. Dobbiamo determinare se vi sono conflitti di interesse nell'etica e nell'integrità accademica e, in tal caso, determinare la gravità di queste violazioni.

Alcuni insegnanti sono colpevoli di plagio. Alcuni addirittura hanno ottenuto così dei dottorati e successivamente hanno ottenuto posizioni importanti. Dobbiamo studiare il background di tutti gli insegnanti attuali e possibilmente chiudere alcuni dipartimenti universitari, se non funzionano. È meglio farne a meno e concentrarsi sul formare studenti di qualità.

Gli studenti arrivano all'età di 25 o 30 anni rendendosi conto di non avere competenze e si trovano ad affrontare il mercato del lavoro. Dopo sei o otto anni di studio, non sono più disponibili a fare lavori che richiedono bassi livelli di qualifica. È come se una spina fosse piantata nel cuore della nostra società. E gli insegnanti che fanno superare gli esami agli studenti senza valutarli adeguatamente sono responsabili di questo disastro e delle sue conseguenze, come l'esodo nel 2015 di decine di migliaia di cittadini del Kosovo.

Si è spesso detto che l'apertura di università a Prizren, Pëja o Mitrovica rappresentava un tentativo di "comprare" la pace sociale. Oggi, che tre di queste università hanno visto le proprie licenze sospese per il periodo di un anno, come spiega la loro creazione?

Non si possono aprire università durante le campagne elettorali. Ma ora dobbiamo vedere cosa possiamo fare. È troppo facile dire che queste strutture vanno chiuse. Al contrario a mio avviso dobbiamo guardare a come migliorare il loro livello. Queste sospensioni sono un duro colpo per il sistema universitario del Kosovo, ma sono il risultato di politiche a breve termine, politiche che creano università senza finanziarle. Se i politici rispettassero le promesse delle loro campagne elettorali aumenterebbero le capacità delle strutture esistenti e il numero di insegnanti. Sarebbe stato necessario combinare l'istruzione accademica e la formazione professionale. Non è un'idea rivoluzionaria, molti paesi occidentali l'hanno fatto prima di noi.

Non sto dicendo che i professori non possano essere coinvolti in politica, ma abbiamo casi in cui alcuni hanno sospeso la loro carriera accademica per quindici anni per fare qualcos'altro. Negli Stati Uniti, se un insegnante decide di seguire un percorso diverso dall'insegnamento, mantiene la sua posizione per quattro o sei anni, ma deve poi decidere. Anche il nostro paese soffre di fuga di cervelli. E i principali colpevoli della bancarotta nel mondo universitario sono quelli che mandano i propri figli a studiare all'estero.

Alcune università private sono diventate attori importanti del sistema educativo del Kosovo. Come valutate il loro livello?

Nei paesi sviluppati gli istituti privati che chiedono rette ingenti garantiscono solitamente un insegnamento di qualità superiore alle università pubbliche. Non è il caso del Kosovo. È un indicatore del fatto che abbiano venduto lauree senza alcun criterio. In Occidente alcune istituzioni private sono gestite come fondazioni e lo scopo non è quello di fare soldi. Qui siamo molto distanti da questo modello. Nel nostro paese funzionano come un chiosco che vende kebab: se avete soldi ottenete tutto quello che volete. Anche i professori di queste università dovrebbero essere valutati.

Durante l'ultima campagna elettorale alcuni politici hanno spiegato che il problema principale delle università del Kosovo è la mancanza di professori adeguatamente qualificati. Anche lei ha sollevato quest'aspetto. Quali le soluzioni possibili?

Abbiamo le risorse sufficienti perlomeno per avviare questo processo. Il primo passo è un'ispezione generale. La seconda tappa invece implica avere più tempo, e riguarda la formazione di nuovi professori e l'avvio di ciò che si definisce “la circolazione dei cervelli”. A Pristina ho avuto studenti che poi sono diventati professori presso alcune università europee. Alcuni vorrebbero collaborare con le istituzioni del Kosovo. Da noi si pensa che chi ha studiato all'estero non desidera certo rientrare e che chi rientra è chi ha fallito all'estero. Non dico che chi ha studiato fuori sia più competente di chi ha studiato qui in Kosovo, ma che qui siamo in pochi e che non possiamo permetterci il lusso di agire in modo irresponsabile nei confronti di chi ha studiato in università europee.

La guerra è finita da vent'anni e il Kosovo potrebbe entrare nella fase storica in cui, a seguito dei negoziati con la Serbia, si trova un accordo finale. Quale il ruolo del mondo accademico in questo processo?

Vent'anni, può darsi che i grandi cambiamenti arrivano in questo paese ogni dieci anni. La repressione degli anni '90, la presenza internazionale negli anni 2000, poi un decennio di ruberie dei beni pubblici... Ma forse le cose possono cambiare? L'università potrebbe contribuire con competenze in determinati campi, per esempio nell'ambito giuridico. Ma per farlo vi è bisogno della volontà politica perché occorre essere in due per danzare. L'università può fornire consulenze, ma su basi scientifiche, non per fare dei piaceri al politico di turno.

Lavorate da anni all'università di Pristina. Avete individuato alcuni miglioramenti?

Vi sono sicuramente molti sviluppi positivi e sarebbe in effetti ingiusto non sottolinearli. Dopo la sua completa distruzione l'Università di Pristina si è presto rimessa in piedi. Sono stati ristrutturati gli edifici e le condizioni materiali vanno sempre meglio. Io sono arrivato all'Università di Pristina nel 2004 e sono rimasto. Oggi la qualità degli insegnanti è migliore che in passato, senza ombra di dubbio. L'adozione di un sistema digitale di voto ha limitato le possibili manipolazioni. Io ho vissuto in prima persona ad esempio il caso di una mia studentessa che aveva falsificato alcuni suoi voti, ma alcuni professori la lasciavano fare perché aveva dei legami politici.

Occorre che l'Università di Pristina raggiunga il livello delle università europee, ma per far questo serve più trasparenza nella gestione del budget e dobbiamo modernizzare i nostri metodi di insegnamento.

Vi è anche poca ricerca. Negli anni '70 le pubblicazioni scientifiche erano molto più numerose. Questo ha però anche un aspetto positivo: obbliga i nostri studenti a pubblicare all'estero, quindi basandosi esclusivamente sul merito personale, senza ottenere sostegno dall'università di origine. La situazione, di sicuro, non è mai tutta nera o tutta bianca.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Ottobre 30, 2019, 23:50:15 pm
Ho già detto delle quote rosa nell'università italiana: alle donne chiedevano la targa di Bologna e davano 30 e lode, agli uomini la teoria simmetrica del positrone!
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Ottobre 31, 2019, 01:40:26 am
Ecco un tipico esame all'università (cambiano le parole ma il resto è uguale):

Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Novembre 03, 2019, 01:11:53 am
https://www.eastjournal.net/archives/100353

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90 A EST: L’Albania e la nave Vlora, simbolo della fine del comunismo
Pietro Aleotti 2 giorni fa

Una delle fotografie che meglio racconta l’Albania del primo scorcio degli anni ’90 non è stata scattata in Albania.

Ma in Italia, a Bari per la precisione, un braccio di mare più in là dalla costa albanese: da Durazzo fanno sette ore di navigazione, il tragitto più breve, un requisito non secondario quando quello che si sta per intraprendere non è esattamente un viaggio di piacere, né una crociera.

La foto è quella della nave Vlora, un mercantile battente bandiera albanese, un portarinfuse per la precisione, fatta per trasportare container e pallets. Solo che, al posto di merce, questa volta la nave è riempita all’inverosimile di persone: quelle che l’hanno presa d’assalto mentre, a Durazzo, sta sbarcando il suo carico di canna da zucchero, proveniente da Cuba. Sono ventimila in tutto, stipate in ogni dove, da prua a poppa e persino sulle gru di bordo. E’ l’8 agosto del 1991 e quello della Vlora è, ancora adesso, il più grande sbarco di migranti mai verificatosi in Italia su una sola imbarcazione.

Ma come si è arrivati a scattare quella fotografia e che cos’era successo? Era successo che il muro di Berlino era caduto anche a Tirana, un paio d’anni prima, tirandosi dietro, come negli altri paesi in orbita sovietica, gli ultimi brandelli del regime comunista. Quello albanese si era insediato nel 1944 con la cacciata delle truppe d’occupazione naziste e, da allora, era stato guidato da colui che sarebbe stato, per quarant’anni, il padre-padrone albanese, Enver Hoxha, segretario del Partito del Lavoro Albanese (PLA). Non è su di lui, però, che cadono le macerie del muro perché nel 1985, alla sua morte, a succedergli è il suo più fidato delfino, Ramiz Alia. Sebbene avesse introdotto qualche vaga apertura diplomatica verso occidente, Alia aveva comunque mantenuto l’Albania in uno stato di isolamento tale che, nel paese, non tutti seppero subito che il muro di Berlino non c’era più.

I primi scricchiolii del regime si avvertono nel gennaio del 1990 con le proteste che infiammarono Scutari, una delle città più popolose, nel nord dell’Albania: è qui che centinaia di persone si riversano in piazza per protestare contro la mancanza di cibo e nel tentativo di abbattere una statua di Stalin, un atto simbolico ripetuto decine di volte in più parti del mondo, quasi un must di ogni rivoluzione che si rispetti. Da Scutari, che comunque rimarrà uno dei centri nevralgici di tutti i moti di ribellione al potere di Alia, la protesta si allarga a macchia d’olio.

Alia è costretto a qualche timida concessione ma deve anche guardarsi le spalle dall’anima ultraconservatrice del partito, capeggiata dalla vedova di Hoxha: a maggio il Comitato Centrale del PLA accorda ai cittadini la possibilità di espatriare e di possedere un passaporto. Non basta: le proteste che comunque non si placano, unite alle fortissime pressioni internazionali (Stati Uniti su tutti) in richiesta del superamento del “modello hoxhista” facendo leva sulla disastrosa condizione economica del paese, inducono Alia ad ulteriori e ancor più significative aperture. A dicembre 1990 i partiti politici vengono legalizzati, e Sali Berisha, emanazione egli stesso del PLA, si impone come leader del neonato Partito Democratico (PD): è il gennaio del 1991 e quello che nei piani di Alia doveva essere un cavallo di troia messo a bella posta in campo “avverso” diventerà, al contrario, il protagonista assoluto degli anni a venire.

Sono addirittura indette libere elezioni per la fine di marzo, sono solo le terze nell’intera storia albanese, ma il paese ci arriva in un clima di fuggi fuggi generale e in uno stato di caos totale: moti di piazza, scioperi della fame (famoso quello degli studenti universitari di Tirana) e, ancora, statue che saltano come birilli; a farne le spese, questa volta, sono le effigi dello stesso Hoxha. La vittoria di misura del PLA serve ad Alia per diventare il primo presidente della Repubblica albanese ma non a dare un governo stabile alla nazione. Il PD decide addirittura di rimanere fuori dall’Assemblea Popolare, il governo di Fatos Nano dura meno di un mese, sostituito da quello di Ylli Bufi, membro del neonato Partito Socialista (PS), sorto dalle ceneri del defunto PLA.

Ad agosto si rinvigoriscono le tensioni mai veramente sopite che attraversano l’intera nazione in ragione di una situazione economica sempre più ingestibile e di un’inflazione al 270%. La disoccupazione è al 70%, la gente non ha futuro e, soprattutto, non ha di che mangiare: riprendono le “fughe”.

E così che si arriva ad agosto ed è così che il Vlora arriva in Italia. Di lì a poco in Albania inizierà una nuova era, quella del PD al governo (che stravincerà le elezioni anticipate dell’aprile del 1992), quella di Sali Berisha (che subentrerà ad Alia, dimissionario) e, soprattutto, quella del primo governo senza comunisti. Ma questa è un’altra storia ed è una storia tutt’altro che priva di colpi di scena e di spigoli.

Nell’Italia agostana di quei giorni si cercherà di gestire quella marea umana inaspettata, nell’assenza delle istituzioni di primo livello; non c’è traccia, ad esempio, del ministro degli interni e del capo della protezione civile, entrambi in vacanza. Diventa famosissimo, per questa ragione, il j’accuse di Don Tonino Bello che dalle colonne dell’Avvenire parlerà di “persone trattate come bestie allo zoo” e di un paese che “non sa ancora dare quelle accoglienze che hanno sapore di umanità”. Parole che, a distanza di trent’anni, suonano ancora terribilmente attuali.

Intanto sulle spiagge italiane in quei giorni impazza il Cocciante del melenso “Se stiamo insieme”, quasi beffardo pensando ad un popolo, quello albanese, che contemporaneamente aveva iniziato a sparpagliarsi per ogni dove e che, da allora, non avrebbe più smesso.


Citazione
Ad agosto si rinvigoriscono le tensioni mai veramente sopite che attraversano l’intera nazione in ragione di una situazione economica sempre più ingestibile e di un’inflazione al 270%. La disoccupazione è al 70%, la gente non ha futuro e, soprattutto, non ha di che mangiare: riprendono le “fughe”.

Questo è il motivo principale per cui ho più volte scritto in questo forum che tanta gente dell' Europa dell'est (ma non solo) che sputa nel piatto in cui mangia, fingendo di non ricordare da quale merda provengono - e soprattutto provenivano -, l'avrei rispedita (e la rispedirei) nei rispettivi paesi d' origine.
Ma, purtroppo, non ho questo potere, altrimenti ci sarebbe stato da ridere.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Novembre 03, 2019, 01:20:14 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-come-la-mafia-dei-boschi-devasta-la-Bucovina-197501

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Romania: come la mafia dei boschi devasta la Bucovina

La Romania ospita metà delle foreste vergini d'Europa. Ora minacciate. Recorder si è recato in Bucovina sulle tracce della mafia del legname, tracce che portano ad un sistema corruttivo legato al Partito nazional-liberale

31/10/2019 -  Alex Nedea,  David Muntean
(Pubblicato originariamente da Recorder, selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans e Obct)


È da trent'anni, a prescindere da chi stia governando il paese, che sia una fase in crescita o recessione, che i boschi della Romania vengono sistematicamente saccheggiati. In questi tre decenni si stima siano stati tagliati illegalmente 270 milioni di metri cubi di legname. 2 milioni all'anno. Ogni due alberi tagliati legalmente, uno lo è illegalmente.

In questi ultimi anni, a seguito di modifiche normative, volte a porre termine al fenomeno e alla messa in pratica di progetti di ispezione forestale, si sarebbe potuto credere che finalmente si iniziasse a proteggere le foreste romene. In teoria lo stato traccia tutti i camion che trasportano legname e i cittadini possono verificare in tempo reale sul loro cellulare se un camion che incrociano ha o meno l'autorizzazione per trasportare legname. In realtà la situazione rimane drammatica: si continua a disboscare illegalmente con la complicità passiva o attiva della autorità forestali, dalla base sino ai più alti livelli dello stato.

Il metodo dell'addizione
A fine agosto ci siamo recati nel villaggio di Moldovița, sede di una delle foreste secolari della Bucovina. Avevamo ricevuto informazione che in quest'area si facessero attività di deforestazione illegale. In quel periodo dell'anno non possono essere tagliati che alberi già a terra, sradicati, malati o secchi, quelli insomma “incidentati”. La vendita di tale legname avviene attraverso specifici bandi e il loro prelievo deve seguire regole ferree. Innanzitutto le autorità forestali pubblicano un inventario dei lotti di alberi messi in vendita, le guardie forestali marcano poi questi alberi con un martello speciale, con una numerazione identificativa univoca. Teoricamente le guardie forestali dovrebbero segnare solo gli alberi incidentati prima dell'avvio del bando. In realtà non segnano che una parte degli alberi e poi attendono di sapere chi ha vinto il bando. Si mettono poi d'accordo con l'azienda che ha ottenuto il lotto e, per gli alberi rimasti da segnare, non ne individuano di incidentati ma di sani, dal valore più alto sul mercato. Questo metodo viene chiamato “dell'addizione”. Il suo funzionamento ci è stato descritto sia dalle guardie forestali che da alcune aziende che lo praticano.

Un sabato pomeriggio, lungo una strada forestale di Moldovița, incontriamo Vasile Florescu, titolare dell’azienda Turculeț SRL. Ha appena finito di caricare un camion con 35 metri cubi di legname fresco, perfettamente integro, in una zona dove è permesso esclusivamente tagliare legname incidentato. “Non mi fate domande, tutto è a posto”, dice lui.

- Cos’è che non va con questo legname? Nessuno di questi alberi sembra danneggiato...

- Anche il legname fresco può essere danneggiato. È legname che ho acquistato.

- È segnato? Ce lo potete mostrare?

- Sì, sì è segnato, ma non ho tempo per mostrarvelo.

Qualche giorno più tardi: “Guardate che disastro hanno lasciato dietro di loro”. Gheorghe Oblezniuc è uno degli abitanti di Moldovița ed un ex guardia forestale che, in passato, è stato anche lui accusato di taglio illegale. Conosce tutti i metodi utilizzati dai ladri di legname. È attualmente in conflitto aperto con la cosiddetta “mafia del legname” e ci mostra alcuni alberi tagliati recentemente secondo il “Metodo dell’addizione”. Punta il dito verso un albero spezzato in due: “Questo sarebbe stato da tagliare, sicuramente era inserito nell’inventario. E guardate invece cosa hanno preso al suo posto”. Due metri più in là un ceppo. “Un albero perfettamente sano, segnato di recente. Un albero così fa tre metri cubi di legname, vale 250 euro”. Un po’ sotto è stato tagliato recentemente un altro albero. “Era in piena forma. Guardate come piange per essere stato tagliato”, dice Gheorghe mostrando la resina che traspira da ciò che rimane del tronco. “Il cuore è bianco, quest’albero era in buona salute”.

Visti i ceppi che all’evidenza corrispondono ad alberi che erano in piena salute ed il legname verde visto sul camion di Vasile Florescu chiamiamo il 112, servizio nazionale di emergenza. Forniamo la targa di immatricolazione del camion ed il funzionario al telefono ci assicura che tutto è in regola e che il trasporto era registrato. Il metodo dell’addizione permette a determinati trasportatori di saccheggiare il bosco sotto la copertura della legalità. Al telefono insistiamo, sottolineando che il legname non pareva essere schiantato. Il funzionario trasferisce la chiamata alla polizia. “Siete andati sul posto per verificare?”, chiede il poliziotto esasperato. Rispieghiamo tutto. “Mio Dio… allora verificheremo. Se non è vero ne subirete le conseguenze”. Questo modo di reagire ad una segnalazione di cittadini, che la polizia dovrebbe tutelare, ha l’apparenza di una intimidazione.

Il sistema nazionale di verifica dei trasporti di legname mostra così tutti i suoi limiti. I ladri hanno metodi così raffinati che i semplici cittadini non possono fare niente. Grazie al metodo dell’addizione il trasporto di Vasile Florescu e della sua azienda Turculeț SRL risulta nei registri legali quando tutte le prove suggeriscono invece che ha tagliato alberi che non dovevano essere tagliati.

Il giorno dopo ritorniamo in zona con due guardie forestali. Effettuano dei prelievi sul legno di uno degli alberi tagliati e apparentemente sani, per analisi in laboratorio. Ma l’indagine non preoccupa Vasile Florescu. In una registrazione audio realizzata a sua insaputa in un bar da un abitante di Moldovița, sembra convinto del fatto che l’indagine non porterà a nulla e che la collaborazione con le guardie forestali continuerà come prima: “Pago per ricevere il legname […] Sono loro che ne pagheranno le conseguenze, non io”. Vasile Florescu conversa assieme ad un’altra persona coinvolta nel taglio e quest’ultimo replica a Vasile Florescu: “Hanno preso dei campioni, li invieranno a Bucarest, ma le autorità non indagheranno, sanno che ne nascerebbero troppi problemi”.

Un capo forestale incardinato nel PNL
Questo dà un’idea della dimensione reale del sistema, che non è semplicemente questione di una complicità locale tra un imprenditore ed una guardia forestale ma piuttosto un sistema piramidale nel quale i ladri sono protetti dalle più alte sfere dello stato. Alla base della piramide vi è una guardia forestale che non può segnare il legname senza il via libera del proprio superiore, il responsabile del distretto forestale della regione, che conserva i martelli per la marcatura sottochiave, nel proprio ufficio. Per il distretto forestale di Moldovița, uno dei più ricchi della Bucovina, a ricoprire il ruolo è Georgel Zlei. Era infastidito del fatto che abbiamo chiamato il 112 e gli ispettori forestali, invece di chiedere direttamente di lui.

Due settimane dopo, è esattamente quello che abbiamo fatto. L’abbiamo avvisato dopo aver trovato delle prove che un’area era stata saccheggiata secondo il metodo dell’addizione. Vi siamo recati insieme a lui. Ha giustificato il taglio di alberi apparentemente sani per “fattori naturali destabilizzanti” come il vento e la neve. Abbiamo condiviso con lui informazioni che arrivavano direttamente da guardie forestali coinvolte nei tagli illegali. Le ha definite “accuse tendenziose e non provate”.

Georgel Zlei non è uno qualunque. Il suo passato è macchiato di accuse di furto di legname in tutte le foreste che ha amministrato. Numerose di queste accuse sono documentate anche dalla stampa nazionale. Nel 2001 Georgel Zlei è stato obbligato alle dimissioni da responsabile del distretto forestale di Tomnatic, nei pressi di Moldovița, dopo che centiania di alberi erano stati saccheggiati dai boschi che doveva proteggere. Al posto di essere avviata un’inchiesta, è stato promosso: quattro anni più tardi è stato nominato a capo del distretto forestale di Cârlibaba, una foresta ancora più ricca, sempre in Bucovina. Ed è stato un record: sono stati saccheggiati 50.000 m³ di legname, equivalenti a 30.000 alberi. Se ne è poi andato per essere nominato a capo del distretto forestale di Moldovița, che dirige ormai da dieci anni. Quando gli si ricorda di queste accuse replica: “I giornalisti, sapete come sono... La storia deve essere spettacolare per il pubblico”.

Georgel Zlei ha sempre mantenuto il posto nonostante le accuse di saccheggio. Chi conosce le dinamiche del sistema forestale della contea di Suceava sostiene che è avvenuto grazie alle sue connessioni politiche. Georgel Zlei è membro del Partito nazional-liberale (PNL, a cui appartiene il presidente romeno Klaus Iohannis e Ludovic Orban, che si prepara a diventare primo ministro). È stato a scuola e all’università assieme a Gheorghe Flutur, presidente del consiglio generale di Suceava e vice-presidente del PNL.

Questo metodo dell’addizione, grazie alla sua apparente legalità, è praticato in tutta la Bucovina, anche da aziende che appartengono direttamente a politici locali. Per esempio il sindaco di Moldovița, Traian Ilie, detiene un’azienda registrata a nome della moglie e del figlio. Dall’anno scorso quest’azienda è stata indagata per il furto di 500 m³ di legname.

Un cittadino contro il sistema
Tiberiu Boșutar dirige una piccola associazione civica, Asociația Moldovița, il cui scopo è proteggere le foreste della regione. Tiberiu ha ideato una tecnica ingegnosa per verificare i saccheggi: ha installato alla finestra di casa sua delle telecamere di sorveglianza. “Da tre anni osservo da casa mia i trasportatori di legname che entrano ed escono dal comune e tento di identificarli. All’inizio la situazione era drammatica. I primi mesi erano centinaia i camion che trasportavano legname sano uscendo da Moldovița e senza essere registrati o autorizzati”. Dal 2016 ad oggi ha segnato su un foglio di calcolo più di 8000 trasporti. Tra loro anche i camion del sindaco Traian Ilie. “Il sindaco mi ha denunciato, sono stato oggetto di indagine penale per installazione illegale di materiale di videosorveglianza”.

La denuncia non ha portato a nulla e il sindaco non è riuscito ad obbligare Tiberiu a disinstallare la sua attrezzatura. È grazie a lui che abbiamo ora tutte le immagini dei trasporti di legname che escono da Moldovița. Tiberiu verifica poi se i trasporti corrispondono alle autorizzazioni. Ha inoltre evidenziato le tecniche utilizzate dai trasportatori per far uscire molteplici trasporti di legname pur avendo un’unica autorizzazione. Ma lo stato romeno non vuole utilizzare la stessa tecnica di Tiberiu per verificare la legalità dei trasporti, anche se tecniche radar vengono utilizzate su grande scala per monitorare infrazioni stradali. “La polizia mi ha chiesto una cinquantina di volte le registrazioni per indagini in loro inchieste. In quel caso i video erano prove utilizzabili. Ma, apparentemente, non per il furto di legname… “, denuncia.

Un giorno Tiberiu Boșutar ha tentato un esperimento. Ha acquistato 100 m³ di legname fresco seguendo la via legale (90 euro al metro cubo per un totale di 9000 euro). Di questi 100 m³ ha ricavato 55 m³ di tavolato, venduto poi a 150 euro al m³ (8250 euro in tutto). “Non c’è bisogno di essere geni in matematica per capire che, anche con economie di scala, ma tenendo conto del costo dei dipendenti, degli affitti, dell’elettricità, se si seguono le vie legali è un’attività a perdere. Ai giorni nostri, a Moldovița, non è possibile lavorare legalmente”.

È per questo che gli imprenditori si ritrovano a dover acquistare ufficialmente legname danneggiato e poi, tramite mazzette, ad acquistare anche legname fresco a 45 euro il m³, cioè la metà del prezzo di mercato. Un circolo vizioso confermato dal titolare di una delle aziende che sfruttano il bosco a Moldovița: “Se si fanno le cose in modo legale non si ha alcuna possibilità di sopravvivere, occorre chiudere l'azienda”. La diffusione di questo sistema parallelo ha infatti condizionato il prezzo del legname fresco sul mercato ufficiale. Il prezzo di mercato non è quindi un prezzo “reale”, economicamente sostenibile per gli attori coinvolti, ma un prezzo influenzato dal mercato parallelo delle mazzette. Due anni fa Tiberiu Boșutar ha riunito tutti coloro che si occupano di risorse boschive della regione per tentare di convincerli a rompere insieme questo circolo vizioso. Senza successo. I titolari di queste aziende non intendevano o non potevano uscire dal sistema della corruzione ed hanno continuato ad acquistare legno illegalmente.

Quando un estraneo entra nel bosco, tutti i suoi movimenti vengono controllati. Durante la nostra inchiesta siamo stati sorvegliati. Un giorno, l'intimidazione è arrivata diretta. Un 4x4 ha tamponato intenzionalmente la nostra macchina. Un uomo è uscito chiedendo: “Perché filmate il bosco?”, “Siamo giornalisti, siamo in un luogo pubblico, abbiamo il diritto di filmare”. Gli abbiamo chiesto il nome, non ci ha risposto. Abbiamo poi indagato. Si trattava di Simion Chiruț. È il titolare di un'azienda forestale e noi stavamo filmando un suo deposito. Ma è anche consigliere comunale nel municipio di Frumosu, confinante con Moldovița, e membro del PNL.

Anche a Frumosu sono in atto deforestazioni illegali e chi prova ad allertare le autorità riceve minacce. “Lui [Simion Chiruț] è arrivato qui con alcuni uomini e ha detto che stavamo terrorizzando Suceava con i nostri controlli, le nostre denunce e le foto che facevamo nel bosco... e ci hanno presi a bastonate”. I fratelli Dumitru e Ilie Bucșă sono stati aggrediti nel bosco dopo aver denunciato l'inquinamento di un fiume della zona causato dalla deforestazione illegale.

[...]

Quando si tratta però del business del legname il colore politico sembra contare poco e la competizione tra partiti appare sospesa. A livello locale, è però il PNL che domina il paesaggio politico in Transilvania dove si trovano la maggior parte dei boschi in Romania.

Molti sindaci dei comuni della zona possiedono, tramite l'intermediazione di un membro della loro famiglia, un'azienda coinvolta nello sfruttamento del legname. Oltre al sindaco di Moldovița, Traian Ilie, è il caso ad esempio dei sindaci di Vatra Moldoviței (Virgil Saghin, PNL) e di Sadova (Mihai Constantinescu, PNL).

In questa regione sono i “forestali” a tenere alta la bandiera del partito. Gheorghe Flutur, presidente del Consiglio generale di Suceava e vice-presidente del PNL ha cominciato la sua carriera politica mentre dirigeva il distretto forestale di Suceava. Non è certo una coincidenza. Nei comuni che hanno sui loro territori ricche foreste i “forestali” vivono ascese politiche molto rapide. La loro influenza non è però utilizzata per la protezione del patrimonio naturale comune ma nell'arricchimento in affari privati che iniettano denaro anche nelle casse dei partiti politici. “E questi soldi non vanno certo alla gente dei villaggi”, assicurano dei boscaioli, a condizione di anonimato.

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Dopo l'inchiesta: dimissioni, un omicidio e pestaggi

La pubblicazione dell'inchiesta ha avuto varie conseguenze. Georgel Zlei ha dato le dimissioni. Romsilva e il suo direttore Gheorghe Mihăilescu, si sono impegnati per bloccare il “metodo dell'addizione”. La guardia forestale di Suceava ha annunciato controlli nei magazzini delle aziende nominate dall'inchiesta di Recorder.

Il ministero dell'Acqua e delle Foreste ha aperto una propria inchiesta. L'Asociația Moldovița di Tiberiu Boșutar ha ricevuto l’autorizzazione d'installare camere di videosorveglianza lungo i sentieri forestali. Per quanto riguarda l'aggressione e le minacce di morte alla guardia forestale Răzvan Cenușă quest'ultimo l'ha così spiegato: “Sono stato picchiato perché è a causa mia che Georgel Zlei se ne è dovuto andare e ora vi sono controlli nei boschi”. Tiberiu Boșutar analizza: “La partenza di Georgel Zlei non va giù al clan del comune e vi sono dunque ripercussioni. Perché chiunque apre la bocca subisce delle conseguenze a Moldovița”.


Le 16 ottobre scorso, dopo la pubblicazione di questa inchiesta di Recorder, Liviu Pop, una guardia forestale del Maramureș, è stato ucciso a colpi di fucile da caccia essendo intervenuto durante un taglio illegale di legname. È la seconda guardia forestale uccisa nel mese di ottobre. Il giorno dopo dell'omicidio è toccato a Răzvan Cenușă, guardia forestale che viene nominata nell'inchiesta di Recorder, essere picchiato e minacciato di morte da una famiglia che sfrutta il bosco a Moldovița.


https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-la-corsa-all-oro-verde-26214
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Novembre 03, 2019, 01:27:00 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-Russia-esercitazioni-militari-e-dilemmi-politici-197663

Citazione
Serbia-Russia, esercitazioni militari e dilemmi politici

Una recente esercitazione militare tra Belgrado e Mosca ha portato in Serbia il sistema missilistico russo S-400, una mossa che ha destato una certa preoccupazione nei paesi della regione. Che intenzioni ha il presidente Vučić?

31/10/2019 -  Dragan Janjić Belgrado
La scorsa settimana la Russia ha inviato il suo sistema missilistico S-400 in Serbia ed è stata la prima volta che questo sistema è stato impiegato in un’esercitazione militare all’estero. Il sistema è stato trasferito in Serbia per partecipare ad un’esercitazione militare congiunta russo-serba intitolata “Slavic Shield 2019”. All’esercitazione ha partecipato anche il sistema missilistico Pantsir S-1, che la Serbia ha già acquistato dalla Russia, ma questo sistema non ha attirato particolare attenzione perché ha un raggio d’azione inferiore rispetto a quello del sistema S-400. L’arrivo del sistema S-400 in Serbia ha destato preoccupazione nell’intera regione, nonostante in questo momento sia poco probabile che la Serbia acquisti questo sistema.

Un battaglione di S-400 costa circa 600 milioni di euro, cifra che corrisponde all’intera somma che negli ultimi anni la Serbia ha speso per l’acquisto di armamenti di produzione nazionale ed estera. Anche se la Russia decidesse di regalare alla Serbia il sistema S-400, è difficilmente immaginabile che l’Occidente permetta che questo sistema venga definitivamente trasferito in Serbia. Il sistema S-400 ha un raggio d’azione di circa 400 chilometri, quindi se dovesse essere dispiegato in Serbia potrebbe penetrare profondamente nello spazio aereo dei paesi vicini, e la NATO sicuramente non resterebbe indifferente di fronte a una sfida di questo tipo.

La divisione del sistema S-400 che è stata trasferita in Serbia per le esercitazioni verrà riportata in Russia, ma la preoccupazione e gli interrogativi che questa operazione ha suscitato nella regione resteranno. L’esercitazione russo-serba si è svolta alcuni giorni dopo che il Consiglio europeo ha deciso di rinviare ancora una volta l’avvio dei negoziati di adesione con la Macedonia del Nord e l’Albania, una decisione che ha suscitato preoccupazione anche nei paesi dei Balcani occidentali che ormai da tempo hanno aperto i negoziati con l’UE. In tale atmosfera si specula con sempre maggiore insistenza su un possibile rafforzamento dei rapporti tra Belgrado e Mosca, ovvero sulla possibilità che la Russia aumenti la sua influenza nella regione.

Dilemmi
Secondo alcuni analisti, il presidente serbo Aleksandar Vučić si trova di fronte ad un dilemma: proseguire sulla strada dell’integrazione europea o cercare un’altra via? La prima alternativa sarebbe sicuramente quella di rafforzare i rapporti con Mosca, soprattutto tenendo conto del fatto che molti cittadini serbi provano affetto per la Russia e che l’80% di loro è contrario all’ingresso della Serbia nella NATO. Quindi, ci sono i presupposti per un’eventuale virata di Belgrado verso Mosca che sarebbe appoggiata da una parte dell’elettorato serbo.

Nell’ottica della NATO, la summenzionata esercitazione militare durante la quale è stato usato il sistema S-400 è finora la più chiara dimostrazione della volontà di Belgrado di avvicinarsi ulteriormente a Mosca, dopo vent’anni di insistenza sulla neutralità militare e su una politica di equidistanza tra l’Occidente e la Russia. Se in passato la comunità internazionale aveva creduto che la Serbia perseguisse davvero una politica di neutralità militare, ora sarà difficile per la Serbia dare prova di questa neutralità. Tuttavia non vi è alcun chiaro indizio che Vučić sia davvero disposto a compiere una virata verso Mosca e a rinunciare all’obiettivo dichiarato di proseguire sulla strada dell’integrazione europea.

Nella peggiore delle ipotesi, Vučić potrebbe cercare di sfruttare la recente esercitazione militare russo-serba per inviare un messaggio alle potenze occidentali e per dimostrare di essere disposto a cambiare la sua politica nel caso in cui l’Occidente dovesse continuare a fare pressione sulla Serbia in merito alla risoluzione della questione del Kosovo. In realtà, l’economia serba, compresa l’industria delle armi, dipende in larga parte dall’UE e da altri paesi occidentali, per cui un’eventuale rottura dei rapporti tra la Serbia e l’Occidente provocherebbe forti turbolenze nel paese, sia economiche che politiche.

Se questo scenario dovesse verificarsi, la Russia sarebbe costretta a impiegare ingenti risorse per garantire la stabilità della Serbia, che Mosca considera come il suo principale alleato nei Balcani. La maggior parte degli analisti di Belgrado ritiene che Mosca non sia disposta ad assumersi un tale impegno, soprattutto se dovesse prolungarsi nel tempo, e che le autorità di Belgrado ne siano perfettamente consapevoli. Quindi, Vučić e la coalizione di governo devono fare molta attenzione a non compiere mosse rischiose che potrebbero mettere a repentaglio l’attuale equilibrio di potere nella regione. In parole povere, l’arrivo del sistema S-400 in Serbia è stato ben sfruttato dalla leadership al potere per i propri interessi politici, ma potrebbe inficiare la posizione della Serbia a livello internazionale.

Conquista dei consensi
Tutto sommato, le principali motivazioni alla base della decisione di Vučić di organizzare la summenzionata esercitazione militare sono di carattere politico, ma non riguardano la politica estera della Serbia, bensì quella interna. Vučić sta cercando di accattivarsi le simpatie di quella parte dell’elettorato serbo (e dell’opinione pubblica in generale) che nutre forti sentimenti filorussi e che ha interpretato la recente esercitazione militare russo-serba come un tentativo da parte di Mosca di rimediare al mancato appoggio e aiuto militare che la Serbia si aspettava di ottenere dalla Russia durante i bombardamenti della NATO del 1999. Si cerca di fare credere all’opinione pubblica serba che oggi la posizione della Serbia a livello internazionale sia molto migliore rispetto a vent’anni fa e che Vučić sia in grado di mantenere buoni rapporti sia con l’Occidente che con la Russia e di tenere sotto controllo la situazione nel paese.

Sta di fatto che la coalizione di governo, guidata da Vučić e dal suo Partito progressista serbo (SNS), conta sull’appoggio di quella parte della popolazione che nutre tradizionalmente sentimenti filorussi e non vede di buon occhio l’Occidente, soprattutto dopo i bombardamenti del 1999. La leadership al potere alimenta in continuazione questi sentimenti attraverso una campagna mediatica in cui si insiste sul fatto che alcune potenze occidentali vogliono rovesciare Vučić o che persino stanno organizzando il suo omicidio, mentre Mosca e il presidente russo Vladimir Putin sarebbero pronti a difendere la Serbia. Anche l’arrivo del sistema S-400 in Serbia è stato sfruttato ai fini di questa campagna mediatica, non solo da parte dei tabloid, ma anche da parte di molti esponenti della coalizione al governo.

Vučić ha bisogno di campagne mediatiche di questo tipo perché rappresentano un potente strumento per mantenere il consenso degli elettori di orientamento nazionalista in un momento in cui si parla con sempre maggiore insistenza delle imminenti concessioni che Belgrado dovrà fare nei confronti di Pristina, compreso un eventuale riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo. L’obiettivo della leadership al potere è quello di convincere l’elettorato di orientamento nazionalista che non cederà alle pressioni dell’Occidente e ai suoi tentativi di “sottrarre il Kosovo” alla Serbia. Questa strategia del governo di Belgrado va a vantaggio di Mosca perché le consente di aumentare la propria influenza in Serbia, senza dover impiegare grandi risorse finanziarie né di altro tipo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Novembre 03, 2019, 01:40:52 am
C'è poco da fare, la gente dell'Est non rispetta gli italiani.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Novembre 03, 2019, 01:48:35 am
C'è poco da fare, la gente dell'Est non rispetta gli italiani.

Beh, parlando a titolo personale, nemmeno io rispetto loro.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Novembre 28, 2019, 18:51:25 pm
Dice l'italian medio:
"Solo in Italia accadono certe cose!"

Certo, come no.

https://www.eastjournal.net/archives/101054

Citazione
SERBIA: Il ministro delle Finanze ha copiato la tesi di dottorato
Marco Siragusa 24 ore fa


Un nuovo, ennesimo, scandalo travolge il governo di Ana Brnabić. Questa volta a finire sotto l’occhio del ciclone è il ministro delle Finanze, ed ex sindaco di Belgrado, Siniša Mali. Già coinvolto in diverse inchieste riguardanti evasione fiscale, proprietà immobiliari nascoste, rapporti con la criminalità organizzata, nonché lo scandalo “Savamala”, il ministro deve ora fare i conti con la decisione finale sull’accusa di plagio della sua tesi di dottorato.

Il caso

Nel 2014 il sito Peščanik pubblicò un articolo di Raša Karapandža in cui si denunciava l’allora sindaco di Belgrado ed ex assistente del ministro della privatizzazione Siniša Mali di aver plagiato la sua tesi di dottorato. L’autore, professore di finanza all’European Business School (EBS) di Wiesbaden in Germania, sosteneva di non aver “mai incontrato così tante copiature come nella tesi di dottorato di Mali”. La tesi, intitolata “Creating Value Through the Process of Restructuring and Privatization – Theoretical Concepts and Experiences of Serbia” ricopiava fedelmente un’altra tesi del 2001 di Stifanos Hailemariam dell’Università di Groningen. Quest’ultima trattava lo stesso argomento ma prendeva come caso studio un paese effettivamente molto simile alla Serbia per storia, struttura economica, vicinanza geografica: l’Eritrea!

Il caso è stato riaperto due anni dopo quando nell’aprile 2016 un membro dell’Accademia serba delle scienze e delle arti (SANU), Dušan Teodorović, riferì di esser entrato in possesso della tesi e di considerarla “un terribile plagio”. Per ben due volte, nel 2017 e nel febbraio 2019, gli esiti delle inchieste condotte da due differenti Commissioni sono stati screditati: la prima volta dal Senato Accademico per vizi formali, la seconda dal Comitato etico professionale dell’Università di Belgrado per risultati “incompleti, poco chiari e contraddittori”.

Le proteste degli studenti

Il 13 settembre un gruppo di studenti appartenenti al movimento “1 od 5 miliona” ha occupato il rettorato dell’Università di Belgrado per chiedere le dimissioni di Mali, del ministro dell’Educazione Mladen Šarčević e del ministro dell’Interno Nebojša Stefanović, anch’egli accusato di aver copiato la propria tesi di dottorato.
Durante i 12 giorni di occupazione non sono mancati momenti di tensione tra gli occupanti e i sostenitori del Partito Progressista Serbo (SNS) al governo. Il blocco si è poi concluso con la promessa da parte della rettrice Ivanka Popović di una nuova inchiesta e di una definitiva decisione sulla vicenda del dottorato di Mali entro il 4 novembre.

La decisione finale

In effetti una decisione è stata presa entro quella data ma rinviata di 15 giorni per garantire il diritto al ricorso. Il 21 novembre la svolta decisiva. Il Comitato etico ha stabilito all’unanimità che il ministro “ha letteralmente preso testi o interi passaggi dai testi di altri autori senza citarli” violando l’articolo 22 del Codice etico professionale. Mali ha commentato affermando di sapere di non aver copiato la propria tesi e che questo scandalo rappresenta solo un attacco politico nei suoi confronti.

La decisione è stata anche accompagnata da una manifestazione del movimento “1 od 5 miliona” per ribadire con forza la richiesta di dimissioni del ministro mentre il presidente Aleksandar Vučić, messo alle strette anche da altri scandali che riguardano i vertici del paese, ha dichiarato che “Mali deve pagare un prezzo politico”. Non è la prima volta che Mali si ritrova a dover “pagare”. Nel giugno 2016 il presidente Vučić, riferendosi alla demolizione illegale di due vecchi edifici avvenuta la notte tra il 24 e il 25 aprile 2017 nel quartiere Savamala, disse che dietro il caso “ci sono i più alti funzionari della città e pagheranno le conseguenze legali”. In quel momento Mali ricopriva la carica di sindaco della capitale. Due anni dopo, fu “costretto” ad abbandonare quel ruolo per essere promosso a ministro delle Finanze.

Questa storia mostra tutta l’ipocrisia di un sistema politico che si vuole presentare come credibile e soprattutto competente. Come può un ministro che ha imbrogliato sui suoi titoli essere garanzia del corretto utilizzo delle finanze statali? Qui non si vuole sostenere l’idea secondo cui solo chi possiede i “titoli” può guidare la macchina statale. Certo, sarebbe opportuno che un ministro delle Finanze fosse in grado di muoversi con disinvoltura tra bilanci, numeri, leggi finanziarie. E che soprattutto, nel caso specifico, fosse in grado di analizzare i risultati delle politiche pubbliche senza scopiazzare quelli di qualcun altro sull’Eritrea. Qui il problema è che il “titolo” viene, troppo spesso, equiparato immediatamente alla “competenza” e solo chi possiede un pezzo di carta può ambire a posizioni di comando. Poco importa se il titolo è stato acquistato o ottenuto copiando la propria tesi. In Serbia oggi, i titoli che garantiscono i posti migliori nell’apparato dello stato sono quelli di “stretto collaboratore” e “amico” del presidente-padrone, Aleksandar Vučić. E nel lungo curriculum di Siniša Mali sono presenti entrambi.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Novembre 28, 2019, 18:59:45 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Europa/Femminicidio-in-Europa-due-anni-dopo

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Femminicidio in Europa, due anni dopo
26 novembre 2019

Nel 2017 EDJNet faceva il punto  sulla violenza di genere in Europa, ricercando e soppesando vari indicatori. Il primo ostacolo contro cui si scontrò l’analisi fu l’assenza di dati: alcuni paesi membri dell’Unione Europea non riconoscono il femminicidio come categoria di reato e, per questo, non raccolgono dati a riguardo.

Dal 2017 Cipro, Grecia e Romania hanno cominciato a fornire statistiche relative alla “uccisione intenzionale di una donna per aver trasgredito al proprio ruolo di genere”. Ma in dieci paesi membri continuano a non esserci dati disponibili.


Stando agli ultimi dati disponibili su Eurostat, sono stati commessi 751 femminicidi nel 2017 in Europa. Questo significa che, in media, una donna ogni 250mila è stata uccisa dal proprio partner o da un familiare. L’incidenza di questo reato risulta essere calata del 18% rispetto al 2015, sebbene i reati siano cresciuti in numeri assoluti. A spingere verso il basso la media europea sono, in particolare, il Montenegro (-66%), l’Italia (-60%) e il Nord Macedonia (-54%) mentre, al contrario, Lettonia e Regno Unito registrano un aumento del 50%.

Prendendo in considerazione i casi di omicidio intenzionale, si conferma quanto emerso già nella precedente analisi: l’andamento è decrescente tra gli uomini (meno quattro punti percentuali tra il 2015 e il 2017) e crescente tra le donne (più 14 punti percentuali nello stesso periodo).

La Convenzione di Istanbul  , voluta dal Consiglio d’Europa e in vigore dal 2014, è il primo strumento legale che vincola gli stati europei all’attuazione di misure preventive e punitive contro la violenza di genere, incoraggiando anche al miglioramento della raccolta di dati utili al suo monitoraggio. Sette paesi membri dell’UE non hanno ancora ratificato l’accordo: Bulgaria, Lettonia, Lituania, Regno Unito, Repubblica Ceca e Ungheria

Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network   ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 01, 2019, 00:28:12 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-il-regime-vuole-mettere-a-tacere-ogni-voce-critica-198226

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Serbia: il regime vuole mettere a tacere ogni voce critica

L'ennesimo caso in Serbia di gogna mediatica. Sotto il mirino dei tabloid belgradesi, legati agli appartati di governo, è finito il giornalista della Tv N1 Miodrag Sovilj. La sua "colpa"? Aver fatto domande pertinenti al presidente Vučić

29/11/2019 -  Saša Kosanović
(Originariamente pubblicato dal portale Novosti, il 24 novembre 2019)

Miodrag Sovilj, giornalista dell’emittente televisiva N1 Serbia, è recentemente finito nel mirino dei tabloid serbi dopo aver fatto una domanda al presidente Aleksandar Vučić sul presunto coinvolgimento di Branko Stefanović, padre del ministro dell’Interno Nebojša Stefanović, nel traffico illecito di armi. Lo scandalo del traffico di armi è scoppiato quando si è saputo che l’azienda privata GIM, legata a Branko Stefanović, aveva acquistato armamenti a prezzi di favore dall’azienda statale Krušik, per poi venderli agli Emirati Arabi Uniti. I tabloid serbi, ma anche alcuni rappresentanti del potere, hanno insinuato che il presidente Vučić si sia sentito male, avvertendo un improvviso dolore al petto, propria a causa della domanda rivoltagli da Sovilj. Vučić è stato poi trasferito all’ospedale dove è stato trattenuto in osservazione per qualche giorno. La gogna mediatica contro Miodrag Sovilj è parte integrante di una campagna denigratoria che ormai da anni viene condotta contro l’emittente N1, uno dei pochi media serbi che non sono controllati dal partito di governo.

Come commenta le accuse secondo cui la sua domanda sul presunto coinvolgimento del padre del ministro dell’Interno nel traffico illecito di armi avrebbe portato il presidente Aleksandar Vučić sull’orlo dell’infarto?

Questa è probabilmente l’affermazione più bizzarra che io abbia mai sentito sui media di regime, e non è cosa da poco perché il mio lavoro consiste, tra l’altro, nel leggere i tabloid serbi, e devo ammettere che ho letto davvero tante interpretazioni diverse dell’accaduto. Le accuse che mi sono state rivolte sono completamente assurde - per usare un eufemismo - e sarebbe stato più appropriato se fossero state pubblicate su un portale satirico, ma purtroppo non è uno scherzo, bensì la realtà che dovranno essere pronti ad affrontare tutti quelli che intendono porre domande di interesse pubblico al presidente. Tuttavia, la manipolazione mediatica è un fenomeno complesso e, per quanto possa rappresentare un insulto all’intelligenza, in questo specifico caso ha raggiunto il suo obiettivo iniziale: distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle domande che avevo rivolto al presidente riguardanti il sospetto coinvolgimento del padre del ministro dell’Interno nel traffico di armi.

Quanto è pericoloso occuparsi di giornalismo oggi in Serbia per quei giornalisti che sono presi di mira dal regime? Lei teme per la propria incolumità?

Non è certo una sensazione piacevole, perché ormai da giorni, dalla mattina alla sera, ovunque mi giri sento citare il mio nome nei più vari contesti. In un paese come la Serbia, la cui storia è segnata da orribili omicidi di giornalisti, la prudenza non è mai troppa. Ciò a cui assistiamo qui è un classico attacco, questo è più che evidente. Tuttavia, a prescindere dal fatto che si tratti di una mia strategia anti-stress o meno, in questo momento non sono tanto intimorito quanto stupefatto nel constatare fin dove sono disposte a spingersi “le unità speciali” del regime.

Un database sulla libertà dei media
Di giornalisti minacciati, concentrazione dei media e quadro legislativo dei principali paesi dell'Europa e dei Balcani, si occupa il Media Freedom Resource Centre, un'attività di studio e analisi di Osservatorio nell'ambito di un progetto europeo in partnership con ECPMF

Oltre a questa gogna mediatica contro di lei, ormai da anni viene portata avanti una campagna denigratoria contro l’emittente N1 e altri media critici nei confronti del governo. Secondo lei, qual è l’obiettivo principale di questa offensiva mediatica intrapresa dal Partito progressista serbo (SNS)?

La gogna mediatica contro l’emittente N1 è iniziata subito dopo la sua fondazione cinque anni fa, ed è diventata una costante. Ma ciò non significa che ci siamo abituati a questa situazione, anzi è una fonte di frustrazioni quotidiane per me e i miei colleghi. Cerchiamo solo di svolgere il nostro lavoro rispettando le regole deontologiche della professione. L’obiettivo finale degli attacchi ai media non allineati è quello di sopprimere o almeno indebolire ogni voce critica nei confronti del partito di governo. Questo progetto viene portato avanti con successo ormai da molti anni e temo che i media che si rifiutano di piegarsi saranno sottoposti a pressioni sempre più forti.

Qualche tempo fa lei ha invitato il presidente Vučić a smettere di attaccare l’emittente N1 e di smettere di bollarla come “emittente di Đilas”. Pare che la sua richiesta non abbia sortito alcun effetto…

Tecnicamente sì, perché da allora il presidente, pur con qualche eccezione, generalmente si astiene dall’usare suddetta espressione. Nella sostanza, però, non è cambiato nulla perché Aleksandar Vučić e i suoi più stretti collaboratori hanno semplicemente trovato nuove espressioni per screditare l’emittente N1. Prima eravamo un’emittente “americana”, “della CIA”, “di Đilas”, ora ci chiamano un’emittente “lussemburghese”. Sui volantini che alcune persone che indossavano mascherine chirurgiche sul viso hanno recentemente lasciato nel cortile davanti alla sede dell’emittente N1 c’erano scritte alcune frasi che alludevano proprio agli epiteti che i più alti funzionari dello stato usano per screditare la nostra emittente.

È d’accordo con l’affermazione secondo cui i tabloid serbi come Informer, Kurir, Telegraf, fungerebbero da portavoce del regime, nonché da sorta di fanteria d’assalto che la leadership al potere usa per attaccare tutti gli oppositori politici?

È difficile non essere d’accordo con questa affermazione. Le campagne denigratorie lanciate da questi tabloid sono sempre sincronizzate, con contenuti quasi identici, con interviste agli stessi interlocutori, e persino con l’identica veste grafica, e vengono condotte esclusivamente contro gli individui, le organizzazioni e i media che hanno un atteggiamento critico nei confronti del partito al governo. Ma non si tratta solo di tabloid. Dopo il recente acquisto di diverse emittenti televisive a copertura nazionale da parte di alcune persone vicine all’SNS, i telegiornali di queste emittenti sono diventati quasi identici, con la stessa organizzazione del programma, e a volte persino con gli stessi servizi firmati da diversi giornalisti. Analizzando i programmi di approfondimento informativo di queste emittenti, sembra che tutti siano creati dalla stessa persona.

La Serbia ha lo status di paese candidato all’adesione all’UE. Vi siete rivolti alle organizzazioni internazionali per chiedere aiuto? Avete ricevuto l’appoggio da qualcuno?

N1 informa costantemente le associazioni internazionali delle minacce e pressioni ricevute e tutte le maggiori organizzazioni di tutela dei giornalisti ci hanno sempre fornito il loro sostegno, compresi Reporter senza frontiere, Freedom House, il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) e molti altri. Le parole di sostegno certamente contano, ma viene da chiedersi se possano produrre alcun effetto concreto perché gli attacchi alla nostra redazione non accennano a fermarsi.

 
Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 03, 2019, 18:51:49 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-l-elite-al-potere-travolta-dagli-scandali-198277

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Serbia: l’élite al potere travolta dagli scandali

In quest’ultimo periodo in Serbia si affastellano scandali su scandali che vedono coinvolti ministri del governo in carica. Il potere però cerca di minimizzarne la portata e di mettere a tacere i media che non controlla

03/12/2019 -  Dragan Janjić Belgrado
La scorsa settimana, durante un dibattito in parlamento, la premier serba Ana Brnabić ha dichiarato che suggerirà ai ministri del suo governo di non rispondere alle domande sullo “scandalo Krušik”, definendolo uno scandalo “montato”, e di replicare a domande di questo tipo citando dati sui “risultati del governo”. Questa affermazione lascia intendere che la premier e il governo serbo siano disposti a fornire ai giornalisti (che sono anche rappresentanti dell’opinione pubblica) solo quelle informazioni che gettano una luce positiva sull’operato del governo, ignorando tutte le domande che potrebbero metterli in imbarazzo.

La tendenza del potere esecutivo a eludere domande scomode non è certo una novità, ed è presente anche nelle democrazie più consolidate, dove però i rappresentanti del potere non osano parlare pubblicamente della loro riluttanza a rispondere alle domande scomode. Secondo la premier serba, il ruolo dei media dovrebbe essere ridotto a quello di un semplice mezzo attraverso il quale il potere esecutivo comunica all’opinione pubblica solo ciò che vuole comunicare, e i giornalisti dovrebbero astenersi dal porre domande che potrebbero infastidire il governo. Il messaggio rivolto ai giornalisti è chiaro: chiedete pure, ma fatelo senza alzare troppo la voce ed evitando di sollevare questioni che potrebbero infastidire il potere.

Questa tendenza è, ovviamente, in netto contrasto con il ruolo che i mezzi di informazione dovrebbero rivestire nella società democratica, e potrebbe essere interpretata come un tentativo di ostacolare i media nello svolgere il loro ruolo di controllo nei confronti dell’operato del governo. Se i giornalisti dovessero stare attenti a cosa domandare ai politici il cui operato dovrebbero controllare (o se dovessero essere costretti a consultarsi con loro per concordare le domande), non sarebbero in grado di adempiere alla loro funzione di watchdog della democrazia né di servire l’interesse pubblico, e il loro unico compito sarebbe quello di esaudire i desideri e le esigenze del governo e di altri centri di potere.

Scandali
Lo scandalo Krušik – a cui la premier Brnabić ha fatto riferimento rendendo nota la sua intenzione, a dir poco insolita, di suggerire ai ministri di eludere domande scomode – è scoppiato dopo che alcuni media indipendenti hanno pubblicato una serie di documenti che dimostrano che negli ultimi anni l’azienda privata GIM che si occupa della vendita di armi, legata al padre del ministro dell’Interno Nebojša Stefanović, ha registrato un forte incremento del giro d’affari (negli ultimi tre anni il fatturato dell’azienda è aumentato di circa 3500 volte), mentre nello stesso periodo il fatturato di alcune aziende statali che operano nel settore delle armi è rimasto sostanzialmente invariato. È inoltre emerso che la fabbrica statale di armi e munizioni Krušik vendeva armamenti a prezzi di favore ad alcune aziende private, tra cui anche l’azienda GIM, consentendo loro in tal modo di generare notevoli guadagni.

Tenendo conto del fatto che il ministero dell’Interno svolge un ruolo decisivo nel rilascio delle licenze per la vendita di armi, viene da chiedersi se nella compravendita di armi tra l’azienda statale Krušik e l’azienda privata GIM si sia verificato un conflitto di interessi e se esistano canali informali attraverso i quali vengono esercitate pressioni sulle aziende statali produttrici di armi affinché vendano i loro prodotti ad alcune aziende private a prezzi di favore.

Queste domande restano per ora senza risposta. Nel frattempo, la leadership al potere ha lanciato una dura campagna mediatica, accusando tutti quelli che indagano sugli affari legati all’export di armi serbe di agire contro la Serbia, senza però fornire alcuna spiegazione concreta in merito alle informazioni contenute nei documenti sullo scandalo Krušik pubblicati dai media.

Qualche settimana fa la procura speciale per il crimine organizzato di Belgrado ha ordinato alle autorità competenti di verificare la fondatezza delle rivelazioni sugli affari sospetti dell’azienda Krušik, ma resta da vedere quanto dureranno le indagini. Vi è inoltre da chiedersi perché le autorità non abbiano reagito prima, dal momento che questa vicenda si trascina ormai da anni.

La procura ha aperto un’indagine solo dopo che le informazioni sul sospetto traffico illecito di armi hanno iniziato a trapelare in pubblico ed è diventato impossibile ignorarle. Dall’altra parte, le autorità hanno reagito con la massima prontezza quando sono venute a conoscenza del fatto che un dipendente dell’azienda Krušik, Alekasandar Obradović, ha fatto trapelare alcuni documenti sugli affari poco trasparenti dell’azienda. Obradović è stato subito arrestato con l’accusa di aver rivelato segreti commerciali, ma dopo qualche settimana, sotto la pressione dell’opinione pubblica, è stato rilasciato dal carcere e il giudice gli ha concesso gli arresti domiciliari, a cui è tuttora sottoposto.

Pressioni
Lo scandalo Krušik è solo uno dei grossi scandali che nelle ultime settimane sono stati rivelati da alcuni media serbi che non sono sotto il controllo del governo, ma anche da alcuni esponenti dell’opposizione. La recente decisione del Comitato etico dell’Università di Belgrado, che ha stabilito che il ministro delle Finanze Siniša Mali ha plagiato la sua tesi di dottorato, violando in tal modo il codice etico della professione, ha suscitato un vero e proprio terremoto politico. Siniša Mali non deve necessariamente essere in possesso di un dottorato di ricerca per ricoprire l’incarico di ministro, ma il fatto che abbia usato idee altrui senza citare la fonte lo rende meno adatto a ricoprire questa posizione.

Anche il ministro dell’Interno Nebojša Stefanović, principale protagonista dello scandalo del traffico di armi, è sottoposto a forti pressioni a causa delle accuse di aver falsificato i suoi titoli di studio. Anche Stefanović ha conseguito un dottorato di ricerca (la cui autenticità è stata messa in dubbio da numerosi accademici serbi), ma non è nemmeno chiaro se e come abbia finito la scuola superiore, né presso quale università abbia studiato. Il governo ha reagito duramente alle accuse rivolte ai due ministri, lanciando un’ampia campagna denigratoria contro tutti quelli che indagano su questi e altri scandali, attaccando persino l’Università di Belgrado.

La coalizione di governo sostiene che la decisione dell’Università di Belgrado sull’accusa di plagio della tesi di dottorato del ministro Siniša Mali sia una decisione politica, e alcuni deputati del parlamento serbo hanno persino chiesto le dimissioni della rettrice Ivanka Popović. Dal momento che circa l’80% dei cittadini serbi si informa attraverso i media mainstream – che riproducono fedelmente la narrazione imposta dal regime – , la maggioranza della popolazione ha una percezione distorta di suddetti scandali e sono in molti a credere che dietro a questi scandali si celino intenzioni malvagie dell’opposizione e di alcuni media, che vengono bollati come “mercenari al soldo degli stranieri” e accusati di voler danneggiare la Serbia e il presidente Aleksandar Vučić.

Tutto questo accade in un momento in cui l’opposizione serba è sottoposta a pressioni sempre più forti – sia da parte del governo che della comunità internazionale – affinché rinunci all’intenzione di boicottare le prossime elezioni politiche previste per la primavera 2020 e si accontenti della promessa, fatta dal governo, che le prossime elezioni si svolgeranno in condizioni eque.

L’atteggiamento della premier Brnabić e di altri rappresentanti del potere nei confronti degli scandali di cui sopra, e la loro percezione del ruolo dei media hanno sicuramente un effetto scoraggiante sulle forze di opposizione. Se gli esponenti del governo sono capaci di dichiarare pubblicamente di non essere disposti a rispondere alle domande scomode e se un’istituzione come l’Università di Belgrado può finire così facilmente nel mirino della leadership al potere, che cosa si devono aspettare l’opposizione e altri oppositori del governo durante la campagna elettorale?
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 07, 2019, 17:37:56 pm
Fosse accaduto in Italia sarebbe scoppiato l'inferno mediatico e non.
Non parliamo poi di tutti quelli che avrebbero sentenziato, con tono compiaciuto, che
"certe cose accadono solo in Italia".

Certamente, senza alcun dubbio.
...

https://www.eastjournal.net/archives/101281

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Croazia: L’assurda storia dei due sportivi nigeriani espulsi dalla polizia croata
Marco Siragusa 15 minuti fa

Articolo originariamente pubblicato su Nena-News

Immaginate due atleti che arrivano in un paese europeo con tanto di passaporto e regolare visto per partecipare a un torneo internazionale. Immaginate che, dopo la fine del torneo, i due ragazzi decidano di visitare la capitale di quel paese, ma invece di prendere il volo che li riporta a casa vengano prelevati dalla polizia e respinti illegalmente in un paese non appartenente all’Unione Europea.

Se non si trattasse di una storia vera, con in gioco la dignità e la vita di due giovani ragazzi, si potrebbe pensare a una sceneggiatura degna delle peggiori commedie poliziesche. Purtroppo la vicenda che ha visto coinvolti due atleti nigeriani, Abia Uchenna Alexandro ed Eboh Kenneth Chinedu, è tutt’altro che comica e ci mostra, se ce ne fosse ancora bisogno, il razzismo istituzionale che infetta la “democratica e accogliente” Europa.

Abia ed Eboh giungono a Pula, in Croazia, lo scorso 12 novembre per partecipare alla quinta edizione del World InterUniversities Championships, un torneo internazionale di ping-pong con oltre 2mila partecipanti che si è svolto tra il 13 e il 17 novembre. Concluso l’evento, i giovani decidono di passare due giorni nella capitale Zagabria prima di ripartire per il loro paese. Abia ed Eboh, però, l’aereo di ritorno non l’hanno mai preso.

La sera prima della partenza, mentre passeggiavano per la città, i due ragazzi vengono fermati dalla polizia, evidentemente insospettita dal colore della loro pelle. Più volte i ragazzi provano a spiegare che i loro documenti si trovano nell’ostello dove soggiornano ma, invece di recarsi sul luogo e controllare, gli agenti decidono di portarli in commissariato. Da lì, Abia ed Eboh venivano caricati con altri ragazzi su un furgone e portati nei boschi al confine con la Bosnia. Secondo quanto dichiarato dai due, al rifiuto di scendere dal furgone uno degli agenti ha minacciato di sparargli, dopo ovviamente aver tolto loro i soldi a disposizione. Solo a quel punto si sono incamminati nelle innevate montagne bosniache verso il centro di accoglienza Miral di Velika Kladuša.

A distanza di oltre due settimane, i giovani, assistiti dalle organizzazioni presenti sul territorio, si trovano ancora nel centro dove nel frattempo è in corso uno sciopero della fame contro le disastrose condizioni umanitarie. La notizia è stata diffusa solo il 3 dicembre, grazie al giornale bosniaco Žurnal, e ha scatenato numerose polemiche in Croazia e Bosnia. In un’intervista rilasciata ad Al Jazeera, il ministro della Sicurezza della Bosnia-Erzegovina Dragan Mektić ha parlato di un vero e proprio “atto illegale da parte della Croazia” affermando che i due ragazzi verranno presto riportati in quel paese.

Completamente diversa la posizione espressa dalla polizia croata in una nota secondo cui nessun agente ha preso in carico Abia ed Eboh che, invece, si sono diretti autonomamente verso una destinazione sconosciuta. Pur negando qualsiasi comportamento contrario alle norme vigenti, la polizia ha tenuto a specificare, in quella che sembra una vera e propria accusa indiretta, come spesso la partecipazione a eventi sportivi venga utilizzata a pretesto per poi continuare illegalmente il proprio viaggio e far domanda per l’ottenimento dello status di rifugiato.

Nonostante il tentativo di auto-assoluzione, la polizia croata è ormai sempre più tristemente famosa per i comportamenti violenti e illegali (questi sì) nei confronti dei migranti. Come già raccontato dal nostro giornale, sono ormai migliaia le denunce di violenze esercitate dalla polizia al confine croato-bosniaco.

La vicenda di Abia ed Eboh va però ben oltre. Non si tratta infatti “solo” di violazioni delle norme contro i respingimenti e dei diritti umani basilari ma mostra con estrema brutalità il profondo clima di razzismo ormai diffuso in Croazia e nel resto d’Europa. Un razzismo ancora più grave in quanto esercitato e fomentato senza vergogna dalle istituzioni e dalle forze di polizia nell’assordante silenzio di un’Unione Europea che nelle prossime settimane dovrebbe definitivamente accogliere Zagabria nell’area Schengen.

Dal mese di gennaio, inoltre, la Croazia assumerà la presidenza di turno dell’Ue per i prossimi sei mesi. Una condanna netta per i metodi usati alle frontiere europee e un radicale cambio di prospettiva, culturale e politica, sembrano quindi tutt’altro che immediati.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 07, 2019, 17:41:14 pm
https://www.eastjournal.net/archives/101186

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RUSSIA: La Calmucchia in piazza contro i giochi di palazzo
Marco Limburgo 19 ore fa

Non accenna a placarsi l’onda lunga della mobilitazione popolare che da almeno tre mesi sta interessando la città di Elista, capitale della Calmucchia, soggetto federale della Russia situato in prossimità del Caucaso Settentrionale. In diverse occasioni, prima centinaia poi migliaia di manifestanti si sono riversati nella centrale Piazza della Vittoria per protestare contro quella che percepiscono come un’insostenibile intromissione di Mosca nella politica regionale. L’oggetto del contendere è la nomina a sindaco della città di Dmitrij Trapeznikov, ex leader della Repubblica separatista di Donetsk nell’est dell’Ucraina. L’endorsment per tale carica gli è dovuto al patrocino di Batu Khasikov, kickboxer di fama mondiale e governatore della Repubblica di Calmucchia.

A scatenare la frustrazione e le proteste (piuttosto insolite e partecipate in questo angolo di Russia) la promozione eterodiretta di un individuo sostanzialmente estraneo alle dinamiche politiche della repubblica abitata in prevalenza dall’omonimo gruppo etnico di fede buddista ed etnia buriata. Nativo della città russa di Krasnodar, Trapeznikov ha vissuto prevalentemente in Ucraina divenendo direttore della squadra di calcio Shakhtar Donetsk e ad interim, nel 2018, Capo di Stato della Repubblica Popolare di Donetsk in seguito all’omicidio del predecessore Aleksandr Zakharchenko. Dopo aver ricevuto la cittadinanza russa, il suo nome pare essere stato proposto per la carica di sindaco da Vladislav Surkov, ex vice primo ministro della Federazione e potente silovik dell’amministrazione Putin, finito nell’occhio del ciclone per i presunti piani di sovvertimento e destabilizzazione del governo di Kiev.  Sorpreso dalle proteste che ne hanno chiesto le dimissioni, Khasikov ha rivendicato la competenza e l’esperienza pregressa dell’aspirante sindaco in situazioni di particolari precarietà, assumendo su di sé la responsabilità della scelta.

Gli interessi di Mosca e la rabbia popolare

L’incontestato supporto del Cremlino e delle autorità locali nei confronti del contestato sindaco fanno subodorare un perverso gioco di palazzo tra i “decision maker” russi. La nomina di Trapeznikov manifesta il supporto costante e la volontà di Mosca di premiare il lealismo nei diversi teatri politici di riferimento. Posizioni governative garantite in defilati contesti provinciali in cui il potere centrale può contare sulla complicità di quadri locali fortemente allineati.

Di fronte a questo fatto compiuto, la risposta dell’opinione pubblica. Una reazione in cui confluiscono diverse matrici. Se da un lato non si può negare il contributo aggregante di un nazionalismo etnico che si nutre del risentimento calmucco nei confronti della preminenza dei quadri di etnia russa (risentimento strumentalizzato dalle autorità centrali per delegittimare la protesta), è utile considerare l’irrobustirsi nei diversi contesti politici russi dell’espressione di un dissenso sempre meno latente che attraversa la Federazione, dal centro alla negletta periferia.

Di fronte a quella che viene percepita come un’imposizione centralista di Mosca in un contesto peculiare, un frangente crescente dell’opinione pubblica si è mobilitato rivendicando l’opportunità di selezionare i propri rappresentanti in maniera democratica e in tal modo ribaltando le modalità verticali di promozione all’interno della Federazione. I calmucchi, inoltre, hanno condannato il coinvolgimento del sindaco in crimini e nefandezze nel corso del conflitto armato che ha insanguinato le regioni russofone dell’est ucraino. Da qui l’emergere di un manifesto che invoca le dimissioni non solo di Trapeznikov ma anche dell’assemblea repubblicana e di Khasikov, delegittimato nonostante la robusta vittoria ottenuta alle precedenti elezioni.

Dal Volga alla capitale

Difficile dire quanto queste proteste possano influire sul mutamento di una decisione all’apparenza incontrovertibile, ma l’emergere di una crescente disaffezione verso la disinvolta assertività delle autorità centrali dovrebbe suonare come un avvertimento, richiedendo un pragmatico cambio di passo e una minore sottovalutazione dell’espressione del dissenso nei diversi contesti regionali. Se è certamente una velleità semplicistica tracciare un filo rosso tra la protesta in Calmucchia e le massicce mobilitazioni di questa estate, è opportuno considerare come la persistenza, il radicamento e la diversificazione del dissenso costituiscano una crepa in un negletto fronte interno già ampiamente sotto stress per le difficili condizioni sociali ed economiche. Una serie di campanelli di allarme che il Cremlino non può permettersi di ignorare ulteriormente
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 07, 2019, 17:43:33 pm
https://www.eastjournal.net/archives/101104

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Quando la Democrazia Cristiana organizzò una mostra sull’est
Lorenzo Venuti 20 ore fa

Le elezioni politiche italiane del 1953 sono, nella memoria comune, quelle della legge truffa: il rinomato premio elettorale celebre per il turbolento iter parlamentare, e dall’aspro confronto sorto dallo stesso. Ma l’elezione del 1953 non è solo la legge truffa: attaccata su più fronti e in difficoltà dopo cinque anni di complicato governo, la DC attuò una capillare opera di propaganda incentrata sul grande tema del 1948: quello dell’anticomunismo e della scelta dicotomica tra est e ovest.

La genesi di un progetto ambizioso

Nel settembre del 1952 Giorgio Tupini, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e braccio destro di Alcide De Gasperi, scrisse a Paolo Emilio Taviani, sottosegretario al Ministero degli Esteri, chiedendo supporto per un’ambiziosa operazione di propaganda: una mostra itinerante che mostrasse in ogni angolo del paese il tenore di vita dei paesi che qualche anno prima, fra il 1948 e il 1949, erano diventati democrazie popolari. Un percorso suggestivo, pianificato in ogni dettaglio, sia sotto il punto di vista logistico, che in quello dell’allestimento scenico.

Il blocco orientale in mostra

Taviani accettò la richiesta del sottosegretario, disponendo che le varie legazioni nei paesi dell’Europa centro-orientale acquistassero beni di uso comune e poster propagandistici per circa 4 milioni di lire; gli organizzatori dell’evento – ufficialmente parte di un comitato di documentazione popolare (non governativo) – avrebbero allestito tre diverse mostre itineranti, più una quarta, fissa, a Roma. Fra il marzo e il maggio del 1953 il carrozzone propagandistico attraversò così tutto il paese, isole escluse, toccando oltre quaranta città per la maggior parte situate nel centro-nord.

Entrato nei quattro autocarri che componevano l’appuntamento, il visitatore era immerso in uno spettacolo visivo, oltre che divulgativo con altoparlanti che ripetevano in modo continuativo a basso volumi frasi come sei sempre sorvegliato, e potrebbe succedere anche in Italia. Nel frattempo lo spettatore era condotto attraverso diversi ambienti che lo scortavano nelle diverse fasi delle democrazie popolari, fra cui la presa del potere dei comunisti, gli standard di vita nel blocco socialista (attraverso l’esposizione degli oggetti) e il prezzo pagato dalla Chiesa cattolica in tutti i paesi dell’areale.

Lo scandalo

L’appuntamento romano della Mostra – ben più elaborato sotto il punto di vista dello spettacolo rispetto agli altri – era stato organizzato nei sotterranei di Roma Termini ed erano situati alcuni pannelli introduttivi sul percorso di accesso. Li, figure umane erano avvolte da filo spinato, mentre capeggiavano scritte come fra i 90 milioni di schiavi dei paesi socialisti.

Il 14 maggio 1953, qualche giorno dopo l’apertura dell’appuntamento romano, l’«Unità» uscì però con un velenoso articolo, nel quale veniva evidenziato come ben due cittadini romani si fossero riconosciuti nelle foto presenti sui pannelli introduttivi.

Lo scandalo fu enorme: costretti a ripiegare sulla difensiva, gli organizzatori non seppero ridimensionare la portata dello scandalo, nascondendosi dietro affermazioni sui numeri che la Mostra registrava a Roma grazie alla pubblicità involontaria del Partito comunista.

Conclusioni

Carrozzone propagandistico e boomerang elettorale, la Mostra dell’Aldilà consacrava agli occhi dell’elettorato italiano una nuova realtà politica, quella dell’Europa orientale. Anche la geografia del continente mostrava così il risultato della polarizzazione della Guerra Fredda, uniformando le precedenti divisioni e concettualizzazioni in uno schema bipolare.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 07, 2019, 17:55:11 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Balcani-sognando-un-futuro-altrove-198353

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Balcani, sognando un futuro altrove

Sono in tanti, soprattutto giovani e qualificati, a emigrare o sognare di emigrare dai Balcani verso altri paesi europei. Un fenomeno che mette a rischio interi settori dell'economia e necessita di risposte urgenti

06/12/2019 -
Majlinda Aliu,  Aleksandar Manasiev,  Aleksandra Bogdani ,  Dušan Mladjenović,  Milica Milovanović
Quasi ogni notte a Tetovo, Macedonia del Nord, pullman pieni di lavoratori migranti partono diretti in Italia, Germania e Svizzera, le principali destinazioni per i migranti macedoni.

Sui volti delle persone si legge la tristezza causata dal vuoto che le ondate migratorie stanno lasciando nella regione di Polog (Macedonia nord-occidentale). La Macedonia del Nord, tuttavia, non è un caso isolato, poiché la massiccia emigrazione delinea un futuro cupo per tutti i Balcani occidentali.

L'emigrazione di massa riguarda soprattutto i lavoratori qualificati, in particolare medici e operatori sanitari, che hanno le migliori possibilità di trovare lavoro dignitoso nei paesi dell'UE.

Insicurezza sociale, scarsa assistenza sanitaria, precarietà economica, disoccupazione e clientelismo, nonché la discriminazione nei confronti di gruppi vulnerabili come le minoranze etniche, le donne e le persone LGBT, sono le ragioni principali che spingono a lasciare i Balcani occidentali, spiega Zhivka Deleva, ricercatrice indipendente sulle migrazioni presso l'"Interkulturanstalten Westend e.V." a Berlino.

Boban Gjakov, 38 anni, è uno specialista in ginecologia e ostetricia. Nel 2011 ha lasciato Skopje e si è trasferito in Slovenia per cercare stabilità economica. "È una sensazione triste e disperata, quando sei un medico e lo stato ti butta via come spazzatura", dice.

Secondo Gjakov, trovare un lavoro dignitoso nella Macedonia del Nord richiede forti connessioni politiche. "Mi sono pagato anni di studi, e alla fine lo stipendio iniziale negli ospedali macedoni era inferiore a quello che prendevo da cameriere", racconta amaramente.

Secondo la Banca mondiale, quasi 500mila cittadini della Macedonia del Nord vivono attualmente all'estero, vale a dire il 25% della popolazione totale.

A preoccupare Dejan Nakovski, professore universitario a Skopje ed esperto di migrazioni, sono le possibili disfunzioni che l'emigrazione potrebbe portare in alcuni settori. "Questo è legato al livello di istruzione e status sociale dei migranti, ad esempio: l'emigrazione del personale medico porta a disfunzioni nell'assistenza sanitaria, l'emigrazione dei lavoratori generici porta alla carenza di manodopera nel settore industriale ecc.'', afferma Nakovski.

Emigrazione di massa anche nel vicino Kosovo
Tra il 2008 e il 2018, i paesi UE hanno rilasciato circa 245mila permessi di soggiorno per lavoro ai cittadini del Kosovo. Secondo dati EUROSTAT, quasi la metà di questi permessi è stata rilasciata dall'Italia, ma molti professionisti, in particolare nel settore sanitario, scelgono la Germania.

Vigan Roka, 32 anni, è tra i molti medici che hanno lasciato la regione. Nel 2013 è andato in Germania per la specializzazione in oftalmologia. Il motivo principale della scelta sono state le condizioni offerte dalla clinica universitaria. "Era impossibile realizzare il mio sogno di diventare un chirurgo oculista in Kosovo, quindi ho dovuto partire, con il cuore spezzato, ma molto motivato", racconta.

La tendenza è evidente: solo nella piccola città di Detmold ci sono altri sei medici che, come Roka, provengono da Gjakova, nel Kosovo occidentale.

Ancora più preoccupante è il numero di operatori sanitari e infermieri che lasciano il Kosovo. La Camera degli infermieri e professionisti sanitari del Kosovo riceve quotidianamente decine di richieste di licenze e certificati etici, documenti necessari per ottenere un visto di lavoro per l'UE.

Naser Rrustemaj, a capo della Camera degli infermieri del Kosovo, afferma che ogni giorno il sistema perde da tre a cinque professionisti. "La preoccupazione maggiore è che stiamo perdendo gli infermieri che lavorano in dipartimenti come la terapia intensiva, e la formazione per queste posizioni richiede molto tempo, oltre due anni", sottolinea.

La Germania ha bisogno di operatori sanitari, afferma Vigan Roka, che fa il medico in Germania da oltre cinque anni. "La clinica in cui lavoro fatica a trovare specialisti e infermieri, e questo innesca un costante movimento di operatori sanitari verso la Germania", spiega.

La migrazione irregolare rimarrà bassa, ma aumenterà la migrazione regolare, afferma Besnik Vasolli, esperto di integrazione UE che lavora in Kosovo. "Vediamo un aumento dei permessi di lavoro negli Stati membri UE come Germania, Croazia e Slovenia", afferma.

Le ultime elezioni in Kosovo hanno portato cambiamenti politici e qualche speranza; tuttavia, secondo Vasolli, questa avrà vita breve. "Le difficoltà economiche non scompariranno, il nuovo governo farà fatica a mantenere le promesse fatte durante la campagna elettorale e la popolazione continuerà ad avere gli stessi problemi", afferma, aggiungendo che l'emigrazione continuerà.

La Germania ha 1,6 milioni di posti vacanti nel sistema sanitario
Corina Stratulat, Senior Policy Analyst presso l'European Policy Center, un think tank con sede a Bruxelles, evidenzia i problemi con i lavoratori che ottengono la loro istruzione a casa e poi portano le loro conoscenze e competenze altrove.

"Certamente c'è domanda di lavoratori qualificati e il fatto che la Germania metta in atto politiche per attrarli è comprensibile e non c'è nulla di sbagliato in questo. Diverso è se questa diventa una strada a senso unico, in cui i lavoratori qualificati dei Balcani occidentali vengono nell'UE, ma non viceversa, senza ritorno, senza reinvestimento di risorse, competenze, tempo ed energia nei paesi che hanno lasciato. In questo caso, abbiamo un problema”, afferma.

La disperazione porta gli albanesi a sognare l'Occidente
L'Albania ha i più alti tassi di emigrazione nella regione, ma il governo di sinistra di Edi Rama riduce la questione a generica "tendenza globale". Secondo i dati dell'Istituto nazionale di statistica, negli ultimi cinque anni oltre 200mila albanesi sono emigrati nei paesi dell'UE o negli Stati Uniti
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Essendo la Germania la destinazione principale, la domanda di apprendimento della lingua tedesca è salita alle stelle.

Alketa Kuko, direttrice dell'Istituto Goethe di Tirana, ha visto moltiplicarsi il numero di medici, paramedici, architetti o ingegneri che si iscrivono ai corsi di lingua tedesca.

"Mi serve solo un livello B2 in tedesco e tutto il resto è pronto per me in Germania", afferma Olti, 23 anni, paramedico di Tirana che spera di iniziare una nuova vita a Düsseldorf il prossimo gennaio. Ha studiato molto per imparare il tedesco negli ultimi mesi e afferma di essere tra i molti giovani albanesi che hanno scelto di iscriversi alla scuola per paramedici con l'intenzione di migrare in Germania. Il suo stipendio nell'unità di cure urgenti di Tirana è di 35.000 lek [286 Euro] al mese, mentre in Germania potrebbe guadagnare sei volte di più.

Poiché medici e paramedici sono tra i professionisti più ricercati in Germania, l'Albania, come altri paesi della regione, sta perdendo molti operatori sanitari. Secondo dati parziali dell'Ordine Medici e Paramedici di Tirana, 1.049 medici e 1.271 paramedici hanno attualmente depositato i documenti necessari per emigrare.

Nell'ottobre 2018, l'organizzazione "Together for Life" ha pubblicato i risultati di un sondaggio nazionale su 1.000 medici dell'Albania. Circa il 78% di loro ha affermato che preferirebbe emigrare se ne avesse la possibilità.

"I medici non sono soddisfatti: sono oberati di lavoro, non rispettati e stressati", afferma Eglantina Bardhi di "Together for Life". Le ragioni principali che spingono i dottori ad emigrare sono i bassi salari e le pessime condizioni di lavoro, aggiunge.

Mentre l'emigrazione è stata una caratteristica fondamentale del paese durante il periodo di transizione, gli esperti sono preoccupati dalla nuova ondata negli ultimi anni e dalla perdita di personale qualificato.

"Le persone più qualificate stanno lasciando il paese e la fuga di cervelli è un grosso problema per l'Albania", afferma Eda Gemi, esperta di politiche migratorie e integrazione. "Attualmente abbiamo un paese senza cervelli, quale futuro possiamo immaginare?", riflette.

Sebbene il paese abbia una strategia sull'emigrazione e un ministero per la Diaspora, Gemi osserva che le cause sottostanti dell'emigrazione non sono all'ordine del giorno del governo e suggerisce la necessità di costruire ponti per aiutare la diaspora a impegnarsi nel paese d'origine.

Serbia, restare è più rischioso che partire
Attualmente incapace di fermare il processo di emigrazione, il governo serbo si sta invece concentrando su misure per stimolare i tassi di natalità con il nuovo ministero per le Politiche demografiche, che fornisce sussidi per chi fa figli.

Secondo una nuova legge, una famiglia con un primo figlio nato dopo il primo luglio 2018 riceve un pagamento una tantum di 800 Euro. Per un secondo figlio, le famiglie ricevono 80 Euro al mese per due anni, mentre per un terzo il sussidio è di 100 Euro al mese per i prossimi dieci anni. Il governo ha anche aumentato gli stipendi di medici e infermieri nel tentativo di fermare l'emigrazione degli operatori sanitari.

Il Servizio tedesco per la migrazione stima che nel 2017-2018 quasi 51mila persone si siano trasferite dalla Serbia alla Germania e, grazie alle procedure agevolate per ottenere i permessi di lavoro, l'ondata migratoria dovrebbe continuare.

Mirjana Arnaut faceva la giornalista in Serbia. Ora vive in Germania, disoccupata, ma con il sostegno di suo marito, che lavora per un'azienda tedesca. Hanno deciso di far crescere il loro bambino lontano dalla Serbia. “La Serbia non è un posto dove vogliamo vivere. È triste e deprimente, promuove valori sbagliati, cattiva politica e non la vedo più come un posto per la nostra famiglia”, afferma Mirjana.

Anche Ivan Andrić, 21 anni, vuole andare all'estero. Secondo lui, invece di aprirsi, la Serbia sta diventando una società chiusa. "Se non puoi esprimere opinioni politiche diverse, se non hai le stesse possibilità di trovare lavoro delle persone che prendono la tessera del partito al potere, è probabile che ad un certo punto vorrai andartene", afferma Andrić.

Secondo l'OSCE, quasi 655mila persone hanno lasciato la Serbia dalla caduta del regime di Milošević nel 2000. Si stima che quattromila persone lascino la Serbia ogni mese, il che significa che la Serbia perde ogni anno una città media di 50mila persone. Negli ultimi due decenni, a causa dell'emigrazione, la Serbia ha perso il 10% della sua popolazione.

Secondo dati OCSE, la maggior parte degli emigranti (179mila) ha scelto la Germania. La seconda destinazione principale è l'Austria con 105mila, seguita dalla Svizzera (circa 70mila).


Due terzi dei giovani vogliono lasciare il Montenegro
Il Montenegro ha la popolazione più piccola dei Balcani occidentali, solo 625mila abitanti. Nonostante la fiorente industria turistica, si stima che circa 150mila persone abbiano lasciato il paese negli ultimi trent'anni. Secondo dati EUROSTAT, circa 17.346 montenegrini hanno ottenuto un permesso di soggiorno nell'UE tra il 2008 e il 2018. La Germania ha rilasciato circa tremila permessi di lavoro a cittadini montenegrini: più di quanti ne impieghi qualsiasi azienda locale. I dati dei sindacati dei medici mostrano che 150 medici specialisti hanno lasciato il Montenegro negli ultimi 4 anni.

Anche Nenad Todorović, specialista in oftalmologia di Podgorica, si sta preparando a partire. Come i suoi colleghi, da mesi studia il tedesco per ottenere un permesso di lavoro in Germania. Il Montenegro, come altri paesi della regione, non crea prospettive per i giovani medici.

"I nostri salari sono bassi. Ho un mutuo, e una volta pagato quello mi rimangono 300 Euro per vivere insieme alla mia famiglia, quindi sono molto depresso per la mia attuale situazione economica".

Un recente sondaggio della Fondazione per la democrazia di Westminster in Montenegro ha rilevato che circa il 70% dei giovani sta pensando di lasciare il Paese.

Tutto ciò pone i paesi balcanici in un circolo vizioso: gran parte della popolazione sta pianificando di andarsene, le ondate migratorie indeboliscono ulteriormente l'economia e la scarsa situazione economica allontana sempre più persone.

Secondo la Banca mondiale, fra le conseguenze negative degli alti livelli di emigrazione ci sono la perdita di capitale umano e una crescita economica più lenta.

Romania, emigrazione di massa dopo l'adesione all'UE
Dal 2007, quando la Romania è entrata nell'UE, i confini europei si sono aperti ai cittadini romeni, agevolando così le persone che desiderano lasciare l'economia in difficoltà del paese.

Secondo la Banca mondiale, 3,6 milioni di romeni vivono attualmente all'estero, vale a dire il 18,2% della popolazione. I lavoratori altamente qualificati rappresentano il 27% dei migranti. Secondo la Banca mondiale, dal 1990 al 2017 l'emigrazione dalla Romania è aumentata del 287%.


Questo processo ha portato a carenze di manodopera, specialmente nei settori scientifici e tecnologici.

Secondo Stefan Cibian, direttore dell'Istituto di ricerca Făgăraș, l'emigrazione è aumentata durante tutte le fasi del processo di integrazione dell'UE, in particolare dopo la liberalizzazione dei visti.

“Alle nostre istituzioni serve un approccio strategico per gestire l'emigrazione, e devono accettare la realtà. Con questo approccio, limiteranno le conseguenze negative dell'alta emigrazione, ma ne trarranno anche i benefici, perché avere una comunità così grande che vive all'estero è una risorsa immensa”, afferma Cibian.

Christian Moreh, docente di Sociologia alla York St. John University e autore del libro “Romanians of Alcalá. Migration and social differentiation”, spiega che le modalità di liberalizzazione dell'economia romena negli anni '90 hanno causato una nuova ondata migratoria, poiché i romeni erano già in grado di viaggiare liberamente verso altri paesi europei.

"Il lento sviluppo della liberalizzazione politica e della democratizzazione è ancora un problema in Romania, che impedisce alle persone di tornare e avviare le proprie attività", afferma. "La burocrazia impedisce ai migranti di tornare in Romania e porta ancora più persone ad andarsene", aggiunge Moreh.

Gli esperti non vedono soluzioni immediate, ma suggeriscono che i paesi colpiti da alti livelli di emigrazione debbano offrire a livello locale qualcosa che i paesi dell'Europa occidentale non possono offrire ai giovani, come infrastrutture tecnologiche e norme più semplici per creare aziende.

I migranti dei Balcani occidentali, sia uomini che donne, tendono ad essere giovani e ad avere livelli di istruzione relativamente alti. A lungo termine, alti livelli di emigrazione, specialmente tra i più istruiti, generano disallineamenti tra le competenze disponibili e quelle necessarie nel paese di origine.

Poiché l'emigrazione di massa dai paesi dei Balcani occidentali è in corso ancor prima che entrino nell'UE, ci si può solo chiedere quante persone rimarranno una volta raggiunta l'integrazione.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 15, 2019, 20:09:56 pm
https://www.eastjournal.net/archives/101364

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BALCANI: Il silenzio europeo sugli studenti “respinti” illegalmente dalla Croazia
Giulio Gipsy Crespi 2 giorni fa

Nei giorni scorsi la notizia dei due studenti nigeriani deportati illegalmente in Bosnia (ne abbiamo parlato qui) è rimbalzata sulla stampa internazionale, confermando i dubbi che aleggiano da tempo sull’integrità della polizia croata in relazione alle operazioni di controllo delle frontiere. Le numerose testimonianze di abusi e violenze, quando non derubricate a casi isolati, vengono generalmente rigettate dalle autorità di Zagabria come ricostruzioni create ad arte dai migranti per delegittimare la polizia e vedersi riconosciuto il diritto di entrare liberamente in Croazia.

Il caso dei due atleti nigeriani

Il caso paradossale degli studenti Abia Uchenna Alexandro ed Eboh Kenneth Chinedu mostra non solo come le forze dell’ordine croate siano prone ai respingimenti illegali, in aperta violazione del principio di non-refoulement, ma che, come qualcuno ha commentato, la paranoia anti-migranti nel paese giunga al punto che due cittadini stranieri, in possesso di regolare visto, vengano deportati in un paese terzo.

Ad oggi la loro vicenda resta irrisolta: gli atleti, che attualmente si trovano loro malgrado illegalmente su territorio bosniaco e che nei giorni scorsi si erano visti costretti a trovare rifugio in un campo a Velika Kladuša, sono stati temporaneamente trasferiti a Sarajevo in attesa di rimpatrio in Nigeria, mentre le autorità croate sono ancora reticenti nel fornire spiegazioni in merito all’accaduto. L’assenza di significative reazioni da parte delle istituzioni europee di fronte all’ennesimo abuso al confine tra Bosnia e Croazia riflette l’atteggiamento più generale dell’Ue – sulla carta attenta alla tutela dei diritti umani, di fatto interessata a non consentire la riapertura della rotta balcanica, costi quel che costi.

Il bastone e la carota

Questo atteggiamento riflette la strategia messa in atto tra 2015 e 2016, quando la progressiva chiusura dei confini di Austria, Ungheria e Slovenia determinò un effetto imbuto per i migranti diretti verso l’area Schengen e, successivamente, un effetto domino sui paesi dei Balcani occidentali, delegati “sotto ricatto” a farsi carico dei richiedenti asilo e a garantire la chiusura effettiva dei confini – pena la sospensione del regime di esenzione dal visto, per chi ne beneficiava, e, implicitamente, ridotte possibilità di accesso. La permanenza del principio del primo paese d’accesso, pietra angolare del regolamento di Dublino, contribuisce a creare ulteriore pressione sui paesi di confine come la Croazia e a far sì che si cerchino soluzioni “all’esterno”.

Il caso più paradossale di “esternalizzazione” delle frontiere esterne dell’Unione europea si è dunque concretizzato proprio nei Balcani occidentali, ovvero in un’“enclave” dell’Unione stessa, a causa dell’incapacità di trovare una soluzione interna ai 28 paesi membri. Le prospettive di accesso della Croazia all’area Schengen hanno sin da allora condizionato le politiche di controllo delle frontiere del paese, che, pur di dimostrare la propria idoneità, ha inasprito le misure di monitoraggio dei confini, sacrificando sull’altare dell’integrazione europea i diritti di migranti e richiedenti asilo.

L’ennesima, prevedibile emergenza

Con il duro inverno balcanico ormai alle porte e una gestione del sistema di ricezione al collasso, la Bosnia Erzegovina si trova nuovamente scarsamente preparata a gestire l’accoglienza di migranti e richiedenti asilo. Se per un verso gli appelli di chiusura del campo di Vucjak da parte di organizzazioni internazionali e Ong sembrano essere stati finalmente accolti dalle autorità bosniache – lo sgombero e i trasferimenti a Sarajevo sono iniziati lo scorso 10 dicembre – continua a mancare una strategia di lungo termine che includa lo stabilimento di strutture adeguate all’ospitalità non più temporanea di migliaia di persone.

L’Unione europea, d’altro canto, si ritrova anche quest’anno ad affrontare un’emergenza umanitaria tutt’altro che inaspettata. Sin dal 2018, la Commissione europea ha allocato un totale di 35,8 milioni di euro in assistenza di breve e medio termine, volti a fornire beni di prima necessità, assistenza medica e a migliorare le condizioni di alloggio di circa 8000 migranti e richiedenti asilo intrappolati nel cantone di Una-Sana.

Il silenzio-assenso di Bruxelles

L’impossibilità di affrontare in un’ottica razionale e nel segno della solidarietà tra paesi membri la questione migratoria continua a impedire di riformare il regolamento di Dublino – nonostante i reiterati appelli del presidente del Parlamento europeo David Sassoli e le dichiarazioni programmatiche della neo-presidente della Commissione Ursula von der Leyen – e di sollevare i paesi in fondo all’”imbuto”, inclusi la Grecia e i Balcani occidentali, da un fardello attualmente insostenibile.

In assenza di un segnale tangibile a livello di Consiglio Ue sul dossier migrazione, la Commissione conferma dunque lo status quo. È significativo che la prima missione all’estero di Margaritis Schinas, Vicepresidente per la promozione dello stile di vita europeo, e Ylva Johannson, Commissaria europea per gli affari interni, sia stata proprio in Turchia, al cospetto del suo presidente Recep Erdogan, per cercare di puntellare l’accordo bilaterale sui migranti tra Ankara e Bruxelles.

In questo quadro la Grecia da una parte e i Balcani occidentali dall’altra continuano a trovarsi in prima linea nella “protezione” dei confini esterni. Allo stesso tempo, la prassi di respingimenti illegali e di criminalizzazione dei migranti da parte delle autorità croate mettono a nudo un’Unione incapace di trovare una sintesi tra valori comunitari e interessi nazionali.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 15, 2019, 20:16:35 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/I-media-bosniaci-e-la-visione-distorta-sui-migranti-198480

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I media bosniaci e la visione distorta sui migranti

In Bosnia Erzegovina la crisi legata alla presenza di migranti occupa quotidianamente le pagine di cronaca. Ma come ne parlano i media bosniaci? Quali sono le reazioni dei cittadini? Un'analisi dettagliata del Media Centar di Sarajevo

13/12/2019 -  Belma Buljubašić Sarajevo
(Originariamente pubblicato dal portale del Media Centar di Sarajevo, il 5 dicembre 2019)

Uno degli argomenti più discussi sui media bosniaci nel 2018-2019 è stata la crisi di migranti e rifugiati in Bosnia Erzegovina. Negli ultimi due mesi l’attenzione mediatica intorno a questo tema è ulteriormente aumentata, per diversi motivi: la drammatica situazione nel campo di Vučjak nei pressi di Bihać; la mancata volontà e l’incapacità delle autorità bosniaco-erzegovesi di affrontare in modo adeguato la crisi dei migranti; alcune affermazioni controverse sui migranti e rifugiati pronunciate dai politici della Republika Srpska; le ripetute sollecitazioni dei funzionari dell’UE affinché il campo di Vučjak venga chiuso; l’atteggiamento di una parte dei cittadini bosniaco-erzegovesi, secondo cui i migranti e i rifugiati sarebbero colpevoli di diversi atti criminali verificatisi sul territorio della Bosnia Erzegovina.

Abbiamo analizzato una serie di articoli dedicati alla crisi dei migranti in Bosnia Erzegovina per capire come alcuni dei principali media bosniaci hanno trattato questo argomento. Per avere un quadro più completo, abbiamo analizzato anche alcuni commenti dei cittadini bosniaco-erzegovesi a diversi articoli apparsi sui media online.

Dall’analisi dei commenti è emerso che la maggior parte dei cittadini bosniaci è sprovvista delle conoscenze geografiche di base, capisce ben poco della politica internazionale e nutre sentimenti razzisti e islamofobi, spesso mascherati dalla presunta preoccupazione per la sorte della Bosnia Erzegovina. Particolarmente preoccupante è la mancanza di empatia nei confronti dei migranti dimostrata dai cittadini bosniaci, di cui molti furono costretti a cercare rifugio in altri paesi durante la guerra in Bosnia Erzegovina. Al contempo, i cittadini bosniaci non perdono l’occasione per affermare che sono tolleranti e che rispettano le diversità e per sottolineare il fatto che la Bosnia Erzegovina è un paese multiculturale.

La rappresentazione mediatica di migranti e rifugiati nel 2018: da vittime a criminali
Già nel 2018, quando sempre più migranti e rifugiati hanno cominciato ad arrivare in Bosnia Erzegovina, alcuni media locali hanno iniziato a diffondere sentimenti ostili verso i migranti e i rifugiati che si sono trovati sul territorio della Bosnia Erzegovina cercando una vita migliore.

Un altro aspetto problematico riguarda il fatto che molti media bosniaci fanno un uso eccessivo del termine “migranti”, come se volessero ulteriormente spersonalizzare i soggetti rappresentati, sminuire le loro caratteristiche personali e presentare tutte le persone in fuga provenienti da diverse parti del mondo come una massa omogenea di soggetti senza nome e cognome e senza passato. “I migranti si sono picchiati tra loro”, “I migranti hanno rubato”, “Rissa tra migranti”, sono solo alcuni dei titoli comparsi sui media bosniaci che sembrano voler privare i migranti di caratteristiche umane e dignità. Tale omogeneizzazione, che tende a rappresentare un gruppo di individui come una massa indifferenziata di persone con le stesse caratteristiche, gli stessi obiettivi, etc., è un terreno fertile per la diffusione del linguaggio d’odio e per le generalizzazioni di ogni tipo. Ricorrendo costantemente al termine migrante, usato perlopiù con una connotazione negativa o vittimizzante, alcuni media hanno cercato di rappresentare le persone che lasciano i loro paesi per cercare una vita migliore altrove come criminali o come persone da compiangere perché prive dei più elementari mezzi di sussistenza.

Nel 2018 il quotidiano Dnevni avaz  si è contraddistinto tra tutti i media bosniaci per il suo atteggiamento negativo verso i migranti e i rifugiati, accusandoli di comportamenti incivili, di fare uso di stupefacenti e di turbare la popolazione locale, causando risse e derubando i cittadini. Molti media bosniaci evitano di usare il termine rifugiato  , ignorando completamente il fatto che alcune persone sono costrette a fuggire dal loro paese a causa di violazioni dei diritti umani o perché temono per la propria vita e incolumità.

Una recente ricerca  realizzata da Rea Adilagić dell’Associazione dei giornalisti della Bosnia Erzegovina nell’ambito di un progetto intitolato “Izvještavanje o migrantima i izbjeglicama - #TačnoJeBitno” [Riportare notizie su migranti e rifugiati - L’esattezza conta], ha dimostrato che nel periodo compreso tra aprile 2018 e gennaio 2019 molti media bosniaci hanno trattato temi legati ai migranti e rifugiati in modo poco professionale, diffondendo ipotesi azzardate e informazioni non verificate. La ricerca ha preso in esame 100 articoli apparsi su 14 media bosniaci, di cui 3 media cartacei, 5 media radiotelevisivi e 6 media online. Gli articoli sono stati classificati in base all’atteggiamento espresso nei confronti di migranti e rifugiati nelle seguenti categorie: articoli che stigmatizzano i migranti e i rifugiati; articoli che accusano i migranti e i rifugiati di essere criminali; articoli in cui i migranti e i rifugiati sono rappresentati come persone pericolose; articoli in cui sono rappresentati come vittime; articoli scandalistici. In più della metà degli articoli analizzati i migranti e i rifugiati sono rappresentati come persone pericolose che costituiscono una minaccia per la sicurezza dei cittadini bosniaco-erzegovesi.

Di seguito riportiamo altri due esempi emblematici. Nel maggio 2018, in un’intervista rilasciata al portale Nezavisne novine, la procuratrice della Bosnia Erzegovina Gordana Bosiljčić ha dichiarato  di essere stata derubata da un migrante mentre si trovava in un negozio situato nel centro storico di Sarajevo. Dal momento che non ha potuto fornire alcuna prova concreta a sostegno di tale affermazione – tra l’altro perché la polizia non è mai riuscita a identificare il responsabile del reato – la procuratrice ha cercato di corroborare la sua storia affermando che l’uomo che l’ha derubata era di carnagione scura. La notizia è subito rimbalzata su altri media bosniaci.

Il secondo esempio  riguarda un articolo pubblicato nel luglio 2018 sul portale Dnevni avaz. Nell’articolo vengono riportate alcune affermazioni rilasciate da due cittadini di Bihać – che hanno scelto di rimanere anonimi – secondo cui i migranti provenienti dall’Afghanistan avrebbero trovato un nuovo “hobby” che consiste nel catturare le anatre selvatiche sul fiume Una per poi cucinarle alla griglia. L’articolo abbonda delle più orribili parole d’odio e sembra che l’autore, riportando affermazioni provenienti da fonti anonime, abbia voluto sottolineare il fatto che i cittadini di Bihać hanno talmente tanta paura dei migranti che non osano parlare liberamente, senza ricorrere all’anonimato, per timore di subire ritorsioni.

Escalation della crisi dei migranti
Nell’ottobre di quest’anno, alcuni media bosniaci hanno cominciato a usare toni allarmistici trattando temi legati alla crisi dei migranti, quali la drammatica situazione nel campo di Vučjak, i nuovi arrivi di migranti e rifugiati in Bosnia Erzegovina, la comparsa di scabbia nella città di Tuzla, la decisione delle autorità di limitare la libera circolazione di migranti e rifugiati nella regione della Krajina, l’appello del sindaco di Bihać rivolto alle istituzioni centrali affinché si adoperino più attivamente per risolvere la crisi dei migranti, diverse risse e incidenti che hanno visto coinvolti i migranti e i rifugiati, etc.

Con l’arrivo del freddo la situazione è peggiorata, perché la maggior parte dei campi per migranti e rifugiati è inadeguata per l’inverno. Qualche tempo fa sui media sono comparsi alcuni video  girati nel campo di Vučjak, dove diverse centinaia di migranti e rifugiati vivevano in condizioni disumane. Nel frattempo è stata annunciata la chiusura del campo [martedì 10 dicembre circa 350 migranti e rifugiati sono stati trasferiti dal campo di Vučjak nella caserma di Ušivak nei pressi di Sarajevo], mentre il comune di Bihać ha annunciato che avrebbe smesso di finanziare i campi per migranti situati sul territorio comunale in segno di protesta per il mancato sostegno da parte delle istituzioni centrali della Bosnia Erzegovina.

Anche il governo del cantone Una-Sana ha reso noto che avrebbe tolto il proprio sostegno finanziario ai due campi per migranti situati nel comune di Bihać, insistendo sul fatto che i migranti devono essere sistemati fuori dai centri urbani, proponendo una struttura situata a Medeno Polje, che ricade nel territorio del comune di Bosanski Petrovac. I rappresentanti delle autorità cantonali hanno inoltre fatto sapere di aver scritto alle istituzioni centrali di Sarajevo e a quelle dell’UE, chiedendo che i migranti presenti sul territorio del cantone Una-Sana venissero trasferiti in alcuni campi di accoglienza situati nei pressi di Sarajevo e Mostar che – stando alle loro parole – sarebbero semivuoti  , e che la linea ferroviaria tra Tuzla e Bihać venisse sospesa.

Dopo le ripetute sollecitazioni delle autorità e dei cittadini del cantone Una-Sana, secondo cui la situazione sanitaria e di sicurezza nel cantone sarebbe stata seriamente compromessa a causa della presenza dei migranti, il ministero dell’Interno del cantone Una-Sana ha introdotto diverse misure volte a limitare la libertà di movimento dei migranti, ai quali è stato impedito di circolare nei centri abitati e di trattenersi nei parchi. Il portavoce del ministero ha dichiarato  che le misure adottate sono necessarie per evitare che i migranti compiano atti illeciti come l’accattonaggio, il vagabondaggio e altri reati.

Nei mesi di ottobre e novembre i media bosniaci hanno parlato anche delle proteste dei cittadini contro l’apertura di nuovi centri di accoglienza per migranti. A destare particolare attenzione è stata la proposta, avanzata dal governo del cantone Una-Sana, di trasferire una parte dei migranti dai campi situati nel comune di Bihać nel villaggio di Medeno Polje [abitato dai ritornanti serbi], nei pressi di Bosanski Petrovac. Reagendo a questa proposta, Đorđe Radanović, presidente del Comitato per la protezione dei diritti dei serbi nella Federazione di Bosnia Erzegovina, ha avvertito che i serbi residenti nella Federazione BiH bloccheranno la strada tra Drvar e Bosanski Petrovac per impedire un eventuale tentativo di trasferire i migranti a Medeno Polje. Secondo Radanović, il trasferimento dei migranti nel villaggio di Medeno Polje rappresenterebbe una violazione dell’Annesso 7 degli Accordi di Dayton. Radanović ha annunciato  che inviterà tutti i rappresentanti serbi delle istituzioni centrali e quelle della Federazione BiH, ma anche gli ambasciatori accreditati a Sarajevo dei paesi garanti degli Accordi di Dayton (Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia, Germania, Unione europea), a opporsi alla proposta di trasferimento dei migranti a Medeno Polje.

La proposta è stata duramente criticata anche dal membro serbo della Presidenza tripartita della Bosnia Erzegovina Milorad Dodik, il quale ha dichiarato che un eventuale trasferimento dei migranti a Medeno Polje rappresenterebbe un atto politico, finalizzato a costringere i serbi ad abbandonare le terre dove vivono da secoli. Dodik ha approfittato dell'occasione  per attaccare i suoi oppositori politici, affermando che la proposta è stata ideata dai politici di Sarajevo e che una parte dell’élite politica bosgnacca è favorevole all’arrivo dei migranti in Bosnia Erzegovina, perché se dovessero rimanerci potrebbero esercitare pressioni sui cittadini di nazionalità diversa da quella bosgnacca. Dodik ha inoltre ribadito che la Republika Srpska non permetterà l’apertura di centri di accoglienza per migranti sul proprio territorio.

Le affermazioni di Dodik hanno suscitato numerose reazioni negative dei cittadini, che hanno ricordato che il villaggio di Medeno Polje si trova nel territorio della Federazione di Bosnia Erzegovina e che Dodik non ha alcun diritto di intromettersi nelle questioni interne della Federazione BiH. È curioso notare come la maggior parte dei commenti negativi non sia stata indirizzata ai migranti bensì a Milorad Dodik. Tuttavia, qualche settimana dopo, lo scorso 15 novembre, circa 300 cittadini di Bihać si sono radunati  davanti al centro di accoglienza di Bira, invitando i migranti ospitati nel centro a lasciare Bihać e a tornare nei loro paesi di origine.

I deputati croati del consiglio comunale di Tuzla e di quello di Živnice hanno reagito con veemenza all’annuncio del presidente del Consiglio dei ministri della Bosnia Erzegovina Denis Zvizdić, che ha avanzato l’ipotesi di aprire un nuovo centro per migranti nel villaggio di Ljubače nei pressi di Tuzla, abitato prevalentemente da croato-bosniaci. I deputati croati hanno emesso un comunicato stampa  , affermando che i croato-bosniaci sono molto preoccupati perché non sanno come proteggersi da potenziali furti e atti vandalici da parte dei migranti illegali.

Questo comunicato stampa, basato su mere speculazioni, è paradigmatico, perché dimostra come alcuni politici diffondano un panico infondato.

La presa di posizione della Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa Dunja Mijatović che, durante la sua recente visita in Bosnia Erzegovina, ha affermato che il campo di Vučjak deve essere immediatamente chiuso, ha suscitato molti commenti dei cittadini bosniaci pieni di parole d’odio, che hanno paragonato i migranti alle bestie e invitato Dunja Mijatović a portare i migranti a casa sua.

Dopo la visita di Dunja Mijatović, sui media bosniaci sono apparsi diversi articoli incentrati sull’incapacità delle autorità di affrontare in modo adeguato la crisi dei migranti e sulla drammatica situazione nel campo di Vučjak. Molti cittadini, nei loro commenti a suddetti articoli, hanno chiesto che i migranti venissero deportati nei loro paesi di origine, senza mostrare la benché minima empatia.

Come si crea un’immagine negativa dei migranti
Ogni giorno in Bosnia Erzegovina si verificano risse, furti, incendi, rapine, e tra le notizie più lette dai cittadini bosniaci sono quelle di cronaca nera. Tuttavia, gli episodi di cronaca nera che vedono come protagonisti i cittadini bosniaci suscitano molta meno indignazione rispetto a quelli che vedono coinvolti i migranti. Si ha l’impressione che alcuni media bosniaci cerchino di sfruttare ogni episodio di cronaca nera per alimentare ulteriormente l’ostilità nei confronti di migranti e rifugiati, rappresentandoli come persone incivili, diverse, per le quali non c’è posto in Bosnia Erzegovina. Lo confermano numerosi esempi, di cui riportiamo quelli che hanno suscitato maggiore attenzione dell’opinione pubblica.

Lo scorso 12 novembre su alcuni media bosniaci è apparso un articolo che descriveva un episodio di abuso sessuale su un cane avvenuto nel cortile della casa del suo proprietario a Bihać. La notizia è trapelata dopo che il proprietario del cane ha denunciato l’episodio alla polizia ed è subito rimbalzata sui media di tutta la regione, con titoli sensazionalistici del tipo: “Contenuto disturbante, vi verrà da vomitare”, mentre alcuni titoli suggerivano che il cane sarebbe stato abusato da un migrante. Chi legge solo i titoli è rimasto all’oscuro del fatto che nessun media ha fornito alcuna prova a sostegno dell’ipotesi secondo cui il reato sarebbe stato commesso da un migrante.

L’articolo è stato originariamente pubblicato  sul portale USKinfo.ba, accompagnato da un filmato della durata di 4 minuti registrato da una videocamera di sorveglianza. L’articolo inizia con l’affermazione che in Bosnia Erzegovina si assiste all’escalation della crisi dei migranti, poi prosegue sottolineando che, mentre gli agenti della polizia bosniaca trasferiscono i migranti illegali nel campo di Vučjak, i cittadini che vivono nei pressi del centro per migranti di Bira stanno cercando in tutti i modi di proteggersi da irruzioni violente di migranti. Nell’articolo vengono riportate anche alcune affermazioni del proprietario del cane, secondo cui il cane si sarebbe comportato in modo strano, motivo per cui il proprietario e sua moglie hanno deciso di guardare il filmato della videocamera di sorveglianza, dopodiché hanno denunciato l’episodio alla polizia e hanno portato il cane all’ambulatorio veterinario di Bihać. Nonostante nel video non si veda il volto del responsabile del reato, il proprietario del cane ha dichiarato: “So che sarà inutile, ma voglio comunque denunciare quanto accaduto affinché si sappia cosa stanno facendo”.

Il proprietario del cane non li ha nominati esplicitamente, ma è chiaro che si riferiva ai migranti, riecheggiando la retorica usata da molti media bosniaci che parlano di “noi” e “loro”.

L’articolo ha suscitato grande attenzione, ottenendo quasi 10mila like. Molti commenti all’articolo contengono messaggi di odio, ma anche le accuse reciproche tra i cittadini bosniaci di diverse nazionalità. Alcuni cittadini hanno proposto varie punizioni da infliggere al responsabile dell’accaduto.

La notizia è stata ripresa da molti portali in Bosnia Erzegovina, ma anche in Croazia e in Serbia, di cui alcuni hanno affermato già nel titolo che il cane è stato abusato da un migrante (Alo, Paraf, Mondo, Novosti, Espreso, etc.), mentre altri hanno suggerito nel titolo che il reato è stato commesso da un uomo, per poi precisare che si sospetta che il responsabile del reato sia un migrante.

Il portavoce del ministero dell’Interno del cantone Una-Sana Ale Šiljededić ha dichiarato  al portale Dnevni avaz che sulla base del contenuto del filmato non si può affermare con certezza che si sia trattato di un migrante, ma che il proprietario del cane sospetta che il reato sia stato commesso da un migrante.

Ogni articolo sulla crisi dei migranti in Bosnia Erzegovina suscita numerosi commenti negativi. Ad esempio, una breve notizia  pubblicata lo scorso 20 novembre sul portale Klix sull’aggressione ad un migrante, che è stato trasportato dall’autostazione di Sarajevo al pronto soccorso, ha scatenato un’ondata di commenti ostili.

L’articolo, lungo nove righe, spiega che l’uomo è stato aggredito con un oggetto tagliente, per poi essere trasportato all’ospedale, e che la polizia sta indagando per fare chiarezza sulla vicenda, per capire se l’uomo sia stato aggredito alla stazione o se si sia recato lì dopo l’aggressione, se sia stato aggredito con un coltello o con qualche altro oggetto, etc. Alcuni lettori hanno suggerito nei loro commenti che i migranti dovrebbero essere cacciati dalla Bosnia Erzegovina, oppure arrestati e rispediti in Serbia, o ancora che dovrebbero mettere insieme i soldi sufficienti per acquistare un volo charter e tornare nei loro paesi.

Alla fine di ottobre, Dnevni avaz ha pubblicato una drammatica testimonianza  di un cittadino di Sarajevo, che sostiene di essere stato aggredito nel suo appartamento da alcuni migranti. Tuttavia, le sue affermazioni lasciano intendere che non abbia visto i volti degli aggressori. “Sotto di me, al piano terra, abita un poliziotto, un agente speciale. Lui dormiva, era appena tornato dal turno di notte. Io ero sveglio. Loro hanno forzato la porta e sono saliti per le scale nel mio appartamento. Non nel suo, ma direttamente nel mio, nonostante abbiano visto la luce accesa, la tv accesa, è questo che non capisco. Io ero a casa malato; ho avuto un infarto, anzi tre, e anche un tumore, da solo a casa. Li ho sentiti, ma pensavo che quel vicino avesse ospiti e che facessero casino. Ho abbassato il volume della tv per sentire cosa stava accadendo. All’improvviso hanno cominciato a battere sulla porta d’ingresso del mio appartamento, cercando di forzarla. A quel punto sono uscito. Dietro al vetro ho visto una silhouette, ma era buio e non ho capito chi fosse. Ho urlato e sono scappati giù per le scale. È caduta una bottiglia di birra, vedo che l’hanno lasciata giù”.

Da quanto sopra esposto emerge che i cittadini bosniaci hanno cominciato a incolpare i migranti e i rifugiati di tutti i problemi che affliggono la Bosnia Erzegovina, e di accusarli di tentativi di furto e di molti altri reati.

Tra i tanti media bosniaci che negli ultimi due anni hanno contribuito alla diffusione del linguaggio d’odio nei confronti di migranti e rifugiati spicca il portale Antimigrant.ba, che pubblica notizie false e interpreta le informazioni in modo distorto, alimentando atteggiamenti ostili verso i migranti.

Recentemente il Consiglio per la stampa della Bosnia Erzegovina ha accolto il ricorso  presentato dalla coalizione Mreža za izgradnju mira [Rete per la costruzione della pace] riguardante il contenuto di tre articoli pubblicati sul portale Antimigrant.ba tra agosto e settembre 2019. Il ricorso è stato presentato anche all’ufficio dell’ombudsman per i diritti umani, e ai responsabili del portale è stato chiesto di rimuovere i contenuti controversi e di scusarsi alle persone i cui diritti sono stati violati e a tutti i cittadini della Bosnia Erzegovina. Nella decisione del Consiglio per la stampa si afferma che il portale dovrebbe scusarsi anche per aver risvegliato, con intenzioni malevole, i traumi di guerra dei cittadini bosniaci, abusando di certi termini come genocidio, campi di concentramento, invasori, etc.

Dai contenuti analizzati emerge che molti media bosniaci parlano negativamente di migranti e rifugiati, rappresentandoli come criminali o vittimizzandoli. Sono molto rari gli articoli che presentano i migranti e i rifugiati sotto una luce positiva, come ad esempio alcune storie educative che parlano delle culture e dei paesi di provenienza dei migranti. Altri esempi positivi riguardano alcuni laboratori educativi e creativi  per migranti e diverse iniziative di socializzazione  tra i migranti e la popolazione locale, ma i media ne parlano poco.

L’analisi ha inoltre dimostrato che molti cittadini bosniaci sanno poco dei paesi di provenienza dei migranti, indicano i migranti con termini come “arabi”, “persone provenienti dal Medio Oriente”, e spesso definiscono i loro paesi come “incivili”. Una constatazione assurda, soprattutto se ricordiamo che molti migranti provengono dai paesi come Iran, Marocco, Siria. Inoltre, è evidente che i cittadini bosniaci hanno paura dell’altro, una paura che emerge soprattutto dai commenti in cui vengono descritte “le nostre” e “le loro” tradizioni, per sottolineare le presunte differenze tra noi e loro. I cittadini bosniaci nei loro commenti spesso affermano di non avere nulla contro le donne e i bambini migranti, sottolineando però che la maggior parte dei migranti sono maschi, in età militare, che avrebbero potuto combattere per i loro paesi, invece di fuggire. Tali affermazioni dimostrano che gran parte dei cittadini bosniaci non sa perché i migranti lasciano i loro paesi, né tanto meno sa che non tutti i paesi di provenienza dei migranti sono afflitti da guerre.


Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Dicembre 15, 2019, 23:49:47 pm
Mi pare di capire che in Bosnia c'è un sentimento tutt'altro che favorevole verso i migranti. Comunque sia, in Russia e Polonia non ho visto UN africano.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 16, 2019, 01:22:45 am
Mi pare di capire che in Bosnia c'è un sentimento tutt'latro che favorevole verso i migranti. Comunque sia, in Russia e Polonia non ho visto UN africano.

Beh, non li vedi nemmeno a Praga o a Tirana.
Viceversa di facce colorate ne vedi a iosa a Bruxelles (è un esempio fra i tanti), guarda caso un Paese dell'Europa dell'ovest.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Dicembre 16, 2019, 02:04:08 am
Amsterdam per esempio è una città dove i negri vano per la maggiore.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 16, 2019, 02:42:01 am
Ci sono stato una volta ad Amsterdam, quando non mi interessavo ancora della QM.  :cool:
Bella, ma c'era un freddo cane.
Comunque preferisco Praga, meno pulita di Amsterdam (perlomeno quando la visitai io), ma sicuramente più bella e affascinante.
Secondo me, ovvio.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Dicembre 16, 2019, 03:25:37 am
Che aria c'è a Praga? Com'è la gente?
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 16, 2019, 20:47:38 pm
Che aria c'è a Praga? Com'è la gente?

Ci sono stato un po' di anni fa e per pochi giorni, per cui non posso fare un'analisi dettagliata.
Per farlo bisognerebbe viverci per un po' di tempo.
Nondimeno, per quello che ho avuto modo di vedere, la gente è abbastanza cordiale. *
Di certo c'è che Praga è una città affascinante, col suo centro storico, i suoi castelli, il suo orologio astronomico,** etc.
**
https://it.wikipedia.org/wiki/Orologio_astronomico_di_Praga

@@

* ... comunque neppure lì ho visto "femmine cacciatrici e sessualmente aggressive"!  :lol:
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Duca - Dicembre 16, 2019, 23:15:00 pm
A Praga e Bratislava, bellissime città, ho visto donne chiaramente eccelse dal punto di vista estetico, ma piuttosto tiepidine per non dire scostanti nei confronti degli italiani, cioè sono molto inquadrate e non amano i caciaroni e/o casinisti.


Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 17, 2019, 00:49:32 am
A Praga e Bratislava, bellissime città, ho visto donne chiaramente eccelse dal punto di vista estetico, ma piuttosto tiepidine per non dire scostanti nei confronti degli italiani, cioè sono molto inquadrate e non amano i caciaroni e/o casinisti.

E' così.
Peraltro il discorso riguarda anche Budapest e altre città dell'Europa dell'est.
Pure lì le donne sono molto distanti.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Dicembre 17, 2019, 01:05:14 am
A Breslavia c'è ancora un'atmosfera da Cortina di Ferro, la gente è seria e avvilita. Molto diverso in Russia (almeno a San Pietroburgo in Siberia non so), si sono ripresi un bel po' e c'è un'aria praticamente occidentale. In Russia c'è molto più senso di solidarietà e comunità che da noi, non dico sia sempre così ma non è una cultura individualista. In compenso ho visto solo cesse (cellulite a 20 anni), a parte le animatrici della proloco di fronte all'Hermitage.
Sul solito FB è pieno di italiani che vanno in brodo di giuggiole per quelle dell'Est, ora specialmente le Ucraine e non è difficile capire il perché: una biro e un paio di calze di nylon e ti fanno gli occhi dolci come ai bei tempi.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: TheDarkSider - Dicembre 17, 2019, 12:37:31 pm
Che aria c'è a Praga? Com'è la gente?
I cechi sono un popolo serio e laborioso, finiti solo per caso al di la' della cortina di ferro. Sono simili ai tedeschi (freddi e rigorosi, tranne quando hanno bevuto) ma sono anche molto piu' atei.

Detto questo, Praga e' una citta' internazionale invasa dal turismo da oltre 20 anni e con una significativa presenza di expat (anche italiani) che hanno stipendi, nel settore IT, piu' alti che in Italia.
Questo per dire che a Praga non troverai certo donne che sono attratte dal fascino dell'esotico (vedono stranieri, turisti o immigrati, ovunque) o dalle nostre possibilita' economiche (tanti lavoratori qualificati hanno stipendi alla pari o anche maggiori che in Italia).

Quanto all'aspetto fisico, e' vero che le donne ceche da giovani sono veramente belle, ma e' anche vero che l'alimentazione molto pesante e l'alcolismo estremamente diffuso le imbruttisce molto rapidamente... 
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: TheDarkSider - Dicembre 17, 2019, 13:53:56 pm
I cechi sono un popolo serio e laborioso, finiti solo per caso al di la' della cortina di ferro.
Mi autocito perche' ho trovato un grafico che dimostra in modo esemplare che i cechi, in generale, non c'entrano niente con il resto dell'Europa dell'Est (e d'altronde Praga e' piu' a ovest di Vienna, per dire).

Il grafico indica la percentuale di giovani fino ai 34 anni che si oppone ai matrimoni gay:
(https://i.redd.it/owzfnyr5f1541.png)
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Jason - Dicembre 17, 2019, 14:50:13 pm
Mi autocito perche' ho trovato un grafico che dimostra in modo esemplare che i cechi, in generale, non c'entrano niente con il resto dell'Europa dell'Est (e d'altronde Praga e' piu' a ovest di Vienna, per dire).

Il grafico indica la percentuale di giovani fino ai 34 anni che si oppone ai matrimoni gay:
(https://i.redd.it/owzfnyr5f1541.png)

E' interessante notare il 50 % della Grecia , paese semplice, distrutto dalla Troika e nonostante tutto , coi turisti che vanno in massa in quelle zone  - che  praticamente da soli reggono in piedi Zante - , riescono sempre ad essere sorridenti ed accoglienti, oltre a farti trovare i servizi che riescono a darti.

Non so se ci sei mai stato , ma come le giudichi le donne greche ?
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: TheDarkSider - Dicembre 17, 2019, 16:45:53 pm
E' interessante notare il 50 % della Grecia , paese semplice, distrutto dalla Troika e nonostante tutto , coi turisti che vanno in massa in quelle zone  - che  praticamente da soli reggono in piedi Zante - , riescono sempre ad essere sorridenti ed accoglienti, oltre a farti trovare i servizi che riescono a darti.

Non so se ci sei mai stato , ma come le giudichi le donne greche ?
Jason qui passo la palla: non ci sono mai stato e non so niente dei greci, a parte il detto "una fazza una razza" che sento spesso dire.
Comunque sicuramente e' un paese che voglio visitare non appena trovo l'occasione.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Dicembre 17, 2019, 16:47:27 pm
I cechi sono un popolo serio e laborioso, finiti solo per caso al di la' della cortina di ferro. Sono simili ai tedeschi (freddi e rigorosi, tranne quando hanno bevuto) ma sono anche molto piu' atei.

Detto questo, Praga e' una citta' internazionale invasa dal turismo da oltre 20 anni e con una significativa presenza di expat (anche italiani) che hanno stipendi, nel settore IT, piu' alti che in Italia.
Questo per dire che a Praga non troverai certo donne che sono attratte dal fascino dell'esotico (vedono stranieri, turisti o immigrati, ovunque) o dalle nostre possibilita' economiche (tanti lavoratori qualificati hanno stipendi alla pari o anche maggiori che in Italia).

Quanto all'aspetto fisico, e' vero che le donne ceche da giovani sono veramente belle, ma e' anche vero che l'alimentazione molto pesante e l'alcolismo estremamente diffuso le imbruttisce molto rapidamente...
Ho frequentato per breve tempo una donna ceca, era biologa di laboratorio. Dopo qualche tempo è tronata in patria per motivi di lavoro, ora è diventata una balena irriconoscibile.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 17, 2019, 20:02:25 pm
https://www.eastjournal.net/archives/101335

Citazione
RUSSIA: La stagione di repressioni contro gli studenti universitari
Sergio Urussov 1 giorno fa

A causa della partecipazione a movimenti di opposizione politica, molti studenti russi si vedono adesso costretti a fronteggiare le conseguenze della loro presa di posizione in favore della democrazia, contro la repressione e la strumentalizzazione della giustizia. Uno di questi è Egor Zhukov, studente di scienze politiche della Higher School of Economics (HSE) di Mosca, condannato il 6 dicembre a tre anni di detenzione con la condizionale. Il suo caso è sintomatico della chiusura degli esigui spazi di libertà rimanenti in ambito accademico, ma non solo.

Il caso di Egor Zhukov

Il 6 dicembre si è concluso a Mosca il processo dello studente della HSE Egor Zhukov, uno dei venticinque imputati per i fatti del 27 luglio. Quel giorno si tenne una delle più importanti proteste “per elezioni pulite” il cui elemento scatenante fu l’esclusione dei maggiori candidati dell’opposizione alle elezioni della Duma di Mosca. Queste manifestazioni sono state duramente represse dalle forze dell’ordine, accusate a più riprese di aver fatto uso eccessivo della forza contro manifestanti inermi (e persino passanti ignari). Amnesty International ha parlato di un attacco senza precedenti alla libertà di manifestare, di arresti ingiustificati e condanne arbitrarie effettuate nell’ambito di una campagna di intimidazione di massa, nonostante il carattere pacifico delle proteste.

Egor Zhukov, inizialmente accusato di aver organizzato e preso parte a manifestazioni non autorizzate (il capo d’accusa è stato poi ritirato), si è successivamente dovuto difendere dall’accusa di istigazione all’estremismo. Il Pubblico Ministero aveva richiesto per il giovane studente moscovita, una condanna a quattro anni di colonia, a fronte dei cinque previsti come pena massima per il capo d’accusa in questione. Se l’è finalmente “cavata”, come detto, con tre anni con la condizionale. Zhukov era stato arrestato il 3 agosto, pochi giorni dopo aver pubblicato un video sul suo canale Youtube in cui esortava a sostenere i manifestanti antigovernativi arrestati nei giorni precedenti. I video pubblicati da Zhukov sono al centro della faccenda giuridica nella quale si è trovato invischiato e che gli è valsa il dubbio onore di vedere il suo nome iscritto sulla lista nera degli estremisti e terroristi compilata dal Rosfinmonitoring. Durante l’ultima udienza del processo, Zhukov aveva dichiarato che ad essere sotto processo in quella corte erano le sue parole e il significato attribuitogli. Un’imponente campagna di solidarietà in favore di Zhukov e degli altri imputati si è messa in moto sin dal mese di agosto, senza purtroppo sortire gli effetti desiderati (quella di Pavel Ustinov è una felice quanto isolata eccezione). Secondo la corrispondente a Mosca della BBC Sarah Rainsford questa sentenza è comunque quanto più si avvicina a un’assoluzione nella Russia odierna (un parere espresso anche dal noto rapper russo Oxxxymiron, molto attivo sin dall’inizio dell’affaire di Mosca). È bene infatti ricordare che meno dell’un per cento dei processi in Russia termina con un’assoluzione.

Repressione nel mondo accademico

Perché il caso di Egor Zhukov è significativo e come siamo giunti a questo punto? Per capirlo è necessario fare un passo indietro. Come accennato precedentemente, l’estate moscovita è stata attraversata da una serie di movimenti che hanno dato luogo a un numero insolito, per numero e partecipazione, di manifestazioni. Diversi osservatori hanno rimarcato la grande partecipazione degli studenti e in generale dei giovani a questo movimento, un dato in controtendenza rispetto a quanto sottolineato dalle indagini sociologiche effettuate negli ultimi anni che evidenziavano l’apatia politica dei giovani ed in particolare della cosidetta Generazione Z (ovvero quella che nel corso della sua vita ha non mai visto un inquilino diverso da quello attuale al Cremlino).

Non sorprende quindi il fatto che, oltre a Zhukov, altri quattro studenti universitari siano stati coinvolti in quello che la stampa russa ha ribattezzato il moskovskoe delo, il caso Mosca. Benché due di loro, Daniil Kanon e Valerij Kostenok, siano stati giudicati innocenti, i rimanenti, Ajdar Gubajdulin e Andrej Baršaj, sono tuttora in attesa di giudizio. Gli involontari protagonisti di questa faccenda, così come i loro colleghi, rischiano oltretutto di non poter continuare gli studi universitari. Il portale OVD-info, specializzato nel monitoraggio di proteste, arresti e repressioni, riporta che diversi rettori di università moscovite hanno dichiarato durante l’estate che i partecipanti alle manifestazioni, qualora fossero sanzionati a livello amministrativo o penale, sarebbero stati espulsi dai rispettivi corsi di studio. Nonostante le leggi federali non facciano menzione dell’espulsione di uno studente in seguito a una sanzione amministrativa o penale, lo statuto di molte università lo prevede. Le regole della HSE, per esempio, stabiliscono che uno studente non debba violare “l’ordine pubblico”. Molte università usano formulazioni estremamente vaghe che possono essere interpretate in diversi modi. Ad esempio, le regole della facoltà di giurisprudenza dell’Università Statale di Mosca obbligano gli studenti a “essere disciplinati” e a “comportarsi con dignità”. Cosa questo implichi precisamente non viene specificato. Pertanto, secondo il giurista Tural Ibragimov, dell’organizzazione “Rus’ Sidjaščaja”, sulla base di questi elementi  “qualsiasi comportamento di attivismo civile da parte di uno studente, può essere considerato deviante e servire da base per la sua espulsione“.

Il tallone di ferro delle autorità

Alla luce degli ultimi sviluppi non sembra quindi esagerato prevedere un futuro prossimo nel quale la libertà di espressione nel mondo accademico e studentesco sarà ulteriormente limitata. Riprova ne è quanto accaduto in questi giorni alla rivista studentesca DOXA dell’università HSE. La rivista si è vista revocare lo statuto di organizzazione studentesca da parte del comitato universitario in carica della gestione dei finanziamenti a quest’ultime. Secondo uno dei responsabili, alcuni dei loro articoli avrebbero leso la reputazione dell’istituto. DOXA aveva pubblicato nel corso dell’estate un articolo critico nei confronti di uno dei candidati filo-governativi alla Duma di Mosca e aveva partecipato alle campagne di solidarietà in favore degli imputati dell’affaire di Mosca.

L’ondata repressiva non sembra nemmeno fermarsi ai confini della Russia. Lo scorso 27 novembre la sociologa francese ed esperta di movimenti sociali Karine Clément, che doveva tenere una conferenza a Mosca sui gilets jaunes, si è vista rifiutare l’ingresso in terra russa in quanto “minaccia per la sicurezza nazionale” secondo lo FSB.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Dicembre 17, 2019, 21:09:10 pm
In Russia i comunisti sono al 20% e la TV manda programmi nostalgici con l'emblema della stella rossa. Chissà cosa succederà dopo Putin.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Duca - Dicembre 18, 2019, 20:08:00 pm
Chissà cosa succederà dopo Putin.
Niente, resteranno il popolo che sono, perché non è stato certo il buon Vladimiro a farli diventare nazionalisti, lo erano anche prima.
Non ha caso Stalin ha vinto la guerra facendo appello al nazionalismo, mica al comunismo di cui già i russi avevano le balle piene. Ma se la stella rossa è ancora popolare (come analogamente Putin oggi è molto amato in patria) è perché grazie al comunismo la Russia è diventata una grande potenza, rispettata e temuta (un meccanismo che spiega, al netto delle evidenti differenze, la popolarità del Duce a suo tempo e anche oggi).
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Dicembre 18, 2019, 20:54:14 pm
Ma se la stella rossa è ancora popolare (come analogamente Putin oggi è molto amato in patria) è perché grazie al comunismo la Russia è diventata una grande potenza
Esattamente, ma proprio per questo non sappiamo cosa diventerà la Russia dopo Putin, è pieno di nostalgici e c'è ancora il culto di Stalin.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Duca - Dicembre 18, 2019, 21:00:16 pm
Esattamente, ma proprio per questo non sappiamo cosa diventerà la Russia dopo Putin, è pieno di nostalgici e c'è ancora il culto di Stalin.
Ma appunto - come del resto alcune russe ebbero modo di precisarmi - il culto del baffone non significa assolutamente voglia di ritorno al comunismo, anzi... è apprezzare una persona che difende i valori nazionali, che sono le nostre radici da cui, nonostante gli sforzi dell'imperialismo globalista, è impossibile prescindere.
Guarda in che modo Salvini ha portato la Lega dal 3% al 30% e oltre...
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Dicembre 19, 2019, 00:14:27 am
Mi autocito perche' ho trovato un grafico che dimostra in modo esemplare che i cechi, in generale, non c'entrano niente con il resto dell'Europa dell'Est (e d'altronde Praga e' piu' a ovest di Vienna, per dire).

Il grafico indica la percentuale di giovani fino ai 34 anni che si oppone ai matrimoni gay:
(https://i.redd.it/owzfnyr5f1541.png)
A spanne queste percentuali riflettono esattamente la programmazione dei media (v. specialmente Russia e Spagna).
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 19, 2019, 19:02:42 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Georgia/Georgia-le-regole-del-gioco-198588

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Georgia: le regole del gioco

È crisi in Georgia, dal giugno scorso le proteste di piazza si scagliano contro il governo a guida Sogno Georgiano, reo secondo i manifestanti di alterare le regole del gioco democratico

19/12/2019 -  Marilisa Lorusso
Una catena quasi ininterrotta di proteste anti-governative: Sogno Georgiano, partito guidato da Bidzina Ivanishvili, è sempre più esposto e sfrangiato davanti alle critiche di quella società civile che due legislature fa lo aveva scelto in massa. Le manifestazioni contro delle scelte – grottesche, contraddittorie, pericolose, sempre e comunque potenzialmente molto impopolari – proseguono da giugno. E alcune riguardano misure atte a cambiare le regole del gioco.

Da una piazza all’altra
A giugno ha dato il via alle danze l’affare Gavrilov, i cui strascichi pesano ancora sulle tasche dei georgiani. La crisi aperta allora non si è più sanata. Non sono più stati ripristinati i voli diretti con la Russia. A novembre le compagnie aeree russe hanno reso noto che le loro perdite dovute al divieto di voli diretti tra Russia e Georgia ammonterebbero a circa 3,2 miliardi di RUB /45,2 milioni di euro. Il 13 dicembre Koba Gvenetadze, governatore della Banca nazionale della Georgia, ha dichiarato che il bilancio del paese ha subito perdite per circa 300 milioni di dollari per la stessa causa. Le tensioni nei rapporti con Mosca - con la sospensione dei voli nel luglio 2019 e le informazioni su altre possibili sanzioni economiche contro la Georgia - avrebbero anche contribuito al deprezzamento della valuta  della Georgia, il lari (GEL).

Ancora si doveva chiudere questo scenario, che già lo stesso Ivanishvili creava il casus belli per altre due proteste, una legata ad un nome, l’altra alle regole del gioco con la mancata riforma della legge elettorale.

A settembre è stato nominato nuovo Primo ministro Giorgi Gakharia, ministro degli Interni uscente e assai contestato per la gestione delle proteste durante l’affare Gavrilov.

Ma se questa è stata una protesta legata a una persona, il primo ministro, la questione della legge elettorale scava nella fiducia del processo democratico. È dal 2007 che la fiamma di una legge elettorale percepita come troppo distorsiva incendia le piazze georgiane. Il tarlo nella fiducia è per molti l’assegnazione di seggi con la quota maggioritaria. Il sistema del “più votato che si prende tutto”, metodo maggioritario secondo il quale chi ha il 50%+1 dei voti viene eletto, ha il pregio di ridurre la frammentazione del quadro politico, ma il difetto di ignorare il 50%-1 delle preferenze, che rimangono quindi non rappresentate. Vice versa per il proporzionale, che rende il rapporto votati/votanti più fedele alle preferenze espresse, ma che spesso ha come effetto collaterale la frammentazione del quadro politico.

Attualmente in Georgia il sistema elettorale è misto, ma sulla quota maggioritaria grava discredito e i sondaggi dicono  che l’elettorato è a favore del passaggio al proporzionale pieno. Ivanishvili per venire incontro alle richieste della piazza in estate aveva promesso la riforma della legge elettorale.

A novembre quindi, quando finalmente la promessa si sarebbe dovuta concretizzare, il forfait di alcuni parlamentari del Sogno che non ha fatto passare la legge promessa ha scatenato la piazza.

Il 26 novembre sui manifestanti sono stati usati gli idranti e poi, per impedire l’occupazione dello spazio adiacente al parlamento è stata eretta una barriera.

A far dialogare le parti, e a cercare di raggiungere un compromesso accettabile, è intervenuta la comunità internazionale. Il 30 novembre a un tavolo si sono riuniti gli ambasciatori di diversi paesi con lo scopo di facilitare una soluzione. L’8 dicembre ne è avvenuto un secondo, un terzo il 15 dicembre. Tutti conclusi con un nulla di fatto  .

La Corte Suprema
L’ultima crisi in ordine cronologico è quella causata dalla nomina dei giudici della Corte Suprema. Il 12 dicembre scorso il parlamento, boicottato dalle opposizioni e in una sessione assai concitata con proteste e arresti fuori, ne ha nominati 14.

La questione è spinosa. Dopo la riforma costituzionale, secondo l’Articolo 61.2 la Corte Suprema deve essere composta da 28 giudici. Da luglio ne sono rimasti in servizio solo 8. La procedura per la nomina dei giudici della Corte Suprema si è rivelata difficile. L’Alto Consiglio di Giustizia ha presentato un primo elenco che doveva essere votato dal Parlamento ma che è stato poi ritirato a causa di controversie e critiche da parte della popolazione, della società civile e da alcuni membri dell'Alto Consiglio di Giustizia stesso. Le critiche sono mosse dal fatto che la procedura di selezione manca di criteri chiari e obiettivi, nonché di trasparenza. A questo proposito, le ONG hanno affermato che il processo di nomina è controllato da una rete politica di giudici influenti, che non godono della migliore reputazione a causa di decisioni passate.

Dopo la riforma costituzionale  i giudici avranno un incarico a vita, e un numero così incidente di nomine in contemporanea, 20 su 28, consegna di fatto la Corte Suprema all’attuale governo per decadi. E la Corte Suprema ha un ruolo fondamentale: si pensi che il recente intricato e combattuto caso sulla proprietà di Rustavi 2, rete da sempre schierata non a favore del Sogno Georgiano [Partito di governo], è stato alla fine deciso dalla Corte Suprema. Il potere della Corte come ago della bilancia politico è grande, e la sua imparzialità è un principio cardine della divisione dei poteri, pilastro di una democrazia funzionante.

Sale la tensione
In questa protratta fase di polarizzazione politica Transparency International, come tra l'altro anche alcune Ong georgiane, hanno registrato episodi allarmanti. Affiliati al Sogno georgiano, anche con incarichi pubblici, si sono resi protagonisti di una serie di interventi anche violenti contro membri e sedi dell’opposizione in varie città del paese. La polizia si è dimostrata incapace o non interessata a impedire gli scontri fisici, che hanno portato anche a ricoveri. Gli episodi non stanno avendo un seguito legale come dovrebbero, nonostante la presenza di pubblici ufficiali del ministero degli Interni. Transparency denuncia il rischio di una escalation  di violenza estrema a fronte della continua mobilitazione del proprio elettorato da parte del Sogno e dell’inattività preventiva degli organi di sicurezza.

Nel suo discorso di conclusione di mandato davanti al Parlamento Europeo, Federica Mogherini, alta rappresentante per la politica estera Ue,  ha unito la sua voce  a quanti lamentano un’involuzione della democrazia in Georgia, fatta non solo di episodi singoli, ma di misure che alterano le regole del gioco.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 19, 2019, 19:04:43 pm
https://www.eastjournal.net/archives/101497

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REP.CECA: Dopo la strage di Ostrava, tempo per una riflessione sulle armi?
Andrea Zambelli 1 giorno fa

Lo scorso 10 dicembre un uomo ha ucciso 6 persone prima di suicidarsi presso l’ospedale universitario di Ostrava, nell’est della Repubblica Ceca. Il serial killer, un operaio 42nne, era convinto di essere malato e di non essere preso sul serio dal personale medico. Una strage che mette l’accento sulla libertà di procurarsi armi nel paese centroeuropeo.

La strage di Ostrava è la peggiore in Repubblica Ceca dal 2015, quando Zdeněk Kovář uccise otto persone in un ristorante di Uhersky Brod. L’assassino, nonostante i disturbi mentali, aveva una regolare licenza per detenere armi.

Come ricorda Giorgio Beretta di Rete Disarmo, la Repubblica Ceca è uno dei paesi UE dove vige una sorta di “diritto a detenere armi” come negli Stati Uniti, e dove è più facile procurarsi un’arma. Da cui, le stragi.

Eppure, proprio il governo di Praga l’anno scorso si era opposto alla Direttiva UE che pone limiti sul possesso di armi: “Lede i diritti dei cittadini cechi” disse il Ministro degli Interni Milan Chovanec, evocando la “libera circolazione” delle armi. La Corte UE aveva poi respinto il ricorso ceco. La direttiva, modificata dopo gli attentati di Parigi e Copenhagen, non viola la libera circolazione delle merci, secondo i giudici di Lussemburgo, perché la pubblica sicurezza prevede anche misure di natura eccezionale.

I cittadini cechi hanno il diritto di portare un’arma, incluse semi-automatiche, purché abbiano la fedina penale pulita, siano considerati di “carattere affidabile”, in buona salute, e abbiano passato un test teorico e pratico. La legge permette inoltre ai 240.000 detentori di armi di portarle con sè, purché nascoste e a scopo difesivo.

Nel 2017, su impulso del ministro Chovanec, la Repubblica Ceca ha incluso nella sua costituzione il diritto per i detentori d’armi di farne uso in caso di attacco terroristico.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 24, 2019, 18:37:28 pm
https://www.eastjournal.net/archives/101645

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ALBANIA: Approvate leggi-bavaglio contro i media
Tommaso Meo 2 giorni fa

Per combattere le notizie false e la diffamazione, il 19 novembre il parlamento di Tirana ha approvato una controversa serie di norme che dovrebbero regolamentare soprattutto le notizie pubblicate dai siti online e contrastare fake news e accuse infondate.

Il pacchetto di leggi, chiamato «anti-diffamazione», è stato voluto dal premier socialista Edi Rama e prevede la creazione di un’inedita Autorità dei media audiovisivi (Ama) i cui membri dovranno giudicare le notizie prodotte dagli organi di informazione albanesi. La decisione su una presunta notizia diffamatoria sarà presa in tempi molto brevi, entro 72 ore. L’autorità potrà anche comminare multe a giornalisti e testate ritenuti colpevoli, fino a 4.000 euro. Le norme contenute nel pacchetto danno all’Ama la possibilità di imporre rimozioni forzate dei contenuti ai provider, fino al blocco dell’accesso a Internet nei casi di gravi violazioni da parte dei media, come aver favorito il terrorismo, la pedopornografia o minato la sicurezza nazionale.

I media temono però che questa riforma sia solamente un modo per la classe politica di mettere il bavaglio a giornalisti e testate scomode. L’Ama è di fatto un organo i cui rappresentanti vengono nominati in maggioranza dai partiti politici e le sanzioni economiche che può disporre peserebbero sulle aziende editoriali, costringendo i giornalisti all’auto-censura. Questi ultimi potrebbero portare i loro casi davanti a un tribunale, ma solo dopo avere pagato le multe.

Per questi motivi il «pacchetto anti-diffamazione» è stato duramente criticato, oltre che da associazioni di categorie e da gruppi in difesa dei diritti umani, anche da diversi attori internazionali, tra cui l’Unione europea, l’Osce, il Consiglio d’Europa e il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite. In particolare, un gruppo di 15 associazioni albanesi per i diritti hanno sottolineato come il reato di diffamazione a mezzo stampa debba essere giudicato solo da una corte.

Le norme per riformare i media erano state annunciate da Rama lo scorso ottobre e presentate in un’altra versione a luglio. Mercoledì scorso, infine, il pacchetto è passato con 82 voti favorevoli, 13 contrari e 5 astenuti. L’unico membro del partito di Rama ad astenersi è stato Ditmir Bushati, che guida la delegazione albanese all’assemblea Osce.

Il pacchetto di leggi contribuisce a surriscaldare ulteriormente il clima politico albanese, ormai da mesi contrassegnato da un violento scontro tra la maggioranza di Rama e l’opposizione di centrodestra.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 24, 2019, 18:38:51 pm
https://www.eastjournal.net/archives/101627

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La Rivoluzione romena, patata o testicolo? Dopo trent’anni restano solo i morti senza motivo
Francesco Magno 1 minuto fa

La patata (o il testicolo?) della Rivoluzione

Piazza della Rivoluzione si trova al centro di Bucarest. Chi scrive l’ha attraversata quotidianamente mesi e mesi, per recarsi alla francesizzante biblioteca universitaria dedicata a Carlo I, il primo sovrano di questo disgraziato, ma meraviglioso, paese. Nel centro della piazza si erge un insolito monumento, che severamente troneggia sugli skaters che si dilettano a saltare sulle panchine circostanti; una sorta di obelisco trafigge una non meglio identificato oggetto ovale, per alcuni un’oliva, per altri una patata. Dal peculiare ovaloide, una vernice rossastra sgorga sul bordo dell’obelisco. I goliardici abitanti della capitale hanno apostrofato l’opera nei modi più pittoreschi: la patata impalata, il tubo e il testicolo, l’oliva nello stuzzicadenti, circoncisione fallita, la patata della rivoluzione, un cervello su un bastone.

Il monumento tanto sbeffeggiato, in realtà, commemora l’evento più drammatico della storia romena recente, la rivoluzione del 1989. Non a caso, è stato posto proprio di fronte all’ex sede del comitato centrale del partito comunista (oggi il ministero degli interni), proprio dove scoppiarono i disordini che portarono alla fuga dei coniugi Ceausescu e, successivamente, alla loro condanna a morte.

Possibile che un momento così drammatico e, da un certo punto di vista, epico, debba essere ricordato da un tubo e da un testicolo? Possibile che in trent’anni nessuno sia stato in grado di produrre qualcosa migliore della “patata impalata”?

Il monumento, tuttavia, rappresenta al meglio quella che è oggi la Rivoluzione nella memoria dei romeni: un’entità amorfa, interpretabile, sulla quale ognuno può dire la sua, per alcuni una patata, per altri un testicolo.

La grande domanda è sempre la stessa, ancora oggi, la stessa che ha dato il titolo ad un film dal discreto successo anche ad ovest: c’è stata o non c’è stata una rivoluzione (a fost sau n-a fost)? Fu una rivolta popolare, o fu un colpo di stato?

Fu una Rivoluzione o un colpo di Stato?

Chi scrive queste righe ha cercato in anni di frequentazioni della Romania e dei romeni di dare una risposta a questa domanda; grandi eroi rivoluzionari si sono rivelati agenti della Securitate, insospettabili democratici nascondevano scheletri nel loro personale armadio della vergogna. In Romania, niente è come sembra, nessuno è quel che sembra. Le inchieste si sono susseguite, molte sono ancora in corso, ma quelle giornate di dicembre restano nebulose, ambigue. Chi ha dato ordine di continuare a sparare sulla folla dopo la fuga di Ceausescu? Chi ha davvero ordinato la sua esecuzione? Quanti sovietici arrivarono a Bucarest prima che la situazione degenerasse?

Fiumi e fiumi di inchiostro sono stati scritti su quel dicembre 1989; storie, analisi, congetture. Ion Iliescu, nel 1989 eroe rivoluzionario, è oggi accusato di crimini contro l’umanità per i fatti di quelle giornate: da patata a testicolo, come il monumento.

Secondo la procura militare che sta indagando sugli avvenimenti, Iliescu e le alte gerarchie militari avrebbero messo in atto una spaventosa opera di diversione e inganno, inventando la presenza di fedelissimi del vecchio Conducator, i famigerati “terroristi”, pronti a riportare lo status quo e a catturare i rivoluzionari. Con il pretesto di neutralizzare i terroristi, si continuò a sparare per le strade, in modo indiscriminato, uccidendo giovani innocenti che erano scesi in piazza per invocare un futuro migliore.

In realtà, i terroristi non esistevano, e quando ancora a Bucarest si sparava nel mucchio, Ceausescu e sua moglie erano già nelle mani dell’esercito, abbandonati sia dai militari, sia dalla Securitate. A Bucarest si sparava per difendersi da un dittatore ormai in arresto e da suoi inesistenti difensori. Ma il caos e le morti erano quello che serviva a Iliescu per ottenere la patente di rivoluzionario, di eroe, di dissidente finalmente vittorioso, per non passare alla storia come semplice golpista, per ottenere futuro credito politico.

Una Rivoluzione al condizionale

Nessuna condanna definitiva è stata ancora pronunciata, e pertanto ogni ricostruzione deve essere accompagnata dal condizionale. In Romania c’è ancora chi crede fermamente nell’esistenza dei terroristi fedeli a Ceausescu, e fino a una sentenza contraria, la loro idea vale quanto quella di chi sostiene la colpevolezza di Iliescu.

Solo un dato è avulso dalle opposte dialettiche: le migliaia di morti innocenti. E allora, forse, è nel ricordo di quei visi, di quei giovani corpi, che va cercato il monumento della rivoluzione, quello che Pierre Nora definirebbe “il luogo della memoria”.

La memoria dei morti senza motivo

Il cuore pulsante del ricordo rivoluzionario non è nella patata impalata; lo si trova lontano dal centro di Bucarest, dalle luci sfavillanti e dalle targhe. Esso giace nel piccolo cimitero dedicato ai “martiri della rivoluzione”, il vero grande monumento commemorativo del dicembre ’89. Lì, tra i sepolcri marmorei e anziane signore che sostituiscono fiori freschi a quelli appassiti, si coglie il dramma dell’evento, la tragedia di giovani morti senza un apparente motivo. Ragazzi come Mihai Gîtlan, ucciso da un proiettile che gli ha trafitto il petto, trascinato morente per i capelli e abbandonato sotto un albero nel centro di Bucarest. Oggi quell’albero non esiste più. O Alexandra Diana Donea, uccisa il 21 dicembre a piazza dell’Università, vittima degli spari incrociati. Il padre ha ritrovato il cadavere una settimana dopo. Alexandra e Mihai, e come loro tanti altri, vittime di un carnefice ignoto, gioventù perduta di una Romania rivoluzionaria e, forse, democratica.

A trent’anni da quei giorni, la commemorazione è dedicata a loro.

Questo articolo è frutto della collaborazione tra East Journal e Osservatorio Balcani e Caucaso
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 24, 2019, 18:40:15 pm
https://www.eastjournal.net/archives/101585

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CAUCASO: Le mani dei governi sulla magistratura in Armenia e Georgia
Eleonora Febbe 22 ore fa

La democrazia è in declino nel Caucaso? La “rivoluzione di velluto” dell’anno scorso in Armenia, che aveva portato alle dimissioni del Primo ministro ed ex presidente Serzh Sargsyan e all’elezione del leader delle proteste Nikol Pashinyan, era stata salutata come un successo della società civile e della democrazia. Un anno dopo, però, iniziano a intravedersi le prime crepe. Un po’ come sta succedendo nella vicina Georgia, da quest’estate in tumulto per proteste contro il governo del Sogno Georgiano. In entrambi i paesi, i governi sembrano voler minare il sistema democratico, un obiettivo che si riflette in particolare nelle riforme dei sistemi giudiziari dei due Paesi del Caucaso.

Armenia: pensione anticipata per i giudici scomodi

La settimana scorsa, il parlamento armeno ha approvato una legge che introduce la possibilità per i giudici della Corte Costituzionale di pensionarsi in anticipo. Una manovra aspramente criticata dai partiti di opposizione Armenia Prospera e Armenia Luminosa, che la considerano non soltanto uno spreco di soldi pubblici, ma soprattutto una manovra per costringere al pensionamento anticipato i giudici più vicini alla precedente amministrazione in modo da nominarne di nuovi favorevoli al governo.

In particolare, Il mio passo, il partito di Pashinyan, vorrebbe le dimissioni del presidente della Corte Costituzionale Hrayr Tovmasyan, vicino a Sargsyan e all’ex presidente Robert Kocharyan. I tre sono tutti indagati, con motivazioni che i loro sostenitori ritengono politicamente motivate. Tovmasyan è accusato di appropriazione indebita di fondi pubblici; il parlamento ha già votato per rimuoverlo dall’incarico, ma la decisione finale spetta agli altri membri della Corte Costituzionale entro fine anno. Stessa accusa anche per Sargsyan, mentre Kocharyan è sotto processo per aver autorizzato la repressione violenta di proteste nel marzo 2008, che causò 10 vittime. In seguito alle proteste, Pashinyan, allora leader dei manifestanti, aveva trascorso due anni in prigione.

Quando Kocharyan è stato scarcerato su cauzione nel maggio scorso, Pashinyan aveva invitato i cittadini armeni a bloccare gli ingressi dei tribunali del paese, un primo segno delle ingerenze dell’esecutivo nel sistema giudiziario. Da allora Kocharyan è stato nuovamente arrestato, anche se la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’arresto incostituzionale, mentre Pashinyan continua a sostenere che una riforma radicale del sistema giudiziario sia la “seconda fase della rivoluzione” armena, dopo le manifestazioni del 2018.

Georgia: il Sogno Georgiano rinnova la Corte Suprema

Anche nella vicina Georgia la questione dell’indipendenza del giudiziario dall’esecutivo è  alquanto spinosa: il 12 dicembre il Parlamento ha approvato la controversa lista di nomine per la Corte Suprema proposta dal governo, in una seduta turbolenta durante la quale si è persino assistito al lancio di una bomba puzzolente nel parlamento, apparentemente un’azione di protesta del gruppo antigovernativo Per la libertà.

La riforma costituzionale del 2017 ha aumentato il numero di giudici della Corte Suprema georgiana, lasciando al partito di governo, il Sogno Georgiano, il compito di nominare 20 giudici in carica a vita. Un solo governo avrebbe così l’opportunità di influenzare l’organo giudiziario principale del paese per decenni, situazione criticata non solo dall’OSCE e dal Consiglio d’Europa, ma anche da membri del Parlamento e dell’Alto Consiglio della Giustizia georgiani. L’approvazione della lista dopo mesi di polemiche è quindi l’ennesima indicazione della volontà del Sogno Georgiano di concentrare il potere nelle proprie mani, senza curarsi dell’opinione pubblica, come del resto era già successo con la decisione di bloccare il passaggio a un sistema elettorale proporzionale.

Per ora sia Georgia che Armenia sono ben lontane dall’essere regimi autocratici come il vicino Azerbaigian; tuttavia, la lenta erosione delle istituzioni democratiche è un processo da monitorare prima che diventi irreversibile. I governi post-transizione nei due paesi continuano a voler accaparrarsi tutte le istituzioni, secondo uno schema di autoritarismo competitivo da cui sembra difficile trovare una via d’uscita.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 24, 2019, 18:43:07 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bulgaria/Bulgaria-la-partita-per-la-gola-di-Kresna-198485

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Bulgaria: la partita per la gola di Kresna

La battaglia ventennale sul tracciato dell'autostrada Sofia - Salonicco, che taglia la più importante area protetta della Bulgaria volge alle battute conclusive nel segno delle contraddizioni dell'UE che condanna la devastazione ambientale, ma finanzia generosamente i lavori. Entro gennaio si dovrà decidere

24/12/2019 -  Marco Ranocchiari
Nelle ultime settimane le istituzioni europee sono tornate a discutere della gola di Kresna, nel sud-ovest della Bulgaria. Sono ormai vent'anni, da ben prima che il paese balcanico diventasse effettivamente membro dell'Unione, che il tracciato dell'autostrada infiamma il dibattito tra ambientalisti e governo, mettendo in imbarazzo le istituzioni europee. La gola infatti, oltre a essere il più facile punto di passaggio tra Sofia e Salonicco, è un importantissimo sito naturalistico, rifugio di un gran numero di specie protette (soprattutto rettili e anfibi, ma anche farfalle, lupi, orsi, e oltre cinquanta grifoni) e per questo tutelato proprio dalle leggi europee.

L'Europa ha già contribuito al finanziamento dei tratti a monte e a valle di Kresna, senza fermarsi neppure davanti a siti archeologici come l'antica città di Skaptopara. Resta solo il tratto decisivo, quello all'interno della gola. Il governo bulgaro ha presentato richiesta di cofinanziamento lo scorso 9 agosto.

L'ultimatum dell'Europa
Il 15 ottobre 2019 Erich Unterwurzacher, della Direzione generale della Politica regionale e urbana della Commissione europea, risponde al governo di Sofia con una lettera durissima. Nel documento, inizialmente riservato, ma diventato presto di dominio pubblico, la Commissione Europea dichiara "ingiustificato" il contributo europeo alla realizzazione dell'autostrada.

La Valutazione di Impatto Ambientale che autorizza i lavori all'interno della gola, si legge nella lettera, non tiene conto degli standard europei in materia di ambiente. In particolare, la Bulgaria non avrebbe raggiunto gli obiettivi di conservazione dei siti di importanza comunitaria (SIC), come Kresna, imposti dalla Direttiva Habitat. Le misure di mitigazione degli impatti proposte da Sofia, prosegue la lettera, sono vaghe, incomplete e in ogni caso saranno operative soltanto nel 2023, quando per le specie minacciate dall'infrastruttura potrebbe essere troppo tardi.

Non si prendono poi in considerazione, inoltre, gli effetti cumulativi di altre opere impattanti nella zona, spesso collegate alla stessa autostrada. Il progetto è stato inoltre modificato pesantemente da quando fu presentato ufficialmente in sede europea, e non ci sono garanzie su alcuni aspetti della sicurezza stradale. Dulcis in fundo, i tempi di consegna (fissati entro il 2023) non saranno sicuramente rispettati.

La Commissione detta tempi strettissimi: due mesi, prorogabili fino a tre. In altre parole, la Bulgaria ha tempo solo fino al 15 gennaio per rispondere delle numerose inadempienze. Altrimenti, potrebbe dire addio al contributo europeo (277 milioni sui 676 necessari per questo tratto) bloccando di fatto i lavori.

Stallo a Berna e Bruxelles
Lo scorso 2 dicembre, a Bruxelles, il biologo Dimitar Vasilev, uno dei volti più noti dell'ambientalismo del paese balcanico, ha invitato i parlamentari europei a recarsi in Bulgaria per osservare di persona gli impatti che l'autostrada avrebbe sia sull'ecosistema che sulla comunità. Sono prevedibili le ricadute su turismo sostenibile, rafting ed escursionismo (la gola sorge tra l'altro a ridosso dei Monti Pirin, patrimonio Unesco dal 1983). Anche la viabilità locale sarebbe compromessa: la strada attuale sarà trasformata in una delle corsie dell'autostrada (una decisione, questa, che è una delle ironiche conseguenze delle infinite trattative sul percorso dell'autostrada) e fare spostamenti di pochi chilometri risulterebbe quasi impossibile.

Due giorni dopo, il 4 dicembre, anche il Comitato Permanente della Convenzione di Berna (che promuove la conservazione degli habitat naturali nel continente europeo) ha discusso di Kresna.

Al termine di una riunione travagliata, in cui sembravano aver prevalso le ragioni degli ambientalisti (a difesa del governo bulgaro si sono pronunciati solo la Grecia, diretta interessata, Armenia e Azerbaijan), il comitato ha deciso per un compromesso. Il caso, su cui la Convenzione si era già pronunciata nel 2002, non è stato riaperto. È stata però raccomandata al più presto una valutazione in loco della situazione - una verifica che del resto la Bulgaria, al momento, ha dichiarato di non essere nelle condizioni di accettare.

Il governo bulgaro ha poche settimane per elaborare una risposta convincente alle richieste dell'Europa. Se la Commissione rifiutasse il finanziamento, però, si troverebbe in una situazione imbarazzante, dopo che ha debitamente autorizzato e finanziato gli altri tratti dell'opera. Un pasticcio che gli ambientalisti avevano denunciato da tempo, e che adesso risulta evidente.

In queste fasi finali la partita si fa più accesa che mai, e il risultato non è per nulla scontato.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 31, 2019, 00:08:43 am
https://www.eastjournal.net/archives/99351

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No, l’Est non è brutto, sporco e cattivo
Francesco Magno 16 Settembre 2019

L’ormai proverbiale connubio tra est-europeo e degrado, inciviltà, brutalità, nazionalismo sembra non riuscire a estinguersi. Se la fine delle guerre nell’ex Jugoslavia e il processo di integrazione europea sembravano poter aprire la strada a un ripensamento della tradizionale immagine dell’altra Europa, ci hanno pensato i governi autoritari e nazionalisti a ricacciare l’oriente nella spazzatura del discorso mediatico. Gli attacchi alle libertà fondamentali e, soprattutto, il rifiuto perenne alla ripartizione dei migranti, hanno irrimediabilmente etichettato i paesi dell’ex blocco comunista come xenofobi, iper-nazionalisti, moralmente sottosviluppati rispetto al progredito ovest. Pochi hanno cercato di capire il perché di tutto questo. Sebbene un’analisi attenta e di ampio respiro non possa comunque giustificare certe politiche, essa può forse aiutare a comprenderle.

Le transizioni post-comuniste: un successo parziale

Il primo errore che l’occidente compie è quello di interpretare la storia post-comunista degli stati dell’Europa orientale come una lunga cavalcata di successi. La transizione ad un’economia di mercato e ad un regime politico liberal-democratico, coronata con l’ingresso di molti paesi dell’area nella NATO e nell’UE, viene vista come una vera e propria glory road che ha portato paesi prima poverissimi verso standard di vita sempre più simili a quelli dell’Europa occidentale. Si tratta di un’interpretazione superficiale e, talvolta, fuorviante. Sebbene sia innegabile il livello di sviluppo economico raggiunto negli ultimi anni da paesi come Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Romania, esso nasconde una realtà ben più frastagliata. Dietro i fantasmagorici numeri sulla crescita del PIL e sull’esiguo tasso di disoccupazione, si staglia un sottobosco fatto di rampante povertà. Molti ancora soffrono delle privatizzazioni selvagge degli anni ’90, che hanno causato la perdita di numerosi posti di lavoro e un generale aumento del costo della vita. Non tutti hanno beneficiato del cambiamento del sistema, e chi prima riusciva a vivere grazie agli aiuti forniti dallo stato assistenziale comunista, si è ritrovato disperso in una giungla economica nella quale ha fatto fatica ad orientarsi. Questo ha causato in alcuni paesi una massiccia migrazione verso ovest. Il caso di Romania e Bulgaria è emblematico; addirittura Sofia ha perso 2 milioni d’abitanti tra il 1989 e il 2009, passando da 9 a 7 milioni. Chi invece, come l’Ungheria, aveva goduto di un’economia relativamente stabile negli ultimi decenni di comunismo, ha costruito su fragili basi il suo boom degli anni ’90, e si è ritrovata a dover mettere in atto pesanti misure d’austerità specialmente dopo lo scoppio della crisi economica mondiale. Tra le varie cause dell’exploit di Orban del 2010 vanno ascritti i malumori di buona parte della popolazione ungherese per le riforme economiche “lacrime e sangue” portate avanti dal governo del suo predecessore Gordon Bajnai. Non è quindi un caso che molti, disorientati da un’economia imprevedibile, da un futuro incerto, dall’emigrazione abbiano cercato rifugio in chi prometteva  di rimettere le persone comuni al centro della politica nazionale. Non basta tuttavia l’economia a spiegare il successo dei conservatori nazionalisti: la Polonia registra da anni una crescita impetuosa, grazie soprattutto al sostegno dell’UE. Il governo di Piattaforma Civica ha garantito al paese ottimi risultati economici, che non sono tuttavia bastati ad evitare la clamorosa sconfitta alle elezioni del 2015. Il politologo francese Jacques Rupnik ha spiegato così il risultato: “Piattaforma Civica ha perso perché si era esaurito il progetto liberale basato sulla concorrenza sovranazionale e sull’invito ad arricchirsi. PiS di Kaczynski invece ha vinto poiché ha sostenuto un progetto collettivo basato sul patriottismo e i valori cristiani” (J. Rupnik, Senza il muro. Le due Europe dopo il crollo del comunismo, Donzelli, 2019). Il richiamo all’identità e al patriottismo si è rivelato un’arma politica letale proprio mentre l’Europa occidentale combatteva con l’annosa questione migratoria.

Perché nell’Europa orientale non vogliono i migranti?

Anche dietro il rifiuto all’accoglienza si nascondono problematiche profonde che non possono esaurirsi in una semplice indole xenofobica e intollerante. Niente più dell’apertura dei confini ha simboleggiato la fine del comunismo e l’apertura all’Occidente; ancora oggi la libertà di viaggio è uno degli aspetti più apprezzati dell’integrazione europea in buona parte dell’Europa orientale. Vi è, tuttavia, un’altra faccia del libero movimento: l’emigrazione massiccia. Oltre al già citato caso bulgaro, vanno citati i 3,5 milioni di romeni che hanno lasciato il loro paese dopo il 2007, per non parlare del totale spopolamento di molte aree della Germania orientale dopo il crollo del muro di Berlino. A contribuire al sensibile calo demografico intervengono poi il progressivo invecchiamento e i bassi indici di natalità: paesi economicamente solidi come Lettonia e Lituania hanno perso negli ultimi anni rispettivamente il 27 e il 22.5 % della popolazione. Se a ciò si aggiunge l’immagine disastrosa del fenomeno migratorio che ormai viene propagata da buona parte dei media occidentali e condivisa da larghi settori dell’opinione pubblica, l’atteggiamento del blocco orientale risulta meno sorprendente. In paesi che stanno vivendo una vera e propria rivoluzione demografica, è che registrano milioni di partenze annuali, anche soltanto paventare l’idea di accogliere persone con un background culturale diverso diventa terrificante. I più vogliono che i governi si impegnino nel far tornare a casa chi è partito, piuttosto che ad accogliere migranti. Vi sono poi delle motivazioni storiche da non sottovalutare. Per cinquant’anni il comunismo ha educato le masse della regione all’internazionalismo proletario: si trattava, tuttavia, di un internazionalismo fantoccio, dietro il quale si mascherava un intimo sospetto verso il vicino. Erano gli stessi leader comunisti a parlare apertamente di fratellanza socialista, pur tenendo sempre desta l’attenzione sulle manovre degli alleati. E’ naturale che chi è cresciuto in questo clima di finto e ambiguo cosmopolitismo non possa poi farsi portavoce delle grandi istanze di accoglienza propugnata dagli intellettuali dell’Europa occidentale.

Cosa vogliono veramente ad Est?

Ancora oggi la gente dell’Europa orientale si aspetta prima di ogni altra cosa progresso economico, e una sincronizzazione rapida con gli standard occidentali. L’occidente, tuttavia, spesso chiede all’oriente quello che non potrà mai ricevere, quantomeno nel breve termine. Spesso lo iato economico esistente tra le due parti del continente si trasforma in uno iato comunicativo, ma basterebbe cambiare prospettiva per capire che l’atteggiamento dei paesi dell’Europa orientale non deriva soltanto da un presunto sottosviluppo culturale e politico, ma da condizioni storiche sedimentatesi nel tempo e difficili da modificare. Si guardi alla questione ambientale: mentre nelle grandi capitali dell’ovest dalla scorsa primavera si manifesta in difesa del pianeta, e in Italia da anni ormai si discute dell’annosa questione della TAV, nella Moldova romena si susseguono da mesi le dimostrazioni di abitanti esasperati dal cronico ritardo del governo nella costruzione di autostrade. Come ci si può aspettare una svolta green e una coscienza ambientale da paesi che ancora sperano di poter godere dei vantaggi di un’autostrada, da persone che per andare a far la spesa devono salire su un carro di legno trainato da un mulo? In politica vale lo stesso principio: come ci si può aspettare accoglienza e cosmopolitismo da persone cresciute nella cultura del sospetto che vedono partire milioni di connazionali, spesso per sempre? Se a Bruxelles vogliono veramente sconfiggere gli Orban, i Kaczynsky, i Babis, i Borissov, forse farebbero bene a rispondere a queste domande
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Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 14, 2020, 18:43:55 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Grecia/Grecia-campi-profughi-affollati-e-isolati-198714

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Grecia: campi profughi affollati e isolati

Benché se ne parli meno, oltre centomila migranti e rifugiati sono ancora presenti in Grecia. Molti di loro vivono per lunghi periodi in centri di prima accoglienza, che però si trovano in aree remote e scarsamente servite

14/01/2020 -  Eleni Stamatoukou Salonicco
“L’Europa non sta vivendo più la crisi migratoria del 2015, ma i problemi strutturali persistono”, ha dichiarato  lo scorso marzo Frans Timmermans, allora vicepresidente esecutivo della Commissione europea. Stando all’Ue quindi, la crisi migratoria sarebbe passata. Il numero dei richiedenti asilo in Europa è crollato e le nuove politiche dell’Unione europea hanno arrestato gli spostamenti di migranti privi di documenti. Per ribadire le proprie posizioni, la Commissione europea ha stilato un documento  per smascherare miti e leggende legate al fenomeno migratorio.

Certo, la crisi dei migranti non fa più parlare così tanto di sé come nel 2015 e nel 2016, ma ciò non significa che tutto sia stato risolto. Il problema persiste nelle periferie italiane o greche, dove migliaia di persone sono bloccate nei centri di prima accoglienza.

Vivere nei campi profughi in Grecia
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) sostiene  che nell’ultimo anno l’afflusso di richiedenti asilo in Grecia (il principale punto di ingresso nell’Unione europea) è aumentato rispetto all'anno precedente. I numeri non possono essere comparati con il picco registrato nel 2015, ma è certo che le isole dell’Egeo orientale sono sopraffatte dall’emergenza. Per ormai diversi anni la Grecia non è stata in grado di gestire in maniera efficiente la crisi migratoria. "Lo dirò in maniera chiara: solleverò la questione delle sanzioni per quelle nazioni europee che si rifiutano di partecipare a un’equa redistribuzione dei rifugiati", ha detto il neo primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis.

Sempre stando all’UNHCR, in Grecia ci sono circa 109mila tra rifugiati e migranti. 70.200 di loro vivono nel continente in campi profughi, appartamenti e hotel, mentre 38.800 si trovano sulle isole, in condizioni precarie. OBC Transeuropa ha raccolto e analizzato i dati sui migranti e rifugiati che vivono nei campi greci ed è entrato in contatto con il governo locale, organizzazioni internazionali, Ong e con la Commissione europea. 

Prima di passare alle analisi è però importante capire cos’è un campo profughi: secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, “un campo per rifugiati è una sistemazione provvisoria per le persone che sono state costrette a lasciare le proprie abitazioni a causa di violenze o persecuzioni. Questi campi vengono costruiti nel corso di una crisi che colpisce esseri umani in fuga per salvare la propria vita. Si tratta di insediamenti costruiti in tutta fretta per garantire sicurezza e protezione immediata”. I primi campi profughi in Grecia sono stati messi in piedi nel 2015, benché il paese avesse già altri centri di accoglienza. Nel corso degli anni diversi campi sono stati chiusi e poi riaperti.

Secondo uno studio dello scorso novembre rilasciato dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM), allo stato attuale in Grecia i campi di prima accoglienza operativi sono trenta. Uno di questi (nei pressi di Corinto) funziona da centro di transito. In totale in questi campi sono ospitati 23.248 tra migranti e rifugiati (includendo quelli ufficialmente registrati, i non registrati e i visitatori). Più nello specifico, ci sono 5.012 unità di accoglienza con una capacità di 25.333 posti. In totale, l’area coperta è di 1.287.991 metri quadrati e la maggior parte delle persone vive nella regione dell'Attica (7.308), della Macedonia centrale (6.486) e della Grecia centrale (2.710).

Centri di accoglienza di lunga durata?
La maggior parte dei campi greci sono costituiti da unità abitative minime (costituite da container), mentre altri sono stati ricavati in edifici. Dopo il boom della crisi migratoria del 2015, i container hanno gradualmente rimpiazzato le tende. “Ovviamente queste sistemazioni non sono ideali per il clima, anche se per fortuna viviamo in un paese dove le condizioni meteorologiche non sono così male. Nonostante ciò, abbiamo sempre ribadito che questi centri sono temporanei e quindi anche l’ospitalità deve essere temporanea”, ci ha detto Manos Logothetis (segretario aggiunto per la prima accoglienza al ministero per la Protezione dei cittadini) criticando l’operato del precedente governo.

Nel 2018, un rapporto pubblicato dall’UNHCR assieme ad altre organizzazioni aveva fornito informazioni dettagliate sulle strutture nate per identificare e registrare i migranti (Open Reception Facilities e Reception & Identification Centers, altrimenti conosciuti come hotspots). A quel tempo, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati le riteneva strutture pensate per assicurare accoglienza temporanea a rifugiati e migranti. Nel luglio 2019, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM) descriveva però quelle strutture come campi di accoglienza per lunghi periodi.

IOM Grecia, in collaborazione con la Commissione europea e altri partner come il Danish Refugee Council, l’Arbeiter Samariter Bund e l’UNICEF, assicura servizi di supporto e di gestione dei centri. Abbiamo chiesto a IOM Grecia se questi siti, nelle condizioni in cui si trovano, con container ubicati a svariati chilometri da ospedali e servizi pubblici, potrebbero davvero diventare delle strutture di accoglienza a lungo termine.  L’organizzazione ha preferito non dare una risposta, dicendo che il loro compito è solo di supporto e che la domanda andrebbe rivolta al ministero per la Protezione dei cittadini.

Il segretario aggiunto Manos Logothetis ci ha risposto sostenendo che l’espressione “lungo termine” non si riferisce al tempo di accoglienza di un singolo individuo, ma a quanto un sito può essere mantenuto operativo in maniera funzionale. Stando a quanto ha affermato, il termine è stato usato per la prima volta dal governo precedente in occasione dell’implementazione di un nuovo programma di integrazione per migranti e profughi (HELIOS, Integration Support for Beneficiaries of International Protection). “Il nostro Paese non può assicurare una rete di permanenza per centomila persone, come succede ora. Bisognerebbe pensare a un sistema di accoglienza per numeri minori, ma con strutture migliori”, ha sottolineato l'esponente del governo.

Abbiamo poi chiesto alla Commissione europea un’opinione sulla situazione dei campi greci e sul loro carattere di lungo periodo. Uno dei portavoce ci ha risposto dicendo che la Commissione di Bruxelles sta ancora analizzando le misure prese dal nuovo governo di Atene.

Il problema della distanza
Molti campi si trovano in aree remote, come in vecchie zone industriali o ex basi militari distanti molti chilometri dai centri urbani. Altri sono invece ubicati in prossimità di città o paesi. Dei trenta campi esistenti, 23 hanno accesso al trasporto pubblico (treni e bus), mentre i sette restanti sono tagliati fuori (nello specifico, i siti di Volos, Andravida, Grevena, Oinofyta, Ritsona, Serres e Thiva). Abbiamo chiesto all’IOM se e quanto frequente è il servizio di bus per questi ultimi campi; il portavoce ci ha risposto dicendo che varia da sito a sito.

L’Organizzazione internazionale per le migrazioni però assicura che in caso di emergenza i trasporti verso strutture mediche o altri servizi sono assicurati dallo staff del centro. Oltre a ciò, in ogni campo sono disponibili informazioni di prima necessità tradotte in tutte le lingue parlate nella struttura e gli ospiti ricevono sessioni di formazione in cui vengono istruiti su come agire in caso di necessità. Allo stesso tempo, negli alloggi per i minori è presente staff specializzato 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana.

L’Organizzazione non governativa greca SolidarityNow lavora in 14 campi profughi nel nord e nel centro del paese. Offre servizi psico-sociali, assistenza legale, servizi ricreativi per bambini, donne e famiglie. “Costruire un campo profughi in aree remote, lontane dai centri cittadini, senza accesso ai servizi è problematico. È direttamente collegato alla logica del ‘lontano dal mio cortile’, adottata dalle autorità. Ovviamente, questi campi dovrebbero essere vicini al tessuto urbano, per garantire agli ospiti accesso ai vari servizi sociali, come le scuole, gli ospedali, i centri amministrativi”, ha detto a OBC Transeuropa Lefteris Papagiannakis, responsabile per l'advocacy, le policy e la ricerca di SolidarityNow. Le principali preoccupazioni dell’organizzazione riguardano la carenza dei servizi di base nei campi, la distanza dai centri urbani e la mancanza di trasporti pubblici.

Non è ideale tenere queste persone lontane dai centri urbani per lunghi periodi in aree in precarie condizioni, sottolinea UNCHR Grecia. Costretti a limitate attività, i rifugiati sono esposti a maggiore stress, che a sua volta causa maggiori difficoltà nella capacità di integrazione e della creazione di autostima. A livello globale un campo profughi, secondo le politiche dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, dovrebbe essere un centro di accoglienza temporaneo ed eccezionale pensato per chi è stato costretto ad abbandonare la propria casa. “Queste strutture dovrebbero facilitare l’identificazione dei bisogni specifici delle persone ospitate e assicurare che questi bisogni vengano soddisfatti. Tuttavia, i campi risultano un compromesso e pongono dei limiti ai diritti e alle libertà dei rifugiati e alle loro possibilità di prendere decisioni importanti per le loro vite”, ribadisce l’UNHCR.

OBC Transeuropa ha calcolato i chilometri e le ore necessarie per i trasferimenti dai campi profughi verso le città e i villaggi nei dintorni. In particolare, è stata misurata la distanza tra ciascun centro e la città più vicina con almeno un ospedale. Dall’analisi risulta che sedici campi distano oltre dieci chilometri dall'ospedale più vicino, mentre solo cinque distano meno di cinque chilometri. Altri centri urbani offrono assistenza sanitaria, ma si tratta di strutture con servizi limitati e sprovvisti di specifiche attrezzature mediche.

Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network   ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 16, 2020, 12:21:43 pm
https://www.eastjournal.net/archives/83444

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RUSSIA: L’enorme disuguaglianza economica tra classi sociali
Maria Baldovin 22 Maggio 2017

Recentemente il Guardian ha riportato alcuni dati della Banca Mondiale, dai quali si evince come la Russia sia uno dei Paesi dove si registra una maggiore disuguaglianza economica. Quest’ultima è solitamente misurata con il coefficiente di Gini, ideato dall’omonimo statistico italiano e indicatore della disuguaglianza nella distribuzione del reddito o della ricchezza. In Russia, oggigiorno, la forbice si fa sempre più ampia e il 10% delle persone possiede più dell’80% della ricchezza. Questo non rappresenta affatto una novità, dato che da anni il Paese è indicato come il meno equo tra le maggiori economie mondiali. Tuttavia, non è da escludere che una crescente consapevolezza della disuguaglianza economica, insieme agli scandali riguardo alla corruzione dilagante ai vertici, possano rappresentare una miscela esplosiva per lo scoppio di nuove proteste.

Alle origini della disuguaglianza

La disuguaglianza economica è un fenomeno sviluppatosi in Russia soprattutto a partire dalle riforme di transizione degli anni ’90. Sebbene, infatti, anche nella società sovietica ci fosse una classe privilegiata – la cosiddetta nomenklatura – avente accesso a beni e servizi migliori, le differenze salariali erano piuttosto esigue. Fu solo con l’avvento dell’economia di mercato, dunque, che cominciò a crearsi una classe di super-ricchi, mentre la maggioranza della popolazione finiva sul lastrico. L’arricchimento di una speciale classe di persone avvenne soprattutto grazie all’ancor debole legislazione in materia di privatizzazione; in questo modo si arricchirono coloro che riuscirono, spesso in modi ambigui, ad accaparrarsi le ricchezze del Paese, andando a creare la classe degli “oligarchi”.
Questi ultimi vennero presi di mira fin da subito durante il primo mandato di Vladimir Putin, il quale si impegnò fortemente a diminuire la loro influenza nella vita politica russa, riportando apparentemente ordine sulla scena. In realtà è noto come sotto il governo Putin sia stata creata una nuova struttura, che lega ex-agenti del KGB, politici e vertici delle più importanti compagnie energetiche in una rete dalle maglie molto fitte. La lotta di quegli anni contro gli oligarchi non portò alla distruzione di una classe di super ricchi: il numero dei russi che vivevano sotto la soglia di povertà calò negli anni 2000, ma il coefficiente di Gini è sempre rimasto elevato, a riprova che l’aumento del PIL pro-capite non aveva diminuito la forbice.

Nuova presa di coscienza?

Oggigiorno, la crisi economica, la svalutazione del rublo, le ingenti spese militari e gli scandali sulla corruzione potrebbero far accendere i riflettori su quei 20 milioni di russi che ancora vivono sotto la soglia della povertà. Tuttavia, l’argomento non sembra trovare il giusto spazio nel dibattito pubblico, come sottolinea in un’intervista Aleksandr Zamjatin, tra i fondatori dell’associazione Zerkalo (“Specchio”): “Qualunque stima si guardi, si evince che in Russia c’è un elevato indice di disuguaglianza sociale, ma, guardando il panorama mediatico nel paese, si potrebbe pensare che il problema non esista affatto”. L’obiettivo di Zerkalo è proprio sopperire a questa mancanza e dare spazio a ordinarie storie di povertà e ingiustizia sociale.
E’ tuttavia difficile prevedere se una rinnovata consapevolezza del problema porterà a una reazione da parte del popolo russo e a nuove proteste di piazza. In molti, come il sopracitato Zamjatin, credono che questi temi siano poco importanti per la destra liberale, l’unica fazione politica che in questo momento riesce a portare grandi numeri in piazza. Tuttavia, esponente di quella destra liberale è Aleksej Naval’nyj, leader delle significative proteste anti-corruzione risalenti al 26 marzo; queste ultime, in un certo senso, rientrano in questo contesto, almeno stando alle parole dell’organizzatore, convinto che la gente sia stanca di vivere di stenti e vedere una classe di milionari e corrotti. Se Naval’nyj riuscirà a capitalizzare su questo tema, rendendolo un aggregatore del malcontento di molti, forse aumenterà le sue possibilità di insidiare Putin alle presidenziali del prossimo anno.

Questo articolo è frutto della collaborazione con MAiA Mirees Alumni International Association. Le analisi dell’autrice sono pubblicate anche su PECOB, Università di Bologna
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 18, 2020, 15:57:56 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Belgrado-soffoca-198922

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Belgrado soffoca

La capitale serba è, non per la prima volta, tra le città più inquinate al mondo. La situazione è egualmente catastrofica a Niš ed in altre città del paese. La società civile si mobilita e denuncia l'immobilismo delle autorità

17/01/2020 -  Nevena Bogdanović
(Pubblicato originariamente da Radio Slobodna Evropa  , selezionato e tradotto da Courrier des Balkans  e Obct)

Belgrado è attualmente una delle città più inquinate al mondo. Lo rileva l'applicazione AirVisual che misura la qualità dell'aria ma anche i dati dell'Agenzia per la protezione dell'ambiente in Serbia. Il ministro dell'Ambiente Goran Trivan, ha reagito alle numerose denunce e mobilitazioni dei cittadini spiegando che nessuna soluzione può, nel breve periodo, risolvere il problema.

“Dobbiamo migliorare i sistemi attuali di monitoraggio della qualità dell'aria. La soluzione è avere mezzi di trasporto che inquinano meno, industrie meno inquinanti e l'utilizzo di combustibili di alta qualità nonché adottare sistemi di riscaldamento per le case che siano sostenibili”, si è limitato a rispondere.

Dossier

Le città dei Balcani sono tra quelle dove si respira l'aria più inquinata d'Europa. Un problema aggravato dalla lentezza con cui le istituzioni stanno prendendo coscienza della gravità della situazione. Un dossier del 2019 a cura di OBCT

Mentre il Parlamento serbo sta per dare semaforo verde al Capitolo 27 delle negoziazioni con l'Ue, relativo all'ambiente e al clima, Mirko Popović, dell'Istituto per le fonti rinnovabili e la protezione dell'ambiente, si indigna per la passività delle istituzioni. “L'inquinamento dell'aria è percepibile ad occhio nudo. Ed anche il fatto che le istituzioni non facciano nulla!”, afferma. “Lo stato ha adottato un piano nazionale per la riduzione delle emissioni delle centrali termiche, per ridurre ogni anno le emissioni di anidride solforosa, ossidi di azoto e polveri sottili. Si sarebbe dovuto applicare il piano a partire del primo gennaio 2018. È stato elaborato, adottato, ma mai applicato”.

Dal canto suo il presidente Vučić ha dichiarato che l'inquinamento atmosferico è “conseguenza della crescita economica della Serbia”. Mercoledì il governo serbo si è riunito per un incontro d'urgenza sulla questione senza però adottare alcun provvedimento. La premier Ana Brnabić ha annunciato la creazione di una commissione di lavoro sottolineando che “non c'è motivo per lasciare spazio al panico”.

Ne da(vi)mo Beograd si mobilita
L’iniziativa civica Ne da(vi)mo Beograd  , che ha più volte avvertito le autorità di questo problema, ha promosso una petizione sottoscritta già da 10.000 cittadini. “Nel breve periodo occorre proteggere la popolazione e tenerla informata. Nel lungo termine occorre ovviamente adottare dei provvedimenti per intervenire sulle cause dell'inquinamento. Purtroppo le istituzioni continuano a fare orecchie da mercante alle iniziative dei cittadini”. Denuncia Vladimir Radojčić di Ne da(vi)mo Beograd.

Secondo un rapporto della rete internazionale di ong Bankwatch, presentato lo scorso 10 dicembre al Parlamento europeo, le centrali termiche in Serbia emettono anidride solforosa in quantità sei volte maggiore di quanto permesso dal Piano nazionale. In questo momento anche altre città serbe come Bor, Valjevo, Niš o Smederevo devono affrontare un livello di inquinamento molto elevato. La situazione è grave anche nelle altre capitali della regione, da Sarajevo a Skopje.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 18, 2020, 15:59:54 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Macedonia-del-Nord/Skopje-la-capitale-piu-inquinata-d-Europa-191702

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Skopje, la capitale più inquinata d'Europa

La capitale della Macedonia è stata dichiarata la più inquinata in Europa: un record negativo causato da cattive politiche e una cronica mancanza di visione a lungo termine

28/12/2018 -  Ilcho Cvetanoski Skopje
Oltre alle ben note sfide su corruzione, libertà di espressione, stato di diritto, responsabilità politica, tendenze autoritarie ecc., i paesi balcanici – indipendentemente dallo status UE – sono afflitti da un'altra questione poco affrontata. Skopje, Sofia, Pristina e Sarajevo sono infatti nella lista delle città più inquinate d'Europa.

Skopje, insieme alla vicina Tetovo, detiene il poco lusinghiero record. In un recente articolo pubblicato sul suo sito web, il Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente ha dichiarato Skopje "la capitale più inquinata d'Europa". Secondo i media locali, il 38% dei decessi a Tetovo e il 22% a livello statale sono il risultato diretto dell'inquinamento atmosferico.

Tuttavia, il problema è trascurato per la maggior parte dell'anno. Solo quando arriva l'inverno e un denso smog soffoca la città e i suoi abitanti, viene rispolverato da media e opposizione. Quindi, oggi la VMRO-DPMNE sta incolpando l'avversario SDSM per la cattiva qualità dell'aria, come se non avesse governato il paese per 10 anni fino al 2017.

Strumentalizzazione e cronico deficit di visione e soluzioni a lungo termine, insieme alla mancanza di responsabilità e proattività dei cittadini, hanno portato Skopje a diventare la "capitale più inquinata d'Europa".

Il bilancio delle vittime
La scarsa qualità dell'aria nella Repubblica di Macedonia è principalmente dovuta alle minuscole particelle di combustione chiamate PM10 (10 micrometri o meno di diametro) e PM2,5 (2,5 micrometri o meno di diametro). Queste possono facilmente penetrare in profondità nel corpo, causando non solo problemi respiratori, ma anche altri pericolosi problemi di salute. Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), ogni anno in Macedonia muoiono prematuramente 2.574 persone in diretta conseguenza dell'inquinamento atmosferico.

I dati di dicembre 2018 dell'iniziativa Breathe Life, una Coalizione per il clima e l'aria pulita guidata dall'OMS e dal programma per l'ambiente delle Nazioni Unite, mostrano la gravità della situazione. La concentrazione delle particelle di PM2,5 a Skopje è 4,5 volte superiore al livello raccomandato di 10 microgrammi per metro cubo. Secondo la stessa fonte, la situazione è ancora peggiore a Tetovo, dove la concentrazione di particelle di PM2,5 è 8,1 volte superiore al livello raccomandato.

I media locali, citando uno studio dell'OMS, sottolineano anche che nel 2010 i paesi dei Balcani occidentali hanno perso, oltre a circa 36.000 su 23 milioni di cittadini, 55 miliardi di dollari come risultato diretto dell'inquinamento atmosferico.

Predisposizione naturale o negligenza umana?
Situate a valle e circondate da montagne, Skopje e Tetovo sono predestinate alla nebbia. La situazione è complicata dall'inversione di temperatura, un fenomeno naturale che fa sì che l'aria calda rimanga sopra l'aria fredda, intrappolando così in basso la nebbia. In circostanze normali, la temperatura dell'aria dovrebbe diminuire all'aumentare dell'altitudine, sostenendo la fluttuazione giornaliera dell'aria (l'aria calda sale e l'aria fredda si abbassa). Tuttavia, con l'inversione, l'aria fredda rimane sotto l'aria calda bloccando la fluttuazione, e la nebbia rimane intrappolata nelle valli per giorni, a volte per settimane.

Questa condizione ambientale non può essere modificata, ma l'aumento dell'inquinamento è il prodotto delle attività umane: rapida crescita del traffico, combustione incompleta dei rifiuti, industria, urbanizzazione rapida, scarsa cura dell'ambiente, ecc.

Pertanto, le politiche statali dovrebbero affrontare lo smog come unica variabile prodotta dall'uomo in questo scenario. Invece, negli ultimi anni, hanno peggiorato la situazione con scelte populiste.

Politiche populistiche e inquinamento
Le statistiche ambientali 2017 dell'Ufficio statistico di Stato mostrano che la principale fonte di inquinanti atmosferici (circa il 77%) sono i processi di combustione, seguiti dai trasporti (circa il 14%) e dai processi di produzione (circa il 6,5%). Consumi domestici e automobili sono quindi le principali fonti di inquinamento, seguiti dalle industrie.

Nelle sue recenti dichiarazioni pubbliche, il sindaco di Skopje Petre Shilegov ha sottolineato che circa 60mila famiglie usano legna e carbone di bassa qualità per il riscaldamento. Il precedente governo VMRO-DPMNE, in una frenesia populista, aveva permesso l'importazione di vecchie auto con standard ecologici obsoleti dall'UE. Di conseguenza, in meno di cinque anni, il numero di veicoli registrati è passato da 350mila a 475mila: la maggior parte a diesel, quindi con maggiore emissione di particelle rispetto alla benzina.

Altro fattore aggravante è la selvaggia urbanizzazione delle città. Invece di parchi verdi, nuovi edifici spuntano come funghi dopo la pioggia. Oltre al parco principale della città, a Skopje non c'è un solo spazio verde che non si sia ristretto negli ultimi 10-15 anni. La situazione è ancora peggiore a Tetovo e in altre città. Il disboscamento illegale è endemico attorno alle città e nelle zone montane limitrofe, peggiorando ulteriormente l'ecosistema.

Invece di affrontare il problema, i politici lo hanno sfruttato a fini elettorali. Durante l'era VMRO-DPMNE nel 2006-2017, l'SDSM ha costantemente attaccato il governo per le sue sconsiderate politiche ecologiche, promettendo un approccio più rispettoso dell'ambiente. Ora, al potere sia a livello locale che nazionale, continua però a portare avanti politiche incoerenti e di breve respiro.

Skopje ha bisogno di un'azione radicale
Con notevole ironia involontaria, il sindaco Petre Shilegov ha annunciato che Skopje, insieme ad altre nove città di sette paesi in Europa, è ufficialmente in lizza per il titolo di Capitale Europea dell'Ambiente 2021, aggiungendo che l'UE ha riconosciuto i risultati e gli sforzi della Macedonia per migliorare l'ambiente e la qualità della vita.

Kiril Sotirovski, rettore della facoltà di Silvicoltura a Skopje, ha dichiarato ai media locali di essere estremamente sorpreso dalla candidatura, sottolineando che Skopje ha mostrato progressi misurabili in uno solo dei 12 criteri, l'efficienza energetica. "Per tutti gli altri 11 criteri, la situazione è tragica", ha affermato Sotirovski.

L'iniziativa Breathe Life evidenzia sei aree da affrontare al fine di ridurre l'inquinamento atmosferico: trasporti, gestione dei rifiuti, inquinamento domestico, approvvigionamento energetico, industria, cibo e agricoltura. Finora, nessun cambiamento importante è stato annunciato in nessuna di queste aree. Un recente rapporto delle Nazioni Unite dalla conferenza ministeriale regionale a Belgrado incoraggia i paesi a non attendere l'adesione all'UE, ma a stanziare più risorse per affrontare l'inquinamento nel futuro prossimo o a medio termine.

Invece di modificare le dinamiche di consumo attraverso l'efficienza energetica degli edifici e il minore utilizzo del riscaldamento, migliori standard tecnici per i veicoli e limiti al loro uso nelle aree urbane, e miglioramento dei trasporti pubblici, Skopje sta affrontando l'inquinamento atmosferico urbano candidandosi a Capitale verde europea 2021.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Gennaio 18, 2020, 16:31:25 pm
Chissà cosa direbbe un albanese se leggesse questo topic
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 18, 2020, 17:46:19 pm
Chissà cosa direbbe un albanese se leggesse questo topic

Ben poco... perché poi, se si iscrivesse, avrebbe a che fare con me, che con gli albanesi ho trascorso i migliori anni della mia vita lavorativa.
Perciò tante puttanate non potrebbe raccontarle.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 24, 2020, 18:53:41 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/I-polmoni-di-Sarajevo-pieni-di-PM-2-5-199212

Citazione
I polmoni di Sarajevo pieni di PM 2,5

La capitale bosniaca figura in cima alla lista della classifica delle città più inquinate al mondo. Un recente rapporto della Banca mondiale stima oltre 3000 morti all'anno per inquinamento. Dal riscaldamento domestico alle centrali, le cause sono varie. Anche qui come altrove la politica locale sembra ignorarle

24/01/2020 -  Ahmed Burić Sarajevo
Nel corso dell’ultimo mese Sarajevo ha occupato quasi sempre il primo posto nella classifica delle città più inquinate al mondo. Accanto a megalopoli come Pechino e Nuova Deli, e altre città dove è tradizionalmente dominante l’industria pesante, soprattutto quella metalmeccanica, nelle ultime settimane la capitale bosniaca ha registrato alti livelli di inquinamento, nocivi per la salute umana. Volendo dare qualche numero, i valori dell’Indice di qualità dell’aria  (IQA) superiori a 300 sono considerati pericolosi per la salute, e a Sarajevo da metà dicembre fino ad oggi il valore di IQA oscillava tra 392 e 700. La Banca mondiale, in un suo recente rapporto intitolato “Gestione della qualità dell’aria in Bosnia Erzegovina  ”, ha cercato di spiegare cosa implicano questi valori.

Nel rapporto si afferma che ogni anno in Bosnia Erzegovina muoiono prematuramente circa 3.300 persone a causa delle conseguenze dell’inquinamento atmosferico. In altre parole, circa il 9% del totale dei decessi è correlato all’inquinamento atmosferico. L’alta concentrazione di polveri fini nell’aria è dovuta soprattutto all’utilizzo diffuso degli impianti individuali di riscaldamento (di cui la maggior parte a carbone e a olio combustibile), nonché all’uso massiccio di veicoli a motore, con un’età media di 17 anni. Si stima che circa il 70% di automobili vecchie sia alimentato a diesel e che più della metà del parco circolante sia di categoria inferiore a Euro 3.

Come già avvenuto molte volte in passato, l’importanza dei dati esposti nel rapporto è stata sminuita nelle sue conclusioni: il rapporto della Banca mondiale suggerisce che l’attuale situazione dell’inquinamento atmosferico in Bosnia Erzegovina sia “dovuta alla mancanza di politiche finalizzate a ridurre le emissioni inquinanti e al massiccio consumo di combustibili fossili per riscaldare le case e per cucinare”, concludendo che “le caldaie a legna e a carbone sono molto più diffuse nei paesi del sud-est Europa e dei Balcani rispetto al resto del continente”. Volendo essere un po’ sarcastici, si potrebbe dire che la “logica” adottata dalla Banca mondiale riecheggia quella famosa frase attribuita, a quanto pare senza fondamento, a Maria Antonietta, che recita: “Se non hanno più pane, che mangino brioche”.

Ma il vero problema è un altro. Le condizioni di vita e l’inerzia mentale dei cittadini bosniaci, e diversi giochi politici, rischiano di soffocare sul nascere ogni possibile mobilitazione civile. Come altrimenti spiegare il fatto che alle manifestazioni organizzate nei giorni scorsi davanti alla sede del governo del cantone di Sarajevo per protestare contro l’inquinamento atmosferico e per chiedere che venga risolta la grave situazione ambientale in cui versa il paese, abbia partecipato solo una cinquantina di persone, a cui si sono aggiunti circa venticinque giornalisti e qualche passante occasionale? Uno spettacolo sconfortante che ha dimostrato quanto pochi siano i cittadini sarajevesi disposti a lottare per l’aria pulita.

Nella marea di interpretazioni dei risultati del monitoraggio della qualità dell’aria e di proposte per risolvere il problema dell’inquinamento atmosferico in Bosnia Erzegovina spicca l’ipotesi secondo cui i principali responsabili dell’inquinamento atmosferico sarebbero le centrali termoelettriche. A differenza dei paesi dell’Europa occidentale, che stanno pian piano chiudendo le centrali termoelettriche (o almeno si sono impegnati a ridurre l’uso del carbone per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile), nei Balcani e nel sud-est Europa le centrali termiche sono ancora molto diffuse. 7 delle 10 centrali termoelettriche più inquinanti d’Europa si trovano nei Balcani.

Allora come evitare, in un ambiente simile, l’esposizione alle polveri sottili PM 2,5 che sono estremamente dannose per la salute perché possono penetrare profondamente nei polmoni e nel flusso sanguigno, causando diverse malattie, e persino la morte? Per cominciare, bisogna capire che i politici al potere devono assumersi le proprie responsabilità. A dire il vero, il premier del governo del cantone di Sarajevo Edin Forto si è rivolto ai presenti alla summenzionata “manifestazione” di protesta, ricorrendo perlopiù a frasi fatte. Ne è uscito un discorso blando, impregnato di retorica tipica del marketing.

Il problema è chiaro, e lo ha spiegato molto bene il professore Azrudin Husika, esperto di problematiche legate all’inquinamento e alle energie rinnovabili. In un’intervista rilasciata alla Radiotelevisione della Bosnia Erzegovina (RTBH), Husika ha dichiarato che la Bosnia Erzegovina ha allineato, in parte, la normativa nazionale in materia ambientale a quella dell’UE, aggiungendo però che mancano sia la consapevolezza che i presupposti economici necessari per avviare una vera lotta all’inquinamento. Si tratta di un processo che richiede tempo, ma nessun governo né partito politico sembra essere disposto a dire la verità agli elettori. E la verità è che la lotta contro l’inquinamento durerà anni e il problema non può risolversi da solo.

In parole povere, si avvicinano le elezioni locali e nessuno vuole assumersi la responsabilità dell’attuale situazione ambientale a Sarajevo. Nel frattempo, i cittadini sono costretti a respirare l’aria inquinata che può causare gravi problemi di salute, tra cui le infezioni del tratto respiratorio inferiore; il tumore alla gola, ai bronchi e ai polmoni, l’ischemia cardiaca, l’ictus, la broncopneumopatia cronica ostruttiva. Oltre a causare dolori e sofferenza, le malattie legate all’inquinamento atmosferico incidono fortemente sulla spesa sanitaria e riducono la produttività sul lavoro.

In Bosnia Erzegovina il numero di morti per l’inquinamento atmosferico è il doppio di quello in Macedonia del Nord (dove ogni anno muoiono 1600 persone a causa dell’inquinamento) ed è ben 4 volte superiore a quello in Kosovo (760 morti all’anno). I più esposti ai rischi legati all’inquinamento atmosferico sono gli adulti di età superiore ai 50 anni.

Tutti questi dati evidentemente non bastano per spingere le autorità a reagire. Per risolvere il problema dell’inquinamento atmosferico in Bosnia Erzegovina bisogna intraprendere interventi politici e legislativi, e investire in diversi settori, compreso il settore edilizio e quello dei trasporti. Nel frattempo, i cittadini continueranno ad ammalarsi e a morire, i partiti politici continueranno ad accusarsi e a incolparsi a vicenda, e la comunità internazionale continuerà a credere che il suo lavoro consista solo nel pubblicare rapporti e garantire il regolare svolgimento di elezioni. Resta però da vedere quanti cittadini bosniaci si recheranno alle urne.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Gennaio 24, 2020, 23:51:03 pm
C'è anche un po' di uranio impoverito? I Balcani sono la porta d'Europa...
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 26, 2020, 19:15:14 pm
https://www.eastjournal.net/archives/102206

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BULGARIA: A Sofia non ci sono ambulanze
Giorgia Spadoni 3 giorni ago

Tra il 2010 e il 2012 a Sofia si registra un’impennata di chiamate al 112, il numero unico per le emergenze in Bulgaria, che passano da 11.016 a 12.930 nel solo mese di gennaio. Una media di 431 al giorno.
Nel 2012 la città conta oltre 1,2 milioni di abitanti, ma le ambulanze a disposizione dell’intera capitale sono solo 13. Il numero medio di équipe mediche d’urgenza attive è 20, il che significa circa 22 casi al giorno per ogni squadra.
Il regista bulgaro Ilian Metev decide di seguire una delle ambulanze sofiote proprio in questi due anni per il suo esordio dietro la cinepresa. Dopo aver aspettato a lungo l’autorizzazione per la distribuzione, il suo documentario L’ultima ambulanza di Sofia (Poslednata linejka na Sofija) viene finalmente presentato in anteprima alla 65ª edizione del Festival di Cannes.

Una metamorfosi a metà

L’inadeguatezza del servizio sanitario di emergenza bulgaro è legata all’irregolare transizione del Paese, costellata da riforme fiacche alternate a periodi di crisi.
La ristrutturazione finanziaria del sistema sanitario viene ufficialmente approvata e applicata solo negli anni Duemila; essa prevede l’istituzione di una Cassa nazionale di assicurazione sanitaria e un sistema di assicurazioni mediche.
Quattro anni dopo, un quarto dei bulgari non paga regolarmente le quote assicurative, e fino al 2005 non esiste uno strumento che verifichi lo stato di assicurazione dei pazienti. Nel 2009 la quota di stipendio da destinare all’assicurazione sanitaria passa dal 6 all’8%. Nello stesso anno, pur avendo subito un aumento, il salario bulgaro mensile medio ammonta a 555 leva, meno di 300 euro. Nel 2018 il 12% dei bulgari è ancora senza assicurazione sanitaria, la maggior parte perché non può permetterselo.
La Cassa nazionale di assicurazione sanitaria bulgara dipende tuttora in larga parte dai magri finanziamenti statali, meno del 3% del PIL nazionale.


Condizioni avverse

La medicina d’urgenza in Bulgaria è finanziata interamente dallo stato. I primi specialisti iniziano ad essere formati nel 1996, ma dieci anni dopo i reparti di pronto soccorso sono scarsi, circoscritti agli ospedali specializzati e cliniche universitarie.
Nel 2014 sono solo 63 i medici impiegati nel settore in tutta la Bulgaria. La causa si cela nelle limitate possibilità di carriera, condizioni di lavoro sfavorevoli e stipendi bassi che caratterizzano quest’ambito. Il compenso mensile di un medico non supera i 400 euro, e quello delle infermiere è di circa 200 euro, di poco superiore a quello degli autisti.
Tutto ciò riduce drasticamente il numero di squadre e ambulanze disponibili, oltretutto distribuite nel Paese in maniera non proporzionale al numero di abitanti né all’estensione dell’area in questione.

L’ultima ambulanza di Sofia

Quando Ilian Metev gira il suo documentario, ci sono 200 posti vacanti al centro di medicina d’urgenza di Sofia. Il rapporto di ambulanze per numero di abitanti è il più basso rispetto alle altre maggiori città bulgare: due unità per 100.000 residenti.
Metev racconta la realtà della squadra formata dal medico Krassimir Yordanov, l’infermiera Mila Mihaylova e l’autista Plamen Slavkov, che lottano “contro un sistema sanitario fatiscente, pazienti ubriachi e drogati e le loro famiglie nel panico, automobilisti indifferenti e buche che crivellano tutte le strade dell’animata città di Sofia”. La loro è anche e soprattutto una corsa contro il tempo, che molto spesso non lascia scampo.
Attraverso un approccio osservativo, lo spettatore è solo con l’équipe e i pazienti, i quali non sempre chiamano il 112 per reale necessità. L’assistenza sanitaria d’urgenza è gratuita, e quindi preziosa occasione di trasporto all’ospedale, ricovero o visita specialistica per un paziente non assicurato.

Reazioni e promesse

Premiato con il France 4 Visionary Award a Cannes, il film di Metev suscita grande scalpore e trambusto in patria e all’estero. Nel 2014 il Ministero della salute stila un progetto per lo sviluppo del sistema sanitario di emergenza, e nel 2015 promette un aumento dei salari del 20%. Nel 2018 viene annunciato un investimento di 163 milioni di leva nel settore, per l’acquisto di nuove e più moderne ambulanze. Riusciranno ad arrivare in tempo?
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 28, 2020, 23:56:09 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Dragan-Bursac-Non-denuncio-piu-le-minacce-ricevute-199130

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Dragan Bursać: “Non denuncio più le minacce ricevute”

Il giornalista bosniaco Dragan Bursać si è arreso: ha deciso di non sporgere più denuncia per le minacce di morte ricevute. Ne ha già sporte una quindicina e non è cambiato nulla. La vita difficile di un giornalista nel mirino

28/01/2020 -  Elvira Jukić - Mujkić Sarajevo
(Originariamente pubblicato da Mediacentar Sarajevo  )

Nonostante sia ancora bersaglio di minacce di morte, il giornalista Dragan Bursać non sporge più denunce alla polizia né agli organi giudiziari. Bursać ha deciso di non denunciare più le minacce ricevute dopo che un uomo – che in passato lo aveva minacciato e la cui identità è nota alla polizia – gli ha mandato un messaggio in cui diceva che le sue denunce erano inutili.

“Dopo un anno dalla [mia] denuncia, mi ha mandato il seguente messaggio: ‘Bursać, ecco, vedi che non è servito a niente’”, ricorda il giornalista. “Mi sono arreso. Non voglio più farlo. Non ho più sporto alcuna denuncia dall’aprile 2018. Mi chiamano [dalla polizia] per chiedermi se voglio sporgere denuncia. La polizia mi ha detto di aver scoperto alcune cose e di averne informato la procura, e poi niente, non ho ricevuto nessun feedback. Penso di aver sporto una quindicina di denunce per le minacce di morte ricevute”, spiega Dragan Bursać.

Bursać è spesso bersaglio di critiche, insulti e minacce di morte a causa dei suoi articoli fortemente critici nei confronti della politica perseguita dalla leadership della Republika Srpska, ma anche nei confronti delle narrazioni dominanti, soprattutto quelle sulla guerra in Bosnia Erzegovina del 1992-1995. Bursać, così come altri membri della sua famiglia, spesso riceve commenti negativi, insulti e minacce anche sui social network – dove ha circa 10mila follower – e più volte gli è stato suggerito di andarsene da Banja Luka.

Il giornalista ricorda la prima volta che ha ricevuto un’esplicita minaccia di morte. All’epoca lavorava per il portale informativo Buka di Banja Luka. Un giorno, all’indirizzo della redazione del portale, è arrivato un messaggio destinato a Bursać, che diceva: “Ti troveremo, ti uccideremo”.

Bursać ha scelto consapevolmente di indagare su temi delicati, di cui in Bosnia Erzegovina non si parla affatto, e di interrogarsi sul passato, mettendo in discussione le identità nazionali ed etniche dei tre popoli costituenti della Bosnia Erzegovina. A causa di questa scelta Bursać è sottoposto, tra l’altro, a frequenti atti intimidatori, che vanno dagli insulti alle minacce di morte.

Interrogare il passato bellico
Dragan Bursać, classe 1975, è cresciuto a Bosanski Petrovac. Nel 1989 si trasferisce a Banja Luka, dove per due anni frequenta il liceo. Allo scoppio della guerra in Bosnia Erzegovina si trasferisce in Serbia. Terminata la scuola superiore a Sremska Mitovica, si iscrive alla Facoltà di Filosofia di Novi Sad. Nel 1995 viene mobilitato dall’Esercito della Republika Srpska. Dopo la fine della guerra torna a Novi Sad, per completare gli studi. Qualche anno più tardi decide di tornare a Banja Luka e nel 2002 inizia a lavorare come giornalista per una radio locale. Nei tre anni della sua permanenza alla radio, Bursać si è occupato di vicende legate ai progetti infrastrutturali realizzati a Banja Luka, di problematiche locali e fatti di cronaca. Tuttavia, ci sono stati dei disaccordi tra Bursać e altri membri della redazione riguardo ad alcuni temi cui Bursać voleva affrontare.

“C’erano vari argomenti che risultavano incompatibili con le linee editoriali dominanti. Una delle prime storie di cui mi sono occupato è stata quella dei 12 neonati morti in ospedale  ”, ricorda Bursać, precisando di aver seguito questa storia per circa 15 anni. Nel 1992, all’inizio della guerra in Bosnia Erzegovina, 12 neonati sono morti al reparto di terapia intensiva neonatale dell’ospedale di Banja Luka per mancanza di ossigeno necessario per garantire un’adeguata assistenza respiratoria neonatale.

“Questo evento è stato sfruttato per avviare l’operazione militare ‘Koridor’ [Corridoio] che mirava a collegare la parte occidentale della Republika Srpska con quella orientale. Ma nessuno ha spiegato i motivi per cui mancava l’ossigeno. Allora ho deciso di indagare un po’ e ho scoperto che l’ossigeno era arrivato all’ospedale, da tre fonti diverse. Ma poi è scomparso”, spiega Bursać. Aggiunge inoltre che la radio di Banja Luka per la quale lavorava all’epoca non era disposta a dare spazio a storie come questa, per cui ha deciso di collaborare con il portale Buka  , oggi uno dei principali portali informativi in Bosnia Erzegovina.

Guardando allo sviluppo del giornalismo in Republika Srpska negli ultimi vent’anni, Bursać evidenzia alcuni temi dominanti, spiegando che nel periodo tra il 2002 e il 2006 i media in Republika Srpska hanno parlato soprattutto di sviluppo economico, poi dal 2006 al 2010 si sono focalizzati sul tema della ri-egemonizzazione nazionale, e a partire dal 2010 hanno parlato perlopiù di nuove guerre, ma anche del passato.

“Non so se si tratti di un progresso o regresso. Abbiamo dovuto occuparci di sviluppo [economico] nel periodo tra il 1996 e il 2002, così come abbiamo dovuto occuparci anche di fosse comuni e crimini di guerra”, afferma Bursać, aggiungendo: “La storia dei 12 neonati mi ha fatto tornare al 1992, e da allora ho cominciato ad occuparmi sempre di più del passato”.

Dragan Bursać si occupa di temi legati al confronto con il passato, ai traumi di guerra, crimini di guerra e (presunti) eroi di guerra. Per il suo impegno professionale ha vinto lo European Press Prize 2018  . Ha scritto diversi articoli sulla fossa comune di Tomašica, sul genocidio di Srebrenica, sul massacro di Markale, mettendo in discussione le narrazioni dominanti in Republika Srpska che negano i crimini di guerra commessi contro la popolazione non serba.

“Più mi interessavo a queste tematiche, più mi imbattevo in persone che fungevano da guardiani del silenzio”, ricorda Bursać. “Quella era una narrazione nascosta che nessuno ha mai voluto affrontare. Da lì è iniziato tutto. Diverse idee, persone, minacce”.

Nonostante ricevesse spesso minacce di morte, Bursać ha denunciato per la prima volta le minacce ricevute nel 2017 dopo la pubblicazione di un suo articolo intitolato "Slavi li Banja Luka srebrenički genocid?"  [Banja Luka festeggia il genocidio di Srebrenica?]. Prima di allora non prendeva sul serio i rischi connessi al suo lavoro. Poi ha fatto una ricerca su Internet e ha scoperto alcuni forum in cui si discuteva ormai da anni – più precisamente da quando Dragan ha iniziato ad occuparsi di giornalismo – di “come uccidere Dragan Bursać e cosa fare se lo si incontra in piena notte: picchiarlo con una mazza o qualcosa di più creativo”.

“Mi è capitato più volte che in un luogo pubblico mi si avvicinasse un uomo ubriaco dicendomi: ‘Traditore!’ Mi è capitato anche che i proprietari di alcuni ristoranti non volessero farmi entrare. Ma non ci davo troppa importanza… finché non ho cominciato a ricevere serie minacce di morte sui social network”, spiega Bursać.

“Nel momento in cui ho deciso di indagare e di portare alla luce quanto accaduto durante la guerra e nell’immediato dopoguerra – era forse il 2012 – ho iniziato a ricevere vere e proprie minacce, anche da parte delle persone che fino a quel momento mi applaudivano. A loro avviso, se io attacco il governo della Republika Srpska, cioè l’Unione dei socialdemocratici indipendenti (SNSD), allora vuol dire che appoggio il Partito democratico serbo (SDS). In realtà, SNSD e SDS condividono la stessa ideologia neo-cetnica. Quando ho cominciato a mettere a nudo pubblicamente questa ideologia e il loro atteggiamento nei confronti del passato e delle vittime [di guerra], soprattutto quelle appartenenti alla popolazione non serba, tutte le maschere sono cadute. Mi sono reso conto che sotto un primo esiguo strato di pudore si nasconde un male ideologico che non accetta assolutamente alcuna opinione diversa. Questo fenomeno va dall’ignoranza alle minacce”, spiega Bursać, che oggi lavora come editorialista per Al Jazeera Balkans e per il portale di Radio Sarajevo.

“I miei tentativi di svelare alcune mancanze nell’operato dell’amministrazione comunale e le frodi nelle forniture pubbliche non davano fastidio a nessuno, all’epoca non avevo mai ricevuto alcuna minaccia. I problemi sono sorti quando ho cominciato ad occuparmi dei crimini di guerra, del genocidio e delle ideologie che portarono alla guerra e che continuano ad alimentare l’ansia sociale”, spiega Bursać.

Trattato come se fosse un imputato
Dragan Bursać ricorda come funziona e quanto dura la procedura di presentazione di una denuncia per minacce. Cita l’esempio delle minacce ricevute qualche anno fa sul web da parte di una persona che si era collegata alla rete da Banja Luka tramite un server in Danimarca, e poi è stata rintracciata grazie all’indirizzo IP.

“Mi telefonano dicendomi di venire al ministero dell’Interno. Una volta arrivato mi informano di aver trovato quella persona, e uno [dei poliziotti] mi dice: ‘è un bravo ragazzo’ e mi chiede se voglio firmare la dichiarazione di rinuncia alla querela. Mi dicono nome e cognome dell’uomo [che mi ha minacciato], suggerendomi di non denunciarlo. Cercano di convincermi di perdonarlo. Poi ho cercato un po’ su Google, ho visto che era coinvolto in una vicenda serbo-russa, ho visto una foto di Putin, non ho capito molto. Nome e cognome non mi dicevano nulla. E allora ho firmato… i poliziotti mi hanno convinto”, racconta il giornalista.

Tenendo conto del fatto che all’ultimo censimento della popolazione effettuato in Bosnia Erzegovina la maggior parte degli abitanti di Banja Luka si sono dichiarati serbi, e che la stragrande maggioranza dei politici di Banja Luka e dei media mainstream continua a difendere quanto fatto dall’Esercito della Republika Srpska durante la guerra, compresi i crimini condannati dal Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, risulta chiaro perché le questioni, per nulla semplici, sollevate da Dragan Bursać nei suoi articoli provocano reazioni furiose da parte di molti.

“Stavo rilasciando una dichiarazione alla polizia, dovevo dire se pensavo davvero che Banja Luka avesse festeggiato il genocidio di Srebrenica, e nel loro ufficio c’era una foto di Mladić”, ricorda Bursać.

“Ogni volta che mi sono recato lì [i poliziotti] mi hanno trattato come se fossi il principale imputato, come se io avessi fatto qualcosa… come se volessero dirmi: ‘Perché sei venuto?’ Erano già stufi di dover occuparsi (per dovere d’ufficio) della mia denuncia, ci mancavo solo io”, racconta Bursać.

“È uno spazio aperto, come un ufficio postale, la gente passa in continuazione. E allora dovevo parlare più forte. I poliziotti mi chiedono: ‘Cosa ha detto? Chi è Mladić?’. E io rispondo: ‘Un criminale’. Poi ancora: ‘Cosa ha scritto?’. Io ripeto: ‘Un criminale’. ‘Ah, sì, un criminale’, dicono i poliziotti. Allora la metà dei presenti gira lo sguardo verso di noi… Poi la gente mi dice: nessuno ti ha costretto a infastidire i cittadini onesti, a provocare”.

Dragan Bursać continua a ricevere minacce, ma non le denuncia più. Dice che la polizia fa quello che deve fare ma tutto quello che scoprono se lo passano alla procura, lì rimane

Per Bursać la protezione migliore è quella fornita dall’opinione pubblica, motivo per cui parla sempre pubblicamente delle minacce ricevute. Tuttavia, sostiene di essere lasciato alla mercé della folla che vorrebbe linciarlo.

“Non è mai stato avviato alcun procedimento penale, nessuno mi ha mai chiamato. Non c’è stata alcuna sentenza, come se nessuno mi avesse mai minacciato”, afferma Bursać, e aggiunge: “Penso che quelle persone aspettino che mi succeda qualcosa di brutto, per poi dire che sapevano qualcosa”.

L'articolo originale è frutto di una collaborazione all'interno della rete giornalistica delle organizzazioni SNEEPM e IFEX, di cui Mediacentar Sarajevo fa parte
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 28, 2020, 23:58:22 pm
https://www.eastjournal.net/archives/102255

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Bielorussia e Russia stanno litigando per il petrolio
Gianmarco Riva 4 ore ago

Nell’ultimo decennio i rapporti tra Russia e Bielorussia sono stati contraddistinti da numerose dispute energetiche, petrolio e gas in primis, in quella che è stata descritta come una relazione d’amore e odio tra i presidenti Vladimir Putin e Aleksander Lukašenko.

Nell’ultimo anno la Russia, che da tempo rappresenta un’importante fonte di sostentamento per l’economia e il mercato energetico bielorusso, ha costantemente cercato di incoraggiare una maggiore integrazione economica tra Mosca e Minsk al fine di mantenere quest’ultima nella sua orbita politica. In questo contesto, le crescenti pressioni esercitate da Mosca si sono recentemente tradotte in un aumento dei prezzi del petrolio e in una parallela riduzione di sussidi finanziari. Secondo i portavoce del Cremlino, il consolidamento dei legami economici è imprescendibile se Minsk desidera continuare a ricevere approvvigionamenti energetici a prezzi competitivi. L’atteggiamento proattivo russo, tuttavia, ha riscontrato una considerevole resistenza dalla controparte bielorussa, che ha dimostrato riluttanza ad accettare un consolidamento delle relazioni economiche fino a quando i problemi relativi ai prezzi delle forniture per l’anno 2020 non verranno risolti.

La posta in gioco

Le discussioni sono sorte a fine 2019, nel corso delle trattative sul consolidamento dei legami economici bilaterali, la cui attuazione è prevista da un trattato che i due paesi hanno firmato nel 1999. L’accordo, rimasto finora essenzialmente solo su carta, impegna i due ex stati sovietici a fondersi in uno stato confederale: una sorta di Unione Statale di Russia e Bielorussia da realizzarsi attraverso l’integrazione dei sistemi legislativi, valutari e giuridici. In un clima di speculazioni sul fatto che Putin stia puntando all’unione per diventare il capo del nuovo stato unitario dopo la scadenza del suo attuale mandato presidenziale prevista per il 2024, Lukašenko, che inizialmente aveva accolto con favore il trattato vedendoci la possibilità per i due paesi di rafforzare la loro posizione nei confronti dell’Occidente, si è in seguito dimostrato renitente a cedere l’autorità al suo vicino, accendendo così un confronto geopolitico con Mosca.

Se da un lato gli osservatori bielorussi si aspettano che l’integrazione economica perduri, essendo la Russia il più importante partner commerciale del paese, dall’altro lato rimangono scettici in merito alle prospettive di una vera e propria unione politica, che significherebbe l’erosione dell’indipendenza post-sovietica e, come riportato da Aleksandr Feduta (ex consigliere di Lukashenko) al Financial Time, una perdita di potere del presidente.

Alla ricerca di un accordo

Lo scorso dicembre Putin e Lukašenko hanno tenuto due round di colloqui in merito al consolidamento dei legami economici. Nonostante le divergenze sul processo di integrazione siano state superate, il ministro dello sviluppo economico russo ha dichiarato che i negoziati non hanno tuttavia portato ad alcun accordo sul petrolio. Uno stallo negoziale a cui Mosca ha riposto interrompendo i rifornimenti di petrolio. La sospensione delle forniture energetiche non ha influito sui flussi diretti ai paesi europei (di fatto solo il 10% del greggio russo verso l’Europa transita per la Bielorussia), ma ha avuto conseguenze importanti per Minsk, che si affida a Mosca per oltre l’80% del suo fabbisogno energetico complessivo e per metà dei suoi volumi commerciali.

Dopo una sospensione di cinque giorni, all’inizio di questo mese le due parti hanno raggiunto un compromesso per scorte limitate di petrolio e la Bielorussia ha quindi ricominciato la lavorazione del greggio proveniente dai giacimenti russi.

L’operatore russo Transneft, gestore del gasdotto dell’Amicizia (Družba), ha confermato il trasferimento di 133.000 tonnellate di petrolio in Bielorussia. Nondimeno, Belneftechim, compagnia petrolifera bielorussa, sostiene che il primo lotto di petrolio greggio proveniente dalla Russia sarà sufficiente per garantire un funzionamento non-stop delle raffinerie del paese solo per il mese di gennaio. Motivo che ha spinto Belneftechim a fare affidamento su fonti di sostentamento alternative come il giacimento norvegese di Johan Sverdrup, da cui il 22 gennaio è previsto l’arrivo di 88.000 tonnellate di petrolio.

Stando alle dichiarazioni di Anatolij Golomolzin, vicedirettore del Servizio federale antimonopolio della Federazione Russa (FAS) all’agenzia stampa Ria Novosti, le decisioni finali sulle tariffe di transito e il ripristino delle importazioni regolari verranno prese entro la fine di questo mese. Ad oggi, tuttavia, non è ancora stato raggiunto un accordo.

Divorzio diplomatico o Unione Statale?

La perpetrata disputa tra Russia e Bielorussia sembra stia portando i due paesi verso un divorzio, o almeno verso una grave contrazione della loro alleanza. Se da un lato Mosca pare essersi stancata del vecchio sistema, dall’altro le sue proposte di cambiamento non riescono a soddisfare gli interessi di Lukašenko, il quale potrebbe trovarsi costretto ad adattarsi a una futura vita senza il partner di lunga data. In tal caso, gli shock economici derivanti da un’improvvisa rottura col Cremlino sarebbero insostenibili per il leader bielorusso. Fino a che punto Minsk si impegnerà a rallentare il processo e a salvaguardarsi da eventuali rischi senza rinunciare alla sua sovranità rimane incerto.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 29, 2020, 00:00:02 am
https://www.eastjournal.net/archives/102307

Citazione
RUSSIA: Le riforme costituzionali di Putin non piacciono a tutti
Martina Napolitano 24 ore ago

Il pacchetto di riforme costituzionali annunciate dal presidente Vladimir Putin il 15 gennaio è stato approvato in prima lettura senza voti contrari alla Duma il 23 gennaio. L’11 febbraio è previsto il voto in seconda lettura. Questi i punti in cui si articola il pacchetto e sul quale probabilmente saranno chiamati a esprimersi i cittadini russi con un voto referendario:

Limitazione della preminenza del diritto internazionale su quello interno russo
Modifica della procedura di nomina del governo. Passa dal Presidente alla Duma il diritto di nominare ministri, premier e vice-premier
Modifica della procedura di nomina dei siloviki (i capi dei cosiddetti ministeri “forti” e dei servizi federali, delle forze armate e di sicurezza). Il Presidente li potrà nominare dopo essersi confrontato con il Consiglio federale (la camera alta)
Modifica del divieto di ricoprire la carica di Presidente oltre i due mandati consecutivi
Innalzamento dell’obbligo di residenza sul territorio della Federazione russa da 10 a 25 anni per chi ricopre la carica di Presidente
Divieto di cittadinanza straniera e permesso di soggiorno all’estero per giudici, capi dei soggetti federali, deputati, senatori, premier e ministri. Il Presidente non potrà aver avuto cittadinanza straniera, né permesso di soggiorno all’estero nemmeno in tempi precedenti alla sua nomina
Trasformazione del Consiglio di Stato da organo consultivo a organo costituzionale
Introduzione del diritto per il Consiglio federale di concerto con il Presidente di rimuovere dalla loro funzione i membri della Corte costituzionale e della Corte suprema
Introduzione del diritto per la Corte costituzionale, su volontà del Presidente, di verificare la costituzionalità delle leggi federali prima della firma del Presidente
Introduzione nel testo della Costituzione della perequazione delle pensioni e di una norma sul salario minimo
Benchè tutti i gruppi parlamentari presenti alla camera bassa del Parlamento si siano espressi a favore di queste modifiche alla Legge fondamentale dello stato russo, più voci critiche si sono alzate in seno alla società civile nelle ultime settimane – politici di opposizione, attivisti, giornalisti, politologi. Novaja gazeta ha pubblicato il 23 gennaio una lettera aperta/manifesto, già sottoscritto da oltre 14.000 persone, in cui gli autori criticano aspramente il pacchetto, sottolineandone i limiti e definendolo un vero e proprio “golpe costituzionale”, e invitano i cittadini a non sostenerlo. Ne riportiamo di seguito il testo tradotto (qui l’originale).

Manifesto dei cittadini russi contro il golpe costituzionale e l’usurpazione di potere

Oggi, noi cittadini della Federazione russa affermiamo che nel paese sotto i nostri occhi è in corso un golpe costituzionale, il cui obiettivo, siamo convinti, è per Vladimir Putin e per il suo regime corrotto quello di rimanere al potere a vita.

A questo fine è pensata l’attuale riscrittura speciale e illegale della Costituzione, annunciata da Putin il 15 gennaio come fosse una decisione già presa. Un annuncio che in appena 17 minuti ha sancito il destino della Russia. Le modifiche sono state preparate in cinque giorni.

Molti di noi hanno motivo di criticare l’attuale Costituzione. Tuttavia, modifiche al testo della Legge fondamentale dettate da interessi politici del momento vanno a demolire l’ultimo istituto chiamato a difendere la Russia da una totale usurpazione di potere. Uno stato stabile, democratico e sviluppato si basa su un principio del tutto opposto: la Costituzione va modificata in rari casi e dopo attenta disamina, mentre è l’entourage politico a cambiare con regolarità.

Oggi assistiamo a un attentato ai principi fondamentali dell’ordinamento statale, ai diritti costituzionali dei cittadini russi. E sebbene gli articoli della Costituzione dove sono sanciti tali principi e diritti non paiono interessati dalle modifiche annunciate, esse non soltanto li interessano, ma li contraddicono. Gli autori cancellano la priorità degli obblighi internazionali della Russia, eliminano l’autonomia della giurisdizione locale, limitano la suddivisione dei poteri, in primo luogo l’autonomia dei giudici, rinforzando all’interno della Legge fondamentale una pratica anticostituzionale di potere. Inoltre, sanciscono la nascita di un nuovo organo amministrativo statale non soggetto al controllo dei cittadini: il Consiglio di Stato.

È importante sottolineare che nel testo della Legge fondamentale vengono inserite intenzionalmente delle contraddizioni che conducono al caos legislativo e calpestano le basi dell’ordinamento statale. Inoltre, un tale cambiamento arbitrario, voluto in tutta fretta e furia, priva la Costituzione della sua caratteristica fondante: l’inalterabilità. Ciò solleva gli ostacoli per ulteriori modifiche dettate in base alla congiuntura politica del momento.

Noi riteniamo che, sotto forma di modifiche, ci sia presentato un golpe costituzionale. Proprio per questo motivo la modifica costituzionale avviene in tal fretta, su spinta di manipolazioni retoriche e giuridiche, senza una reale discussione con la società civile. Al posto di un’Assemblea costituente ci viene presentato un gruppo di lavoro similare formato da non specialisti. Al posto di un referendum ci propongono una “votazione federale” illegittima. Il fatto che si voti “a pacchetto” evidenzia che gli autori del golpe sono consapevoli che non tutte le modifiche da loro proposte piaceranno ai cittadini.

I cittadini si renderanno conto che la modifica illegittima della Costituzione andrà a peggiorare in maniera inevitabile e radicale la vita non solo della società presa come un tutto, ma anche quella del singolo, anche quella di chi si sente totalmente estraneo alla politica.

Alla società sono necessari:

– un reale avvicendamento politico, e non una redistribuzione apparente di poteri che garantisce il governo a vita di un unico individuo;

– il potere di influenzare le decisioni governative, e non di assistere soltanto a procedure poco trasparenti e incomprensibili;

– leggi non contraddittorie e uguali per tutti, che difendano i diritti dell’uomo e che aiutino ognuno a realizzarsi in accordo alle proprie possibilità, e non modifiche che vadano a limitare questi diritti e possibilità.

Proprio per questo noi, cittadini russi che sottoscriviamo questo manifesto, invitiamo tutti coloro che non sono pronti ad accettare l’usurpazione di potere da parte di Vladimir Putin, a unirsi alla nostra dichiarazione e a partecipare alla campagna sociale.

A nostro modo di vedere la procedura di votazione che viene prevista per queste modifiche costituzionali non è aperta e onesta. E il silenzio varrà come assenso. Se verremo chiamati a una tale votazione invitiamo tutti a dire NO a questo golpe costituzionale e all’usurpazione di potere.

Alla Russia servono reali cambiamenti, non la distruzione della statualità.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 01, 2020, 11:53:09 am
https://www.eastjournal.net/archives/102241

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Diritti umani in Russia, Ucraina e Bielorussia: questi sconosciuti
Claudia Bettiol 1 giorno ago

L’organizzazione internazionale non governativa Human Rights Watch (HRW) ha recentemente pubblicato il suo rapporto annuale sulle violazioni dei diritti umani in quasi 100 paesi del mondo. Tra questi figurano anche Bielorussia, Russia e Ucraina, regioni alle porte d’Europa di cui ci occupiamo e dove i diritti umani rimangono ancora ben lontani dall’essere tutelati e difesi. Eppure, anche di fronte alle politiche repressive e agli scarsi risultati ottenuti, sono cresciuti attivismo e proteste, un coro di voci che si batte per chiedere giustizia e uguaglianza.

Bielorussia: tra pena di morte, repressioni e discriminazioni

Il capitolo dedicato alla Bielorussia di HRW si apre con la pena di morte. La patria di Aljaksandr Lukašenka è l’unico paese europeo a non aver ancora abolito questa pratica, nonostante le autorità bielorusse e il Consiglio d’Europa abbiano annunciato lo scorso agosto l’intenzione di sviluppare una tabella di marcia verso una moratoria sulla pena capitale. Tre sono le condanne a morte che sono state registrate nel 2019, a cui se ne è aggiunta una quarta lo scorso 10 gennaio con l’esecuzione dei due fratelli Ilja e Stanislav Kostev. Il verdetto, come sottolineano gli attivisti per i diritti umani, viene eseguito da un boia con un colpo alla nuca del condannato; la famiglia non viene informata né del luogo dell’esecuzione, né di quello di sepoltura.

HRW parla anche della mancata libertà di espressione, di informazione e di manifestazione nel paese, citando i ricorrenti attacchi ai giornalisti e le numerose discriminazioni nei confronti della popolazione rom e dei disabili. Il rapporto non fa alcun riferimento a repressioni specifiche nei riguardi della comunità LGBT, ma un recente articolo sul sito dell’organizzazione riporta il brutale attacco omofobico nei confronti del regista Nikolaj Kuprič (che ha prodotto un film su pregiudizi e discriminazioni nei confronti delle persone LGBT dal titolo “Pussy Boys”), che gli ha provocato gravi perdite di memoria.

I diritti umani in Russia: cambiamenti insperati

La situazione dei diritti umani in Russia continua a mantenersi negativa e la lunghezza del capitolo dedicato da HRW lo dimostra. L’aumento dell’attivismo civile e delle proteste ha solo provocato l’ennesima ondata di repressioni, divieti e un inasprimento delle leggi e dei relativi procedimenti amministrativi e penali per motivi politici. L’esempio più recente è quello delle proteste di massa di Mosca della scorsa estate per le “elezioni pulite” alla Duma della città di Mosca. Ma il mancato rispetto dei diritti umani si spinge oltre la sfera prettamente politica e abbraccia anche la vita sociale: dall’ambiente alla vita domestica, dalla libertà di parola alle più diffuse discriminazioni xenofobe e omofobiche.

Le autorità russe hanno continuato a introdurre nuove restrizioni alla libertà di parola, anche online, adottando una legge sul controllo di Internet e una sugli “agenti stranieri“. Anche le persecuzioni religiose dei testimoni di Geova e l’oppressione ai tatari di Crimea (con più di 63 sentenze per atti terroristici) continuano senza sosta nelle repubbliche federali russe e nell’annessa penisola di Crimea.

L’unico raggio di luce nella questione dei diritti umani sembra esser stato rappresentato dai due scambi di prigionieri tra Russia e Ucraina avvenuti rispettivamente a settembre e dicembre 2019. Ma ciò non ha portato, comunque, alla fine del conflitto armato nell’est dell’Ucraina, né a un miglioramento delle condizioni dei rimanenti prigionieri politici rinchiusi nelle carceri russe.

Il focolaio ucraino

Sebbene ci sia stata una diminuzione delle vittime civili, la guerra in corso da 6 anni nei territori a est del paese rappresenta un rischio continuo per la popolazione civile. Un problema sottovalutato e che si aggiunge oggi a violenze e violazioni dei diritti di altra natura.

I media indipendenti continuano a subire pressioni. Da gennaio a luglio 2019 l’Istituto dei mass media (Institut Masovoi informacii) ha documentato almeno 12 casi di attacchi a giornalisti, di cui uno fatale; ha inoltre registrato decine di casi di minacce che ostacolano le attività professionali dei giornalisti. Intimidazioni e casi di violenza si sono verificati anche nei confronti del clero e dei credenti, soprattutto in seguito alla scissione delle due chiese ortodosse ucraine.

Le repressioni persistono anche nei confronti delle minoranze. La violenza e la discriminazione basate sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, sull’appartenenza etnica, linguistica e religiosa, sono tematiche che hanno attirato l’attenzione di moltissime associazioni e organizzazioni locali e internazionali, tra cui OSCE e ONU.

Diritti umani: parlarne per poterli tutelare

Questo trentesimo rapporto mondiale annuale di Human Rights Watch riflette il vasto lavoro investigativo che l’organizzazione indipendente, nata nel 1978, ha condotto durante l’anno in stretta collaborazione con attivisti locali e internazionali al fine di poter riassume le condizioni dei diritti umani nei diversi paesi. Rappresenta solo uno dei tanti modi che ci fanno aprire gli occhi nei confronti dei nostri vicini e capire quanto ancora c’è da lottare per i nostri diritti di base.

Le violazioni della libertà di parola e di movimento, le discriminazioni e i pregiudizi, le misure di sicurezza antiterrorismo e la pena di morte in Bielorussia, ai confini d’Europa, ci rivelano la faglia esistente tra la retorica dei diritti umani e la difficile realtà della loro applicazione.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 02, 2020, 17:38:46 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-le-elezioni-si-avvicinano-cresce-la-pressione-sui-media-199409

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Serbia: le elezioni si avvicinano, cresce la pressione sui media

La compagnia Telekom, di cui lo stato è proprietario di maggioranza, ha tolto dalla sua offerta via cavo TV N1, l’unica rete televisiva rivolta al grande pubblico che presenta anche posizioni critiche rispetto all'attuale maggioranza

31/01/2020 -  Dragan Janjić
La leadership al potere in Serbia, guidata dal presidente Aleksandar Vučić, esercita una pressione sempre maggiore sulle forze di opposizione che hanno annunciato di voler boicottare le prossime elezioni politiche e sui media che non sono controllati dalla coalizione di governo; Washington e Bruxelles sono fermamente contrarie all’idea del boicottaggio e hanno più volte invitato l’opposizione a rinunciare all’intenzione di non presentarsi alle prossime elezioni; le relazioni tra Serbia e Montenegro hanno toccato il punto più basso degli ultimi anni; l’opposizione serba continua a ripetere che in Serbia mancano le condizioni necessarie per lo svolgimento di elezioni eque e democratiche e non sembra disposta a riconsiderare la propria decisione di boicottare le prossime elezioni.

Così potrebbe essere descritta l’attuale situazione in Serbia, dove tra pochi mesi, probabilmente ad aprile, dovrebbero tenersi le prossime elezioni politiche.

L’opposizione serba ha ragione quando sostiene che fino ad oggi il governo non ha fatto praticamente nulla per garantire le condizioni per lo svolgimento di elezioni democratiche e che ormai non c’è più tempo per intraprendere alcuna seria azione in tale direzione, visto che mancano solo tre mesi al voto. Il problema principale, per quanto riguarda le elezioni, resta comunque quello di garantire la libertà di espressione e la parità di accesso ai mezzi di informazione durante la campagna elettorale.

Il governo a breve dovrebbe adottare una nuova strategia per i media, annunciata da quasi un anno, e probabilmente cercherà di presentare l’approvazione di questo documento come un’importante concessione nei confronti dell’opposizione. Tuttavia, un’eventuale decisione di approvare la nuova strategia per i media non può portare ad alcun cambiamento immediato, perché non si tratta di una legge bensì di un atto sulla base del quale verranno elaborate nuove leggi, che poi dovranno essere implementate.

Inoltre, la leadership al potere ha intrapreso una serie di azioni allo scopo di limitare ulteriormente la già scarsa possibilità dell'opposizione di raggiungere ampie fasce della popolazione. La società di telecomunicazioni Telekom Srbija – di cui lo stato è proprietario di maggioranza – ha recentemente eliminato dalla sua offerta di canali via cavo l‘emittente televisiva N1, che è praticamente l’unica grande emittente che dà spazio alle opinioni degli esponenti dell’opposizione e di altri oppositori del governo. Telekom ha motivato la sua decisione citando ragioni economiche e presunte incomprensioni con la società United Group, proprietaria dell’emittente N1, ma United Group ha smentito che ci siano state delle incomprensioni. Resta comunque il fatto che alla vigilia dell’avvio della campagna elettorale si cerca di limitare fortemente – strumentalizzando un’azienda pubblica – la visibilità di un importante mezzo di informazione, uno dei pochi non allineati al regime.

La direzione di N1 sostiene che, a causa della decisione di Telekom Srbija di rimuovere dalla sua offerta l’emittente N1, molte famiglie in Serbia sono state private del diritto a ricevere un’informazione obiettiva e che, per volere del partito di governo, in questo momento circa un milione di cittadini serbi abbonati ai provider di servizi via cavo gestiti da Telekom non hanno la possibilità di seguire il canale N1. Inoltre, il portale web dell’emittente N1, che rappresenta un’importante fonte di informazione indipendente, ormai da qualche giorno è bersaglio di ripetuti attacchi DDos ed è stato più volte oscurato.

Che l’intera vicenda abbia connotazioni politiche lo ha confermato implicitamente anche la premier serba Ana Brnabić, affermando che N1 si comporta come se fosse “un partito politico”, lasciando così intendere che al governo non piace il modo in cui l’emittente N1 fa informazione, e per questo sta cercando di metterla a tacere.

Kosovo
La questione del Kosovo attualmente non è al centro dell’attenzione pubblica in Serbia per il semplice fatto che non è ancora chiaro come evolverà la situazione, ovvero se e quando sarà formato un nuovo governo, oppure se dovranno essere indette nuove elezioni. La crisi kosovara – benché al momento meno presente nel dibattito politico (una situazione che giova alla coalizione di governo perché le permetterà di focalizzare la sua campagna elettorale su altri temi) – resta il fulcro della maggior parte dei problemi con cui si confronta la Serbia.

Appena sarà formato un nuovo governo kosovaro, Belgrado dovrà impegnarsi per accelerare i negoziati sulla normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo, e questo implicherà anche la necessità di fare certe concessioni nei confronti di Pristina. Ed è per questo che l’attuale leadership serba auspica che la formazione del nuovo governo kosovaro venga rinviata ancora di qualche mese, cioè fino alle elezioni politiche in Serbia.

La maggior parte degli analisti di Belgrado ritiene che le aspettative di una normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo, nutrite dalla comunità internazionale, siano il principale motivo per cui Vučić e la coalizione di governo godono ancora del sostegno dell’Occidente. A dire il vero, il governo serbo è stato spesso criticato dalla comunità internazionale per il deterioramento dello stato di diritto e per le pressioni esercitate sui media, ma le potenze occidentali non hanno mai posto alcun preciso ultimatum alla leadership di Belgrado e continuano a dirsi contrarie all’idea del boicottaggio delle prossime elezioni parlamentari da parte dell’opposizione serba.

L’ambasciatore statunitense a Belgrado Anthony Godfrey ha recentemente dichiarato che gli Stati uniti sono “preoccupati per il clima in cui si svolgeranno le elezioni in Serbia” e che l’attuale governo serbo, se vuole essere considerato un governo legittimo, deve garantire elezioni eque. L’ambasciatore Godfrey si è rivolto anche all’opposizione serba affermando: “A mio avviso, il boicottaggio delle elezioni priverebbe molti elettori della possibilità di far sentire la propria voce. Penso che ciò non sia giusto né produttivo”.

Questa affermazione dimostra che Washington (e sicuramente anche Bruxelles) ci tiene molto affinché il prossimo governo serbo sia non solo legale ma anche legittimo e che sia in grado di prendere decisioni importanti e serie e, al contempo, di attenuare eventuali tensioni che tali decisioni potrebbero innescare sulla scena politica serba. L’opposizione serba si sente schiacciata tra le richieste delle potenze occidentali e l’impossibilità di partecipare alle elezioni alle condizioni attuali, che ritiene completamente inaccettabili e inique, motivo per cui continua ad insistere sulla necessità di boicottarle.

Opposizione
Nelle loro reazioni alla netta presa di posizione dell’ambasciatore statunitense rispetto all’idea del boicottaggio, gli esponenti dell’Alleanza per la Serbia (SZS, la più grande coalizione dei partiti di opposizione in Serbia) hanno assunto atteggiamenti variegati, che vanno da una parziale comprensione a una rabbia esplicita. Nebojša Zelenović, leader del partito Insieme per la Serbia (ZZS) e sindaco di Šabac, ha interpretato la presa di posizione dell'ambasciatore statunitense come un segnale di preoccupazione perché nel caso in cui l’opposizione dovesse boicottare le prossime elezioni, il nuovo governo e il nuovo parlamento serbo non sarebbero in qualche modo legittimati a prendere decisioni di peso. “Capiamo completamente la dichiarazione del signor ambasciatore, capiamo anche la sua preoccupazione”, ha dichiarato Zelenović.

Dragan Đilas, leader del Partito della libertà e giustizia (SSP), ha reagito in modo molto più duro, affermando che a Godfrey “non importa” nulla del fatto che in Serbia le persone vengano picchiate e cacciate dal loro posto di lavoro e che i giornalisti vengano perseguitati. “L’importante è che colui che gode del vostro sostegno riconosca l’indipendenza del Kosovo e che concluda con le aziende provenienti dal vostro paese affari per svariati miliardi di euro senza alcuna gara d’appalto. Ed è per questo che tollerate tutto quello che fa, lo state lodando e ammirando, mentre centinaia di migliaia di persone se ne vanno dal paese”, ha scritto Đilas in una lettera aperta indirizzata all’ambasciatore Godfrey. A spingere Đilas a scrivere questa lettera è stata la decisione dell’ambasciatore Godfrey di partecipare a una trasmissione alla tv Pink che ormai da anni sta conducendo una dura campagna denigratoria contro l’opposizione.

La lettera di Đilas lascia intendere che una parte dell’opposizione serba vorrebbe che Bruxelles e Washington – a causa delle costanti violazioni dei principi democratici, il progressivo smantellamento dello stato di diritto e le limitazioni imposte alla libertà di espressione da parte del regime di Vučić – mettessero da parte la questione del Kosovo, la cui indipendenza è stata riconosciuta dalla maggior parte dei paesi occidentali. Questo, ovviamente, non accadrà e non può accadere e proprio la sopracitata frase della lettera di Đilas rivela uno dei principali motivi per cui l’opposizione serba non gode di grande sostegno da parte dell’Occidente. Perché se le potenze occidentali hanno già ricevuto da Vučić una promessa in merito alla soluzione della questione del Kosovo – una soluzione che sia in linea con gli interessi e con la politica dell’Occidente – , allora non hanno alcun motivo di appoggiare l’opposizione serba, che non ha mai assunto un chiaro atteggiamento nei confronti della questione del Kosovo.

L’opposizione serba capisce perfettamente che per l’elettorato serbo quella del Kosovo è ancora una questione molto delicata e sta cercando di sfruttare tale situazione per indebolire la posizione di Vučić, che si trova costretto a rispondere alle richieste di ulteriori concessioni nei confronti di Pristina. Tale strategia dell’opposizione potrebbe rivelarsi utile a breve termine, ma è difficilmente compatibile con una prospettiva più ampia, ovvero con i rapporti di forza nella regione e con gli interessi dei principali attori internazionali. L’opposizione serba è sicuramente consapevole del fatto che difficilmente potrà incidere sulla risoluzione della questione del Kosovo, ma non sembra disposta di ammetterlo pubblicamente né di definire una piattaforma comune allo scopo di avvicinare la propria posizione a quella di Bruxelles e Washington.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 02, 2020, 18:46:28 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Bosnia-Erzegovina-curarsi-missione-impossibile-176359

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Bosnia Erzegovina: curarsi, missione impossibile

Non è un segreto, in Bosnia servono regali o bisogna conoscere qualcuno per ricevere cure adeguate. E a volte non basta. Reportage nei meandri di un sistema sanitario al collasso

28/12/2016 -  Mersiha Nezić
(Pubblicato originariamente da Courrier des Balkans il 14 dicembre 2016)


“Se non avessi dato del contante a medici e infermiere, non avrebbero neppure dato uno sguardo a mio padre quando era in ospedale”, afferma desolata Edina. Quest'insegnate di quarant'anni è categorica: per ricevere cure occorre distribuire bustarelle, pratica ereditata dal periodo comunista. “Tutte le volte che ho avuto a che fare con medici ho dovuto far loro dei regali, portare del cioccolato o bottiglie di liquore”, conferma, seduto ad un caffé Emir, pensionato di Sarajevo.

Secondo la classifica redatta da Transparency International  , la Bosnia Erzegovina ha uno dei tassi di corruzione più elevati d'Europa e la sanità è uno dei settori più colpiti da questo flagello. “I pazienti sono talmente abituati alle bustarelle quando vanno dal medico o in ospedale, che si presentano spontaneamente dal personale curante con soldi o regali”, s'indigna Ivana Korajlić, responsabile dell'organizzazione internazionale a Banja Luka.

I medici bosniaci - dal canto loro sono - molto sensibili a queste “offerte”, dato che guadagnano tra i 550 e i 750 euro al mese. Salari bassi che provocano, da dopo la guerra, la fuga dal paese dei professionisti del settore medico. Nel 2015 360 medici generici hanno abbandonato la sola Federazione di Bosnia Erzegovina (una delle due entità che costituiscono il paese, ndr).


Ma tutti i bosniaci sanno ormai bene che le mance non bastano più a farsi curare dignitosamente. “Sono riuscito a farmi operare rapidamente perché avevo i contatti giusti”, racconta Emir. Avere una “talpa” diviene necessario per ottenere un appuntamento con uno specialista in tempi ragionevoli. Esma, ingegnere di Sarajevo di 36 anni, ne ha fatto amara esperienza: è solo grazie a buoni contatti che ha ottenuto il ricovero in ospedale di sua madre. All'inizio le era stato risposto. “Perché ricoverarla? E' vecchia e noi abbiamo bisogno di letti”.

Odissee nel sistema sanitario
Anche Esma è stata vittima delle carenze del sistema sanitario bosniaco, piombato nella paralisi amministrativa. Qualche anno fa una violenta emicrania la colpì. Prima tappa: l'ambulatorio, passaggio obbligato per tutti i bosniaci, altra eredità della Jugoslavia socialista. Lì per prima cosa dovette convincere un'infermiera a fare in modo che un medico la visitasse, dalla diagnosi di quest'ultimo però non emerse nulla di grave. Esma rimase però preoccupata e insistette sino ad ottenere una visita specialistica. Esami, radiografie, analisi del sangue durarono settimane. Infine le venne diagnosticato un aneurisma celebrale. Ma alla ragazza venne detto che il suo caso non aveva priorità e che avrebbe dovuto pazientare sei mesi prima di poter essere operata. Esma decise allora di andare all'estero. Lo specialista sloveno che la visitò la fece operare d'urgenza. “Mi spiegò che se avessi aspettato qualche giorno in più sarei morta”, racconta.

Dopo aver raccolto 10mila euro per l'operazione e a sole 48 ore da quest'ultima, la giovane donna ha dovuto affrontare un'ulteriore difficoltà: l'impossibilità di effettuare un bonifico su un conto estero senza un'autorizzazione del ministero delle Finanze bosniaco. “Si possono fare bonifici per un massimo di 2500 euro, ho dovuto coinvolgere amici, cugini, vicini di casa... e ho impiegato un anno per riprendermi da questa vicenda”.

Esma, funzionaria di alto livello di un'organizzazione internazionale, fa parte di una classe privilegiata. Guadagna molto più del salario medio bosniaco, che si aggira poco sopra i 300 euro al mese, in una paese dove metà della popolazione è senza lavoro. Secondo un recente studio, un terzo dei bosniaci vive al di sotto della soglia di assoluta povertà. E chi si ammala si ritrova all'inferno. “Se vostro figlio viene ricoverato, dovete portarvi tutto da casa, dalla carta igienica ai medicinali, passando per i condimenti per il cibo. Nei nostri ospedali non c'è nulla. Nemmeno dei fazzoletti”, s'indigna Nina. Proprietaria di un bar “che funziona bene”, questa trentenne aiuta altre persone che non hanno risorse per ottenere delle cure. Gestisce una pagina su Facebook, “Pretty Women”, alla quale sono iscritte migliaia di donne bosniache che si sono coalizzate per venire in aiuto a propri familiari per sostenere le spese ospedaliere o per acquistare dei medicinali. “Attualmente stiamo aiutando la madre di un bambino che soffre di epilessia. Il trattamento costa 150 euro al mese, somma che lei non può avere guadagnando 250 euro come cassiera di un supermercato”.

Sui social media le richieste di aiuto pullulano. I bosniaci si vengono in aiuto anche per permettere a pazienti colpiti da patologie gravi, come ad esempio alcuni tumori che non possono essere curati nel paese, di farsi curare all'estero. Austria, Germania e Turchia sono le destinazioni più frequenti. “La sicurezza sociale rimborsa molto poco, solitamente meno di un quarto di operazioni assai complesse”, sottolinea Nina.

La media delle pensioni è di soli 170 euro e quindi gli anziani hanno grandi difficoltà nel procurarsi i medicinali di cui hanno bisogno. Hatidja, 75 anni, dipende ad esempio dall'aiuto di sua figlia, emigrata in Austria. “Mi invia 50 euro ogni mese. Compero i medicinali in una farmacia di Istočno Sarajevo, nell'entità serba: è un po' meno cara”.

"Oltre ogni immaginazione"
I prezzi dei medicinali in effetti non sono gli stessi nelle due entità che costituiscono la Bosnia Erzegovina. Ciascuna ha un proprio ministero della Salute e a loro volta i dieci cantoni di cui è costituita una di queste entità, la Federazione, hanno a loro volta propri ministeri della Salute. Esiste un elenco federale dei farmaci che dovrebbero essere rimborsati, ma non tutti i cantoni hanno budget a sufficienza per rispettarla. Gli abitanti di Sarajevo sono quelli più fortunati, perché si tratta del cantone più ricco della Federazione. “I miei genitori abitano a Livno, devono pagare di tasca propria medicinali che invece a Sarajevo sono gratuiti”, spiega Fatima Insanić-Jusufović, una farmacista di Sarajevo. “Solo un terzo dei farmaci che a Sarajevo sono gratuiti lo sono anche a Livno”.

Qualsiasi sia il cantone o l'entità, i bosniaci devono in ogni caso pagare i medicinali di più di quanto non avvenga nei paesi vicini. I prezzi dovrebbero abbassarsi almeno di un 10%, secondo quanto sta cercando di ottenere la Banca Mondiale condizionando un proprio prestito all'armonizzazione dei prezzi con quelli del resto della regione.

Altra assurdità: i bosniaci che desiderano o devono farsi curare in un cantone o entità diverso da quello di residenza devono espletare un lungo iter burocratico. “All'epoca della Jugoslavia può darsi si offrissero regali ai medici, ma se si voleva si poteva anche ottenere cure gratuite e dove si desiderava, dalla Slovenia alla Macedonia, con libretto sanitario rosso” sospira Hatidja. “Il sistema attuale è oltre ogni immaginazione”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Febbraio 02, 2020, 20:09:18 pm
Però in Croazia si è sviluppato un turismo medico low cost
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Duca - Febbraio 04, 2020, 00:23:16 am
Anche in Slovenia, ma ricordo già dai tempi della Jugo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 08, 2020, 18:45:04 pm
https://www.eastjournal.net/archives/102437

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Una città bulgara è senz’acqua da tre mesi
Raffaele Mastrorocco 1 giorno ago

Il festival Surva è una famosissima ricorrenza che si tiene tutti gli anni a fine gennaio a Pernik, in Bulgaria, e che vede maschere del folklore bulgaro risalenti ai tempi pagani sfilare per le vie della cittadina. Di portata internazionale con visitatori da tutto il mondo, quest’anno il festival si sarebbe dovuto tenere tra il 24 e il 26 gennaio ma è stato cancellato a causa di una grave crisi idrica che ha colpito Pernik e i paesi vicini. Sono ormai tre mesi che i cittadini di Pernik sono sottoposti a restrizioni per l’utilizzo dell’acqua e la scarsità dell’approvvigionamento idrico nella zona ha costretto le autorità locali a cancellare, per la prima volta da quando fu istituito nel 1966, l’edizione annuale del festival.

Gravi pericoli per la salute, arrestato il Ministro dell’ambiente

A partire dal 18 novembre scorso, le autorità locali di Pernik hanno ridotto l’uso dell’acqua prima a 10 ore al giorno e poi a 8, per un periodo previsto inizialmente di 5 mesi e che interessa più 100.000 persone. La decisione è stata presa a causa del livello criticamente basso delle fonti idriche presente nella diga Studena, di proprietà statale e che quotidianamente rifornisce tutta l’area. A inizio gennaio il ministro della salute bulgaro ha visitato la città e analizzato a fondo il problema valutando che la mancanza d’acqua nella zona avrebbe potuto comportare gravi rischi per la salute dei cittadini e causare la diffusione di malattie. Da lì, l’annullamento del festival Surva ma anche l’arresto del ministro dell’ambiente e dell’acqua bulgaro, Nino Dimov. Inizialmente fermato per 24 ore, poi per 72 ma tuttora in arresto, Dimov è accusato di cattiva amministrazione delle risorse idriche cittadine e di aver violato deliberatamente le leggi sulla gestione dei rifiuti e sulla protezione ambientale. Secondo l’accusa, Dimov avrebbe permesso alle industrie della zona di utilizzare le scorte d’acqua del bacino di Studena, unica fonte d’approvvigionamento d’acqua di Pernik, nonostante fosse a conoscenza del suo stato critico. Per più di un anno e mezzo dall’inizio del 2018, il ministro veniva informato mensilmente dal capo della compagnia di fonti idriche e fognature sullo stato della diga, permettendo però l’utilizzo dell’acqua a scopi industriali. Ogni mese autorizzava la Stomana industry, acciaieria di notevoli dimensioni nei pressi di Pernik, e la compagnia distrettuale per il riscaldamento ad accedere alle risorse idriche della diga, in alcune mensilità addirittura in quantità maggiori del necessario.

L’ormai ex ministro si è dimesso il 10 gennaio, qualche giorno dopo l’arresto, e ora rischia tra i due e gli otto anni di carcere. Le indagini hanno coinvolto anche Irina Sokolova, già governatrice distrettuale a Pernik e affiliata al partito GERB del primo ministro bulgaro Boyko Borisov, Ivan Vitanov, l’ex direttore della compagnia che gestisce le fonti idriche e fognature della città, e Vera Tserovksa, ex sindaca di Pernik anche lei del partito di Borisov. Nonostante ciò, quest’ultimi sono stati coinvolti solamente come testimoni al momento e a loro carico non sarebbero presenti alcune accuse.

Da Sofia arriva una soluzione temporanea

Il 15 gennaio l’Assemblea Nazionale bulgara ha accettato le dimissioni di Neno Dimov e eletto il nuovo ministro dell’ambiente e dell’acqua, Emil Dimitrov, nomina che segna la nona modifica della composizione del gabinetto di Borisov dalle elezioni del 2017. Conosciuto per esser stato a capo dell’agenzia delle dogane bulgara tra il 2001 e il 2005 durante il governo di Simeon Sakskoburggotski, Dimitrov non ha alcuna esperienza in materia di protezione ambientale. Per questo è stato fortemente criticato dai partiti di opposizione ma è riuscito ugualmente a ottenere la nomina e il sostegno del governo; attualmente è membro della coalizione  di estrema destra Patrioti Uniti, dal quale proveniva anche Dimov, che insieme a GERB governa il paese.

Nel frattempo, la crisi idrica sembrerebbe aver trovato una soluzione, almeno momentanea. Pernik tornerà presto ad essere rifornita d’acqua proveniente però dalla diga Belmeken, la cui acqua passerà attraverso la diga Beli Iskar per poi attraversare la rete idrica di Sofia e che infine porterà a Pernik 700.000 litri al mese. La decisione presa alla riunione del Consiglio dei ministri tenutasi il 18 gennaio non intaccherà in alcun modo gli abitanti della capitale, come ha affermato la sindaca di Sofia Yordanka Fandŭkova, ed è la scelta più conveniente in quanto dista solamente circa 30 km da Pernik. In ogni caso, l’acqua proveniente da Belmeken arriverà alle case di Pernik solamente per due mesi, periodo stimato per permettere a Studena di riempirsi di nuovo a sufficienza. Il collegamento della rete idrica tra le due città si stima che impiegherà tra i 35 e i 45 giorni per essere costruito, ma nel frattempo la Studena si stima che toccherà il punto più critico tra un mese scarso.

Mentre la corsa contro il tempo inizia per evitare che la situazione peggiori ulteriormente, il dibattito sulla questione viene politicizzato dall’opposizione incarnata dal partito socialista BSP e dalla sua veemente leader Kornelia Ninova. La Ninova non ha mancato l’occasione per accusare il governo di non essere in grado di gestire le risorse ambientali e idriche del paese e ha presentato una mozione di sfiducia nei confronti del governo. La mozione, la quarta del terzo governo di Borisov, non riesce però a far virare il dibattito sulla necessità nazionale di proteggere l’ambiente dalla corruzione prorompente nel paese e dagli interessi economici. Piuttosto, sembrerebbe essere l’ennesimo tentativo della Ninova di portare Borisov alla sconfitta politica. In un paese in cui l’ambiente è la prima vittima di un sistema corrotto, molte sono le domande che non trovano risposta. La più importante è la seguente: perché la Stomana industry avrebbe avuto accesso a tutte quelle risorse idriche senza una necessità imperativa? Tuttavia, l’incapacità o la scarsa volontà politica non permettono al dibattito pubblico di alzare la testa e affrontare la questione. Quindi, nel frattempo, gli abitanti di Pernik aspettano l’acqua.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 08, 2020, 18:46:40 pm
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CINEMA: Il backgammon come metafora della vita in Bulgaria
Giorgia Spadoni 24 ore ago

Per le vie di un paesino da qualche parte in Bulgaria, una lesta signora si aggira alla ricerca di zucchero. È una mattina di metà settembre del 1975. Dopo aver chiesto invano ad un paio di negozi, vuoti, salta impunemente la lunga fila davanti al terzo per accaparrarsi il prezioso ingrediente, arrivato direttamente da Cuba.
Il film del regista bulgaro Stephan Komandarev Il mondo è grande e la salvezza si nasconde dietro l’angolo (Svetăt e goljam i spasenie debne otvsjakăde) inizia con una delle immagini della realtà oltrecortina rimasta stampata nella memoria comune dei più, quella delle lunghe file davanti ai negozi di alimentari, in carenza cronica dei beni di consumo primari.
In Bulgaria lo zucchero spesso mancava dagli scaffali negli anni Settanta, soprattutto in autunno, quando la richiesta era maggiore, per preparare conserve e alcolici in vista della stagione fredda.

Non solo zucchero

Questo è appena uno dei tanti spaccati della Bulgaria dell’epoca che la pluripremiata pellicola di Komandarev offre allo spettatore.
Basato sull’omonimo romanzo dello scrittore bulgaro-tedesco Ilija Trojanow, il film racconta la storia di Aleksandăr Georgiev (Carlo Ljubek, attore tedesco-croato che se la cava con un bulgaro credibilissimo), figlio di bulgari emigrati in Germania negli anni Ottanta.
Unico superstite del violento incidente stradale in cui muoiono i genitori, è colpito da amnesia totale. Il nonno, Yordàn detto ‘Baj Dan’ (Miki Manojlović, poliedrico talento del cinema jugoslavo), raggiunto il nipote, decide di coinvolgerlo in un viaggio a ritroso, verso la Bulgaria, per aiutarlo a recuperare la memoria.

Da che parte stare

Alternando presente e analessi, il lungometraggio fornisce allo spettatore un’accurata e inedita prospettiva su tre generazioni di storia bulgara: da una parte la morsa pervasiva del governo totalitario, e dall’altra la controffensiva degli oppositori, tra cui il nonno e il padre di Aleksandăr, Vasko.
Il primo, richiamato in patria per aver preso parte alla rivoluzione ungherese, fa esplodere una statua di Stalin; graziato, passa 15 anni in carcere. Il secondo, dopo aver pestato un superiore durante la leva militare, viene recluso per sei mesi e cacciato dal Komsomol, la Gioventù comunista, ma riesce comunque ad ottenere un diploma e poi un impiego, presentando referenze false.
Il fragile equilibrio dei Georgievi crolla quando la finta facciata perbenista di Vasko viene smascherata, e un agente della DS (il Comitato per la sicurezza di stato) lo invita a collaborare con il governo per mantenere il posto, riportando per iscritto tutti i movimenti del suocero. Baj Dan, infatti, continua a farsi beffa del regime con i suoi coetanei, nel bar in cui passano le giornate a giocare a backgammon, attività proibita dal regime.

Il dilemma morale imposto al capofamiglia apre la strada ad un altro capitolo drammatico della storia assolutista, non solo bulgara: l’emigrazione, il mettere in gioco la propria dignità nella speranza di un futuro migliore in cambio. Rifiutandosi di diventare un delatore, Vasko decide di fuggire dal Paese con la moglie e il figlio, verso la Germania.
Dopo aver attraversato la frontiera con l’Italia, però, i tre rimangono bloccati nel Centro regionale profughi di Trieste, costretti a vivere in condizioni mediocri. Il backgammon diventa così l’unica via di uscita, la possibilità di racimolare la cospicua somma necessaria per farsi portare oltreconfine illegalmente dai corrieri clandestini.

Il Re del Backgammon

Il gioco del backgammon, illecito e originale fil rouge del film, unisce le tre generazioni ed appare nei momenti chiave della storia. Simbolo di dissenso e libertà, è metafora della vita umana, in cui sorte e intelligenza concorrono in egual misura a determinarne i risvolti.
Qualunque siano i presupposti iniziali, nessun destino è già scritto, nemmeno per chi, come Aleksandăr Georgiev, viene al mondo in un momento ostile, “da qualche parte nei Balcani, dove l’Europa finisce senza mai iniziare”, perché la salvezza può celarsi dietro ad ogni angolo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 14, 2020, 00:41:26 am
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La Romania è nel caos…di nuovo
Francesco Magno 2 giorni ago

Questo articolo è frutto di una collaborazione editoriale tra East Journal e Osservatorio Balcani e Caucaso

Lo scorso 5 febbraio il governo del partito nazional-liberale guidato da Ludovic Orban – entrato in carica lo scorso ottobre – è stato sfiduciato in Parlamento a seguito di un voto richiesto dal partito social-democratico (PSD), costringendo il presidente della Repubblica Klaus Iohannis ad avviare il necessario iter per la formazione di un nuovo esecutivo. Dopo un rapido giro di consultazioni, il capo dello Stato ha conferito l’incarico nuovamente ad Orban, che lunedì 10 febbraio ha presentato alle camere la lista dei nuovi ministri in attesa del voto di fiducia per il quale, tuttavia, sono necessari i voti del PSD, che detiene ancora la maggioranza relativa dei seggi. E’ difficile ipotizzare che i social-democratici possano dare il loro beneplacito ad un governo che hanno abbattuto meno di una settimana prima. Com’è probabile, Orban non riceverà la fiducia e la palla tornerà ancora a Iohannis che darà a Orban nuovamente l’incarico, sperando in un’ulteriore sfiducia. Al secondo tentativo fallito di dar vita ad un esecutivo, infatti, le camere devono essere sciolte e vengono indette elezioni anticipate, quello a cui Iohannis e tutto il PNL aspirano da settimane. Una matassa intricata, colma di bizantinismi e negoziazioni trasversali, che cerchiamo di dipanare nelle prossime righe. Quale sono le posizioni dei grandi attori in campo? Quali i loro obiettivi?

 I liberali vogliono votare

Il PNL, al governo da ottobre, vuole capitalizzare il consenso di cui gode secondo tutti i sondaggi nazionali; Iohannis, il vero leader del partito, vuole andare a votare il prima possibile, per evitare che una permanenza troppo lunga al governo possa lentamente erodere il credito ottenuto. Anche per accelerare la sua stessa caduta l’esecutivo ha proposto una nuova legge sulle elezioni dei sindaci, eliminando l’attuale sistema a turno unico per introdurre un doppio turno con ballottaggio tra i due candidati più votati. Un cambiamento da sempre osteggiato dal PSD, che da anni ormai basa il suo successo alle consultazioni locali soprattutto sulle divisioni delle opposizioni. In uno spettro politico che si sta configurando in modo sempre più tripolare, con due forti partiti di centro-destra (PNL e USR-Plus) da una parte e i social-democratici dall’altra, un’elezione a doppio turno porterebbe indubbiamente le destre a coalizzarsi ai ballottaggi in funzione anti-PSD, distruggendo quel ramificato sistema di potere regionale e provinciale che da decenni costituisce la vera forza del partito. Orban era consapevole che la proposta di legge avrebbe portato il PSD a sfiduciarlo, e ha forzato la mano sperando proprio di creare una situazione di impasse, dalla quale uscire soltanto attraverso l’indizione delle elezioni anticipate.

E se ci fosse un’intesa segreta?

Gli osservatori più maliziosi sostengono che vi sia in realtà un’intesa di fondo tra PNL e PSD; quest’ultimo avrebbe accelerato la caduta del governo e la convocazione delle elezioni dopo aver ricevuto dai liberali la promessa di non introdurre l’elezione a doppio turno tramite decreto-legge. Secondo altri analisti, pur di scongiurare le anticipate, che lo vedrebbero quasi sicuramente sconfitto, il PSD potrebbe addirittura votare la fiducia a Orban quando questi si presenterà per la seconda volta in Parlamento, costringendolo così ad avviare l’attività di governo e ritardare le elezioni. Si tratterebbe di una situazione folle e paradossale, in virtù della quale un esecutivo liberale si ritroverebbe sostenuto dai social-democratici con l’unico scopo di non andare a votare.

Le aspirazioni di Iohannis

Nel caso in cui, come spera Iohannis, Orban non dovesse ricevere la fiducia, le date più probabili per le elezioni sarebbero il 14 o il 21 giugno. In realtà, la strada verso il voto anticipato è ancora tortuosa e dissestata, e non è detto che si possa giungervi. Sono giorni di negoziazioni e trattative serrate condotte nelle segrete stanze del potere bucarestine. Il perno rimane, di fatto, il presidente della Repubblica, l’uomo politico più forte del paese: Iohannis vuole avere un “suo” governo sorretto da una forte maggioranza parlamentare, così da poter implementare senza ostacoli nei prossimi cinque anni del suo mandato tutte le promesse fatte durante le presidenziali dello scorso novembre. E’ difficile dire, allo stato attuale, se ci riuscirà.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 14, 2020, 00:45:20 am
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RUSSIAGATE: Le ombre di un oligarca dietro lo scandalo
Guglielmo Migliori  5 ore ago

Lo scorso 28 gennaio, il dipartimento del tesoro degli Stati Uniti ha deciso di revocare le sanzioni a tre società industriali russe. Nonostante l’opposizione della Camera, il pressing di Trump e della maggioranza repubblicana al senato è riuscito – non senza polemiche – a far passare la mozione e renderla effettiva. Le sanzioni americane, ben lungi dalla cessazione o da un eventuale ammorbidimento, hanno quindi graziato il gigante dell’alluminio RusAl, secondo produttore al mondo, e le compagnie energetiche EuroSibEnergo ed En+– tutte accomunate, sino al 2018, dal controllo diretto del magnate russo Oleg Deripaska, una figura in controluce che pare essere coinvolta nello scandalo del Russiagate.

Chi è Oleg Deripaska?

Arricchitosi a tempo di record negli anni ’90, nell’epoca sregolata delle privatizzazioni, grazie a incredibili movimenti speculativi nel mercato delle risorse minerali, Deripaska ha poi fondato il gruppo industriale Basic Element, instaurando rapporti preferenziali con l’establishment politico-industriale moscovita. Nel 2004, il magnate è stato cooptato all’interno del Consiglio consultivo per il business e la cooperazione economica Asia-Pacifico (ABAC) tramite nomina presidenziale. Dal 2007 è inoltre vicepresidente dell’Unione russa degli industriali e imprenditori – equivalente della nostra Confindustria – nonché presidente della Camera internazionale del commercio e di svariate altre agenzie governative.

Incredibilmente danneggiato dalla crisi del 2007-08 e dalle sanzioni americane del 2014, che hanno più che dimezzato il suo enorme patrimonio finanziario, l’oligarca russo-cipriota aveva già avuto problemi con le autorità statunitensi. Accusato di essere coinvolto nei traffici criminali delle “Guerre dell’Alluminio” negli Anni ’90, gli fu negato il visto statunitense già nel 1998. Nonostante le nette smentite da parte del suo entourage, Deripaska non fu in grado di recarsi regolarmente negli Stati Uniti fino al 2009, quando l’avvocato e lobbista statunitense Adam Waldman, pagato oltre 40mila dollari al mese dall’oligarca per assisterlo legalmente nella procedura di ottenimento di visti e permessi commerciali, riuscì a persuadere le autorità competenti.

Come se ciò non fosse bastato a gettare ombra sulla sua figura, nel 2016 l’oligarca è finito nell’occhio del ciclone. Tacciato da Aleksej Navalnyj di aver corrotto il vice-primo ministro russo Sergej Prichodko, paparazzato sullo yacht di Deripaska a discutere delle incombenti elezioni americane, il magnate è stato sottoposto al regime sanzionatorio di Washington. Secondo il rapporto Horowitz, l’oligarca sarebbe infatti uno dei principali indiziati nello scandalo Russiagate.

Le ombre dello scandalo Russiagate

Nello specifico, il nome di Oleg Deripaska è stato ripetutamente collegato a quello di Paul Manafort, responsabile della campagna elettorale di Donald Trump nel 2016 e già collaboratore del tycoon in Ucraina tra il 2005 e il 2009. Secondo i documenti del dossier incriminato, Manafort, oggi in carcere per frode fiscale e intralcio all’inchiesta giudiziaria del procuratore generale Robert Mueller, avrebbe ricevuto 10 milioni di dollari da un fondo d’investimento dell’oligarca vicino al Cremlino.

A seguito di tutto ciò, Deripaska era infine stato “costretto”, lo scorso aprile, a dimettersi dal CdA di En+ e ridurre le sue quote di partecipazione azionaria in RusAl dal 70% a poco meno del 45%. Il temporaneo passo indietro del magnate della città di Dzeržinsk, almeno per il momento, ha permesso al colosso nato dall’entente con Roman Abrahamovič di sopravvivere a un periodo di gravi ristrettezze di bilancio.

A quanto pare, però, i capitali personali di Deripaska, ritenuto coinvolto “nelle attività nocive del Cremlino e nel tentativo di sovvertire la democrazia occidentale”, rimarranno tuttavia bersaglio delle sanzioni statunitensi, imposte lo scorso aprile a 23 imprenditori russi accusati di “minacciare la vita dei rivali in business, avere intercettato illegalmente un funzionario governativo, e aver partecipato in episodi di estorsione e racket”.

In aggiunta, i deputati democratici avversi all’iniziativa presidenziale hanno ritenuto insufficienti le misure imposte a Deripaska per aggirare le sanzioni, meri pro forma incapaci di modificare sostanzialmente gli assetti societari delle tre compagnie. Come sottolineato dai deputati dell’opposizione, infatti, il magnate russo sarebbe ancora in controllo indiretto della maggioranza assoluta degli stock azionari grazie alle quote affidate all’ex moglie Polina e all’ex suocero Valentin Jumašev, direttore dell’amministrazione presidenziale all’epoca di Boris Eltsin.

Un tentativo di aggirare le sanzioni?

La revoca delle sanzioni ai tre colossi industriali russi, pur non modificando sostanzialmente la linea d’azione statunitense verso la Russia, rinforza dunque i sospetti sul legame – più o meno evidente – instaurato dal Cremlino con numerose forze politiche, tra le quali figurano numerosi partiti europei e la cosiddetta “internazionale sovranista” di Donald Trump e Mike Pence.

Come affermato dal procuratore generale Rober Mueller, a capo dell’indagine speciale sullo scandalo Russia-Gate, gli esiti del rapporto finale “non concludono che il presidente abbia commesso un crimine, né, tuttavia, lo esonera”. Pertanto, la contro-inchiesta che prenderà piede nei prossimi mesi, insieme a quanto prospettato dallo stesso Mueller – ossia che Trump possa essere incriminato allo scadere del mandato – lascia intuire che in un futuro non troppo prossimo venga gettata nuova luce sulla vicenda.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 14, 2020, 00:48:36 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Azerbaijan/Elezioni-in-Azerbaijan-trucchi-e-magie-del-regime-199570

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Elezioni in Azerbaijan, trucchi e magie del regime

Le elezioni politiche tenutesi lo scorso 9 febbraio in Azerbaijan non possono che far pensare a trucchi e magie, purtroppo però non si è trattato né di un film fantasy né di uno spettacolo di prestidigitazione, bensì dell'ennesima dimostrazione di autoritarismo in stile Aliyev

12/02/2020 -  Arzu Geybullayeva
La magia è ciò che viene in mente quando si cercano le parole giuste per descrivere le elezioni anticipate di domenica 9 febbraio in Azerbaijan. Immaginiamo un bambino che cerca di fare colpo sugli spettatori con un nuovo trucco. Ora pensiamo ad un'urna che viene svuotata sul tavolo di un seggio. Il bambino attira la tua attenzione mormorando le parole magiche, "Abracadabra", "Hocus Pocus" o "Bibbidi-bobbidi-bu!" e, all'improvviso, qualcosa appare in superficie. Ora torniamo a quel tavolo e alle schede che determineranno i 125 membri del prossimo parlamento. E lì, in pochi secondi, compaiono da sotto il tavolo nuove schede che si mescolano rapidamente alla pila appena uscita dall'urna. E questa volta, invece di battere le mani e fare una standing ovation per il piccolo trucco a cui abbiamo appena assistito, ci mettiamo le mani nei capelli, ci mangiamo le unghie e urliamo increduli perché proprio lì, davanti ai nostri occhi, è appena avvenuta una frode elettorale.

Questione di punti di vista
Così alcuni osservatori e candidati indipendenti in corsa per il Parlamento si sono sentiti mentre assistevano alle ennesime elezioni truccate. Così, il 9 febbraio, adulti che fanno gli insegnanti e i presidi hanno preso il posto dei bambini, fingendo di fare una magia, ma non era una magia.

Bisogna riconoscere l'intraprendenza delle autorità. Il presidente Aliyev e la Commissione elettorale centrale (CEC) hanno dimostrato di avere molti altri assi  nella manica. Ambulanze che trasportavano elettori da un collegio all'altro, membri dei Comitati elettorali che tentano di soffocare un osservatore indipendente, balli nei seggi al suono di tamburi, funzionari elettorali scomparsi  con le schede verso destinazioni ignote, elettori risorti che i familiari giuravano  di aver seppellito personalmente mentre il personale del seggio si rifiutava di accettarne la perdita, schede depositate anche dopo la chiusura ufficiale delle votazioni, telecamere ai seggi coperte con documenti o nastro adesivo e via così.

Ma torniamo un attimo indietro.

Il 28 novembre, alcuni parlamentari azerbaijani avevano chiesto al presidente Aliyev di sciogliere le camere in quanto non in grado di attuare pienamente le riforme previste. Una settimana dopo il presidente, con la benedizione della Corte costituzionale, aveva firmato un decreto che liberava i legislatori dalle loro funzioni. Le elezioni, originariamente previste per novembre 2020, erano state anticipate al 9 febbraio.

I 125 parlamentari sono eletti da collegi elettorali a mandato unico per un periodo di cinque anni. Il 9 febbraio non è stato possibile organizzare le elezioni in un totale di 10 collegi elettorali, territori attualmente occupati a causa del conflitto in corso con l'Armenia. Circa 5,2 milioni di elettori sono stati registrati per votare (anche se i cittadini in età da voto secondo il Comitato statistico statale sono circa 2 milioni in più). Le elezioni sono gestite dalla Commissione elettorale centrale (CEC), 125 Commissioni elettorali locali (ConEC) e 5.573 Commissioni elettorali di seggio (PEC).

In totale, all'inizio della campagna sono stati registrati 1.637 candidati. Tuttavia, 313 si sono ritirati. Tra questi c'è chi ha giustificato la scelta affermndo di sostenere altri candidati, chi ha rifiutato di commentare e chi ha dichiarato di essere stati spinti dalle autorità locali a ritirarsi, il che è in contrasto  con il paragrafo 7.7 del Documento OSCE di Copenaghen del 1990 e la giurisprudenza della Corte EDU.

L'ex parlamento era composto prevalentemente da membri del partito al potere (65 seggi), ma ciò non significa necessariamente che il resto dei parlamentari rappresentasse opinioni alternative. 12 membri dell'opposizione sostenevano il partito di maggioranza, mentre 38 parlamentari indipendenti in genere votavano in linea con il governo. 99 dei parlamentari uscenti hanno votato a favore della mozione di scioglimento delle camere. 80 ex parlamentari hanno chiesto la rielezione e, al 10 febbraio, la CEC ha confermato che 79, che avevano dichiarato di non essere in grado di attuare il pacchetto di riforme, sono tornati in parlamento.

Il rappresentante del partito di governo Mubariz Gurbanli ha affermato  che si è trattato comunque di un restyling. "Fare elezioni parlamentari e rinnovare il parlamento non significa che tutti i parlamentari saranno sostituiti [da nuove persone]. Questo non può succedere. Il rinnovamento significa nuove persone, nuove forze. Sono fiducioso che il rinnovamento, il cambiamento delle persone, si farà vedere. E il parlamento lavorerà più velocemente ora per attuare le riforme”. Gurbanli non è riuscito a spiegare come questa velocizzazione si manifesterà esattamente, quando gli stessi parlamentari che hanno chiesto di essere licenziati sono tornati. Ha anche respinto le segnalazioni di violazioni e brogli elettorali definendole come nient'altro che un tentativo di offuscare l'immagine del paese.

Una delle prime violazioni del codice elettorale è stata segnalata da osservatori indipendenti che hanno riferito la mancanza di trasparenza delle urne. Il direttore della CEC Mazahir Panahov ha negato, affermando che le urne erano trasparenti come prescrive la legge e, se qualcuno ha visto diversamente, è a causa del suo punto di vista.

Osservatori internazionali
Nel frattempo, la missione di osservazione internazionale che ha coinvolto l'Ufficio OSCE per le istituzioni democratiche e i diritti umani (ODIHR), l'Assemblea parlamentare dell'OSCE (OSCE PA) e l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa (PACE) ha espresso un'opinione diversa. Nel report  preliminare, la missione ha concluso che:

la restrittività di legislazione e ambiente politico ha impedito un'autentica concorrenza;
la campagna è stata fondamentalmente inesistente a causa di un ambiente politicamente controllato;
agli elettori non è stata fornita una scelta significativa a causa della mancanza di una vera discussione politica;
i media mainstream non hanno informato correttamente gli elettori sui candidati e le loro piattaforme e non hanno coperto gli eventi della campagna, mentre il presidente ha ricevuto ampia copertura;
la copertura delle notizie relative alle elezioni è stata ridotta alle notizie sulle attività della CEC;
la campagna era priva di coinvolgimento politico, essenziale per una vera competizione;
il voto è stato valutato negativamente nel 7% dei seggi elettorali osservati, mentre il conteggio è stato valutato negativamente in 66 su 113 osservazioni;
l'inchiostrazione obbligatoria degli elettori è stata spesso omessa e gli osservatori hanno riferito casi di riempimento delle urne e votazione di gruppo;
le PEC spesso hanno omesso i controlli incrociati numerici, non contavano le firme negli elenchi degli elettori e non registravano i dati prima dell'apertura delle urne;
la tabulazione è stata valutata negativamente in 22 delle 109 ConEC osservate, principalmente a causa della scarsa organizzazione del processo e della mancanza di comprensione delle procedure da parte dei membri delle ConEC.
Durante una conferenza stampa del 10 febbraio, la missione di osservazione internazionale ha anche sottolineato che lo spazio per le donne era limitato, in quanto non solo sono sottorappresentate nella vita pubblica e politica, ma non esistevano requisiti legali per promuovere le donne candidate. Un giornalista di un quotidiano pro-governativo Xalq [Gente], apparentemente insoddisfatto della conclusione, ha ricordato che l'Azerbaijan è stato il primo paese a dare il diritto di voto alle donne. Questo è un dato di fatto, di cui le donne azere sono orgogliose, ma non spiega perché non vi siano condizioni giuridiche pertinenti che incoraggino una più attiva partecipazione politica o la bassa posizione dell'Azerbaijan quando si tratta di combattere la violenza domestica e promuovere la parità di genere.

Un altro giornalista della stessa testata ha contestato la valutazione della legge elettorale da parte della missione, rilevando che tutte le modifiche alla legge elettorale esistente sono state apportate in conformità con le raccomandazioni delle organizzazioni presenti in sala e della Commissione di Venezia. Pertanto, le loro critiche alla legge esistente dovrebbero essere auto-critiche, poiché il codice si basa sulle loro raccomandazioni. E ancora una volta, se è vero che la legge elettorale dell'Azerbaijan è stato rivisto, nessuna delle revisioni ha seguito le raccomandazioni di lunga data dell'ODIHR e della Commissione di Venezia relative alle libertà di riunione ed espressione, indipendenza e imparzialità dell'amministrazione elettorale, finanziamento della campagna, ambiente mediatico e registrazione dei candidati.

Gli indipendenti
Eppure, nonostante le violazioni ampiamente segnalate, alcuni candidati non rimpiangono di aver partecipato. Turgut Gambar, candidato indipendente del blocco politico "Movimento", ha affermato che, sebbene il voto e la tabulazione dimostrino che le autorità non avevano alcuna reale intenzione di cambiamento o riforma, partecipare era comunque la decisione giusta. “Come sempre hanno condotto un'elezione falsa. Hanno nominato più o meno le stesse persone [...] Sono certo che, piuttosto che non fare nulla, partecipare e usare questa piccola finestra di opportunità sia stata la decisione giusta”.

Allo stesso modo Samad Rahimli, avvocato per i diritti umani e candidato indipendente dello stesso blocco, ha dichiarato: “La decisione di candidarsi in queste elezioni è stata un passo giusto. Anche se sapevamo che sarebbe stata una frode. È stato importante partecipare e continueremo a partecipare anche alle prossime elezioni. Perché non tutti i cambiamenti politici avvengono dall'oggi al domani”.

Altri sono più pessimisti. Commentando le elezioni, il veterano osservatore politico Altay Goyushev el ha interpretate come il segno di una catastrofe. “Chi pagherà per questo? Coloro che hanno falsificato queste elezioni. Ho osservato un generale degrado intellettuale, culturale, estetico e di altro genere nella nostra comunità. Questo sistema di gestione individualistico, in stile KGB, non avrebbe mai portato illuminazione alle persone. Perché, in fondo, stava invece conducendo una politica di degenerazione collettiva. E i risultati sono davanti a noi. Persino gli insegnanti sono diventati una categoria degenerata”.

Per il presidente Ilham Aliyev, queste sono state elezioni di successo  che hanno espresso la volontà della gente. Ma è piuttosto difficile capire a chi si riferisca il presidente quando la metà degli elettori non si è presentata alle urne, e anche laddove c'è stata affluenza c'era una discrepanza nel numero di elettori registrati. In oltre la metà dei collegi elettorali, tale indicatore si è discostato dalla media in misura maggiore a quella consentita dalla legge, minando concretamente la correttezza del voto. O forse il presidente alludeva agli abili addetti al riempimento delle urne e ai partecipanti al voto a carosello. Potrebbe anche aver fatto riferimento ai membri delle Commissioni elettorali locali, che si sono prodigati per impedire a osservatori e giornalisti di svolgere il proprio lavoro, a volte persino facendo pratica di wrestling. In tal caso, queste persone hanno certamente espresso la propria volontà. Per tutti gli altri, compresi molti candidati indipendenti e aspiranti a riforme democratiche, le elezioni del 9 febbraio hanno schiacciato l'ennesima speranza con quello che è sembrato un trucco di magia a buon mercato.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 03, 2020, 18:27:59 pm
Dice l'italiano medio, notoriamente esterofilo, disfattista e autorazzista:
"Certe cose succedono solo in Italia!"
Ah no, cazzo, siamo in Bosnia!
...

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Bosnia-Erzegovina-tanto-rumore-per-un-virus-che-ancora-non-c-e-199884

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Bosnia Erzegovina: tanto rumore per un virus che ancora non c'è

Preoccupazione in Bosnia Erzegovina per la diffusione del coronavirus, anche se in questo momento non ci sono ancora stati casi di contagio. I media non parlano d'altro, le persone vanno nel panico e spuntano commenti razzisti nei confronti dei cinesi

03/03/2020 -  Ahmed Burić
Sull’onda della preoccupazione diffusasi negli ultimi giorni nell’intera regione, compresa la Bosnia Erzegovina, a causa del coronavirus, a Sarajevo è scoppiato il panico: le scorte di disinfettanti nelle farmacie e nei negozi di prodotti igienico-sanitari sono state subito esaurite; per le strade si notava una frenesia insolita per la quotidianità sarajevese, mentre i prezzi di alcuni prodotti per la pulizia e integratori per le difese immunitarie sono aumentati del 300%.


Di solito, quando cresce la domanda di un bene aumenta anche l’offerta, e il prezzo del bene diminuisce. Ma in Bosnia Erzegovina nemmeno la legge della domanda e dell’offerta sembra funzionare.

Quando ho visto il mio medico specialista in malattie respiratorie e allergiche che, col viso nascosto dietro la mascherina, non voleva nemmeno stringermi la mano – mi ha solo fatto la ricetta, dicendomi di tornare tra dieci giorni per un controllo e non vedeva l’ora che me andassi – , ho capito che la situazione era seria. Ma in Bosnia Erzegovina la gente scherza su tutto. Di tutte le barzellette sul coronavirus che ho sentito in questi giorni la migliore è quella in cui Fata (la mitica protagonista delle barzellette bosniache, come Sara della mitologia ebraica) dice a Mujo (l’equivalente di Mosho degli aneddoti ebraici): “Mujo, spargiamo la voce che abbiamo contratto quel virus“. “Ma sei normale? Perché dovremmo farlo se tutti scappano da questa cosa?“, chiede sorpreso Mujo. “Non andiamo mai da nessuna parte. Così almeno la gente penserà che siamo stati in Italia“.


Il panico è stato ulteriormente alimentato dalle speculazioni secondo cui da qualche parte nella periferia di Sarajevo (nelle “notizie“ di questo tipo non viene mai precisato il luogo dell’evento) alcuni cinesi sarebbero stati “trovati morti“ e dalle affermazioni del tipo: “Su di noi si abbattono tutte le sventure“. È intervenuta anche una farmacista che, all’affermazione di un cliente secondo cui “quei cinesi vengono da noi, ma non spendono niente“, ha replicato: “È vero, non ci faranno stare meglio. Possono solo farci stare peggio“.

Queste osservazioni razziste mi hanno fatto tornare in mente un episodio accaduto 15 anni fa. Stavo viaggiando in treno dalla stazione di Parigi Gare de Lyon a Trieste, poi da lì dovevo proseguire verso l’Istria, dove ero atteso per un seminario di letteratura. Non c’erano voli disponibili, o i voli last minute costavano troppo – non mi ricordo più – , e avevo deciso di viaggiare con il mio mezzo di trasposto preferito: il treno, per l’appunto. La cuccetta, la comodità... Ma appena il treno è partito ho avvertito un certo disagio. Il mio compagno di cuccetta era un cinese. All’epoca girava l’influenza suina e i cinesi anche allora, come oggi, erano additati come i principali responsabili dell’epidemia. A Parigi girava la voce che i cinesi non venissero sepolti nei cimiteri e che prendessero i documenti di identità dei loro parenti defunti. I media avevano riportato la notizia secondo cui in Francia sarebbe stato rintracciato un cinese che – secondo i documenti di identità di cui era in possesso – risultava avere 130 anni. Qualcuno dalla questura avrebbe automaticamente rinnovato il suo permesso senza verificare l’autenticità dei suoi documenti di identità. Si trattava perlopiù di dicerie, ma bisognava riempire le pagine dei giornali e dei neonati portali web.

Mi ero subito reso conto che quel cinese con cui condividevo la cuccetta era più spaventato di me: per tutto il tempo del viaggio aveva il viso coperto da una mascherina, che gli arrivava fino agli occhi, mentre io facevo rumore sfogliando il giornale, accendevo e spegnevo la luce in continuazione, dimostrando, come al solito, un nervosismo esagerato rispetto alla situazione. Avevamo passato due controlli di sicurezza in Francia, il cinese si era rimpicciolito dalla paura; poi a Brescia lo avevano fatto scendere dal treno. Alla fine ero dispiaciuto per lui. Non ero riuscito a scoprire che cosa gli fosse successo, ma probabilmente lo avevano sottoposto a diversi esami, forse lo avevano anche messo in quarantena, o persino deportato. Mi sentivo ingannato, raggirato. Esattamente come oggi si sente la maggior parte dell’opinione pubblica bombardata dalle notizie sul coronavirus.

Oggi, vista la gravità della situazione, quel povero cinese sicuramente se la passerebbe peggio. Dopo le prime convulse notizie sulla diffusione del virus e i tentativi di scoprire se tutti i nostri amici in Italia stanno bene, abbiamo appreso, dai dati diffusi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che l’epidemia non è poi così grave, sicuramente meno grave del panico, e che i danni causati dai media sono irreparabili.

Senza voler sminuire le argomentazioni espresse dai medici né tanto meno la preoccupazione della popolazione, mi sembra un po’ strano che l’intero mondo sia in preda al panico a causa di una malattia che, secondo i dati ufficiali, finora ha colpito 79.300 persone, un numero che corrisponde allo 0,7% della popolazione della città di Wuhan dalla quale è partita l’epidemia. Secondo i dati dell’OMS, il tasso di letalità del coronavirus è del 14,8% tra gli over 80, mentre nella fascia tra 50 e 60 anni scende all’1,3% e nella fascia tra 10 e 39 anni allo 0,2%.

Al momento in Bosnia Erzegovina non c’è nessun caso confermato di contagio da coronavirus. Ma non ci sono nemmeno strutture adeguate per l’isolamento di eventuali pazienti infettati. Intanto, i media non parlano d’altro. Secondo le statistiche, le probabilità che una persona di 45 anni muoia per l’infezione dal coronavirus sono dello 0,28%. Ma nessuno parla di questi numeri. Ci si sforza di riempire le pagine dei giornali e portali web di notizie sul virus e, a quanto pare, di affermazioni ostili nei confronti dei cinesi, per incutere timore nei cittadini. Come se i popoli della Bosnia Erzegovina non si odiassero già abbastanza.

Ma forse il vero motivo dietro tutta questa paura risiede nel fatto che negli ultimi giorni le borse mondiali hanno registrato le più grandi perdite dopo la crisi del 2008?
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Marzo 03, 2020, 22:41:58 pm
Queste cose però i media non le dicono
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 04, 2020, 00:39:31 am
Queste cose però i media non le dicono

Lo dice l'italiano medio.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Marzo 04, 2020, 00:56:03 am
Che guarda la TV anche se sicuramente ci mette del suo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 04, 2020, 01:07:20 am
Che guarda la TV anche se sicuramente ci mette del suo.

L'italiano medio ci mette sempre del suo, oggi come ieri.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 01, 2020, 17:12:56 pm
Dice l'italiano medio:
"Certe cose succedono solo in Italia!"
Ah no, cazzo, siamo in Romania...

https://www.eastjournal.net/archives/104975

Citazione
ROMANIA: Economia e ambiente, un binomio possibile?
Rebecca Grossi 4 ore ago

La Romania è uno dei paesi più ricchi in termini boschivi di tutta Europa. Purtroppo le sue fittissime foreste rese celebri dalla penna di Bram Stoker in Dracula potrebbero presto rimanere solo un ricordo; da anni infatti risentono di una massiccia opera di deforestazione.

Seppure in forte espansione, proprio per l’abbondanza di materia prima, l’industria del legno è un settore con forti criticità, in primis il problema dell’illegalità. Lo sfruttamento illecito delle foreste è però un business difficile da interrompere: è infatti molto redditizio – vale circa un miliardo di euro all’anno –, con un traffico abusivo quasi equivalente ai quantitativi commerciati regolarmente. Secondo i dati dell’inventario forestale nazionale, che tuttavia potrebbero sottostimarne il volume, vengono infatti tagliati ogni anno 38.6 milioni di metri cubi di legno. Di questi solamente la metà, 18.5 milioni, rappresentano materiale proveniente da attività autorizzata, e quindi tassabile.

Il grande giro di affari intorno al disboscamento illegale è spiegato dal fatto che la sola attività legale non sempre garantisce di ottenere abbastanza guadagni. Le numerose piccole imprese che compongono il settore, più soggette a difficoltà economiche e finanziarie, sono così indotte a ricorrere ad operazioni al limite della legge per riuscire a mantenere a galla l’attività.

Come per altre, anche la questione della deforestazione si lega a doppio filo con il problema della corruzione; dagli addetti fino alle autorità locali e al personale forestale, sono molte le parti coinvolte nella cosiddetta “mafia del legno” (mafia lemnului). La stessa Romsilva, l’azienda pubblica che si occupa della protezione, preservazione e sviluppo delle foreste, che gestisce circa metà di tutti boschi del paese, è accusata di compartecipazione e complicità nella deforestazione illegale.

Amicizie, scambi di favore e interessi economici e politici si intrecciano saldamente; chi prova a denunciare subisce minacce e a volte anche violenza fisica (diverse le guardie forestali uccise). Si preferisce allora tacere per non esporsi e per evitare ritorsioni. Anche chi non vi è attivamente coinvolto diventa così parte del sistema corrotto.

Il legno illegale arriva anche sui mercati europei. Molti sono infatti gli investitori stranieri, attratti dal basso costo e dalla facile reperibilità della materia prima, anche essi più o meno inconsapevoli complici. La presenza di attori internazionali aggiunge un ulteriore grado di difficoltà nella lotta al commercio illecito.


Mancano da parte delle autorità centrali misure adeguate per regolamentare l’industria del legno e sanzionarne i casi di illegalità. Una proposta del 2016 – cui tuttavia non venne mai dato seguito – prevedeva la creazione di un sistema per tracciare la provenienza dei tronchi, con l’obiettivo di stanarne il trasporto clandestino e fermare gli abbattimenti non autorizzati.

L’aria (politica) di Bucarest

La deforestazione è solo uno dei problemi ambientali. Circa un mese fa un grave incidente legato all’inquinamento atmosferico ha scatenato nuovi scontri e dissapori a Bucarest fra il sindaco Gabriela Firea del PSD, e il ministro dell’ambiente Costel Alexe del PNL.

Il fatto risale alla notte fra l’uno e il due marzo 2020, quando le stazioni di monitoraggio dell’aria cittadine hanno registrato una concentrazione pericolosamente alta di inquinanti, pari ai livelli riscontrati in Australia durante gli incendi di questo gennaio.

La questione ha scatenato una serrata polemica, con reciproche accuse fra le parti coinvolte, ed è divenuto l’ennesimo terreno di scontro nel più ampio contesto di propaganda pre-elettorale per l’elezione del sindaco (programmata per l’estate, ma ora rinviata a causa dell’emergenza sanitaria legata al Coronavirus).

Nella disputa, il ministro Alexe avrebbe additato come primo responsabile per i problemi ambientali della capitale il sindaco Firea. Nonostante le annunciate intenzioni di ridurre l’inquinamento, il primo cittadino non avrebbe implementato le misure inserite nel Plan Integrat de Calitate a Aerului, l’ampio progetto volto a riqualificare la qualità dell’aria a Bucarest, redatto dalla municipalità l’autunno scorso.

Emblematico il caso della cosiddetta taxa Oxigen, la tassa sull’ossigeno. Vera misura di punta del Plan Integrat, prevedeva il pagamento di una eco vignetta e di una tassa di circolazione per le auto più inquinanti (dalle Euro1 alle Euro4). Entrata in vigore in gennaio, già in febbraio era stata abolita in vista delle elezioni, dopo un sondaggio sui social per testarne il grado di condivisione fra i cittadini ne avrebbe rilevato l’ovvia impopolarità.

In risposta alle accuse ricevute, Firea avrebbe addirittura richiesto un’analisi degli avvenimenti da parte del CSAT (Consiglio Supremo di Difesa Nazionale), sottolineando inoltre la ridotta capacità della municipalità nella lotta all’inquinamento in mancanza di concrete azioni di supporto all’ambiente da parte del governo.

Ciononostante, la Guardia Nazionale Ambientale – ente sotto controllo governativo – ha sanzionato il municipio di Bucarest con una multa di 75 000 lei (circa 15 000 euro) per la mancata implementazione del Plan Integrat.

Il problema dell’inquinamento si trascina in realtà da tempo. Negli ultimi mesi i limiti imposti per legge di polveri sottili sono stati sempre più frequentemente superati, con infrazioni in alcuni casi anche dieci volte superiori rispetto alla soglia consentita.

Negli ambienti urbani, le polveri sottili derivano in massima parte dal traffico stradale. Ed è proprio l’intenso congestionamento uno dei fattori che più contribuiscono all’inquinamento: si stima che siano circa 2 milioni le auto che circolano ogni giorno all’interno della città.

Reti urbane di trasporto pubblico poco sviluppate e infrastrutture di collegamento fra le varie città del paese ancora spesso insufficienti sono alla base della radicata abitudine di ricorrere a mezzi propri per spostarsi.

E per finire…

È tuttavia opportuno tenere presente che il problema dell’ecologia in Romania è complesso e non si può ridurre a presunta inconsapevolezza, disinteresse o altre spiegazioni semplicistiche e superficiali. Si intreccia piuttosto ad altri aspetti critici della storia e del contesto sociale, economico e politico caratteristici del paese.


Allineare la crescita economica con la sostenibilità ambientale è ancora difficile. I guadagni da attività illecite allettano molto; la corruzione è dilagante e rimane uno dei più gravi problemi del paese. Le reazioni a livello istituzionale, sia locale che nazionale, sono deboli e inadeguate a fronteggiare con fermezza i problemi ambientali: non solo il substrato di criminalità, ma anche il bisogno di rinnovamento infrastrutturale e di investimenti. Per ultimo, una politica da troppo tempo frammentata e instabile.

Dopo alcuni richiami già avanzati dall’Unione Europea lo scorso anno, in febbraio la Commissione ha inviato una nuova lettera di avviso alla Romania per sollecitare urgenti misure contro la deforestazione e l’inquinamento atmosferico – pena l’applicazione di sanzioni.

Nelle ultime settimane, la concentrazione di inquinanti nell’aria di Bucarest è molto diminuita, effetto delle misure di isolamento adottate per contenere la diffusione del Coronavirus. Una volta passata l’emergenza la situazione tornerà probabilmente come prima, ma almeno per il momento la capitale rumena respira.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 04, 2020, 20:27:44 pm
Non c'entra nulla con i paesi dell'est, bensì con l'italiano medio, perciò mi tocca riportarlo...

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/05/04/coronavirus-in-spagna-e-germania-rallentano-i-contagi-trump-forse-in-usa-100mila-morti-vaccino-entro-fine-anno-rinviato-al-2021-expo-di-dubai-in-brasile-oltre-7mila-decessi/5790394/

Citazione
Enrico Di Bartolomei
↪ daco749
4 ore fa
-
Non hanno capito che solo in italia ci beviamo tutto quello che dicono i media.

... "solo in italia"... tra l'altro il coglione ha scritto Italia con la i minuscola...
Son sicuro che non scriverebbe mai Irlanda o Inghilterra con la i minuscola, perché l'italiano medio, specie se di sesso maschile, è fatto così.

Dal 2014 ad oggi l'ho scritto innumerevoli volte e torno a ripeterlo: in Europa, sia dell'ovest che dell'est, non esiste un popolo più esterofilo, disfattista e autorazzista di quello italiano.
Un popolo lagnoso, complessato e quotidianamente impegnato a prendersi a martellate sui genitali, convinto com'è che l'erba del vicino sia sempre più verde.
Nei fatti un popolo irrecuperabile.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Maggio 04, 2020, 20:41:53 pm
Nei fatti un popolo irrecuperabile.
Lo vedremo dal fatto che sarà rimpiazzato o meno da altri.
Blondet dice che gli italiani non si ribellano, e saranno lieti di ricorrere in massa all'eutanasia gentilmente organzizata dal potere.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 04, 2020, 20:58:50 pm
Lo vedremo dal fatto che sarà rimpiazzato o meno da altri.
Blondet dice che gli italiani non si ribellano, e saranno lieti di ricorrere in massa all'eutanasia gentilmente organzizata dal potere.

In passato ho avuto modo di conoscere molti albanesi e romeni, nel periodo in cui i loro paesi erano nella merda più totale, (non che oggi siano gli USA degli anni cinquanta, ma di certo se la passano meglio di allora) ma nonostante provenissero da una ex dittatura comunista e da situazioni di estrema povertà, non ne ricordo nemmeno uno che abbia mai usato il linguaggio disfattista e sprezzante tipico dell' italiano medio.
Quello che mi ha sempre colpito di quei popoli - in particolar modo quello albanese - è l'orgoglio e il senso di appartenenza alla propria terra.
Per dire: è impossibile sentirne uno parlar male del proprio paese in pubblico e in presenza di italiani, mentre quest' ultimi son sempre in prima fila quando c'è da autoflagellarsi in presenza di stranieri, i quali, poi, si sentono autorizzati a farci la morale (anche sul web).
In sostanza gli italiani sono il cavallo di troia degli stranieri.*

Poi vabbe', i suddetti immigrati dell'est mi han fatto girare i coglioni spesso e volentieri per altri motivi, ma questa è un' altra storia.

@@

* Per dire: è quasi impossibile ascoltare un italiano che parla delle magagne degli altri paesi, convinti come sono di essere il peggior popolo e il peggior Paese del mondo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Maggio 04, 2020, 21:08:47 pm
Unica nota positiva è che quelli dell'Est sono pieni di complessi perché vengono da Paesi di m.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 04, 2020, 21:12:32 pm
Unica nota positiva è che quelli dell'Est sono pieni di complessi perché vengono da Paesi di m.

Sì, lo so bene.
Non a caso ho scritto poc'anzi...
"Poi vabbe', i suddetti immigrati dell'est mi han fatto girare i coglioni spesso e volentieri per altri motivi, ma questa è un' altra storia."
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Maggio 04, 2020, 21:32:53 pm
Tra l'altro le donne dell'Est sono molto difficili da gestire. Un mio conoscente rumeno con la moglie ha anche usato maniere spicce* ma non è servito a nulla.

* Solo per informazione
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Duca - Maggio 05, 2020, 22:46:04 pm
Anche tra le puttane le rumene sono le peggiori, arroganti, contaballe, non hanno voglia di lavorare e si credono tutte strafighe.

Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 10, 2020, 23:36:17 pm
... "solo in Italia accadono certe cose!"
Ah no, cazzo, siamo in Bosnia.
...

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Bosnia-Erzegovina-corona-festa-scandali-e-buone-pratiche-201738

Citazione
Bosnia Erzegovina: “corona-festa”, scandali e buone pratiche

Anche la Bosnia Erzegovina si avvia verso la fase 2. Il collasso della sanità è stato scongiurato ma nella gestione della crisi le due entità si sono comportate come stati sovrani. Non sono mancati gravi scandali e nemmeno le buone pratiche

08/05/2020 -  Alfredo Sasso
Anche in Bosnia Erzegovina è tempo di “fase due” dell’emergenza Covid. Si stanno adottando misure di alleggerimento del lockdown, pur con gradualità e con alcune differenze nelle due entità del paese, la Federazione di BiH e la Republika Srpska. Nella prima, già il 24 aprile è stata ripristinata la libertà di circolazione e dal 4 maggio sono stati riaperti diversi uffici ed esercizi commerciali, tra cui parrucchieri e estetisti; ristoranti e grandi centri commerciali potrebbero riprendere l’attività, pur con limitazioni, la prossima settimana. In Republika Srpska, che è stata colpita in modo più grave dalla pandemia, le riaperture avvengono invece in modo più dilazionato  tra questa settimana e la prossima.

Secondo i dati ufficiali  aggiornati al 7 maggio, i contagiati totali nel paese sono 2.027 (965 in FBiH, 1043 in Republika Srpska, 19 nel distretto di Brčko) e i decessi 90 (rispettivamente 34, 53 e 3). Nel complesso, se si guardano i numeri  di contagi e decessi in rapporto alla popolazione, non sono lontani da quelli della Croazia, da molti considerata come uno dei paesi più efficaci nella regione per la risposta all’emergenza, e sono inferiori di sei-sette volte rispetto a quelle dell’Italia. Per ora gli scenari catastrofici che erano stati evocati da alcuni esperti all’inizio dell’epidemia sono stati dunque scongiurati.

Nonostante i numeri relativamente contenuti dell’emergenza, l’attuale trend richiede comunque di non abbassare la guardia e mostra la presenza di situazioni molto diverse nel territorio. In Federazione di BiH il contagio appare rallentato, con due decessi negli ultimi quindici giorni, e alcuni cantoni (come quelli di Sarajevo e Tuzla) vicini o già stabilmente al contagio-zero. In Republika Srpska si è registrata invece una preoccupante accelerazione proprio in questa ultima settimana (il picco di contagi giornalieri, 69, è avvenuto il 3 maggio) concentrata soprattutto nel capoluogo Banja Luka. Come ha rilevato il magazine  Buka  , questo aumento ha generato molta frustrazione tra la popolazione della città, già duramente provata dal confinamento. In RS il lockdown è stato applicato più a lungo e con condizioni particolarmente restrittive, accompagnate da annunci precipitosi da parte delle autorità che hanno spesso disorientato i cittadini.

Ciò che ha contribuito a limitare il diffondersi del virus nel paese è stato il senso di responsabilità e di precauzione della popolazione, e la capacità di intervento di alcune strutture sanitarie. Questo è avvenuto nonostante la comprovata malagestione della politica e l’evidente assenza di coordinamento tra i livelli di governo del paese. “Un paese, tre lotte contro la pandemia”, come diceva un’espressione in voga tra i media  in questo periodo. Tutti i principali provvedimenti sono stati presi in totale autonomia dai governi delle entità, i quali poi a seconda della convenienza del momento hanno accusato gli altri di mancanza di collaborazione. Dalle modalità del confinamento agli ordini di materiale dall’estero, dai protocolli sanitari ai controlli delle frontiere, le due entità hanno gestito l’emergenza come stati sovrani separati, in una sorta di “Dayton-plus”.

Tra le vicende più discusse vi è stata quella del carico di 200.000 mascherine e 10.000 tute protettive donato dal governo dell’Ungheria. Inizialmente gli aiuti erano stati destinati alla sola RS, che ne aveva fatto esplicita richiesta a Budapest, approfittando anche della nota sinergia politica tra Viktor Orban e Milorad Dodik  ; ma dopo l’intervento di due ministri statali, quello della Sicurezza Fahrudin Radončić e quella degli Esteri Bisera Turković, che hanno invitato l’ambasciatore ungherese a “ripensare la decisione”, la fornitura è stata infine condivisa tra le due entità.

Respiratori e lamponi
Due grandi scandali stanno concentrando l’attenzione pubblica, gettando ombre inquietanti sulla responsabilità delle istituzioni durante l’emergenza. Il primo riguarda l’acquisto di cento respiratori provenienti dalla Cina, ordinato all’inizio di aprile dalla Protezione civile della Federazione di BiH, un’iniziativa che il governo dell’entità aveva annunciato al pubblico con grande enfasi. Il 27 aprile, un’inchiesta   lanciata dalla giornalista di Fokus.ba  Semira Degirmendžić, poi proseguita da altre testate, svelava una serie di anomalie nell’operazione. Primo: l’acquisto dei respiratori, per una cifra totale di oltre 5 milioni di euro, era avvenuto a prezzi tra le due e le sette volte superiori a quelli di mercato. Secondo: l’ordine era stato gestito da un'azienda agricola di Srebrenica specializzata nella produzione di lamponi, la “Srebrena Malina”, evidentemente priva di alcun legame con l’ambito sanitario e al momento dell’acquisto era priva della licenza necessaria per l’operazione, prima di ottenere una sospetta autorizzazione-lampo. Il titolare della “Srebrena Malina” è Fikret Hodžić, un ex-presentatore tv e scrittore, che fu già al centro di una vicenda molto discussa nel 2016  , quando promosse la commercializzazione di magliette riportanti i simboli del genocidio di Srebrenica.

Ora il caso dei respiratori-lamponi è sotto la lente della procura di Sarajevo e della SIPA, l’Agenzia statale per le indagini speciali, che indagano per riciclaggio e frode negli appalti pubblici. Al vaglio è quindi la posizione del capo della Protezione civile Fahrudin Solak, vicino all’SDA (il partito conservatore bosgnacco, principale forza di maggioranza nella Federazione), del quale parte dell’opposizione e dell’opinione pubblica chiede le dimissioni. Inoltre Solak ha scatenato le proteste   delle associazioni dei giornalisti  , che ne denunciano le gravi pressioni e i tentativi di influenzare la giustizia.

A Sarajevo, nel frattempo, l’asticella della dignità istituzionale era destinata ad abbassarsi ancora di più.

Corona-festa
La sera del 4 maggio, mentre restavano chiusi i luoghi di ritrovo, vietate le concentrazioni e obbligatorie le mascherine anche all’aperto, le pagine online dei media e dei social bosniaci venivano invase dalle foto e dai video di un locale affollato da volti noti, con canti, abbracci, tavole imbandite. Le immagini provenivano dal Golf Klub, un ristorante della Sarajevo facoltosa, e documentavano la presenza di esponenti della politica, dell’economia, dello spettacolo e della sanità a una festa organizzata da un illustre chirurgo della capitale: tra gli altri vi erano il ministro statale del Commercio estero Staša Košarac (poi dimessosi tre giorni dopo per il montare dello scandalo), i popolarissimi cantanti Halid Bešlić e Hadi Varešanović, e persino il dottor Nihad Fejzić, membro del comitato scientifico del Cantone di Sarajevo per l’emergenza Covid19. Quest’ultimo, incalzato al telefono dai giornalisti di Radio Sarajevo  proprio mentre si trovava ancora alla festa, rispondeva con una frase che è già diventata celebre: “Ecco, è arrivata la polizia, ora ci segnaleranno, pagheremo la multa, tutto qui”.

Subito ribattezzata “korona-dernek” (la Corona-festa), la vicenda ha generato un’ondata di indignazione profonda nell’opinione pubblica bosniaca. Molti hanno visto nella corona-festa l’esempio del privilegio, dell’impunità e dell’indifferenza verso il bene pubblico che riguarderebbe una parte significativa dell’élite del paese, del tutto trasversale alle affiliazioni partitiche, religiose ed etniche, come era evidente dai nomi dei partecipanti alla serata. In tempi di sospensione dell’ordinario e di incertezza sanitaria ed economica, non è solo la linea divisoria tra le due entità ad innalzarsi sempre di più. Cresce anche il confine tra i luoghi come il Golf Klub, con le loro leggi straordinarie e le convergenze di interessi e potere, e il resto dei cittadini che in larga parte si sono dimostrati responsabili, per coscienza e per paura che un sistema sanitario male organizzato e oggetto dell’incompetenza della politica non fosse in grado di curarli.


Buone pratiche
Questo panorama è desolante, ma sarebbe altrettanto sbagliato descrivere ciò che accade in Bosnia Erzegovina solo in termini di corruzione, malgoverno, passiva rassegnazione. Ci sono storie di buone pratiche, di attenzione al bene pubblico, di competenze e di proattività, anche se hanno più difficoltà ad emergere e a servire da esempio. Una di queste storie, ben raccontata  su Balkan Insight da Adnan Ćerimagić, è l'efficace gestione della pandemia di coronavirus nel Cantone di Tuzla. Qui le autorità sanitarie sono riuscite ad arrestare il contagio che si era diffuso inizialmente sino ad azzerare la crescita di casi (ormai fermi dal 12 aprile) grazie a test massivi, tracciamento delle infezioni e monitoraggio dei pazienti in isolamento, tutto gestito con un flusso di comunicazione costante e consapevole tra cittadini, personale, vertici istituzionali. Tanto il modello positivo della sanità di Tuzla come le inchieste dei giornalisti e gli effetti dell’indignazione per i recenti scandali mostrano esempi di reattività, sono piccole scorte di energia necessarie per quando, dopo la crisi sanitaria, la Bosnia Erzegovina ricadrà inevitabilmente in quella sociale ed economica, e i confini e le paure di sempre continueranno ad innalzarsi.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 10, 2020, 23:40:20 pm
https://www.eastjournal.net/archives/105239

Citazione
BULGARIA: Non è un paese per giornalisti
Giorgia Spadoni 4 giorni ago

Per il terzo anno consecutivo la Bulgaria si piazza al 111° posto nell’Indice mondiale della libertà di stampa, stilato dai giornalisti di Reporter senza frontiere (Reporters sans frontières, RSF) su un totale di 180 paesi. Occupando la posizione più bassa di tutta l’UE, la nazione balcanica è superata in negativo solo da Russia, Bielorussia e Turchia in tutto il continente europeo.

A circa un anno e mezzo dal terribile omicidio della reporter investigativa Viktoria Marinova, la libertà di stampa e d’informazione bulgara non dà segni di miglioramento. Il rapporto pubblicato dal Consiglio d’Europa a fine aprile evidenzia il progressivo deterioramento dell’ambiente mediatico del paese.

“La pecora nera dell’Unione europea”

Nel 2019 non si sono registrate vittime tra i giornalisti bulgari. Tuttavia, le pressioni che questi continuano a subire – specie le voci più critiche e autorevoli – sono sintomo dei metodi autoritari alla base del servizio pubblico.

La politica editoriale della Televisione nazionale bulgara (Bălgarska Natsionalna Televizija, BNT) ha assunto toni filogovernativi dopo la nomina del nuovo direttore generale. Il cambio di proprietario dei due colossi privati NOVA Broadcasting Group e BTV Media Group, ha costretto diversi professionisti di spicco al licenziamento.

“Corruzione e collusione tra media, politici e oligarchi sono ampiamente diffuse in Bulgaria”, denuncia RSF. Simbolo di questa deriva insalubre è Delyan Peevski, deputato e oligarca che formalmente possiede due quotidiani, ma in realtà controlla anche un canale televisivo, svariati siti di notizie e una fetta consistente della rete di distribuzione della stampa. Inoltre, il governo bulgaro continua a ripartire fondi europei e pubblici ai media senza alcuna trasparenza.

D’altro canto, la persecuzione giudiziaria delle testate indipendenti si fa sempre più intensa. Condurre inchieste di qualità in Bulgaria non è un’impresa ardua di per sé. La difficoltà per i giornalisti sta nel riuscire a farle pubblicare, attirare l’attenzione dei cittadini e suscitare in essi reazioni. Al contrario, il più delle volte i reporter si scontrano con muri di silenzio e la cecità delle autorità; pedinamenti, diffamazioni e minacce nei casi peggiori.

Tacchini o piccioni addomesticati?

Anche il 2020 non sembra procedere nel migliore dei modi per il giornalismo bulgaro. Il 4 febbraio scorso il presidente Rumen Radev ha revocato la fiducia al governo di Boyko Borisov, a seguito di vari scandali. Il pomeriggio dello stesso giorno il premier, andato a verificare l’andamento dei lavori al collegamento idrico volto ad alleviare la crisi di Pernik, ha trovato ad attenderlo un gruppo di giornalisti. Alle loro richieste di commentare l’intervento di Radev, Borisov ha risposto: “Eccovi qui che accorrete come dei tacchini”, con annessa imitazione del gloglottìo del pennuto in questione.

Proteste e indignazione non si sono fatte attendere, e dopo pochi minuti il primo ministro si è pubblicamente scusato, senza però smettere di fare il verso – letteralmente – ai reporter. La sezione bulgara dell’Associazione dei giornalisti europei (AEŽ) ha subito condannato l’accaduto in un severo comunicato, definendo “piccioni addomesticati” i professionisti asserviti al governo.

Nelle settimane successive si sono susseguiti nuovi attacchi denigratori alla categoria da parte di alti esponenti politici; lo scorso 17 marzo il giornalista investigativo Slavi Angelov è stato brutalmente aggredito sotto casa sua. Il 17 aprile i tre presunti esecutori materiali sono stati arrestati.

Pandemia e disinformazione

I primi quattro casi di Covid-19 in Bulgaria si registrano l’8 marzo. Dopo dodici giorni il parlamento vara finalmente un pacchetto di misure di emergenza, e l’ambiguità di alcune accende dibattiti e critiche, non solo nei cittadini. Lo stesso presidente Radev contesta aspramente la direttiva che avrebbe imposto dai tre ai cinque anni di carcere e una multa da 5.000 a 25.000 euro ai colpevoli di diffondere “informazioni false sulla diffusione delle epidemie”. Per giunta, la misura sarebbe dovuta rimanere in vigore oltre la durata della crisi sanitaria, favorendo un clima di autocensura e repressione.

Il 22 marzo Radev pone il veto su parte delle norme, scatenando l’ira di Borisov. Il veto viene comunque accolto da una maggioranza parlamentare schiacciante già il 23 marzo, al fine di evitare ulteriori ritardi alla messa in atto delle disposizioni.

RSF afferma che il prossimo decennio sarà decisivo per il futuro del mondo dell’informazione. Tra la repressione della libertà d’informazione e le misure governative contro la pandemia esiste un legame diretto, che aggrava le crisi mediatiche esistenti. E la minaccia incombe anche sull’Europa, la regione che finora ha dato la miglior prova in termini di libertà di espressione.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Maggio 10, 2020, 23:45:58 pm
La Bulgaria non è un Paese per nessuno! :lol:
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 12, 2020, 00:00:56 am
https://www.eastjournal.net/archives/105654

Citazione
BALCANI: Effetto COVID-19, economie in ginocchio
Marco Siragusa 31 minuti ago

Negli ultimi cinque anni, i Balcani Occidentali (Bosnia-Erzegovina, Serbia, Kosovo, Montenegro, Macedonia del Nord e Albania) hanno registrato una crescita annua del PIL di gran lunga superiore alla media europea. Lo scoppio della pandemia di Covid-19 rischia però di cancellare di colpo i progressi raggiunti aggravando ulteriormente i già fragili sistemi economici della regione.

Il rapporto della Banca Mondiale

Nel suo rapporto semestrale pubblicato ad inizio maggio, la Banca Mondiale ha ipotizzato due scenari per i Balcani Occidentali. Le ipotesi sono state elaborate in base ad una valutazione dei problemi strutturali dei singoli paesi, alla possibile durata dell’emergenza e delle misure economiche e sanitarie adottate dai governi.

Il report evidenzia sei punti deboli. Il primo, comune a tutti i paesi, riguarda il mercato del lavoro basato su contratti temporanei, bassi salari e ancora altamente informale. Il secondo problema è legato ai settori economici strategici. Montenegro, Albania e Kosovo risultano fortemente dipendenti dal settore turistico e dall’afflusso della diaspora, a fronte di una scarsissima capacità di esportazione di beni. La chiusura dei confini e le limitazioni ai viaggi rischiano di bloccare quasi del tutto i flussi turistici facendo così mancare entrate fondamentali per i bilanci statali. Dall’altro lato però, Macedonia del Nord, Serbia e Bosnia-Erzegovina, che possono contare su una maggiore esportazione di beni, rischiano di veder ridotta drasticamente la domanda proveniente dall’estero e soprattutto dall’Europa.

Gli altri punti deboli sono: lo scarso margine di manovra fiscale dovuto agli alti debiti pubblici e alle difficoltà di accesso al credito internazionale, ad eccezione di Kosovo e Bosnia sorretti dai finanziamenti delle istituzioni internazionali; limitate opzioni di politica monetaria; sistemi bancari deboli ed infine l’alta dipendenza dagli Investimenti Diretti Esteri (IDE), attesi anche questi in forte ribasso.

Le misure adottate

Le azioni intraprese dai governi hanno avuto un carattere “emergenziale”, essendo rivolti a limitare gli effetti economici della pandemia nel breve periodo. Tra le misure adottate rientrano i sussidi alle aziende per il pagamento dei salari dei lavoratori, il differimento delle scadenze fiscali e forme di sostegno al reddito per le fasce più povere. L’elevata informalità del mercato del lavoro impedisce però un adeguato accesso alle reti di sicurezza sociale per molti cittadini che restano così esclusi dagli aiuti. Le risorse messe sul piatto dai governi riguardano circa il 2% del PIL, con la sola Serbia che ha impegnato il 6,7% (circa 3,2 miliardi di euro) del proprio prodotto interno.

I due scenari

Il migliore dei due scenari ipotizzati prevede l’allentamento delle misure restrittive per la fine di giugno e una piena ripartenza nella seconda parte dell’anno. Secondo questa ipotesi, il calo medio del PIL dovrebbe attestarsi al 3,1%. Montenegro, Albania e Kosovo dovrebbero far registrare i cali più sostenuti, rispettivamente pari al 5,6%, al 5% e al 4,5%. Questo è dovuto a una riduzione media del 30% dei flussi turistici durante la stagione estiva. Il Kosovo dovrebbe inoltre registrare un crollo del 21,5% degli investimenti, sia pubblici che esteri. Serbia (-2,5%), Macedonia del Nord (-1,4%) e Bosnia-Erzegovina (-3,2%) verranno invece travolte da una riduzione delle esportazioni compresa tra il 6,5% e l’11,5%.

Senza titolo
Andamento del PIL per i Balcani Occidentali
Fonte: World Bank, Western Balkans Regular Economic Report, No.17, Spring 2020
Lo scenario peggiore considera un allentamento delle misure solo a fine agosto e una lenta ripresa a partire dall’ultimo trimestre dell’anno. In tale contesto la diminuzione del PIL complessivo dell’area sarebbe intorno al 5,7%, con il Kosovo che farebbe registrare addirittura un -11,3%. A soffrire maggiormente sarebbero le esportazioni di tutti i paesi con un calo compreso tra il 2,9% della Macedonia del Nord e il 30% dell’Albania.

E per il futuro?

Nonostante i dati, la Banca Mondiale non sembra tenere in considerazione lo scenario più preoccupante: quello di un ritorno della pandemia. Questo scenario rischierebbe di mettere in discussione l’attuale sistema economico globale con conseguenze ancora inimmaginabili. Catastrofismo a parte, questa crisi, a differenza di quella globale del 2008, dovrebbe avere una durata circoscritta. Per il 2021 è prevista infatti una crescita in grado di garantire un recupero pressoché totale delle perdite di quest’anno. Questo dipenderà tanto da fattori interni, come la tenuta politico-economica dei governi – soprattutto quelli a scadenza elettorale come in Serbia, Montenegro e Macedonia del Nord e alla capacità futura di adottare riforme strutturali – quanto da fattori esterni, come la ripresa economica dei partner europei e le misure adottate dall’Unione europea.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 12, 2020, 00:06:19 am
https://www.balcanicaucaso.org/Media/Multimedia/Freedom-House-Serbia-e-Montenegro-non-sono-piu-democrazie

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Freedom House: Serbia e Montenegro non sono più democrazie

Continua il trend negativo per la democrazia nei Balcani occidentali: l'ultimo rapporto del think-tank americano Freedom House retrocede Serbia e Montenegro da democrazie a “regimi ibridi”, confermando un trend preoccupante. Francesco Martino (OBCT) per il GR di Radio Capodistria [9 maggio 2020]

Per la prima volta dal 2003, Serbia e Montenegro non possono più essere considerate democrazie in senso pieno, ma “regimi ibridi”, segnati da potere autoritario e riforme incomplete. Queste le conclusioni del rapporto annuale di Freedom House sull'Europa orientale, recentemente pubblicato, che conferma il preoccupante arretramento della democrazia nei Balcani occidentali.

Le critiche più dure del think-tank americano sono rivolte alla Serbia – governata ininterrottamente dal 2014 dal presidente Aleksandar Vučić e dal suo Partito progressista serbo. Secondo il rapporto, la maggioranza ha ristretto sempre di più lo spazio per l'opposizione – ridotta oggi ad un impotente boicottaggio delle istituzioni - e governa sempre più spesso attraverso procedure emergenziali, anche prima dello scoppio dell'emergenza coronavirus.

“Il Partito di Vučić abusa della sua maggioranza in parlamento, confondendo le attività del partito con quelle dello stato, facendo pressione sugli elettori e utilizzando misure sociali per comprare consenso”, recita il rapporto. In Serbia situazione sempre più problematica anche per libertà di stampa e restrizione dello spazio di manovra per i governi locali.

Dure critiche anche nei confronti del Montenegro, dove il presidente Milo Đukanović e il suo Partito democratico dei socialisti dominano la scena politica addirittura dal lontano 1991. Qui ad essere sotto accusa è soprattutto il sistema giudiziario, segnato da scandali a ripetizione, sia tra i giudici che nelle procure, ma anche restrizioni alla libertà dei media e il perdurare nel paese di una corruzione endemica.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 19, 2020, 00:49:07 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Montenegro/Mafia-nei-Balcani-tra-omicidi-e-collusioni-col-potere-politico-201820

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Mafia nei Balcani, tra omicidi e collusioni col potere politico

Due clan montenegrini, quello di Škaljari e quello di Kavač, con forti influenze nel sottobosco criminale dei Balcani sono in guerra. Una corposa e dettagliata inchiesta, svolta da giornalisti di varie testate, ha messo a nudo la fitta rete di intrecci tra potere politico, polizia e criminalità

13/05/2020 -  Stevan Dojčinović,  Bojana Jovanović,  Dejan Milovac,  Svetlana Đokić
(Originariamente pubblicato dal portale KRIK  il 5 maggio 2020)

L’1 gennaio 2018, l’agente della polizia serba Marija Nikolić, in quel momento fuori servizio, stava passeggiando a Kopaonik insieme a due uomini: uno era membro di un’organizzazione criminale montenegrina nota come clan di Kavač e l’altro un hooligan vicino a questo gruppo criminale.

Lo stesso giorno, nove ore più tardi, quel membro del clan di Kavač, Dalibor Baltić, è stato ucciso a Belgrado, colpito da una scarica di proiettili mentre entrava con una Golf 7 nel garage del palazzo in cui viveva nel quartiere di Vračar. Accanto a lui stava seduta Marija Nikolić, questa volta con la divisa. Baltić è stato ucciso nella guerra tra il suo clan e la banda rivale, nota come clan di Škaljari.

Entrambi gli episodi – la passeggiata a Kopaonik e l’omicidio a Belgrado – sono stati ripresi dalle telecamere di videosorveglianza. Il video dell’omicidio e un’immagine ripresa a Kopaonik, pubblicati in esclusiva da KRIK, rivelano due cose importanti riguardanti la guerra tra due gruppi criminali che dura ormai da anni.

Il video dell’agguato avvenuto nel garage dimostra che gli omicidi spesso vengono eseguiti con una precisione da professionisti. Baltić è stato ucciso da due persone che erano entrate nel garage correndo dietro alla Golf. Prima hanno girato intorno alla macchina e poi hanno sparato: un killer aveva una pistola e l’altro un’arma semiautomatica. Sono stati talmente precisi da riuscire a uccidere Baltić senza sfiorare la poliziotta nemmeno con un proiettile.

La fotografia dell’incontro a Kopanik è una delle poche testimonianze che confermano l’esistenza di un legame tra polizia, criminalità organizzata e hooligan. Uroš Ljubojević, che aveva partecipato all’incontro con la poliziotta e Baltić, è membro del gruppo di ultras “Janjičari” che intrattiene stretti legami con alcuni politici al potere in Serbia.

Marija Nikolić è attualmente sotto processo perché dopo l’omicidio di Baltić aveva preso e nascosto la sua pistola. Nikolić ha raccontato in aula che era sotto shock e che non si era nemmeno resa conto di aver gettato la pistola di Baltić in un cassonetto dell’immondizia tre strade più in là dal luogo in cui era avvenuto l’agguato. Ha detto che quella sera doveva lavorare nel quartiere in cui viveva Baltić, e per questo che era in macchina con lui.

Né il procuratore né il giudice hanno chiesto a Marija Nikolić perché quel giorno fosse andata con Baltić a Kopaonik, situato a circa quattro ore di macchina da Belgrado, per poi tornare con lui nella capitale. Finora non è stato rivelato nulla nemmeno sui legami tra Nikolić e quel membro del gruppo di ultras “Janjičari”.

Baltić è solo uno dei tanti criminali uccisi nella guerra tra il clan di Kavač e quello di Škaljari, che prendono il nome da due frazioni del comune di Kotor, in Montenegro.

I due clan hanno operato insieme, contrabbandando stupefacenti dall’America Latina verso l’Europa, fino al 2014 quando si sono scontrati per la gestione del traffico di cocaina. Uno scontro che sta diventato sempre più acceso e vede coinvolti anche altri gruppi criminali che operano nei Balcani.

I giornalisti di KRIK, insieme ai loro colleghi della Rete per l'affermazione del settore non governativo (MANS) di Podgorica e dell’organizzazione internazionale Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP), hanno indagato in modo dettagliato su questa guerra di mafia, in modo da poter ricostruire un quadro completo di questo scontro che ha infiammato i Balcani, per poi diffondersi anche in altri paesi europei.

Durante l’inchiesta, i giornalisti hanno raccolto numerosi documenti ottenuti dalla polizia, dalla procura, da alcuni tribunali e dalla BIA [servizi segreti serbi], e hanno parlato con alcune persone che conoscono bene il panorama della criminalità organizzata nei Balcani. Le informazioni raccolte suggeriscono che la guerra tra il clan di Škaljari e il clan di Kavač ha diviso il sottobosco criminale dei Balcani. Anche alcuni agenti della polizia serba e di quella montenegrina hanno preso posizione in questo scontro, ed entrambi i clan, soprattutto quello di Kavač, intrattengono stretti legami con il potere politico.

Come dimostra un'analisi realizzata dai giornalisti di KRIK e OCCRP sulla base di documenti ufficiali e di informazioni ottenute da varie fonti, dal 2015 ad oggi almeno 41 persone sono state uccise nella guerra tra i due gruppi criminali. Tra le vittime degli scontri, oltre ai criminali, ci sono anche i loro familiari e collaboratori, tra cui un avvocato ed ex deputato del parlamento montenegrino. Ci sono anche delle vittime casuali: un uomo ha perso la vita in una sparatoria avvenuta nel 2018 in un bar a Podgorica in cui è stato ucciso un membro del clan di Kavač. Due anni prima, nel 2016, in un bar a Bečići è stato ucciso un medico serbo che stava seduto vicino ad un criminale che era il vero obiettivo dell’agguato.

La guerra tra due clan si è diffusa anche al di fuori dei Balcani: alcuni omicidi sono stati commessi in Spagna, Germania, Austria, Paesi Bassi e, più recentemente, in Grecia.

L’inchiesta di KRIK ha inoltre rivelato che i criminali legati ai due clan a volte ingaggiano degli stranieri per compiere un omicidio, compresi alcuni mercenari che hanno combattuto in Iraq. Alcuni di questi killer sono stati reclutati tramite la Legione straniera francese.

Nulla illustra meglio il modo in cui due clan montenegrini operano, ingaggiano dei killer, scelgono le loro vittime e compiono omicidi delle testimonianze di alcuni criminali, tra cui un giovane uomo proveniente dal Sudafrica ingaggiato dal clan di Kavač per eseguire un omicidio, e un ex membro del clan di Škaljari, diventato testimone protetto, il quale ha raccontato che era stato pianificato anche l’omicidio – mai portato a termine – del procuratore generale del Montenegro. I giornalisti di KRIK e MANS sono venuti in possesso delle testimonianze che questi due criminali hanno reso alla procura. In questo articolo ne riportiamo alcune parti.

Ascesa e scissione del clan di Škaljari
Prima dello scoppio della guerra di mafia attualmente in corso, in Montenegro c’era solo un clan, quello di Škaljari.

L’ascesa del clan di Škaljari è legata alla caduta di un altro gruppo criminale, molto più noto, dedito al contrabbando di sostanze stupefacenti: il cartello guidato da Darko Šarić. In un rapporto della BIA, di cui i giornalisti di KRIK sono venuti in possesso, il gruppo di Šarić è descritto come “un tempo una delle più potenti organizzazioni criminali nella regione, che comprende diversi gruppi criminali [attivi] sul territorio dell’ex Jugoslavia, con oltre 100 membri, che, tramite cellule operative autonome, sparse in diversi paesi d’Europa e dell’America Latina, hanno operato su scala globale”.

Tuttavia, nel 2009 il cartello di Šarić subì un duro colpo. Un’operazione di polizia internazionale denominata “Balkanski ratnik” [Guerriero balcanico] mise praticamente in ginocchio il gruppo di Šarić, vennero arrestati molti membri del gruppo, e lo stesso Šarić finì in carcere in Serbia. Il processo nei suoi confronti è ancora in corso.

La caduta del clan di Šarić ha aperto ampio spazio per altri gruppi criminali e un clan fino ad allora poco noto, quello appunto di Škaljari, ha approfittato dell’occasione.

“Dopo l’azione ‘Balkanski ratnik’ […] alcuni gruppi criminali hanno preso le redini di una parte delle attività del ‘clan di Šarić’ legate al contrabbando di narcotici”, si legge nel rapporto della BIA.

Poco dopo l’operazione “Balkanski ratnik” è stato ucciso anche uno dei più stretti collaboratori di Šarić, Dragan Dudić, che gestiva gli affari del gruppo di Šarić a Kotor, dove era attivo anche il clan di Škaljari. Dudić è stato ucciso mentre stava seduto con un amico in un bar nella Città vecchia di Kotor. Il suo assassino, Ivan Vračar, è citato nel rapporto della BIA come membro del clan di Škaljari.

Come si legge nel rapporto della BIA, “dopo l’omicidio di Dragan Dudić, soprannominato Fric, membro di spicco del clan di Šarić, avvenuto nel 2010 a Kotor, il clan di Škaljari, guidato da Jovan Vukotić, ha assunto il controllo di gran parte delle attività di Dudić legate all’organizzazione del traffico di narcotici dall’America Latina verso l’Europa”.

Nel rapporto si afferma inoltre che Vukotić “nel 2016 ha organizzato un’azione in cui è stata data alle fiamme la discoteca ‘Maximus’ a Kotor, di proprietà, seppur non ufficialmente, dei fratelli Šarić”.

Mentre si moltiplicavano le accuse sollevate contro i membri del gruppo di Šarić – che per un certo tempo era latitante, per poi finire in carcere in Serbia – , i membri del clan di Škaljari pian piano stavano diventando i nuovi padroni del sottobosco criminale balcanico.

Ma l’ascesa non è durata a lungo.

Nonostante i suoi affari fiorissero, all’interno del clan hanno cominciato a sorgere dei dissidi.

“[Stavano diventando] sempre più frequenti gli scontri tra correnti contrapposte all’interno del clan di Škaljari sulla ripartizione delle risorse finanziarie ottenute illegalmente”, si afferma nel rapporto della BIA.

Secondo la BIA e alcune persone che conoscono bene le dinamiche criminali, la tensione tra gruppi contrapposti ha raggiunto l’apice nel 2014 a seguito di una lite sulla spartizione della cocaina, avvenuta a Valencia, in Spagna.

I vertici del clan di Škaljari hanno trovato, in un magazzino che avevano preso in affitto a Valencia, 200 chilogrammi di cocaina di cui non conoscevano la provenienza. A nascondere la droga nel magazzino – come emerso in seguito – erano stati alcuni dei loro collaboratori, e i leader del clan, per punirli, si sono impossessati della droga.

Dopo questo episodio la parte danneggiata, cioè il gruppo che è stato privato del bottino, si è separato dal clan di Škaljari.

“Così è nato il clan di Kavač, guidato da Slobodan Kašćelan e Radoje Zvicer”, si legge nel rapporto della BIA.

“Dopo questo episodio riguardante la cocaina, [i membri dei due clan] sono diventati paranoici, temendo di essere attaccati dal gruppo rivale”, ha raccontato ai giornalisti di KRIK una persona ben informata della vicenda. “Alcune persone non appartenenti a nessuno dei due gruppi hanno alimentato questa paranoia, tifando affinché i due clan si scontrassero tra loro”.

Poco dopo quell’episodio, all’inizio del 2015, a Belgrado è stato ucciso uno degli esponenti di spicco del clan di Škaljari, Goran Radoman. Il suo omicidio ha segnato l’inizio della guerra tra i due clan, conflitto che ha già portato via decine di vite e continua a infuriare.

Carneficina balcanica
Si sa con certezza che almeno 41 persone sono state uccise nella guerra tra due clan rivali, ma – come dimostra l’analisi condotta dai giornalisti di KRIK e OCCRP – il numero reale delle vittime è probabilmente più alto.

Dalla documentazione raccolta emerge che gran parte degli omicidi è stata eseguita con professionalità e precisione, come nel caso dell’omicidio di Baltić, avvenuto nel garage sotterraneo a Belgrado. Alcune delle vittime sono state uccise a colpi di pistola o un’altra arma automatica, mentre altre sono morte nell’esplosione di un’autobomba o di un ordigno nascosto lungo la strada. In almeno due casi, gli assassini hanno usato un fucile di precisione.

Il caso più incredibile è quello dell’omicidio di un criminale ucciso con un fucile di precisione mentre si trovava in carcere.

Nel settembre 2016, Dalibor Đurić, membro del clan di Škaljari, condannato per estorsione, stava passeggiando nel cortile del carcere di Spuž quando è stato colpito al petto da un proiettile sparato da un fucile di precisione. L’assassino lo aspettava nascosto sulla riva destra del fiume Zeta che serpeggia intorno al carcere di Spuž, situato a una quindicina di chilometri da Podgorica.

L’automobile usata dall’assassino per arrivare e fuggire dal luogo da cui aveva sparato è stata trovata bruciata, insieme all’arma utilizzata per compiere l’omicidio. Due uomini che hanno dato alle fiamme l’automobile e hanno aiutato l’assassino a fuggire sono stati condannati in primo grado. Durante il processo non hanno voluto rivelare l’identità dell’assassino.

Un’altra novità introdotta da questi gruppi criminali consiste nell’uso di maschere in silicone durante gli agguati. Queste maschere, che riproducono il volto umano e possono trarre in inganno gli agenti di polizia, sono state ritrovate in più occasioni dalla polizia montenegrina.

I membri dei due clan hanno più volte ingaggiato dei killer, professionisti o dilettanti, a seconda del tipo di vittima e della modalità di esecuzione dell’omicidio. Hanno reclutato in più occasioni anche cittadini stranieri, tra cui – come hanno scoperto i giornalisti di KRIK – c’erano anche alcuni militari professionisti, cioè i mercenari.

La testimonianza più dettagliata di questa prassi è quella di Gregory Michael Ferraris, un giovane uomo proveniente dal Sudafrica, reclutato nel 2015 dal clan di Kavač per compiere un omicidio. Ferraris all’epoca aveva 24 anni.

Gregory Ferraris è stato arrestato prima di compiere l’omicidio per il quale era stato ingaggiato. La testimonianza resa da Ferraris al procuratore montenegrino – di cui KRIK è venuto in possesso – ci consente di comprendere il modo in cui i due clan montenegrini reclutano i killer e con quanta precisione pianificano gli omicidi.

Ferraris aveva conosciuto Aleksandar Marković, membro del clan di Kavač e militare professionista, in Francia, dove entrambi avevano fatto domanda per entrare nella Legione straniera francese.

“Non ci hanno fatto entrare, io [non sono stato ammesso] a causa del mio passato non proprio limpido, perché consumavo cocaina”, ha raccontato Ferraris alla procura.

Mentre era in un centro di reclutamento della Legione straniera a Parigi Ferraris aveva conosciuto un mercenario americano appena rientrato dall’Iraq, che su un braccio aveva un tatuaggio che recitava: “ISIS Hunting Club” [Club di cacciatori di miliziani dell’Isis], mentre su una spalla aveva un tatuaggio raffigurante un cranio umano con i colori della bandiera francese, e sull’altra spalla un tatuaggio della bandiera americana. Ferraris ha raccontato che Marković gli aveva detto che i membri del clan di Kavač avevano ingaggiato quel mercenario americano per eseguire un omicidio piuttosto complicato.

“Io non ero adatto per compiere quell’omicidio, perché loro avevano bisogno di persone appositamente addestrate, cioè in grado di entrare silenziosamente in casa, compiere silenziosamente l’omicidio e lasciare nello stesso modo il luogo del delitto”, ha raccontato Ferraris, che prima di tentare di arruolarsi nella Legione straniera lavorava come istruttore di fitness.

Alla fine Ferraris era stato ingaggiato dal clan di Kavač per un incarico meno impegnativo.

Un mese dopo essersi conosciuti, Marković aveva offerto a Ferraris 50.000 euro per compiere un omicidio.

“Avevo accettato la proposta di Aleksandar di unirmi a loro e di eseguire un omicidio perché ero rimasto completamente senza soldi”, si legge nella dichiarazione che Ferraris ha reso alla procura.

Ferraris ha raccontato che i membri del clan di Kavač gli avevano comprato un biglietto aereo per Belgrado, dove si era incontrato con Marković. Da lì avevano preso un treno per raggiungere un piccolo paese situato vicino al confine tra Serbia e Montenegro.

“Prima della frontiera, io e Aleksandar siamo scesi dal treno, e poi ci siamo separati. Marković è salito su una macchina ed è andato in Montenegro”.

Ferraris invece è entrato in Montenegro illegalmente: ha attraversato il confine a piedi accompagnato da una guida. Una volta entrato nel territorio del Montenegro, alcuni membri del clan di Kavač sono venuti a prenderlo con quella stessa macchina su cui era salito Marković, ma prima di raggiungere la loro destinazione finale, Budva, hanno più volte cambiato auto.

Una volta arrivati a Budva i membri del clan di Kavač hanno sistemato Ferraris in un appartamento dicendogli di aspettare il via libera per uccidere il suo bersaglio, Goran Đuričković, membro del clan di Škaljari e proprietario del ristorante “The Old Fisherman’s Pub” situato sul lungomare di Budva.

“Aleksandar Marković mi ha detto che il proprietario di quel ristorante e alcuni uomini del suo entourage erano stati direttamente coinvolti nel furto di 200 kg di cocaina”, ha raccontato Ferraris riferendosi all’episodio accaduto a Valencia. “Mi ha detto di sparargli almeno cinque colpi per essere sicuro di averlo ucciso e per lanciare un avvertimento con il suo omicidio a tutti quelli che in Montenegro si occupano del traffico di droga”.

Marković gli ha inoltre detto che, una volta ucciso Đuričković, il clan di Kavač avrebbe “iniziato una guerra contro tutti quelli che in Montenegro sono coinvolti negli affari legati alla droga”.

Mentre stava aspettando di portare a termine quell’omicidio, Ferraris è stato ingaggiato dal clan di Kavač per compiere un altro lavoro, ovvero per acquistare due moto. “[Dopo l’omicidio] un uomo avrebbe dovuto portarmi su una moto in un nascondiglio nelle montagne […]. [La seconda moto] avrebbe dovuto essere usata nel successivo lavoro, al quale io non dovevo partecipare”, ha affermato Ferraris.

Dopo l’acquisto di una moto, Ferraris ha visto un uomo scendere da un’automobile color argento e salire su quella moto. Marković gli ha presentato quell’uomo come “capo della mafia montenegrina”.

“Marković mi ha detto che io e lui lavoriamo per quella persona e che quella persona aveva ordinato l’omicidio del proprietario del ristorante”, ha raccontato Ferraris aggiungendo: “In quell’occasione [Marković] mi ha detto che il capo della mafia montenegrina vive nella città vecchia di Kotor e che appartiene a una delle famiglie più ricche del Montenegro”.

In attesa del via libera per commettere l’omicidio, che stava diventando sempre più lunga, Ferraris ha iniziato ad avere dei ripensamenti.

“Ho pensato di mollare tutto. Ma non ne ho parlato con loro, perché mi è stato detto che una persona aveva deciso di non compiere un omicidio pianificato in precedenza, e poi loro hanno ucciso quella persona”, ha affermato Ferraris.

Ferraris non ha mai compiuto l’omicidio per il quale era stato ingaggiato. È stato fermato dalla polizia mentre guidava una BMW e gli agenti hanno notato un dettaglio strano, ovvero il fatto che Ferraris indossava guanti chirurgici. È stato arrestato perché non aveva con sé nessun documento d’identità, poi è anche emerso che la macchina che guidava aveva targhe false. A quel punto Ferraris ha deciso di raccontare tutto alla polizia.

Nel processo Ferraris è stato difeso Borivoje Borović, noto avvocato belgradese, che gli ha consigliato di revocare la dichiarazione resa alla procura. Durante il processo non ha rivelato l’identità di nessuno dei membri del clan di Kavač coinvolti nella vicenda. Ferraris è stato condannato a cinque anni di reclusione, mentre ad Aleksandar Marković, che lo aveva reclutato, è stata comminata una pena di sei anni di reclusione.

Goran Đuričković è sfuggito alla morte, grazie all’arresto di Ferraris, ma non per molto: è stato ucciso cinque mesi più tardi da un proiettile sparato da un fucile di precisione mentre si trovava nel suo ristorante. Dopo essere stato colpito dal proiettile, Đuričković è caduto in mare.

Secondo la procura montenegrina, l’omicidio di Đuričković è stato compiuto da un tiratore proveniente dalla Republika Srpska, Srđan Popović che è accusato di aver sparato a Đuričković dalle mura della città vecchia di Budva.

A giudicare dalla dichiarazione resa alla polizia dopo l’omicidio del suo padrino ed ex deputato del parlamento montenegrino Saša Marković, Đuričković sapeva di essere nel mirino del clan di Kavač. Ha detto alla polizia che era possibile che Marković fosse stato ucciso perché era legato a lui, aggiungendo di essere consapevole delle tensioni suscitate dall’episodio di Valencia e del fatto che il suo nome veniva citato in riferimento a quella vicenda.

Un’altra testimonianza, oltre a quella di Ferraris, ci ha aiutato a capire meglio come i clan montenegrini pianificano gli omicidi dei loro rivali. Si tratta della dichiarazione di un testimone di giustizia il cui nome in codice è Jadranko Jonski. Jonski, che era membro del gruppo di Ranko Radulović, vicino al clan di Škaljari, ha spiegato alla procura montenegrina come operano i due clan rivali. La sua testimonianza ha contribuito ad arrivare alle condanne di molti membri dei due gruppi criminali.

Jonski ha raccontato che i due clan avevano raggiunto un accordo per uno “scambio di alibi”, cioè – come si legge nei documenti del tribunale – “il collaboratore di giustizia [Jonski] avrebbe dovuto compiere un omicidio per conto del clan di Škaljari, mentre gli uomini del clan di Škaljari avrebbero dovuto compiere un omicidio per contro del gruppo di Radulović”.

Jonski ha raccontato che i bersagli di questi omicidi erano alcuni “nemici” del clan di Škaljari, cioè “persone che operavano contro il clan”. Inoltre, il gruppo di Radulović – come ha spiegato Jonski – raccoglieva informazioni, per conto del clan di Škaljari, sui movimenti di Slobodan Kašćelan, leader del clan rivale, quello di Kavač. Stando alle parole di Jonski, il clan di Škaljari aveva pianificato l’omicidio di Kašćelan, senza però portarlo a termine.

Man mano che lo scontro tra i due clan rivali si acuiva, i loro membri stavano diventando sempre più audaci nel compiere omicidi pianificati.

Jonski ha raccontato che avevano persino pianificato l’assassinio del procuratore speciale del Montenegro Milivoje Katnić.

“Ranko Radulović ha detto che, se non dovessero riuscire a uccidere Katnić, potrebbero uccidere suo figlio, che non bada ai propri movimenti, passa la maggior parte del tempo con la sua ragazza ed è un bersaglio facile”, ha affermato Jonski.

Jonski ha inoltre raccontato che un membro del gruppo di Radulović gli aveva confidato di aver partecipato all’omicidio di un calciatore montenegrino.

Nel settembre 2017, il calciatore Goran Lenac, vicino al clan di Kavač, stava facendo flessioni nello stadio di Kotor quando era stato avvicinato da Nikola Mršić che gli aveva sparato uccidendolo. Mršić era fuggito dal luogo del delitto e, dopo tre anni di latitanza, è stato arrestato nel marzo di quest'anno.

In cerca di alleati in Serbia
Con il passare del tempo la guerra tra due clan montenegrini si è diffusa, come c’era da aspettarsi, anche in Serbia, dove entrambi i gruppi erano alla ricerca di alleati.

“Gli interessi di entrambi i clan criminali di Kotor, in conflitto tra loro, gravitano intorno alla Serbia. Negli ultimi decenni la mafia montenegrina è stata molto attiva sul territorio della Serbia, dove esercita una forte influenza sulle dinamiche interne all’ambiente malavitoso”, si legge in un rapporto della BIA del 2018.

“Delle dimensioni raggiunte dallo scontro tra il clan di Škaljari e il clan di Kavač testimoniano anche alcune informazioni secondo cui [negli ultimi anni] all’interno dell’ambiente criminale montenegrino e quello serbo si sarebbero verificate scissioni di non poco conto.”, si afferma nel rapporto della BIA di cui i giornalisti di KRIK e OCCRP hanno preso visione.

“Quasi tutti i gruppi criminali di un certo rilievo – si legge ancora nel rapporto – si sono schierati dalla parte dell’una o dell’altra di queste due organizzazioni criminali contrapposte”.

Il più importante partner del clan di Škaljari in Serbia è il gruppo guidato da Filip Korać, definito dalla BIA come “uno dei più pericolosi gruppi criminali che opera a livello internazionale”. Korać ha assunto la guida del gruppo dopo l’arresto del suo capo, Luka Bojović, avvenuto in Spagna nel 2012.

Il clan di Kavač, dal canto suo, ha trovato un alleato nel gruppo di ultras “Janjičari” che ha stretti legami con il potere politico in Serbia.

La politicizzazione del tifo
Gli ultras giocano un ruolo importante nel panorama criminale dei Balcani.

Sono inclini alla violenza e, oltre ad appoggiare alcune squadre di calcio, sono dediti alla vendita di stupefacenti. Inoltre, sono disposti a fornire appoggio a diversi gruppi criminali nella loro lotta per il controllo del territorio. Come ha rivelato l’inchiesta condotta dai giornalisti di KRIK e OCCRP, i gruppi di hooligan serbi sono legati, oltre che ai clan criminali, anche ad alcuni politici serbi.

Qualche anno fa il clan di Kavač aveva reclutato un gruppo di ultras grazie al quale aveva instaurato uno stretto rapporto con alcuni rappresentanti del potere in Serbia. All’epoca dei fatti il leader di questo gruppo, noto col nome di “Janjičari”, era Aleksandar Stanković, soprannominato Sale Mutavi, ucciso nell’ottobre del 2016.

Una rappresentazione grafica della struttura del clan di Kavač realizzata dalla polizia serba – di cui i giornalisti di KRIK sono venuti in possesso – illustra meglio di qualsiasi altra cosa gli stretti legami esistenti tra questo clan montenegrino e gruppi di hooligan serbi. Nell’organigramma in questione Aleksandar Stanković e i suoi collaboratori sono definiti come membri del clan di Kavač.

Stanković intratteneva stretti rapporti anche con i vertici della polizia serba. Era molto vicino a Nenad Vučković Vučko, uno dei membri di spicco della Gendarmeria.

Stanković e Vučković sono stati più volte fotografati insieme tra i tifosi durante le partite di calcio.

Esistono anche alcune prove che attestano l’esistenza di legami tra “Janjičari” e alcuni politici di spicco.

Come già rivelato da KRIK, uno dei membri del gruppo di Stanković era stato ingaggiato per garantire la sicurezza durante la cerimonia di insediamento di Aleksandar Vučić come nuovo presidente della Repubblica nel 2017, quando alcuni cittadini e giornalisti erano stati allontanati con forza dall’evento.

Il figlio del presidente Vučić, Danilo Vučić, è un amico di Aleksandar Vidojević, meglio noto come Aca Rošavi, uno dei membri di spicco del gruppo “Janjičari”. Vidojević è inserito nella banca dati della polizia serba come membro del clan di Kavač.

La vicinanza tra Aleksandar Vidojević e Danilo Vučić è testimoniata anche da alcune foto che li ritraggono insieme, scattate in diverse occasioni e in diversi periodi. Così, ad esempio, ai Mondiali di calcio 2018 in Russia, Vidojević e Danilo Vučić hanno tifato insieme durante la partita tra Serbia e Costa Rica. Poi nel gennaio di quest'anno sono stati fotografati insieme a Banja Luka durante la celebrazione del Giorno della Republika Srpska. I giornalisti di KRIK e OCCRP sono venuti in possesso anche di una fotografia, mai pubblicata finora, che ritrae Danilo Vučić mentre abbraccia Vidojević in un locale notturno. Non siamo riusciti però a scoprire quando è stata scattata questa fotografia.

Il gruppo di Stanković e il presidente Aleksandar Vučić sono legati anche tramite Novak Nedić. Nedić era segretario generale del governo serbo all’epoca in cui Vučić era primo ministro. In quel periodo - stando ad una denuncia sporta dal sindacato dell’esercito serbo – Nedić e Stanković spesso si esercitavano insieme al tiro a segno in un poligono di tiro militare. Lo studio legale del padre di Novak Nedić, Vojislav Nedić, ha difeso alcuni membri del gruppo “Janjičari”.

L’entrata dello stato serbo nella guerra di mafia
Tenendo conto dei legami che Stanković aveva avuto con la polizia e con il potere politico, la reazione della leadership serba al suo omicidio diventa più comprensibile.

Stankovic è stato ucciso nell’ottobre 2016 a Belgrado, mentre saliva su un’Audi A6 dopo un allenamento in palestra. Nessuno è mai stato condannato per il suo omicidio, nonostante in un rapporto della BIA si affermi che dietro al delitto vi sarebbe il clan di Škaljari.

Il giorno dopo l’assassinio di Stanković il ministro dell’Interno serbo Nebojša Stefanović ha convocato una conferenza stampa in cui ha affermato: “Dichiariamo guerra alla mafia ed entriamo in questa guerra senza esitazioni né riserve”.

Invece di avviare una lotta non selettiva alla criminalità organizzata, lo stato ha dichiarato una guerra che sembra essere diretta solo contro una parte dell’ambiente criminale. In Serbia non è mai stato arrestato nessun membro di spicco del clan di Kavač. La polizia ha infatti focalizzato la sua attenzione sull’arresto dei membri del clan di Škaljari e dei loro collaboratori appartenenti al gruppo guidato da Filip Korać.

Negli ultimi anni la polizia serba ha arrestato diversi membri del clan di Škaljari, vantandosi dei propri successi sui media. Dieci membri del gruppo di Škaljari sono stati arrestati nel ristorante “Durmitor” a Belgrado, di cui due sono stati condannati per aver portato armi da fuoco senza licenza dell’autorità. Alcuni membri dello stesso clan sono stati condannati per estorsione nel cosiddetto "caso Havana". Recentemente è stato arrestato anche Marjan Vujačić, sospettato di aver compiuto alcuni omicidi per conto del clan di Škaljari. Qualche anno fa era stata aperta anche un'inchiesta contro Filip Korać, sospettato di essere coinvolto in un omicidio, ma il processo è stato sospeso.

Alla domanda dei giornalisti di KRIK sul perché vengano arrestati solo i criminali appartenenti ad un clan, il ministro Stefanović ha risposto che “in Serbia il clan di Škaljari è più attivo” del clan di Kavač.

“Se loro sono in cento, e quegli altri in cinque, è ovvio che arresteremmo quelli che sono più numerosi”, ha dichiarato il ministro.

Anche i media filogovernativi in Serbia hanno dato più spazio alle notizie riguardanti i membri del clan di Škaljari e del gruppo di Korać rispetto a quelle riguardanti i loro rivali. I criminali legati al clan di Škaljari compaiono spesso sulle prime pagine dei tabloid serbi, che hanno persino affermato che questo gruppo criminale starebbe organizzando l’omicidio del presidente Vučić. “Vogliono la testa di Vučić”, ha titolato recentemente il tabloid Srpski telegraf.

In Serbia è stato avviato anche un procedimento penale a carico del leader del clan di Škaljari Jovan Vukotić.

Vukotic è stato arrestato due anni fa in Turchia, per poi essere estradato in Serbia, dove è finito sotto processo per aver viaggiato con un falso passaporto macedone. Durante il processo ha raccontato di aver usato un passaporto falso perché la polizia montenegrina vendeva informazioni sui suoi movimenti ai suoi nemici.

“Ogni volta che mi reco sul territorio di un altro paese la polizia montenegrina, ovvero alcuni funzionari di polizia, ne vengono informati. Loro vendevano informazioni sui miei movimenti ai gruppi criminali, ed è per questo che una volta sono sfuggito alla morte per un pelo”, ha raccontato Vukotić in aula.

In Montenegro invece è in corso un processo penale nei confronti dell’ex vicecomandante della polizia municipale di Kotor Zlatko Samardžić, sospettato di aver rivelato informazioni riservate ai membri del clan di Kavač.

“Verrò a prendere lo sciroppo”, così recitava il messaggio che Samardžić inviava via Viber ai membri del clan di Kavač per avvertirli che la polizia stava per perquisire i loro appartamenti. Nell’atto di accusa contro Samardžić – di cui MANS è venuto in possesso – si legge inoltre che, dopo l’arresto di due criminali, Samardžić aveva aperto le finestre delle loro celle per consentire loro di parlare e di “mettersi d’accordo su come difendersi”.

Nel febbraio 2020 il leader del clan di Škaljari Jovan Vukotić è stato estradato dalla Serbia in Montenegro, dove è indagato per il tentato omicidio di alcuni membri del clan di Kavač e della moglie del leader di questo clan. Poco prima dell’estradizione, mentre si trovava in un carcere serbo, Vukotić è stato vittima di un tentato omicidio da parte di alcuni criminali, che hanno cercato di ucciderlo con cibo avvelenato. La prima a darne notizia è stata l’emittente televisiva N1.

Caduta del clan di Škaljari
Oltre alle pressioni a cui è sottoposto da parte della polizia, il clan di Škaljari sta subendo duri colpi anche da parte dei suoi rivali.

Di fronte a tali minacce, alcuni membri del clan hanno deciso di andarsene dai Balcani e cercare rifugio in altri paesi europei. Ma non tutti sono riusciti a fuggire.

Gli omicidi di esponenti del clan di Škaljari continuano a susseguirsi in Spagna, Germania, Austria, Olanda e, più recentemente, in Grecia.

Il clan ha subito un duro colpo nel gennaio di quest’anno, quando, in un ristorante ad Atene, sono stati uccisi due dei suoi esponenti di spicco, Stevan Stamatović, sospettato di aver ucciso Sale Mutavi, e Igor Dedović che guidava il clan, insieme a Vukotić.

Un necrologio dedicato a Dedović apparso sulla stampa montenegrina, probabilmente scritto da Vukotić, recitava: “Padrino, la tua morte ci dà ancora più forza per persistere”.

Sembra che la morte di Dedović e l’arresto di Vukotić abbiano fortemente indebolito il clan di Škaljari, creando un vuoto.

Un vuoto che potrebbe essere colmato da Filip Korać con il suo potente gruppo criminale. Al momento non si sa dove si trovi Korać, che negli ultimi anni era latitante perché oggetto di un mandato d’arresto emesso dalla Serbia. Un’indagine avviata nei confronti di Korać per sospetto coinvolgimento in un omicidio recentemente è stata archiviata, fatto che ha suscitato l’ira del presidente Vučić che nel gennaio di quest’anno aveva definito Korać come "uno degli uomini più pericolosi nel paese".

Anche i membri del clan di Kavač si scontrano con varie difficoltà.

Slobodan Kašćelan, uno dei leader del clan di Kavač, è stato arrestato nel dicembre 2018 in Repubblica Ceca sulla base di un mandato di cattura internazionale emesso dalle autorità montenegrine, per poi essere estradato in Montenegro. Kašćelan attualmente è sotto processo con l’accusa di aver organizzato un gruppo criminale. Alla fine del 2019 è stato rilasciato dal carcere su cauzione, depositando, a titolo di garanzia, un patrimonio pari a 500mila euro, ma il giudice gli ha vietato di allontanarsi da Kotor.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 19, 2020, 00:51:58 am
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BALCANI: Effetto COVID-19, economie in ginocchio
Marco Siragusa 6 giorni ago

Negli ultimi cinque anni, i Balcani Occidentali (Bosnia-Erzegovina, Serbia, Kosovo, Montenegro, Macedonia del Nord e Albania) hanno registrato una crescita annua del PIL di gran lunga superiore alla media europea. Lo scoppio della pandemia di Covid-19 rischia però di cancellare di colpo i progressi raggiunti aggravando ulteriormente i già fragili sistemi economici della regione.

Il rapporto della Banca Mondiale

Nel suo rapporto semestrale pubblicato ad inizio maggio, la Banca Mondiale ha ipotizzato due scenari per i Balcani Occidentali. Le ipotesi sono state elaborate in base ad una valutazione dei problemi strutturali dei singoli paesi, alla possibile durata dell’emergenza e delle misure economiche e sanitarie adottate dai governi.

Il report evidenzia sei punti deboli. Il primo, comune a tutti i paesi, riguarda il mercato del lavoro basato su contratti temporanei, bassi salari e ancora altamente informale. Il secondo problema è legato ai settori economici strategici. Montenegro, Albania e Kosovo risultano fortemente dipendenti dal settore turistico e dall’afflusso della diaspora, a fronte di una scarsissima capacità di esportazione di beni. La chiusura dei confini e le limitazioni ai viaggi rischiano di bloccare quasi del tutto i flussi turistici facendo così mancare entrate fondamentali per i bilanci statali. Dall’altro lato però, Macedonia del Nord, Serbia e Bosnia-Erzegovina, che possono contare su una maggiore esportazione di beni, rischiano di veder ridotta drasticamente la domanda proveniente dall’estero e soprattutto dall’Europa.

Gli altri punti deboli sono: lo scarso margine di manovra fiscale dovuto agli alti debiti pubblici e alle difficoltà di accesso al credito internazionale, ad eccezione di Kosovo e Bosnia sorretti dai finanziamenti delle istituzioni internazionali; limitate opzioni di politica monetaria; sistemi bancari deboli ed infine l’alta dipendenza dagli Investimenti Diretti Esteri (IDE), attesi anche questi in forte ribasso.

Le misure adottate

Le azioni intraprese dai governi hanno avuto un carattere “emergenziale”, essendo rivolti a limitare gli effetti economici della pandemia nel breve periodo. Tra le misure adottate rientrano i sussidi alle aziende per il pagamento dei salari dei lavoratori, il differimento delle scadenze fiscali e forme di sostegno al reddito per le fasce più povere. L’elevata informalità del mercato del lavoro impedisce però un adeguato accesso alle reti di sicurezza sociale per molti cittadini che restano così esclusi dagli aiuti. Le risorse messe sul piatto dai governi riguardano circa il 2% del PIL, con la sola Serbia che ha impegnato il 6,7% (circa 3,2 miliardi di euro) del proprio prodotto interno.

I due scenari

Il migliore dei due scenari ipotizzati prevede l’allentamento delle misure restrittive per la fine di giugno e una piena ripartenza nella seconda parte dell’anno. Secondo questa ipotesi, il calo medio del PIL dovrebbe attestarsi al 3,1%. Montenegro, Albania e Kosovo dovrebbero far registrare i cali più sostenuti, rispettivamente pari al 5,6%, al 5% e al 4,5%. Questo è dovuto a una riduzione media del 30% dei flussi turistici durante la stagione estiva. Il Kosovo dovrebbe inoltre registrare un crollo del 21,5% degli investimenti, sia pubblici che esteri. Serbia (-2,5%), Macedonia del Nord (-1,4%) e Bosnia-Erzegovina (-3,2%) verranno invece travolte da una riduzione delle esportazioni compresa tra il 6,5% e l’11,5%.

Senza titolo
Andamento del PIL per i Balcani Occidentali
Fonte: World Bank, Western Balkans Regular Economic Report, No.17, Spring 2020
Lo scenario peggiore considera un allentamento delle misure solo a fine agosto e una lenta ripresa a partire dall’ultimo trimestre dell’anno. In tale contesto la diminuzione del PIL complessivo dell’area sarebbe intorno al 5,7%, con il Kosovo che farebbe registrare addirittura un -11,3%. A soffrire maggiormente sarebbero le esportazioni di tutti i paesi con un calo compreso tra il 2,9% della Macedonia del Nord e il 30% dell’Albania.

E per il futuro?

Nonostante i dati, la Banca Mondiale non sembra tenere in considerazione lo scenario più preoccupante: quello di un ritorno della pandemia. Questo scenario rischierebbe di mettere in discussione l’attuale sistema economico globale con conseguenze ancora inimmaginabili. Catastrofismo a parte, questa crisi, a differenza di quella globale del 2008, dovrebbe avere una durata circoscritta. Per il 2021 è prevista infatti una crescita in grado di garantire un recupero pressoché totale delle perdite di quest’anno. Questo dipenderà tanto da fattori interni, come la tenuta politico-economica dei governi – soprattutto quelli a scadenza elettorale come in Serbia, Montenegro e Macedonia del Nord e alla capacità futura di adottare riforme strutturali – quanto da fattori esterni, come la ripresa economica dei partner europei e le misure adottate dall’Unione europea.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 19, 2020, 00:53:36 am
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BULGARIA: Un’altra democrazia sacrificata al Covid-19?
Raffaele Mastrorocco 2 giorni ago

L’emergenza covid-19 sembra aver accelerato la deriva autoritaria di alcuni Paesi offrendo ai governi la possibilità di prendere misure straordinarie volte ad aumentare il controllo sulle istituzioni. Esempio lampante sono i casi di Polonia e Ungheria, che rappresentano un campanello d’allarme per i sistemi democratici di altri Stati membri dell’UE ritenuti da sempre più fragili rispetto a quelli dei due Paesi Visegrad, come ad esempio la Bulgaria. Anche Sofia ha adottato una serie di misure di emergenza che potenzialmente minano il funzionamento della democrazia e ledono i diritti dei cittadini. E’ davvero l’ennesimo colpo fatale inferto alla democrazia, o si tratta di “semplici” misure transitorie dettate dalla straordinarietà del caso?

Il coronavirus e le misure bulgare

Attualmente, la Bulgaria è tra i Paesi dell’Ue meno colpiti dal coronavirus con 1955 casi registrati, ma che non ha ancora raggiunto il picco dei contagi secondo l’European center for disease control. Prima dei due casi di covid-19 registrati l’8 marzo, il governo bulgaro ha cercato di non farsi trovare impreparato adottando misure preventive quali il divieto di eventi culturali pubblici al chiuso. Inoltre, già a fine febbraio risale l’istituzione del Consiglio d’emergenza nazionale capitanato dal generale del servizio sanitario militare Ventsislav Mutafchiyski, incaricato di monitorare e dirigere le operazioni per il contenimento della diffusione del virus nei confini nazionali.

Probabilmente consapevole dell’incapacità del sistema sanitario bulgaro di far fronte alla pandemia, il primo ministro Borisov non ha atteso che i casi aumentassero ulteriormente per adottare misure più restrittive. Il 13 marzo il parlamento ha votato all’unanimità lo stato di emergenza: è stata imposta la quarantena obbligatoria a chi fa ritorno da Paesi che registravano casi di covid-19, la chiusura di bar, pub e ristoranti e quella di scuole e università. Sebbene la gestione della crisi abbia peccato di disorganizzazione – specialmente per quanto riguarda l’obbligo delle mascherine in pubblico, le difficoltà per la digitalizzazione dell’educazione scolastica e la carenza di strumenti adatti alla diagnosi del virus e protezione dal contagio del personale medico –  le preoccupazioni sulle misure applicate non riguardano tanto la loro efficacia quanto gli effetti collaterali sul sistema democratico del Paese. L’ufficio del Procuratore ha assunto un ruolo sempre più importante nella gestione della crisi, limitando anche la libertà di parola. È infatti singolare il caso dei due dottori di un ospedale di Plovdiv che, dopo aver scritto una lettera alle autorità locali lamentando la mancanza di attrezzature adatte contro il covid-19, sono stati indagati dalla procura per aver diffuso il panico.

Le critiche non sono mancate anche da parte del presidente bulgaro Radev. Il 22 marzo, questi ha imposto il veto su una proposta di legge sulle misure e azioni da adottare durante lo stato di emergenza a causa della definizione troppo vaga di ‘fake news’. Secondo il presidente, l’assenza di una definizione ben precisa del termine avrebbe lasciato spazio a un’ulteriore deterioramento della libertà di stampa nel Paese, che per il terzo anno consecutivo si piazza al 111° posto nell’Indice mondiale  di Reporter senza frontiere. Il giorno seguente, per accelerare la risposta alla crisi, il parlamento vota con una maggioranza schiacciante la proposta di legge del governo rivista. La legge, entrata in vigore retroattivamente al 13 marzo, apre però un vuoto legislativo non indifferente in quanto la costituzione bulgara non definisce chiaramente il concetto di stato di emergenza, lasciando quindi spazio a eventuali ritorsioni su questioni riguardanti diritti umani e stato di diritto. Inoltre, introduce la possibilità per le forze di polizia di richiedere e ottenere dagli operatori telefonici dati sensibili come posizione geografica, cronologia dei siti visitati e registri dei contatti chiamati dei cittadini in quarantena obbligatoria. Con una nuova norma, varata il 23 marzo, sono state affidate all’esercito funzioni di polizia per contribuire al monitoraggio degli spostamenti dei cittadini. La misura più grave viene promulgata il 26 marzo, quando il parlamento vota per entrare in modalità d’emergenza con il pretesto di proteggere anche i parlamentari dalla pandemia e potendosi quindi riunire esclusivamente per questioni riguardanti l’emergenza. Il partito socialista bulgaro (BSP), che ha espresso un voto sfavorevole alla proposta, ha poi accusato la maggioranza di voler instaurare una dittatura. Nonostante la legge preveda che una seduta parlamentare possa essere convocata da presidente, consiglio dei ministri, presidente dell’Assemblea nazionale o un quinto dei parlamentari (e quindi, anche dall’opposizione), il primo tentativo di BSP di richiesta di interrogazione di Borisov al parlamento è stato boicottato dal partito del premier, GERB.

La sera del 12 maggio, in una seduta straordinaria del parlamento, è stata approvata una nuova legge che permette al Consiglio dei ministri di dichiarare lo stato di situazione epidemica al termine dello stato d’emergenza. La fretta con cui è stata votata la legge è stata oggetto di critiche da parte di Radev, che ha accettato comunque il testo della proposta così com’era per evitare ritardi nelle misure a sostegno dell’economia. Il 13 maggio, terminato lo stato d’emergenza, il Consiglio dei ministri ha dichiarato lo stato d’epidemia fino a metà giugno; la nuova condizione lascia le misure emergenziali sostanzialmente invariate, permettendone l’estensione ma senza suscitare le preoccupazioni legate alle lacune costituzionali dello stato d’emergenza. A ogni modo, Radev ha fatto ricorso alla Corte costituzionale bulgara contro la nuova legge, preoccupato per la mancanza di un limite della durata massima della situazione d’epidemia (che ne permetterebbe l’ulteriore estensione da parte del Consiglio dei ministri), di criteri definiti per valutarne la necessità e delle restrizioni esagerate utilizzate per tali circostanze.

L’importanza di essere leader

Sebbene lo stato d’emergenza abbia offerto l’occasione al governo per aumentare la stretta sul Paese a causa delle lacune costituzionali, l’opposizione è riuscita a porre un freno a una deriva autocratica della Bulgaria. Tuttavia, Borisov non ha intenzione di uscire penalizzato per una gestione sbagliata della crisi. Per questo motivo, ha cercato di mostrarsi in grado di assumere un ruolo di leader nella crisi in modo tale da accrescere il consenso politico intorno a lui. Quando è diventato chiaro che il generale maggiore Mutafchyiski stava riscuotendo più successo di lui nel coordinamento delle misure, Borisov è apparso di sorpresa in tv annunciando la fine dei briefing quotidiani del Consiglio d’emergenza e sottolineando che il generale era stato scelto dal premier stesso. Inoltre, con l’incertezza sulla ripartenza del settore turistico, la disoccupazione in crescita soprattutto tra i lavoratori stagionali e un calo del PIL pari al 7,2% secondo la Commissione europea, molti bulgari sono preoccupati per le conseguenze economiche del coronavirus. In questo contesto rientrano le misure populiste come il congelamento degli stipendi dei parlamentari, l’obbligo per i supermercati di vendere prodotti bulgari o anche l’acceleramento del processo di adesione all’euro. In questo modo, Borisov sta cercando di portare a casa qualsiasi tipo di risultato che possa mettere al sicuro il proprio futuro politico, sbarrando la strada a chiunque possa rubarli il ruolo di guida del Paese.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Maggio 19, 2020, 13:10:49 pm
Leggendo questi resoconti, mi vien da pensare che l'asse franco-tedesco ci voglia ridurre come un Paese balcanico.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: fritz - Maggio 20, 2020, 15:41:45 pm
I paesi dell'Europa dell'Est hanno belle fighe, per carità. Ma sono profondamente poveri, a parte qualche piccola eccezione. Nemmeno la R. Ceca ne è esente, se escludiamo qualche città.

Le donne sono spesso troie, non a caso ne ritroviamo uno spropositato numero tra le attrici porno. Calcolatrici e fredde, ci sono anche le eccezioni, certo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 22, 2020, 00:59:50 am
https://www.eastjournal.net/archives/105907

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POLONIA: Nuova procedura d’infrazione UE per l’indipendenza della giustizia
redazione 11 ore ago

di Maria Savigni

Dopo la condanna di un mese fa in tema di richiedenti asilo, il conflitto tra Varsavia e Bruxelles non sembra destinato ad arrestarsi. Il 29 aprile, infatti, è stata aperta una procedura di infrazione nei confronti della Polonia per la nuova riforma della giustizia, accusata di minare l’indipendenza della magistratura e lo Stato di diritto.

La riforma

La riforma, promossa dal partito di governo, Diritto e Giustizia (PiS), è stata approvata dal parlamento lo scorso dicembre ed è entrata in vigore il 14 febbraio. La normativa introduce modifiche sostanziali in tema di responsabilità disciplinare della magistratura, ufficialmente allo scopo di prevenire “abusi di potere” da parte dei giudici.

Già in fase di discussione parlamentare l’iniziativa ha scatenato proteste sia da parte della società civile che dagli stessi giudici. Nel mirino, la malcelata volontà del PiS di voler introdurre una forma di controllo politico sull’operato della magistratura.

Le violazioni

La risposta di Bruxelles alla riforma del sistema giudiziario non si è fatta attendere. A fine aprile è stato comunicato al governo polacco l’avvio della procedura di infrazione per gravi violazioni dello Stato di diritto. Ciò poiché i giudici polacchi, nella propria veste giurisdizionale, sono anche responsabili dell’interpretazione e applicazione diretta del diritto europeo. La questione della giustizia polacca, in altre parole, è anche una questione europea.

Nello specifico, la Commissione denuncia l’ampliamento della nozione di illecito disciplinare, in grado di includere un numero elevato di decisioni giurisprudenziali e diventare una ‘spada di Damocle’ nei confronti del potere giudiziario. Tra i casi di illecito, infatti, è compresa la stessa contestazione delle riforme giudiziarie da parte della magistratura. Tra le sanzioni è prevista la sospensione e anche la decadenza dal ruolo di giudice.

In secondo luogo, la legge attribuisce in via esclusiva la competenza in tema di indipendenza della magistratura a una nuova Camera di controllo straordinario della Corte Suprema. La riforma finisce dunque per sottrarre alle Corti polacche la possibilità di applicare il diritto europeo, sia direttamente sia attraverso il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE. Questa previsione è incompatibile sia con i principi dello Stato di diritto sia con il primato del diritto europeo su quello nazionale.

Infine, la nuova disciplina impone ai giudici di trasmettere al governo alcune informazioni specifiche sulle proprie attività extra-professionali, una previsione inconciliabile con la disciplina europea in materia di privacy e rispetto della vita personale.

Gli scenari

Il governo polacco ha ora due mesi di tempo per inviare una risposta formale alla Commissione europea, dopodiché la Commissione potrà inoltrare un nuovo richiamo. Nel caso in cui gli avvertimenti comunitari non producano risultati, l’esecutivo comunitario potrà portare la questione alla Corte di Giustizia.

Le dichiarazioni di Věra Jourová, commissaria europea alla giustizia, preannunciano l’intenzione di proseguire con la procedura di infrazione nel caso in cui il governo di Varsavia non ritiri o modifichi in modo incisivo la riforma. La Corte di Giustizia si era già pronunciata su una modifica della composizione dei giudici della Corte Suprema, costringendo il PiS a ritirare la precedente riforma. L’attacco politico alla Corte Suprema nazionale è continuato negli anni e a fine aprile ha avuto il suo successo, con la resa della presidente Małgorzata Gersdorf, da tempo nel mirino delle invettive del PiS.

Le precedenti censure dell’Unione non hanno frenato il processo di smantellamento dello Stato di diritto avviato dal PiS, abile nel serrare i ranghi nel momento dello scontro. Il ministro della Giustizia ha sottolineato come l’Unione Europea voglia imporre a tutti i costi la propria visione, aggiungendo che “se apriamo la porta sulla riforma giudiziaria, ci imporranno il matrimonio omosessuale”.

Nel caso si arrivi a un punto di non ritorno, la Commissione europea potrebbe decidere di ricorrere alla procedura secondo l’articolo 7 dei trattati UE, prevista in caso di “violazione grave e persistente dei principi sui quali poggia l’Unione”. Tale procedura permetterebbe di arrivare fino alla sospensione dei diritti di voto della Polonia nelle istituzioni europee  tra cui vi è lo Stato di diritto. Tuttavia, è necessario il voto all’unanimità del Consiglio europeo, uno scenario difficile da ipotizzare che necessiterebbe dell’improbabile voto favorevole dell’Ungheria, solido alleato di Varsavia – ed essa stessa oggetto di una procedura secondo l’articolo 7 sin dal 2015.

In uno scenario ancora più estremo, la Commissione potrebbe chiedere una pronuncia del Consiglio europeo nei confronti di Polonia e Ungheria, congiuntamente. Si tratta, naturalmente, di un’ipotesi ben lontana, dato che la procedura di infrazione è ancora nella fase iniziale. Il tramonto di una democrazia, invece, può avvenire molto più rapidamente.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 22, 2020, 01:02:33 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Ue-sempre-di-meno-sempre-piu-anziani-200096

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Ue: sempre di meno, sempre più anziani

Una raccolta di dati dell’EPRS delinea il futuro demografico dell’UE. Nel 2080, se si manterranno i trend attuali, scenderemo dai 513,5 milioni attuali a 504,5. E non si fermerà l'emorragia di popolazione dalla campagne. Uno sguardo che dalla situazione globale arriva al sud-est Europa

21/05/2020 -  Miriam Santoro
Uno studio  presentato dal servizio di ricerca del Parlamento europeo (EPRS) offre un’interessante panoramica sulle prospettive demografiche dell’UE e dei paesi di tutto il mondo. Il report analizza come la demografia influenzi i settori più disparati, dall’economia al mercato del lavoro, dalle pensioni alla sanità, dall’ambiente al cibo e nutrizione. Nel contesto dell’UE, è interessante vedere che spesso i dati relativi alla situazione nei paesi dei Balcani divergano e contrastino con quelli relativi agli stati membri Ue.

Crescita lenta ed invecchiamento della popolazione: queste sono le due maggiori tendenze in Europa che emergono nella prima sezione del report. Dal 1960 al 2019 infatti, la popolazione dell’Unione europea è cresciuta da 406,7 milioni a 513,5 ma si prevede un'inversione di tendenza nel prossimo futuro (da 524,7 milioni di persone nel 2040 a 504,5 milioni nel 2080). Il quadro europeo contrasta con la costante ed intensa crescita demografica a livello globale, protagonista degli ultimi decenni: da circa 3 miliardi di persone nel 1960, la popolazione ha raggiunto i 7.7 miliardi nel 2019 e si prospetta che crescerà ulteriormente fino a raggiungere i 10 miliardi nel 2057.

L’invecchiamento della popolazione dell’UE è una situazione comune a tutti i paesi membri: nel 2050, solamente due persone in età lavorativa provvederanno al sostentamento di una persona over 65, contro i dati del 2001 secondo cui per ogni anziano over 65 erano attive 4 persone in età lavorativa. Nel 2070, la Croazia raggiungerà l’età media più alta d’Europa, 52,6 anni, una differenza notevole rispetto all’età media nel 1970 in Svezia (35 anni) e nel 2019 in Italia e Germania, 46 anni. Il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione dipende da un diffuso incremento delle aspettative di vita e dal tasso di fecondità costantemente in discesa.

L’aumento della speranza di vita, conseguente ad un miglioramento della qualità della vita, è riscontrabile in tutti i paesi ‘’sviluppati’’. Negli anni resta comunque notevole la differenza tra uomini e donne: secondo i dati, in Europa l’aspettativa di vita è di 82.6 anni per le donne nel periodo 2015-2020 contro una media di 77.1 per gli uomini negli stessi anni (negli anni 1960-1965 era invece 72 per le donne  67.0 per gli uomini). Per quanto riguarda il tasso di fecondità, in tutta Europa si è verificato un declino: se fino al 1970 era del 2.1 per donna, nel 2017 è sceso a 1.59.

Migrazioni
Date queste premesse, il ruolo della migrazione diventa significativo: se è vero che i flussi migratori non possono modificare radicalmente in breve tempo la situazione demografica in Europa, essi sicuramente influiscono sul numero della popolazione e sul tasso di anzianità e a lungo termine avranno ripercussioni sul tasso di fecondità e sulla speranza di vita in tutta l’UE.

In generale, tutto il pianeta sta assistendo ad un invecchiamento: gli over 65 cresceranno da 612 milioni nel 2015 a più di 1.5 miliardi nel 2050. A questo proposito - secondo gli autori dello studio - può essere d’ispirazione osservare come il Giappone si prepara a fronteggiare questa situazione. Il paese infatti ha il tasso di anzianità più alto del mondo e affronterà un calo demografico in un futuro prossimo. Tra le misure adottate, l’introduzione di sistemi di automazione e il finanziamento della robotica in diversi settori ma per la prima volta si sta valutando anche l’idea di aprire le frontiere alla migrazione. Tuttavia, un intero continente fa eccezione: l‘Africa sarà il motore demografico del mondo con 2.5 miliardi di persone nel 2050. Secondo le statistiche, 1 persona su 4 in età lavorativa sarà di origine africana nel 2050: questa è un’opportunità per lo sviluppo dell’economia del continente anche se sarà necessario investire per una forza lavoro giovane ben istruita e competente e per garantire sufficienti offerte di lavoro.

Città e campagna
Spostandoci verso est, dalla Bulgaria, Croazia e Grecia emerge una situazione ben diversa: forti contrasti demografici possono essere osservati tra i centri urbani e le zone rurali - caratteristica in Europa soprattutto di questi paesi - e lo spopolamento di queste ultime è frutto della migrazione interna all’Unione europea. Le persone dai paesi del sud ed est Europa si spostano verso i centri urbani ed i paesi più sviluppati quali Germania e Regno Unito alla ricerca di lavoro, opportunità di carriera e prospettive economiche migliori.

Secondo un rapporto ESPON, entro il 2050 la popolazione delle aree urbane dovrebbe aumentare di 24,1 milioni di persone e questi centri ospiteranno circa la metà di tutta la popolazione dell'UE. La popolazione delle regioni prevalentemente rurali diminuirà invece di 7,9 milioni. Nei paesi sopracitati, il rischio di esclusione e povertà è il più alto d’Europa come lo è il pericolo della creazione di un circolo vizioso dovuto allo spopolamento che spingerà sempre più persone a lasciare questi territori. La percentuale più bassa di persone che usano internet su base giornaliera è stata registrata proprio nelle aree rurali di questi paesi. Tuttavia, le aree e le attività rurali rimangono un elemento fondamentale dell’economia e della società europea: il report presenta diversi vantaggi della vita rurale che spaziano dal vivere in un ambiente più pulito e una vita più sostenibile alle potenziali opportunità di lavoro in nuovi settori quali l’ecoturismo e l’economia circolare.

Cibo e demografia
Nell’ultima sezione del report, viene presentato un approfondimento sull’impatto del cibo e dell’alimentazione sulla demografia. A livello globale ed a livello europeo emergono due tendenze contrastanti. Nel primo caso infatti, la mancanza di quantità adeguata di cibo nutriente riduce le aspettative di vita. Secondo la FAO, nel 2050 il settore agroalimentare dovrà produrre il 50% in più di cibo per rispondere alla crescente domanda globale. Per arginare il problema, è necessario cambiare le abitudini alimentari (come abbandonare le proteine a base animale), migliorare la distribuzione del cibo, ridurre gli sprechi e finanziare progressi tecnologici nel settore agricolo. Inoltre, l’emancipazione femminile e l’educazione potrebbero rappresentare dei mezzi attraverso cui ridurre il tasso di fecondità.

A livello europeo, l’abbondanza di cibo malsano è la causa di malattie quali l’obesità, il diabete di tipo 2 e le malattie cardiovascolari. Tra le azioni necessarie per fronteggiare questa forma di malnutrizione viene proposta dal report l’educazione alimentare fin dalla prima infanzia, la promozione dell’attività fisica, il miglioramento della sicurezza alimentare migliorando i sistemi di etichettatura e la promozione della ricerca di sistemi alimentari nuovi e innovativi. Parallelamente all’aumento della diffusione dell’obesità, in Europa è evidente la crescita di carenze nutrizionali: secondo Eurostat, 36 milioni di persone in Europa non hanno accesso ad un pasto di qualità che includa carne, pollo, pesce o un equivalente vegetariano ogni due giorni. La Bulgaria registra la percentuale più alta di popolazione che soffre di questa grave deprivazione, 31,4%. L’accesso al cibo è difficoltoso per la metà delle famiglie a basso reddito dei nuovi stati membri dell'UE.

Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network   ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Maggio 22, 2020, 02:22:12 am
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Ue: sempre di meno, sempre più anziani
Questo dovrebbe essere un tema primario anche per i diritti maschili invece di tante *****te e invece è l'unico che viene accuratamente evitato.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 25, 2020, 16:49:15 pm
https://www.eastjournal.net/archives/105538

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GEORGIA: Scontro di potere tra Stato e Chiesa
redazione 3 giorni ago

Osservando lo skyline di Tbilisi dalla cima della collina di Mtasminda, salta all’occhio la grandiosa residenza presidenziale, uno degli edifici voluti da Mikhail Saakashvili quando era alla guida della Georgia per annunciare la sua vena riformatrice. La struttura, però, è sovrastata da un altro complesso, ancora più imponente, che sorge a un paio di isolati di distanza. Si tratta della Cattedrale di Sameba, inaugurata nel 2004 col fine di celebrare i 1500 anni di autocefalia della Chiesa ortodossa georgiana. Questo confronto impari tra architettura civile e religiosa, come vedremo, ben esemplifica le dinamiche di potere nel paese.

Virus e spiritualità

Negli ultimi mesi anche la Georgia è stata colpita dall’epidemia di Covid-19. Fin dall’inizio dell’emergenza, il governo ha preso una serie di misure drastiche per contrastare il diffondersi del virus: chiusura di tutte le attività non essenziali, divieto di uscita salvo casi di necessità e perfino un coprifuoco giornaliero tra le nove di sera e le sei del mattino. Con l’approcciarsi della Pasqua ortodossa (19 aprile), i divieti si sono fatti più stringenti col fine di evitare i raduni famigliari. Il 17 aprile è stato bandito il traffico privato e, negli stessi giorni, veniva annunciata la chiusura dei cimiteri per scoraggiare il tradizionale pasto presso le tombe dei parenti del giorno di Pasquetta.

A fronte di alcune proteste per le difficili condizioni economiche a cui la popolazione è stata sottoposta, sembra che le misure abbiano sortito l’effetto di prevenire il propagarsi dell’epidemia. In questo quadro emergenziale, è scoppiato lo scontro tra il governo e la Chiesa ortodossa georgiana, uno degli attori più importanti nel contesto politico-sociale del paese.

Il primo segno di discrepanza è emerso il 22 marzo. In quella domenica in cui il numero di contagiati cresceva in tutto il mondo, nelle chiese georgiane i fedeli ricevevano la comunione alla maniera ortodossa, con il prelato che usa un cucchiaio comune per distribuire il pane intriso di vino, non proprio il modo ideale di rispettare le norme igienico-sanitarie. Lo scontro è proseguito nelle settimane successive, mentre il governo vietava gli assembramenti di più di tre persone (31 marzo), un modo indiretto di scoraggiare le funzioni religiose, il patriarcato annunciava che le chiese sarebbero rimaste aperte in vista della Pasqua, arrivando a dichiarare che vietare di andare a messa è peccato e il fedele non deve temere il contagio perché protetto da Dio.

Secondo quanto riportato dai media, il numero di persone che hanno presenziato le chiese nella Domenica delle Palme (12 aprile) e il giorno di Pasqua è stato molto più basso rispetto al solito. Nonostante diversi membri del clero si promurassero di mostrare di non temere la malattia con una serie di dichiarazioni – raccolte qui –  tra l’assurdo e il ridicolo, a chi entrava in chiesa veniva misurata la temperatura e veniva richiesto di mantenere una distanza di sicurezza di due metri dagli altri.

“La Georgia è prescelta dalla Madre di Dio. Questo è il volere di Dio. Non è una coincidenza se questa piaga, che si è diffusa in tutto il mondo, non ha colpito la Georgia” Ilia II, 11 febbraio 2020.

Il patriarcato è emerso come la forza dominante da questo braccio di ferro. Il governo non ha mai parlato di chiudere le chiese e la ministra della Salute, Ekaterine Tikaradze, si è messa in ridicolo dichiarando che servirebbe una prova scientifica per dimostrare che usare il cucchiaio comune durante la messa favorirebbe la diffusione del virus.

Rapporti tra Stato e Chiesa

Muoversi in aperto contrasto con il patriarcato è una mossa politicamente pericolosa per un qualsiasi governo georgiano, soprattutto in un anno di elezioni. I sondaggi annuali Caucasus Barometer rilevano che la grande maggioranza degli intervistati non è disposta a votare un partito che si opponga alle idee promosse dalla Chiesa e dal Patriarca, Ilia II, il personaggio pubblico con il più alto indice di gradimento nel paese.

L’importanza della religione ortodossa per i georgiani è legata al passato e, in particolare, al periodo sovietico. In un sistema che minacciava l’esistenza dell’identità nazionale, questa poteva essere riaffermata soprattutto attraverso la fede, unica istituzione prettamente georgiana. Dopo anni di campagne antireligiose, nel 1943 il Cremlino si spostò su posizioni più moderate col fine di usare l’arma ideologica della guerra santa per sconfiggere la Germania nazista. Per la Chiesa ortodossa georgiana, questo significò riacquistare l’indipendenza dal patriarcato di Mosca perduta durante l’epoca zarista e, quindi, ritagliarsi uno spazio di manovra nel sistema sovietico. Il risorgimento religioso del paese si accentuò negli anni del crollo dell’Unione Sovietica e dell’indipendenza ed è legato a doppio filo alla figura di Ilia II.

In carica fin dal 1977, per i georgiani il Patriarca è stato sinonimo di continuità in anni tumultuosi. Mentre gli Shevardnadze e i Saakashvili passavano dalla gloria alla pubblica infamia, Ilia II diventava una figura sempre più influente. Il capo della Chiesa si esprime sulle questioni più diverse, dalla gestione della pandemia alla trasformazione del paese in una monarchia costituzionale e le sue dichiarazioni, spesso di natura ultraconservatrice e omofoba, vengono sempre prese in considerazione dai governi in carica e dalla popolazione.

L’importanza della Chiesa ortodossa georgiana è riconosciuta, a livello costituzionale, da un Concordato siglato nel 2002. Esso, tra le altre cose, garantisce al patriarcato il possesso dei territori delle chiese, l’immunità legale per il Patriarca e l’esenzione dal servizio militare per il clero. L’articolo 8 della Costituzione, riconosce: “Il ruolo eccezionale della Chiesa nella storia della Georgia”, mettendola, di fatto in una posizione privilegiata rispetto alle altre congregazioni religiose – in un paese in cui esiste una consistente minoranza musulmana – e ponendo le basi legali per richieste di esenzioni fiscali.

L’influenza della Chiesa sullo stato e la necessità di presenziare la messa in un periodo come questo sono temi dibattuti anche in Italia, ma la Georgia si differenzia per la congiunzione tra fede e identità nazionale. Sarà interessante capire se, nel prossimo futuro, il successore dell’ormai ultranovantenne Ilia II manterrà un ruolo così rilevante nella vita del paese.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Maggio 25, 2020, 18:21:57 pm
Che male c'è? In Francia, di fronte all'inerzia dei vescovi, alcuno ordini tradizionali hanno adito il Consiglio di Stato per ripristinare le Messe pubbliche e hanno vinto.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 30, 2020, 12:56:53 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Azerbaijan/Azerbaijan-e-Bosnia-schiavi-per-il-progresso-202017

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Azerbaijan e Bosnia: schiavi per il progresso

Dietro alle luci sfavillanti di molti edifici di Baku, capitale dell'Azerbaijan, c'è il sudore e a volte letteralmente il sangue di migliaia di moderni schiavi. Con il coinvolgimento anche di criminali di guerra bosniaci. Un'inchiesta OCCRP

29/05/2020 -  Miranda Patrucic,  Ilya Lozovsky
(Pubblicato originariamente da OCCRP    il 28 aprile 2020)

"Ci trovavamo in una situazione veramente difficile", dice Seudin Zoletić. "Senza soldi. Senza cibo. Senza niente".

Sono passati anni, ma l’uomo, 46 anni, è ancora perseguitato dall’esperienza traumatica che ha vissuto come lavoratore forzato in Azerbaijan. "Quell’esperienza ha segnato la mia vita per sempre".

Zoletić adesso vive nella sua città natale di Živinice, una città operaia nel nord-est della Bosnia Erzegovina. L’uomo ha incontrato un giornalista di OCCRP più volte nel corso di diversi mesi per raccontare la sua storia.

Sigaretta dopo sigaretta, in un caffè locale con musica pop a tutto volume in sottofondo, Zoletić ha ricordato i suoi mesi in trappola in un cantiere in un paese lontano. Ha descritto la sua battaglia per la giustizia, persa contro il regime di quel paese. E ha espresso la speranza che quest’anno, nelle mani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, possa finalmente trovarla.

Zoletić parla ripetutamente della sua famiglia: due figli così promettenti, che chiama i suoi “ragazzi d’oro” e una moglie malata, alla quale è devoto. È stato per sostenere loro che nell’estate del 2009 ha accettato quella che sembrava un’offerta di lavoro promettente in un cantiere della capitale dell’Azerbaijan, Baku. Le persone che l’hanno assunto avevano promesso uno stipendio buono, condizioni eccellenti e un alloggio dignitoso.

Zoletić è uno dei 700 operai provenienti da Bosnia Erzegovina, Serbia e Macedonia del Nord che hanno accettato offerte simili in cerca di una vita migliore. Questi uomini hanno costruito tra il 2006 e il 2009 alcuni degli edifici più noti di Baku, tra i quali un grande spazio per eventi, il Buta Palace  , e un enorme centro espositivo  . Di questi progetti multimilionari, almeno tre sono stati finanziati dal governo.

Gran parte dei lavoratori erano in realtà trattati come moderni schiavi. Insieme ad altre centinaia di operai, Zoletić viveva in uno spazio sovraffollato con poco cibo per un lavoro massacrante di dodici ore al giorno. Il passaporto gli venne confiscato. Alcuni operai venivano picchiati. Uno di loro è morto tra le braccia di Zoletić. Gli stipendi promessi erano considerevolmente ridimensionati o non pagati affatto.

Zoletić non aveva idea di chi ci fosse dietro SerbAz, l'azienda che lo aveva assunto. Un’inchiesta di OCCRP rivela che ci sono forti ragioni per sospettare che l’azienda fosse nelle mani della moglie e di uno stretto collaboratore di Azad Rahimov, il ministro per la Gioventù e lo Sport. Il ministero aveva affidato a SerbAz diversi progetti di costruzione dal valore di 54 milioni di manat (65,8 milioni di dollari).

L'inchiesta
Zoletić è un testimone potente della difficile condizione dei suoi compagni di lavoro, ma questa storia non si basa solo sulla sua esperienza. I reporter hanno intervistato otto uomini bosniaci che erano bloccati in Azerbaijan, oltre ad aver esaminato centinaia di pagine di atti giudiziari, testimonianze, rapporti e altri materiali per provare e completare i loro racconti.

Se verranno confermate, le nuove prove presentate da OCCRP incastrerebbero Rahimov in uno dei più grandi casi di sfruttamento lavorativo dell’Europa di oggi. Si solleverebbero domande anche sulla famiglia presidenziale, che rimane saldamente al potere dal 2003. Rahimov è noto infatti per essere uno stretto collaboratore del Presidente, Ilham Aliyev; una delle strutture private per le quali gli operai hanno lavorato, un centro commerciale di lusso, appartiene ora alla famiglia Aliyev.

Azad Rahimov, sua moglie Zulfiya e il suo socio non hanno risposto alle richieste di commentare questa storia. L'azienda che oggi possiede il centro commerciale ha negato di aver ingaggiato SerbAz nel lavoro e non ha fornito ulteriori informazioni, dichiarando che si tratta di contratti commerciali confidenziali.

Gli sforzi di Zoletić per ottenere giustizia in Azerbaijan sono falliti. Un ricorso per il suo trattamento è stato più volte rigettato dalle corti nazionali, mentre un attivista che se n'è fatto carico è stato cacciato dal paese. La sua ultima speranza è la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che dovrebbe pronunciarsi sul caso entro l’anno.

Mentre molti altri operai sono stati riluttanti a parlare dei loro giorni in Azerbaijan, Zoletić ha detto che per lui era importante parlare: "Se più persone sono a conoscenza di questa situazione, sarà difficile che accada di nuovo".

Per sperne di più
Per saperne di più su Rahimov e SerbAz, il secondo racconto di questa serie è disponibile qui

"Non avrei mai immaginato che la vita potesse essere così crudele, che potessero essere inflitte tante ingiustizie", ha detto. "Nel ventunesimo secolo".

“Mi fidavo di SerbAz”
Zoletić ricorda la sua infanzia nella Jugoslavia socialista felice e spensierata. Suo padre, un minatore, aveva un salario dignitoso che consentiva alla famiglia di vivere bene. Zoletić si ricorda di quando giocava a “indiani e cowboy” su una collina vicino casa, piuttosto lontana dal centro di Živinice. Lì i suoi vicini tenevano gli animali da fattoria nelle loro proprietà. Ancora oggi è molto affezionato al suo piccolo angolo di Bosnia.

"La vita è bella", dice. "Amo il mio paese. E Živinice. [Anche] in questi momenti difficili, la trovo bellissima".

Invecchiando, Zoletić ha subito numerose delusioni.

Da giovane, gli si prospettava una carriera nel basket, ma un infortunio lo costrinse a smettere. Il suo sogno di arruolarsi svanì quando l’Armata popolare jugoslava non lo ammise - per il fatto di essere musulmano, ritiene. Qualche anno dopo, quando la Jugoslavia si disintegrò, si unì all’esercito della Bosnia indipendente.

Dopo essere stato congedato nel 1997, Zoletić venne assunto in una grande fabbrica di scarpe di Tuzla, finendo per apprezzare quel lavoro ripetitivo e guadagnandosi una promozione alla posizione di supervisore.

Ma nel 2009 la sua fabbrica, così come molte altre in Bosnia, era in difficoltà. Gli operai, pagati pochissimo, scesero in piazza per chiedere l’aiuto del governo. Zoletić dovette trovare un modo migliore per sostenere la sua famiglia.

Fu allora che sentì parlare per la prima volta di SerbAz, un’azienda che stava assumendo personale in Bosnia per lavori di costruzione ben pagati in Azerbaijan.

"Ero interessato", dice. "Perché non avrei dovuto esserlo? … Soprattutto dopo aver visto persone che andavano e tornavano con i soldi".

Insieme ad altre persone, Zoletić si recò in un’altra città per incontrare il reclutatore di SerbAz. Gli venne offerto un lavoro di costruzione, per il quale doveva firmare una breve dichiarazione che elencava i termini del suo impiego e precisava le regole di condotta. Zoletić si rende conto solo ora che non si trattava di un contratto legale - e che quello avrebbe dovuto essere un segnale di avvertimento di quello che sarebbe avvenuto.

Ma in quel momento la promessa di uno stipendio dai cinque agli otto dollari all’ora era troppo invitante. "Ero ottimista, questo è sicuro", dice Zoletić. "Mi fidavo di SerbAz".

Attese settimane prima di sapere che era il momento per lui di andare, settimane durante le quali chiamò più volte i rappresentanti dell’azienda. Due mesi dopo la firma gli venne detto di fare i bagagli.

Insieme ad altri venti uomini di Živinice, Zoletić salì su un minibus per la capitale serba, Belgrado, dove furono raggiunti da un altro gruppo di uomini bosniaci. Molti erano più giovani e meno esperti di lui. Alcuni erano ancora adolescenti.

Ma tutti condividevano l’ottimismo di Zoletić. In Bosnia, anche quelli abbastanza fortunati da avere un lavoro non guadagnavano tanto più di 200 dollari al mese. Se le promesse di SerbAz fossero state vere, avrebbero guadagnato quella cifra in pochi giorni nella lontana Baku.

"Eravamo diretti verso un futuro più luminoso", afferma Zoletić. "Questo è quello che credevamo".

"La realtà ti colpisce"
Atterrato in Azerbaijan, Zoletić capì quasi subito che il suo destino non era più nelle sue mani.

Criminali
Saša Lipovac, uno dei due uomini che raggiunsero il gruppo all’aeroporto, era una delle persone più terrificanti che gli operai incontrarono in Azerbaijan. Lipovac figura spesso nei racconti di Zoletić come uno scagnozzo e un picchiatore che ricorreva alla violenza fisica alla più piccola infrazione. Zoletić ed altri operai lo descrivono come “malvagio” e “sadico”. Quando lo incontrarono all’aeroporto di Baku, Lipovac, serbo-bosniaco, era ricercato per i crimini commessi durante la guerra in Bosnia Erzegovina. Venne in seguito riconosciuto colpevole da una corte bosniaca per aver ucciso civili, ferito due bambine e commesso molteplici stupri, tutto in una notte. Un avvocato che si è occupato del caso ha detto che è stato il crimine “più atroce” avvenuto durante la guerra nei pressi di Banja Luka. Lipovac è stato condannato a dieci anni di carcere.

Dopo aver passato i controlli immigrazione e aver ottenuto un visto turistico della durata di un mese, Zoletić racconta che il suo gruppo venne raggiunto da due uomini che descrive come “capi”. I nuovi arrivati avevano un atteggiamento da soldati e dissero di consegnare loro i passaporti per tenerli al sicuro.

Zoletić dubitava che qualcun altro potesse custodire il suo passaporto meglio di lui. Tuttavia, realizzando che non aveva altra scelta, fece quello che gli veniva detto.

Poi il gruppo è stato fatto salire su dei minibus. Zoletić si sedette e aspettò, preoccupato per il suo passaporto e ansioso di sapere dove sarebbe stato portato. Era seduto vicino ad altri tre uomini che venivano da Živinice. Le persone venivano fatte scendere in punti diversi, Zoletić pregò che lui e i suoi amici finissero nello stesso posto.

Alla fine, il minibus si fermò davanti a una casa enorme, circondata da mura alte quattro metri e con un grande cancello di ingresso. Zoletić ricorda di essere rimasto scioccato nel vedere che almeno cento persone vivevano già lì dentro. "Ci guardavamo l’un l’altro: ‘Cos’è questo posto? Oh mio Dio, dove sono?’".

"Non c’era altro spazio [per noi]," ricorda. "Non per sei persone, ma neanche per due". I loro supervisori improvvisarono una sistemazione, mettendo dei letti per lui e i suoi amici in un corridoio.

Al gruppo venne detto che era consentito lasciare la casa solo con un’autorizzazione da parte delle guardie. "Potremmo scappare, scavalcare la recinzione", pensò Zoletić. "Ma poi dove potremmo andare senza i nostri passaporti?"

Zoletić non era l’unico ad essere scioccato. Anche tutti gli altri operai stranieri erano collocati in case simili, eccetto i lavoratori specializzati. In ogni stanza erano disposti talmente tanti letti a castello che era difficile passare. In media, ventiquattro persone condividevano una stanza. I corridoi, una sauna e persino una piscina erano stati convertiti in camere da letto per poter ospitare più operai.

Il primo giorno, Zoletić venne confortato dalle persone che erano lì da più tempo, che lo incoraggiarono a pensare positivamente. Ma le cose cambiarono quella sera, quando i sorveglianti andarono a visitare la casa. Informarono gli operai che avrebbero trattenuto i loro stipendi come precauzione, per evitare che li spendessero tutti in una città straniera. I lavoratori non sarebbero stati pagati finché non fossero tornati a casa.

Fu così che Zoletić conobbe i “caschi bianchi”, come lui e gli altri lavoratori chiamavano i sorveglianti. Per i mesi successivi questi uomini, che non erano originari dell’Azerbaijan ma provenivano dalle sue parti, avrebbero stabilito come avrebbe passato ogni ora delle sue giornate.

Nel delirio
Le giornate lavorative da dodici ore erano massacranti. Ogni mattina, Zoletić e gli altri venivano svegliati da un sorvegliante della casa poco dopo le cinque e condotti ai loro rispettivi cantieri. Il suo incarico era di installare pannelli di drenaggio dove sarebbe sorto il futuro centro espositivo.

I pasti gli erano portati sul cantiere, ma il cibo era scarso. A volte il pasto consisteva solo di un po’ di salame, uova sode e pane raffermo. "Solo il tè era buono", dice Zoletić. "Si poteva bere insieme al pane".

Nelle interviste, molti operai hanno detto che nel periodo trascorso a Baku erano sempre affamati e avevano perso peso.

"Molti sembravano essere appena usciti da un campo di concentramento… Erano irriconoscibili in confronto a quando erano arrivati", dice Zoletić.

Per integrare il poco cibo che ricevevano sul cantiere, gli operai potevano comprare qualcosa in più in una mensa gestita da SerbAz nel loro complesso residenziale, sottraendo soldi ai loro futuri stipendi. Zoletić sostiene che il sistema era pensato appositamente per evitare che se ne andassero - descrivendola come "una prigione semi-aperta".

Gli uomini non rientravano a casa prima delle nove di sera. Dopo una giornata lavorativa di dodici ore, le caviglie di Zoletić erano gonfie e facevano male. "Iniziai a mettere a congelare una bottiglia d’acqua da mezzo litro prima di andare a lavoro la mattina. La utilizzavo per massaggiare i piedi quando tornavo".

In quell’edificio che ospitava decine di persone c’erano solo due docce e due bagni. Gli operai dovevano aspettare ore per utilizzare il bagno. "Quando arrivava il tuo turno di farti una doccia e lavarti i piedi si erano già fatte le 10:30 o le 11:00", dice Zoletić. Ricorda che dormiva solo cinque o sei ore a notte.

A volte non riusciva a dormire neanche quel poco. Ricorda che in alcune occasioni veniva svegliato dal sorvegliante che correva per i corridoi e bussava alle porte. Gli uomini si alzavano in biancheria, tremando dal freddo.

"Era un alcool test, pensa", dice Zoletić. "Ti dicevano di soffiare. Eravamo tutti allineati e loro ci controllavano. È inconcepibile. Ancora assonnato, provavi a capire cosa stava succedendo. Stavi sognando? Era un incubo".

Quelli che risultavano positivi ricevevano una multa di 500 dollari sul loro salario immaginario. La tecnica di “multare” i lavoratori per ridurre i loro guadagni e inculcare l’obbedienza era una minaccia costante.

"Il sorvegliante controllava come venivano rifatti i letti", racconta Zoletić. "Se non erano sistemati come voleva lui, venivamo multati". Anche fermarsi un attimo per riposare o andare troppe volte in bagno sul cantiere comportavano multe.

Un giorno, gli operai pensavano che il loro lavoro fosse finito e posarono i loro attrezzi. Uno dei sorveglianti è corso fuori e ha urlato di tornare a lavorare per un altro minuto. "Nel tempo che ci abbiamo messo a tornare indietro, quel minuto era passato. Stavano solo mostrando i muscoli".

"Quella situazione mi ferì molto", dice Zoletić, ricordando l’umiliazione. "Era inumano".

In una calda giornata estiva, un collega per una disattenzione fece cadere un tubo metallico colpendo Zoletić sulla testa, che iniziò a sanguinare abbondantemente. I capi fecero arrivare un medico che ricucì la ferita, ma non gli venne mai fatta una diagnosi o un esame dettagliato. "Mi trattarono come un cane", ha detto.

I suoi colleghi lo aiutarono con una colletta per comprare le medicine. Ma Zoletić era preoccupato che senza delle cure mediche appropriate, la ferita potesse infettarsi.

"Pensavo alla mia famiglia", dice. "Se solo avessi potuto volare e andarmene da lì. Era una battaglia per la sopravvivenza".

Tre giorni dopo, con la ferita ancora aperta e i punti in testa, venne rimandato a lavoro.

Morte nella struttura
Le condizioni difficili iniziarono a metterli a dura prova. Ad agosto, un operaio di Živinice, un uomo che Zoletić conosceva, morì di infarto nel suo dormitorio in un’altra città dell’Azerbaijan dove SerbAz stava realizzando un progetto di costruzione.

All’inizio di ottobre ci furono dei giorni in cui non c’era molto lavoro da svolgere. Zoletić e gli altri rimanevano in casa senza far niente - e senza avere nulla da mangiare. "Sembrava un periodo di crisi", ha detto. "Si poteva vedere facilmente nella mensa, dove erano rimasti pochi alimenti. E non ne venivano portati altri".

Un pomeriggio, un operaio si sentì molto male. Gli altri lo portarono in cortile e tentarono di rianimarlo, ma non ci riuscirono. L’uomo morì tra le braccia di Zoletić.

Ricorda di aver visto in passato quell’uomo, un ingegnere meccanico, bere caffè e fumare in giardino per conto suo. "È rimasto lì per poco tempo", ha detto Zoletić. "Era psicologicamente abbattuto, tutti lo eravamo, chi più chi meno. Lui purtroppo non è riuscito a sopportarlo".

"La vicenda ha scioccato tutti. In una situazione che sarebbe stata folle in ogni caso, stavamo guardando un uomo morto… Eravamo fuori di testa. Cosa avremmo dovuto fare? Cosa sarebbe successo? Arrivò la polizia".

Gli agenti interrogarono gli operai, ma sembrava non avessero alcun interesse alle loro condizioni, alle motivazioni che li avevano spinti ad andare lì o all’assenza di documenti validi per l’immigrazione. Continuavano ad essere in trappola.

Qualche giorno dopo vennero tagliati gas, elettricità e acqua. "Non avevamo più niente", dice Zoletić.

Nella disperazione, notò una cosa positiva: sebbene i lavoratori provenissero da paesi diversi di una regione che aveva attraversato una guerra da non molto tempo, il passato sembrava non contare. "Eravamo uniti", afferma Zoletić. "Come fratelli".

Gli uomini iniziarono ad aprirsi e Zoletić ascoltò storie dell’orrore. "Le persone venivano picchiate in stanze dove la musica veniva alzata a tutto volume", ha detto. "In questo modo gli altri non avrebbero sentito le urla".

La verità viene a galla
La disperazione degli operai riuscì alla fine a catturare un’attenzione più ampia.

Il primo a notare la loro condizione fu un uomo che vendeva cibo e sigarette in un chiosco situato vicino a un cantiere di SerbAz. Vide che i lavoratori avevano iniziato a non avere più soldi ed erano evidentemente affamati. Per giorni, consentì loro di comprare cibo e sigarette a credito.

Il negoziante contattò un’organizzazione no-profit locale che si occupava di assistere i lavoratori stranieri, l’Azerbaijan Migration Center, guidata da un ex poliziotto, Alovsat Aliyev. Uno degli impiegati di Aliyev lanciò attraverso la recinzione un opuscolo sull’organizzazione e presto un operaio si mise in contatto con loro.

Aliyev organizzò un incontro vicino alla struttura. L’operaio dovette uscire in segreto per evitare la vigilanza. Le sue descrizioni e le sue foto sulle condizioni in cui vivevano furono sufficienti a far entrare in azione l’attivista.

Il primo passo di Aliyev fu di entrare in contatto con la stampa. In un paese noto per la repressione dei media, si recò presso Radio Free Europe/Radio Liberty (RFE/RL), fondata dal governo USA e uno dei pochi media che conducevano giornalismo indipendente nel paese (ora è stata chiusa).

Insieme ai reporter di RFE/RL, si precipitò nella struttura. Una ripresa effettuata dai giornalisti  mostra il momento in cui Aliyev incontrò per la prima volta gli uomini imprigionati. Sono magri e affamati e si accalcano intorno ai loro soccorritori. C’è anche Zoletić.

"Ho guardato il loro cibo", dice Aliyev. "C’era della zuppa in un pentola da cinquanta litri con qualcosa dentro. Ho aperto il frigo e non c’era niente. Niente acqua potabile. Non c’era acqua neanche per farsi la doccia".

"Era terrificante", ricorda. Aliyev ha immediatamente organizzato una conferenza stampa ed è entrato in contatto con le ambasciate dei lavoratori e con organizzazioni internazionali.

Le autorità si rifiutarono di intervenire, così l’Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) e altre istituzioni finanziarono l’organizzazione di Aliyev per la fornitura di cibo e prodotti igienici per quegli uomini.

"Fu così che iniziò la nostra liberazione", dice Zoletić. "Facemmo le nostre dichiarazioni. Loro vennero a vedere le nostre condizioni di vita e ne rimasero sconvolti".

"Iniziarono a fornirci dei cestini per il pranzo, come durante la guerra in Bosnia".

La storia di quegli operai arrivò ai media e i loro capi e sorveglianti sparirono di fronte all’attenzione pubblica. I cancelli per entrare nella struttura si aprirono, ma gli operai ancora non avevano idea di cosa stesse succedendo, né gli erano stati dati i loro salari e i passaporti.

Vissuto comune
L’esperienza descritta in questa storia è stata comune alla maggioranza degli operai. Tuttavia alcuni, tra coloro che rivestivano posizioni di più alto livello, non ritengono di essere stati trattati male. Alcuni hanno persino firmato per rimanere per dei periodi aggiuntivi in Azerbaijan.

Dietro le quinte, Aliyev stava tenendo incontri con rappresentanti del governo. Cercava di arrivare alla qualificazione di quegli operai come vittime di tratta, di fargli ottenere i loro stipendi e di farli tornare a casa. Ma la procedura era lenta e incontrava rigide resistenze.

I lavoratori erano sempre più disperati. "Un uomo minacciò di buttarsi dal tetto se non veniva lasciato andare", ricorda Zoletić. Quando venne mandato a casa, gli altri cercarono di attuare diverse tattiche per costringere l’azienda a rimandarli al loro paese, tra le quali dormire in strada e organizzare proteste pubbliche.

Alla fine SerbAz iniziò a mandarli a casa un po’ alla volta. Ogni mattina, gli impiegati dell’azienda rilasciavano una lista di coloro che potevano andarsene quel giorno. Dato che il suo nome era l’ultimo in ordine alfabetico, Zoletić dovette aspettare più a lungo di tutti gli altri.

Per passare il tempo, girava per le strade di Baku. A volte saliva su un autobus a caso e arrivava fino al capolinea. Il poco russo che conosceva gli consentì di fare amicizia con alcuni ragazzi. Fece qualche partita di calcio con loro riuscendo, almeno per un po’, a dimenticare la sua situazione.

Dopo venti giorni di attesa, Zoletić vide finalmente il suo nome sulla lista. "È stata una gioia indescrivibile", dice. "Stavo tornando a casa. Non sono riuscito a dormire quella notte".

Per ottenere il loro misero stipendio, i lavoratori dovevano firmare una dichiarazione sostenendo che non gli si doveva alcun altro denaro per il loro lavoro in Azerbaijan.

Il processo bosniaco
Nel processo bosniaco la corte dichiarò che SerbAz era il datore di lavoro legale, sottolineando che l’intestazione dei contratti che erano stati firmati riportava “SerbAz”. Da parte loro, i lavoratori dichiararono di non aver mai sentito parlare di Accora Business, la società di Anguilla.

"Abbiamo ricevuto un foglio da firmare in cui si affermava che tutto si era svolto normalmente, che era andato tutto bene e che loro non mi dovevano niente. Dopo aver firmato, mi pagarono una cifra arbitraria, nessuno sa come erano stati fatti i calcoli", afferma Zoletić. La cifra finale era stabilita da SerbAz e nessun operaio intervistato da OCCRP ha detto di aver ricevuto quanto si aspettava di aver guadagnato.

Zoletić e gli altri vennero accompagnati all’aeroporto dalla polizia e finalmente ebbero indietro i loro passaporti. Neanche il misero stipendio poteva smorzare la loro felicità. Sull’aereo esplosero in canti, cantando all’equipaggio “Čarsija,” un canto nostalgico bosniaco sul ritorno a casa.

Zoletić ricorda l’emozione che provò quando si ritrovò unito alla sua famiglia dopo tre mesi vissuti da schiavo. "Felicità per essere tornato a casa. Felicità per aver rivisto i miei cari. Felicità perché loro rivedevano me".

Una battaglia per la giustizia
Da quando sono tornati, Zoletić e gli altri sono diventati figure chiave in diversi procedimenti legali avviati in risposta al loro trattamento.

Astra, un’organizzazione serba anti-traffico, ha passato alcune settimane a raccogliere le testimonianze degli operai e ad aiutarli a tornare alle loro vite. Sulla base del suo rapporto, i procuratori bosniaci hanno avviato un’indagine e hanno incriminato tredici rappresentanti locali di SerbAz - gli uomini che avevano reclutato i lavoratori e comandavano sulle loro vite a Baku - per tratta di esseri umani.

Zoletić è comparso in tribunale come testimone. Inizialmente, l’apparente squilibrio delle forze in campo faceva paura. "Da un lato c’eravamo io e il procuratore, dall’altro c’erano tredici avvocati", afferma.

Giustizia a Strasburgo?
Belma Skalonjić, una rappresentante del governo bosniaco alla Corte europea, ha spiegato cosa c’è in gioco nel caso. Il lato azerbaijano continua a negare che ci sia una responsabilità del governo per quanto accaduto ai lavoratori. L’avvocato dei lavoratori, da parte sua, argomenta che “una serie di mancanze da parte del governo,” incluso il rifiuto di indagare sulla loro condizione e il privare i lavoratori di un processo equo, ha avuto una responsabilità nel loro trattamento. Il caso rappresenta una “violazione grave e palese delle garanzie fondamentali che un essere umano ha nel ventunesimo secolo,” afferma.

Ma il disagio scomparve appena iniziò a rispondere alle domande. "Stavo dicendo la verità", dice. "Non avevo più paura di niente".

Adesso era libero e i suoi aguzzini erano accusati di crimini seri. "Loro sono a processo. E io sono nel mio paese. Sono libero".

Il verdetto, dopo numerosi ritardi, è stato una vittoria parziale. Quattro uomini vennero dichiarati colpevoli; uno è stato condannato a un anno e nove mesi di carcere, mentre agli altri tre è stata data la condizionale. Gli altri non sono stati dichiarati colpevoli.

Nel frattempo in Azerbaijan l’organizzazione di Aliyev faceva causa a SerbAz a nome degli operai per il ritardo nel pagamento degli stipendi e per danni morali. Ma ha perso la causa e due successivi ricorsi. La difesa di SerbAz, che convinse i giudici, era basata sul fatto che i lavoratori avevano firmato un contratto non con SerbAz ma con una società satellite, un'azienda di Anguilla, nei Caraibi. Di conseguenza, gli avvocati di SerbAz argomentarono che la legge nazionale non poteva essere applicata al caso.

"Non ci è stata data la possibilità di essere presenti al processo, né di dare la nostra testimonianza", afferma Zoletić. "Credo che non abbiano neanche provato a ricorrere a tutte le vie legali per raggiungere la verità nella corte nazionale".

La questione ha raggiunto la Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo, che dovrebbe emanare una sentenza quest’anno relativa al fatto se i lavoratori abbiano ricevuto o meno un processo equo presso la corte azerbaijana.

Zoletić è ora tornato a Živinice. La fabbrica di scarpe dove lavorava è in bancarotta e lavora part-time in una serra, dove può coltivare il suo amore per le piante.

È orgoglioso dei suoi due figli, ai quali ha potuto parlare pochissimo durante il suo periodo traumatico a Baku. Uno dei due, che ora ha più di vent’anni, si è appena sposato. Il più piccolo è ancora adolescente e vuole proseguire gli studi in tecnologia informatica.

Zoletić è stato chiaro, non sta combattendo per i soldi. "Non c’è somma abbastanza alta per la quale un uomo possa voler passare quello che ho passato", ha detto. "Nessuno può darti abbastanza denaro da riuscire a dimenticare tutto. Ma voglio andare avanti, dimostrare che siamo dalla parte giusta. Perché i responsabili vengano condannati e perché la giustizia possa vincere".
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 30, 2020, 13:01:33 pm
Dice l'italiano medio:
"Certe cose succedono solo in Italia!"
... ah no, cazzo, siamo in Croazia!

Citazione
Croazia: le pericolose allusioni di un ministro

Ancora una volta, e in un paese dell’Ue, i giornalisti si trovano sotto attacco. Il ministro dell’Ambiente croato Tomislav Ćorić scredita il giornalista Hrvoje Krešić citando conversazioni private di quest’ultimo. Sconcerto nelle associazioni di difesa dei giornalisti

28/05/2020 -  Giovanni Vale Zagabria
Eravamo abituati a vedere certe scene in paesi non democratici, dove i leader politici usano le conferenze stampa per insinuare, intimidire e screditare, sogghignando davanti ai giornalisti. Questa settimana, questa stessa tecnica è arrivata in Croazia, paese che attualmente presiede il Consiglio dell’Unione europea. Lunedì, durante una sessione di domande e risposte con la stampa, il ministro dell’Ambiente e dell’Energia Tomislav Ćorić ha attaccato il giornalista delle televisione N1 Hrvoje Krešić citando quello che il reporter avrebbe detto in una conversazione privata. "Per caso, so che…", ha detto a più riprese il ministro, prima di riferire il contenuto di uno scambio "tra giornalisti", del quale è "accidentalmente" al corrente. Una sbavatura? Un fraintendimento? Purtroppo, anche nel caso in cui si tratti di semplice incompetenza da parte del ministro (il contenuto della conversazione rivelata è davvero di scarso interesse), la tecnica usata è delle peggiori e certamente indegna di una repubblica democratica.

L’INA, la Croazia e l’Ungheria
Lunedì, il ministro era chiamato a rispondere su una questione di grande importanza per il paese. Si parlava infatti di INA, la compagnia petrolifera di stato croata, e in particolare di un memorandum d’intesa firmato nel 2018 da Ćorić e rivelato dal settimanale Nacional nel suo ultimo numero. Con il memorandum, il ministro ha autorizzato il trasferimento in Ungheria del petrolio prodotto sul territorio nazionale, per essere raffinato là piuttosto che in Croazia. Il fatto ha un importante risvolto politico, che può essere compreso solo se si conosce la recente storia di INA nei rapporti croato-ungheresi.

Brevissimo riepilogo dei fatti dunque: l’impresa croata INA non è più al 100% statale ma, privatizzata nei primi anni Duemila, è oggi per il 49% di proprietà dell’ungherese MOL. L’operazione di privatizzazione è stata facilitata dal Primo ministro Ivo Sanader (in carica dal 2003 al 2009) che a fine anno scorso è stato condannato a 6 anni di prigione per aver ricevuto una mazzetta da 10 milioni di euro da parte del CEO di MOL, Zsolt Hernadi. In cambio, Sanader ha fatto in modo che MOL ottenesse i diritti di amministrazione di INA. La giustizia croata ha ovviamente condannato per corruzione anche Hernadi, ma Budapest si è sempre rifiutata di estradarlo.

Ora, in Croazia INA controlla due raffinerie, a Sisak e Fiume (Rijeka). Negli ultimi anni, MOL ha fatto sapere a più riprese di voler chiudere l’impianto di Sisak e di considerare la stessa sorte per la struttura fiumana. Il governo Plenković, in carica dal 2016, giocando la carta dell’interesse nazionale ha promesso di ricomprare la quota di INA posseduta dagli ungheresi, ma a due mesi dalla fine del mandato (si vota il 5 luglio) non ha fatto nulla. Ecco che, in questo contesto, la rivelazione di un memorandum INA-JANAF (quest’ultima è l’impresa croata di distribuzione del greggio) che faciliterebbe il trasferimento del petrolio in Ungheria suona come un tradimento delle promesse fatte.

La conferenza stampa
Come ha risposto allora il ministro Ćorić su questo caso spinoso? Cercando di screditare pubblicamente chi lo interrogava. "Per caso, so che lei è insoddisfatto della mia scelta dei membri del CdA di INA - ha detto Tomislav Ćorić al giornalista Hrvoje Krešić - e per caso, so anche che lei conosce personalmente uno di quelli che non sono stati scelti". Ćorić ha poi definito il giornalista "una persona marginalmente coinvolta nel business del petrolio". Com’è arrivato a queste conclusioni? "Perché in uno dei gruppi che voi giornalisti usate per comunicare, lei ha espresso delle critiche", ha risposto il ministro a Krešić, aggiungendo "dia un’occhiata ai messaggi che ha mandato in quei gruppi".

"Non è la prima volta che mi succede una cosa del genere, ma forse questo è il caso più esplicito", commenta Hrvoje Krešić. In passato, ricorda il giornalista, si era sentito dire nell’arco di 24 ore di essere "pro-SDP" dal Primo ministro Andrej Plenković e "vicino all’HDZ" dal leader socialdemocratico Davor Bernardić. "Insomma, non è raro che i politici croati si comportino in questo modo. Ma non mi aspettavo che qualcuno insinuasse un giorno che io sarei stato pagato, corrotto", prosegue il giornalista. Krešić sa a quale gruppo fa riferimento il ministro? "Non so, c’è un gruppo moderato dal portavoce del governo in cui si annunciano dichiarazioni, conferenze stampa. Ci capita di commentare alcuni annunci, tra il serio e il faceto. Ma non sono nemmeno sicuro di aver commentato il caso di INA su quel gruppo", risponde il reporter di N1.

Le dichiarazioni del ministro hanno ovviamente atterrito i giornalisti presenti in sala e scatenato una serie a catena di commenti e condanne. Poco importa infatti che Ćorić abbia letto di persona quei messaggi e che sia stato qualcuno - magari anche un giornalista - a rivelargliene il contenuto, il ministro ha comunque deciso di renderli pubblici, lanciando un messaggio ai colleghi croati che dice: "Fate attenzione a quello che dite fra di voi, perché il governo può venirlo a sapere". Si tratta - inutile dirlo - di un comportamento che mina la libertà di stampa nel paese, preferendo la strada dell’intimidazione e dell’attacco diretto a quella della trasparenza e del dialogo.

Le reazioni
Dopo la conferenza stampa, il premier Andrej Plenković ha difeso il suo ministro, assicurando che il suo governo non sorveglia le comunicazioni tra giornalisti ma che qualcuno ha volontariamente dato quell’informazione a Tomislav Ćorić. Della serie, non c’è nessun sistema di sorveglianza dei giornalisti, ma se qualcuno ci riferisce le loro comunicazioni private, perché non usarle per discreditarli? Lo stesso ministro dell’Ambiente e dell’Energia è intervenuto per assicurare che "mai nella mia vita mi sono sognato di infrangere la privacy di una persona e tanto meno di un giornalista". "Semplicemente - ha aggiunto il ministro - ho ricevuto quelle informazioni da ambienti giornalistici".

"È una mossa incredibile e scandalosa", commenta Hrvoje Zovko, presidente dell’Associazione dei giornalisti croati (HND). "Cosa significa questo comportamento? Che chi fa domande legittime sarà attaccato?", si chiede Zovko, che denuncia "non siamo soddisfatti della comunicazione con questo governo: tanti colleghi non hanno mai ricevuto risposte alle loro domande, altri sono vittime di “guerre ibride”, mentre si alimenta nella società la convinzione che i giornalisti siano colpevoli di tutto". All’esecutivo, l’HND chiede ora di "spiegare come il ministro ha ottenuto quelle informazioni" e di "essere più trasparente sulla vicenda INA-MOL".

Dall’opposizione si levano intanto le voci di chi chiede le dimissioni del ministro. Lo fanno il deputato Bojan Glavašević (ex SDP, ora indipendente), così come la piattaforma Možemo!, mentre il leader dei socialdemocratici Davor Berdardić descrive l’azione del ministro "un trucchetto per distogliere l’attenzione dal vergognoso tradimento degli interessi nazionali da parte di Ćorić e Plenković".

Nel pomeriggio di ieri, è arrivato anche l’intervento di Reporters Sans Frontières: "Siamo inorriditi dal fatto che al ministro Ćorić “capiti di sapere” quello che Hrvoje Krešić ha scritto privatamente ai suoi colleghi e che lo usi per discreditare il giornalista".

"È un comportamento inaccettabile da parte di un governo di un paese membro dell’Ue che detiene la presidenza del Consiglio dell’Ue", ha chiosato RSF.


Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Dario Bernini - Giugno 01, 2020, 18:19:26 pm
Da anni che vivo a Kiev. Sono avvocato Italiano in Ucraina (***spamming commerciale rimosso***).
Mi sembra che ho trovato un vero paradiso. La maggior parte degli italiani non se ne redono il conto questo paese è promettente, è un paradiso fiscale e di investimento. Solo a Kiev, la capitale, ci sono più progetti di costruzione che in tutta Italia.
Nonostante il conflitto armato nell'Ucraina orientale, c'è molta più vita, movimento e opportunità rispetto all'Italia.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 01, 2020, 19:03:28 pm
Ora anche l'Ucraina sarebbe un paradiso ?


https://it.insideover.com/economia/lucraina-in-bilico-tra-crescita-e-poverta.html
Citazione
Povertà radicata
Malgrado le prospettive di sviluppo dell’Ucraina appaiano incoraggianti non bisogna dimenticare il punto di partenza del Paese, che è tra i più poveri d’Europa. Il salario medio mensile è di circa 380 euro, quello minimo si aggira intorno ai 150 euro mentre le pensioni minime raggiungono appena i 52 euro mensili. Non è raro anche nella capitale Kiev, la città più ricca del Paese, imbattersi in anziani ridotti in condizioni di miseria estrema e costretti a mendicare per sopravvivere.


http://www.fataturchinaeconomics.com/2019/10/da-dove-discende-la-corruzione-dellucraina-di-daron-acemoglu-e-james-a-robinson-da-project-syndicate-14-ottobre-2019/

https://it.qwe.wiki/wiki/Corruption_in_Ukraine


Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Giugno 01, 2020, 23:34:46 pm
Dario se non sei venuto solo a fare pubblicità del tuo studio legale, per favore presentati qui:
https://www.questionemaschile.org/forum/index.php/board,6.0.html
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Dario Bernini - Giugno 02, 2020, 12:52:12 pm
E bello di vedere le facce di Italiani surprise quando vengono in Ucraina la prima volta  :wacko: :wacko:
Ucraina sta facendo la stessa strada che fu Polonia.
https://www.atlanticcouncil.org/blogs/ukrainealert/ukraines-underrated-economy-is-poised-for-a-strong-2020/

Non sto cercando di promuovere il mio studio legale qui. Cerco soltanto cambiare un po la impressione su Ucraina.
SI ci sono tanti problemi ancora... e ci vogliono anni per cambiare le cose. Ma nelle citta grandi il guadagnio medio e piu di $900.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Giugno 02, 2020, 13:16:00 pm
 :hmm: Per non essere uno spammer parli un italiano particolare.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 02, 2020, 15:41:55 pm
E bello di vedere le facce di Italiani surprise quando vengono in Ucraina la prima volta  :wacko: :wacko:
Ucraina sta facendo la stessa strada che fu Polonia.
https://www.atlanticcouncil.org/blogs/ukrainealert/ukraines-underrated-economy-is-poised-for-a-strong-2020/

Non sto cercando di promuovere il mio studio legale qui. Cerco soltanto cambiare un po la impressione su Ucraina.
SI ci sono tanti problemi ancora... e ci vogliono anni per cambiare le cose. Ma nelle citta grandi il guadagnio medio e piu di $900.

Sì ma non c'è bisogno di fingere di essere italiani.
Inoltre è significativo il fatto che ho dovuto stimolarti io, perché altrimenti ti saresti guardato bene dall'evidenziare le magagne dell'Ucraina...
Trattasi di un fatto che non mi stupisce minimamente, perché come ho avuto modo di scrivere innumerevoli volte, proprio in questo forum, gli abitanti di altri paesi tendono regolarmente ad occultare i guai della propria nazione, al contrario degli italiani che invece godono nell'autoflagellarsi.
Il motivo è semplice: gli stranieri sono nazionalisti, gli italiani no.
A parte una ristretta minoranza, gli abitanti del Bel Paese sono esterofili e campanilisti.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: fritz - Giugno 03, 2020, 00:48:08 am
gli abitanti di altri paesi tendono regolarmente ad occultare i guai della propria nazione, al contrario degli italiani che invece godono nell'autoflagellarsi.
Il motivo è semplice: gli stranieri sono nazionalisti, gli italiani no.
A parte una ristretta minoranza, gli abitanti del Bel Paese sono esterofili e campanilisti.

Sono d'accordo con te tranne in un punto: gli italiani non sono in maggioranza autorazzisti. È la stampa e la magistratura ad avere questa tendenza (e ci sarebbe da aprire un topic a parte su quest'argomento). Purtroppo è una minoranza assai rappresentativa quella degli autorazzisti italiani, la quale occupa i posti di potere.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: fritz - Giugno 03, 2020, 00:51:39 am
@Dario Bernini

Immagino che tu sia ucraino. L'Ucraina è un paese che vedo sempre amichevolmente, mi pare inoltre che nella zona di Odessa ci sono parecchi discendenti di italiani. Sei di quelle zone?

Tuttavia l'economia ucraina come quella di tutta l'est europa (incluse in parte anche R. Ceca e Ungheria) è ancora troppo povera per gli standard occidentali.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 03, 2020, 01:08:37 am
Sono d'accordo con te tranne in un punto: gli italiani non sono in maggioranza autorazzisti. È la stampa e la magistratura ad avere questa tendenza (e ci sarebbe da aprire un topic a parte su quest'argomento). Purtroppo è una minoranza assai rappresentativa quella degli autorazzisti italiani, la quale occupa i posti di potere.

Non credo esistano statistiche ben precise al riguardo, ma se devo basarmi sulla mia esperienza posso tranquillamente affermare che la maggioranza degli italiani è autorazzista.
In particolar modo se si parla di uomini avanti con gli anni (esempio: mio padre quasi ottantenne).
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: fritz - Giugno 03, 2020, 01:19:29 am
Ti posso dire che di sicuro gli autorazzisti li trovi nelle scuole e nelle università. E questo è un gran danno, perché influenzano generazioni sin dagli albori. L'informazione italiana è palesemente in mano a  correnti eversive filo europeiste, di cui non voglio discuterne qua ma verso cui nutro forti riserve e critiche. Tra questi, per esempio, lo slogan della Cirinnà "dio, patria e famiglia: che vita di merda" (salvo poi dire l'esatto contrario in piena pandemia covid-19).

Purtroppo questi sono l'esempio perfetto di ciò  che intendo. Nelle università si invitano le persone ad andare all'estero, li si incita in tutti i modi raccontando loro che fuori c'è l'el dorado. Sì, l'el dorado che finisce in un cesso di 20mq a lavorare come precari a vita all'estero, arricchendo quei paesi e impoverendo l'Italia (dove, qualora fossero rimasti, avrebbero avuto ben altra più fortunata sorte anche con un minor stipendio).
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 06, 2020, 19:47:01 pm
https://www.eastjournal.net/archives/106423

Citazione
RUSSIA: La mutilazione genitale femminile approda in tribunale
Lilly Marciante 2 giorni ago

Per la prima volta, in Russia, una vicenda di mutilazione genitale femminile è diventata motivo di procedimento penale: una bambina di nove anni nel giugno 2019 è stata illegalmente sottoposta a escissione clitoridea a Magas, capitale dell’Inguscezia, repubblica autonoma situata nel Caucaso settentrionale.

Storia di un’escissione illegale

La bambina, originaria della Cecenia, era stata invitata insieme al fratello dal padre, che vive in Inguscezia con la seconda moglie, per trascorrere insieme il fine settimana. Durante la permanenza è stata forzatamente portata in una clinica dove le è stata praticata una forma di mutilazione genitale femminile, l’escissione. Ad accompagnare la piccola nella clinica Ajbolit di Magas è stata la moglie del padre, con il pretesto di un vaccino. Una volta arrivate, la bambina è stata fatta sedere e minacciata di morte qualora si fosse ribellata. Mentre la donna e il personale della clinica le tenevano ferme braccia e gambe, la ginecologa Izanja Nal’gieva ha eseguito l’escissione.

Al momento dell’intervento non c’era nessun rappresentante legale della piccola e gli adulti presenti le hanno detto che era una procedura comune per tutte le bambine. Quando la bambina è tornata a casa piangendo e con evidenti tracce di sangue, il fratello ha dato l’allarme alla madre in Cecenia. A quel punto, i piccoli sono stati rimandati a casa dal padre che ha dato loro una somma di 500 rubli (circa 7 euro) per il viaggio di ritorno. Al telefono con la madre della bambina, il padre ha giustificato l’intervento con le parole “non volevo che mia figlia si eccitasse”.

Venuta a conoscenza dei fatti, la donna ha presentato ricorso all’ufficio del procuratore della repubblica di Inguscezia e al comitato investigativo per la Cecenia e il 27 giugno 2019 è stata avviata un’indagine penale contro la ginecologa della clinica. Una settimana dopo l’accaduto, la dottoressa Nal’gieva ha ammesso di aver praticato “un’incisione cutanea a livello del clitoride” d’accordo con i genitori. Più tardi, durante l’interrogatorio, ha cambiato la sua versione dei fatti dicendo di aver fornito solo assistenza medica e non aver eseguito alcun intervento chirurgico: “Ho letto distrattamente il protocollo e ho affermato di aver praticato la circoncisione. Non avevo con me la cartella clinica della paziente e non avevo memorizzato tutte le informazioni”, ha poi ritrattato la ginecologa.

Il caso ha interessato gli attivisti per i diritti umani e alcune Ong che hanno presentato una petizione al fine di incriminare la direzione della clinica per abusi sessuali e danni alla salute di un minore. Il rappresentante della clinica Ajbolit, Beslan Matiev, ha asserito che l’intera vicenda è un tentativo di speculazione ai danni della clinica da parte della famiglia della bambina, aggiungendo che la ricevuta attestante la procedura effettuata era falsa. La Ong Pravovaja Initsiativa (Iniziativa legale) ha dimostrato che la clinica continua a fornire servizi di mutilazione genitale femminile. Nell’account Instagram della struttura, infatti, è riportato che la ginecologa pediatrica Izanja Nal’gieva esegue queste procedure al prezzo di duemila rubli (circa 25 euro). A conferma di ciò, il quotidiano online Meduza ha pubblicato la prima versione del listino prezzi di Ajbolit del luglio 2016 dove il servizio compare al costo di 2.000 rubli. Nel novembre 2018 lo stesso quotidiano ha portato alla luce il caso di una clinica a Mosca che lo offriva per motivi religiosi.

Le mutilazioni in Russia

La pratica della mutilazione, a volte anche chiamata circoncisione femminile, consiste nella rimozione parziale o totale dei genitali esterni femminili. Oltre a essere terribilmente pericolosa, rappresenta una estrema forma di violazione dei diritti di donne e bambine, una vera e propria forma di violenza di genere. La pratica riflette convinzioni ataviche, spesso religiose, ed ha come fine il controllo della vita sessuale di una donna prima e dopo il matrimonio: mantenere la verginità e successivamente garantire la fedeltà al marito.

In un intervento del 6 febbraio 2015, l’allora segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon ha invocato la fine di una pratica tanto barbara. La Ong Stichting Justice Initiative (SRJI) che si occupa di violazioni dei diritti umani, sparizioni, torture e processi iniqui nei territori di Cecenia, Inguscezia e Daghestan, nel 2017 ha portato alla luce diversi casi (almeno 1240) di mutilazione genitale femminile in Daghestan, dove la popolazione è prevalentemente musulmana. Lo studio, condotto dalle ricercatrici Antonova e Siradzhudinova, ha dimostrato che la pratica, nonostante l’assenza di attenzione o di dibattito pubblico, è ancora molto diffusa nel territorio.

A detenere il primato per numero di donne che hanno subìto la pratica sono i distretti di Tsuntinskij e Bezhtinskij, dove tutte le donne intervistate hanno dichiarato di essere state sottoposte a mutilazione; nel distretto di Botlichskij il fenomeno ha riguardato l’80% delle intervistate, mentre nei distretti di Tsumadinskij e Tljaratinskij a subire la pratica è stata la metà delle ragazze. Tutte le donne interpellate hanno dichiarato di aver avuto problemi di natura sessuale e metà di loro di aver subìto un forte trauma psicologico dovuto all’operazione. A decidere di eseguire l’intervento è spesso la madre o altri parenti di linea materna spinti da senso di appartenenza alla comunità o per iniziazione religiosa.

Dalle interviste a personalità religiose, poi, sono emersi pareri discordanti sulla necessità di praticare tali mutilazioni. Le esperte hanno intervistato imam appartenenti alla ‘casta sacerdotale’  e non. I primi sostenevano a gran forza la pratica definendola parte delle prescrizioni dello Sciafeismo, una delle scuole giuridico-religiose del sunnismo islamico; gli imam ‘non ufficiali’ d’altra parte, pur considerandola una pratica religiosa, l’hanno definita inutile e dannosa. Dal momento che più del 90% della popolazione in Daghestan segue lo Sciafeismo, è ragionevole ritenere che gran parte della popolazione locale consideri la mutilazione genitale femminile una procedura obbligatoria. Secondo gli esperti religiosi “[la circoncisione] è un’imposizione sunnita e chiunque lo ignori può cadere nel peccato” e la pratica è condotta per “calmare la follia delle donne”.

La pubblicazione dello studio ha suscitato diverse polemiche in Daghestan. Ismail Berdiev, il muftì della repubblica Karačaj-Circassia, situata nel Caucaso settentrionale, ha dichiarato che tutte le donne devono essere circoncise così da prevenire la depravazione sulla Terra e ridurre la sessualità. Berdiev ha poi ritrattato dicendo che si trattava di uno scherzo. Il muftì ha ricevuto il supporto dell’arciprete ortodosso Vsevolod Čaplin che ha postato sulla sua pagina Facebook il seguente messaggio: “[esprimo] la mia vicinanza al muftì. Spero che non ritratti quanto detto a causa delle crisi isteriche che nasceranno”.

Nel 2016 è stato presentato alla Duma di Stato un disegno di legge sulla responsabilità penale per mutilazione genitale femminile, ma non è ancora stato adottato. La causa intentata nei confronti della ginecologa Nal’gieva e della clinica Ajbolit, se portata a termine, costituirebbe il primo processo che affronta il tema delle mutilazioni genitali femminili in Russia. La madre della bambina ha dichiarato che il giudice ha più volte proposto la riconciliazione fra le parti. Il processo, che è iniziato a dicembre, procede a rilento a causa delle misure restrittive in atto per la pandemia.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 06, 2020, 19:50:03 pm
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RUSSIA: Picchetti di protesta individuali e arresti a catena
Claudia Bettiol 3 giorni ago

Il 28 maggio scorso, a Mosca e San Pietroburgo, sono state arrestate più di una trentina di persone scese in strada a protestare individualmente a sostegno del giornalista e deputato comunale Il’ja Azar, fermato appena qualche giorno prima dalla polizia russa. Formalmente, Azar è stato incarcerato per aver organizzato dei picchetti di protesta individuali, violando così le misure restrittive relative alla quarantena introdotte lo scorso marzo dal sindaco di Mosca, Sergej Sobjanin, per contrastare l’epidemia nel paese. L’accusa nei confronti di Azar è la stessa usata per questa nuova serie di arresti, concatenatisi negli ultimi giorni.

Un picchetto tira l’altro

Corrispondente della testata indipendente Novaja Gazeta dal 2017 ed ex collaboratore di Meduza, il giornalista e deputato comunale Il’ja Azar è stato arrestato lo scorso 26 maggio mentre manifestava da solo vicino all’edificio del ministero degli Interni di Mosca. Azar stava protestando a sostegno di Vladimir Vorontsov, amministratore di una comunità online nota come “Difensore civico della polizia” che pubblica segnalazioni di abusi all’interno del ministero degli Interni russo, quando è stato fermato dalle forze dell’ordine.

Come riferisce il canale Telegram Apologija Protesta (apologia della protesta), il 28 maggio un tribunale distrettuale di Mosca ha condannato Azar a 15 giorni di arresto amministrativo, ritenendolo colpevole di aver ripetutamente violato la legge relativa agli assembramenti, nonostante il fatto che abbia picchettato in solitaria. Oltre alla presunta violazione dell’articolo 20.2 del codice amministrativo di Mosca (partecipazione a una manifestazione non autorizzata), il giornalista è stato multato per aver trasgredito la parte 2 dell’art. 3.18.1: violazione del regime di quarantena di Mosca.

Ben noto per il suo giornalismo investigativo, non è la prima volta che vediamo Il’ja Azar nei panni di attivista od organizzatore di raduni e piccole manifestazioni. Nell’estate del 2019, a Mosca, è stato proprio lui a coordinare una marcia solidale per l’ex collega e amico Ivan Golunov; ed è sempre lui a tenere delle proteste settimanali nella metropolitana della capitale a sostegno dei prigionieri politici. Tuttavia, l’arresto della scorsa settimana ha spinto attivisti e giornalisti a protestare individualmente in segno di solidarietà.

Gli arresti concatenati

Proprio il giorno del suo arresto, alcune manifestazioni di protesta isolate di solidarietà nei confronti di Azar hanno visto l’intervento della polizia nella capitale e in diverse città russe, tra cui Novosibirsk, Ekaterinburg e San Pietroburgo. Gli arresti sono cominciati ancora prima dell’inizio dei picchetti stessi, tanto che diversi attivisti non hanno nemmeno avuto il tempo di tirar fuori i propri cartelli o striscioni di protesta.

Tra i detenuti nella capitale, oltre ad alcuni deputati municipali del partito “Jabloko”, anche numerosi colleghi di Azar: il caporedattore di Mediazona, Sergej Smirnov, Tat’jana Usmanova di Otkrytaja Rossija e gli autori del canale Drugoe mnenie e di Echo Moskvy, Aleksandr Pljuščev e Tat’jana Felgenhauer – solo per citarne alcuni. I protocolli di ognuno riportano le stesse accuse fatte ad Azar, ai sensi degli stessi articoli.

Gli agenti delle forze dell’ordine, intervenuti prontamente, hanno dichiarato che queste azioni individuali sono di natura illegale poiché nella capitale è in vigore un severo regime di quarantena per combattere l’epidemia globale di coronavirus. Tuttavia, il presidente dell’Unione dei giornalisti russi, Vladimir Solov’ëv, ha chiesto di verificare la legalità di questi arresti, poiché le norme non prevedono il divieto di atti individuali. Inoltre, secondo la Costituzione russa, i diritti umani e le libertà – compresa la detenzione per proteste – possono essere limitati dalla legge federale, ma non da un decreto amministrativo emanato dal sindaco.

Tat’jana Usmanova sostiene che la detenzione dei “picchettatori” non ha nulla a che fare con le disposizioni relative all’auto-isolamento dovute alla pandemia; o perlomeno, non nella situazione di Il’ja Azar, il quale, come anche gli altri attivisti arrestati, stava protestando in solitaria: munito di un piccolo cartello, indossava mascherina e guanti e si trovava a distanza di sicurezza dalle persone di passaggio. Un picchetto di protesta individuale che, però, in Russia non è permesso nemmeno ai tempi del coronavirus.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 06, 2020, 20:02:44 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Armenia/Armenia-cenerentola-del-Covid19-202393

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Armenia: cenerentola del Covid19

Nel sud del Caucaso l'Armenia è ad oggi la più colpita dall'epidemia di coronavirus. Data l'impellente crisi economica il premier Pashinyan sonda la disponibilità dell'Unione Economica Eurasiatica di garantire aiuti incontrando però il muro di Putin

05/06/2020 -  Marilisa Lorusso
Con più di 10.000 casi l’Armenia è il paese sudcaucasico colpito più duramente dal Covid-19. Le vittime superano il centinaio e la fascia di età dei deceduti va da un 92enne a un 43enne. I numeri non sono paragonabili a quelli della vicina Georgia, con 800 casi, e dell’Azerbaijan, che non raggiunge i 6000 (qui i dati del 20 aprile per comparare la crescita dei contagi nelle tre repubbliche). Il primo giugno anche il primo ministro Nikol Pashinyan ha reso noto di essere stato trovato positivo al tampone, cui si era sottoposto prima di recarsi in Nagorno Karabakh. L’intera famiglia Pashinyan è positiva e il premier lavora da casa, attualmente asintomatico  .

Lo stato di emergenza dichiarato il 16 marzo e previsto per un mese è stato esteso fino a metà maggio e ha incluso il fermo dei mezzi pubblici, in vigore dal primo aprile. Nonostante lo stato di emergenza alcuni esercizi ed attività con permessi hanno iniziato a riaprire. Dure le pene per chi viola la quarantena obbligatoria che arrivano ad un massimo di 5 anni di reclusione.

L’attività del governo è stata frenetica e, sotto la pressione di una crisi che montava ogni giorno di più, l’esecutivo ha legiferato prevalentemente con decreti con un totale di diciassette pacchetti d’aiuto  varati nelle settimane più drammatiche della crisi.

In Armenia - come ovunque - alla pandemia e al necessario lockdown contenitivo del contagio è conseguita una acuta crisi economica. Il dilemma del bilanciamento fra la sicurezza sanitaria e quella economica attanaglia tutti i paesi, ma è avvertito in modo più drammatico in quelli strutturalmente più deboli, per un tasso di povertà più alto, per una maggiore dipendenza dalle importazioni anche di beni di prima necessità e dalle rimesse dall’estero.

La vulnerabilità economica
Rientra nel gruppo dei paesi che maggiormente risentono della crisi in corso anche l’Armenia, la cui vulnerabilità economica porta ad essere esposta e in forma critica a tutte le sfide che la contrazione economica pone. Il primo ministro armeno ha parlato  apertamente di conseguenze sociali ed economiche catastrofiche e di lungo termine, se i contagi dovessero implicare un nuovo lockdown completo.

Nell’immediato si è dovuto garantire l’accesso a beni di prima necessità ai meno abbienti. Stando ai dati del 2018 il 23,5% della popolazione armena vive al di sotto della soglia della povertà, e molti non sono in grado di accantonare dei risparmi. A questa categoria si aggiungono quelle in via di pauperizzazione, in primis tutti coloro che hanno lavori in nero o con prestazioni largamente extra contrattuali, per i quali l’interruzione dell’attività ha implicato in automatico la fine della retribuzione senza ammortizzazione alcuna. Sull’efficacia dell’intervento del governo nel sostenere categorie particolarmente vulnerabili e in generale la popolazione si è arrivati alle mani in Parlamento  . La rissa che ha visto coinvolto un membro della maggioranza e uno dell’opposizione non è certo il segnale rassicurante e di coesione da far pervenire nel pieno di una parossistica crisi.

Il crollo del potere di acquisto rischia di espandersi nel medio e lungo termine. I numeri della contrazione economica per l’Armenia si muovono intorno a una decrescita del 2% secondo il ministro dell’Economia Janjughazyan  , a fronte di una prevista crescita del 4.9% prevista per il 2020. Altre previsioni sono più negative  . Janjughazyan ha valutato che la flessione nel bilancio dello stato sarà per prima cosa causata dalla contrazione delle entrate fiscali. Sia le sospensioni fiscali in corso, sia un ridotto giro di affari ridurranno il gettito fiscale per l’anno 2020. Il parlamento il 29 aprile ha espresso un voto favorevole alla richiesta di un prestito di 312.5 milioni di dollari, e si cercano ora creditori per mettere insieme questa cifra stimata necessaria per scongiurare una crisi più profonda. Si punta al Fondo Monetario Internazionale pur nella consapevolezza che questo comporterà un notevole indebitamento per il paese.

In tutti i paesi a valuta debole c’è poi preoccupazione per le fluttuazioni monetarie. I debiti sono espressi in valute forti, dollaro o euro, e un crollo del cambio renderebbe l’indebitamento ingestibile. Per il momento, sottolinea Janjughazyan, il cambio drama-dollaro tiene. La stabilità del cambio è fondamentale anche per gli approvvigionamenti. L’Armenia importa una grande quantità di beni, anche di prima necessità, e i prezzi sono espressi in valute forti.

Il rallentamento economico preoccupa non solo il settore delle importazioni ma anche quello delle esportazioni armene. La riduzione della produzione colpisce i paesi esportatori di energia e di materie prime. L’Armenia risente direttamente del secondo fattore, e indirettamente del primo. Il paese esporta infatti minerali, metalli e pietre, che costituiscono il 30% delle esportazioni. Con le industrie che li utilizzano a ciclo produttivo ridotto la scarsa domanda rischia di far collassare l’offerta armena.

Indirettamente, invece, il collasso del mercato energetico che ha portato il petrolio al 20 dollari al barile colpisce la comunità armena via Russia. La Russia si trova infatti ad affrontare sia una pandemia numericamente dilagante, sia una enorme fragilità economica dovuta a una strutturale dipendenza dal mercato dell’energia per la stabilità del proprio budget. Con quest’ultimo messo in crisi da lockdown e crisi economica a pioggia il costo della presente congiuntura colpisce i vari soggetti economici del paese. La comunità armena in Russia è mittente del 45% delle rimesse che raggiungono la repubblica sudcaucasica. Inoltre la svalutazione del rublo e la crisi interna indeboliscono il mercato russo, che da solo farebbe il 28% delle esportazioni armene.

L’Unione Economica Eurasiatica nella crisi
L’interrelazione economica russo-armena si è intensificata dopo l’ingresso di quest’ultima nell’Unione Economica Eurasiatica, l’UEEA. Eredità geopolitica lasciata dall’ex presidente Sargsyan, l’UEEA è ora uno strumento che il governo Pashinyan voleva utilizzare per cercare di tagliare i costi dell’economia armena. Il 19 maggio durante un meeting in videoconferenza del Consiglio dell’UEEA ha premuto per la creazione di un mercato comune per il gas che includendo grandi produttori come la Russia e il Kazakhstan potrebbe avere tariffe tali da abbattere i costi dell’energia in Armenia.

Da Mosca è arrivata però una doccia fredda  . Così Vladimir Putin: “Quando si tratta della tariffa unificata proposta dai nostri amici armeni e bielorussi per i servizi di trasporto e transito del gas, riteniamo che una tariffa unica possa essere attuata solo su un mercato unico con un bilancio unificato e un sistema fiscale unificato. Un livello così profondo di integrazione non è stato ancora raggiunto nella UEEA, ne siamo tutti consapevoli; per ora, i prezzi del gas dovrebbero essere formati in base alle condizioni di mercato, dovrebbero tenere conto dei costi e degli investimenti dei fornitori e garantire anche un ragionevole tasso di rendimento del capitale investito nella produzione. […] Se le posizioni dei nostri amici armeni e bielorussi rimarranno invariate, sarebbe probabilmente logico escludere la questione del gas del Progetto di Strategia [in discussione] per approvarlo oggi”. Per parafrasare liberamente una nota citazione: non bisogna che tutto cambi affinché nulla cambi, ma anche se tutto è cambiato, non è ancora cambiato niente.

Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 06, 2020, 20:05:53 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Grecia/Grecia-giustizia-per-un-femminicidio-202400

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Grecia: giustizia per un femminicidio

Il brutale omicidio di Eleni Topaloudi, recentemente sfociato nella condanna dei suoi due assassini, ha messo per la prima volta il concetto di “femminicidio” al centro del dibattito in Grecia, portando anche ad una riforma legale sulla definizione di stupro. Un approfondimento OBCT

05/06/2020 -  Elvira Krithari Atene
Eleni Topaloudi era una studentessa di 21 anni che è stata brutalmente violentata e uccisa nell'isola greca di Rodi nel novembre 2018. In un processo simbolo conclusosi lo scorso maggio i due imputati, Alexandros Lutsai e Manolis Koukouras, entrambi ventenni, sono stati condannati all'ergastolo per l'omicidio più 15 anni per lo stupro. Eleni è diventata un simbolo per coloro che chiedono giustizia per i crimini commessi contro le donne a causa del loro genere, e il suo caso ha creato spazio nel discorso pubblico greco per l'uso di un linguaggio preciso che incarni la dimensione politica e sociale della violenza contro le donne.

Non solo un omicidio
"Al tempo del suo omicidio, nel 2018, la parola 'femminicidio' era sconosciuta (in Grecia)", spiega a OBCT Natasha Kefallinou, portavoce del Centre for Research on Women’s Issues  (CRWI) “Diotima”, una ONG greca fondata nel 1989. "Il suo caso ha dato spazio alle organizzazioni femminili per consolidare il termine e chiedere il riconoscimento legale del femminicidio, vale a dire il riconoscimento dei motivi sessisti e misogini nei crimini".

Il termine, coniato per la prima volta nel 1976 dalla criminologa Diana Russel e successivamente adottato da organizzazioni globali come l'OMS  , indica gli omicidi motivati da mascolinità tossica e norme patriarcali: i casi in cui le donne vengono uccise quando non soddisfano le aspettative di genere che gli uomini hanno posto su di loro. Spesso i femminicidi vengono compiuti da familiari o uomini in relazione con la vittima. Kefallinou ricorda il vecchio motto femminista "i nostri assassini hanno le chiavi delle nostre case". Gli assassini di Eleni Topaloudi erano suoi amici: la giovane aveva raggiunto uno di loro per una cena street food.

Eleni Topaloudi è stata portata a casa di uno dei due, dove entrambi l'hanno violentata. Ha resistito con tutte le sue forze mentre veniva brutalmente picchiata con le mani e un oggetto di ferro. Il suo sangue è arrivato persino al soffitto, ma la giovane donna era ancora cosciente quando gli uomini l'hanno portata sulla scogliera. Secondo i media, è riuscita a sussurrare "mio padre vi troverà", prima di essere gettata in mare. Il suo corpo, con indosso solo il reggiseno, è stato trovato dai passanti e dalla guardia costiera. La sua famiglia, che vive in una piccola città ai confini nord-orientali della Grecia e aveva denunciato la sua scomparsa, è stata contattata dalla polizia per identificare il suo cadavere.

Un processo senza precedenti
"Non ho visto stupri qui. Non riesco a immaginare uno stupro con il reggiseno (della vittima) indosso", ha detto uno degli avvocati della difesa, ha riferito la giornalista Maria Louka che ha seguito da vicino il processo. "La cultura dello stupro si è manifestata pienamente durante il processo. Gli avvocati degli imputati hanno voluto dimostrare che la colpa era della donna. Hanno cercato di etichettarla. Hanno detto che si drogava, che era psicologicamente instabile, perché le mancava una relazione fissa", ha dichiarato Kefallinou a OBCT.

Tuttavia, le molte contraddizioni degli imputati, la tentata diffamazione della vittima e i legami politici della famiglia di uno dei due - che sarebbero stati usati per nascondere la verità - non sono bastati a insabbiare il caso. Il potente discorso della procuratrice Aristotelia Thogka ha colpito il pubblico, ma ha avuto anche una significativa rilevanza giuridica.

La procuratrice ha dichiarato: "Mi vengono assegnati 1500 casi al mese. Questo mi ha sconvolta. (...) Ho sentito la voce della signora Koula (la madre di Eleni) che chiedeva di sapere la verità. Anche io volevo la stessa cosa. La verità grida. Lasciamo che la giustizia prevalga a costo di far crollare il mondo intero. (...) Se posso alleviare il vostro dolore (ai genitori) vi dirò che questa ragazza è un simbolo (...) Posso vedere che nel 2020 la donna è trattata, in molti casi, come se fosse nulla".

Il discorso della procuratrice è stato accolto come coraggioso e iconico da chi solidarizza con la vittima, ma anche criticato da altri, fra cui il vice ministro greco responsabile del coordinamento del lavoro governativo, Akis Skertsos, e il presidente dell'Ordine degli avvocati di Atene, Dimitris Vervesos.

"Le reazioni sono state senza precedenti, già mentre il processo era ancora in corso. Questo non è mai accaduto prima", racconta Kefallinou. Centinaia di avvocati hanno firmato una dichiarazione per dissociarsi dal presidente dell'Ordine, mentre Skertsos (che aveva espresso le sue opinioni in un post di Facebook) ha dovuto smorzare la sua dichiarazione iniziale.

In seguito, in un'intervista con il quotidiano greco Ethnos, la stessa procuratrice ha espresso la propria indignazione per le critiche ricevute, soprattutto perché nessuno dei suoi critici era presente al processo. Il pubblico ministero ha inoltre esaminato attentamente il caso e presentato alla giuria tutte le prove necessarie per sostenere la sua richiesta di pena senza circostanze attenuanti. "È stato un discorso storico perché ha fatto riferimento alla legge sullo stupro e ha sottolineato, probabilmente per la prima volta in un tribunale greco, che qualsiasi atto sessuale senza consenso è stupro", sottolinea Kefallinou.

L'anno scorso è stata approvata una nuova legge sullo stupro e, grazie alla tenacia del movimento femminista in Grecia, il concetto di consenso è diventato parte integrante della nuova definizione legale di stupro, facendo della Grecia il nono paese dell'UE dove il sesso senza consenso è considerato stupro.

A chi importa dei femminicidi?
Secondo un recente studio globale sull'omicidio  e in particolare sull'uccisione di donne e ragazze da parte dell'Ufficio delle Nazioni Unite in materia di droga e criminalità, nel 2017 sono state uccise intenzionalmente 87.000 donne, il 58% delle quali è stato ucciso da partner o familiari. In Europa, secondo un rapporto dati pubblicato da OBCT nel 2017, nel 2012 43.600 donne sono state uccise da un partner, un ex partner o un familiare.

In Grecia, come in molti altri paesi, mancano statistiche ufficiali sui femminicidi. Un registro informale sulla violenza sessista/di genere esiste sotto forma di una mappa  , parte di un'iniziativa di gruppi femministi.

"L'assenza di un meccanismo per la registrazione e la documentazione dei dati, che comprenda la rete di supporto del Segretariato generale per l'uguaglianza di genere, la polizia greca, i servizi forensi, le ONG e le organizzazioni femminili, causa delle difficoltà nella pianificazione di politiche per impedire, contenere e affrontare questi fenomeni”, sottolinea la portavoce di Diotima.

Vista la scarsa sensibilizzazione a livello centrale e istituzionale, non c'è da stupirsi che i femminicidi siano spesso ancora presentati in modo romantico al grande pubblico. In molti casi, i media di tutto il mondo presentano gli omicidi delle donne come crimini passionali e "d'amore". Nel caso di Eleni Topaloudi ciò è stato impedito, in gran parte a causa della presenza incessante delle giornaliste che hanno trattato la sua storia in modo non sensazionalistico.

Queste giornaliste fanno parte di una grande folla di femministe e sostenitrici dei diritti delle donne, sempre presenti in tribunale a chiedere giustizia. La loro presenza è stata un sollievo per la famiglia della vittima, che ha dovuto ascoltare i raccapriccianti dettagli del crimine, ma ha anche portato la richiesta sociale di diritti delle donne dalle strade al tribunale.

Il giorno del verdetto, all'uscita dall'aula di tribunale, i genitori di Eleni sono stati accolti da una folla riunita che gridava più forte che mai. Sua madre si è unita a queste voci per gridare: “Non dimenticheremo mai quello che hanno fatto a Eleni. Non un'altra donna assassinata”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 11, 2020, 00:58:05 am
https://www.eastjournal.net/archives/106563

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BOSNIA: Srebrenica, la negazione compiuta
Pietro Aleotti 9 ore ago

A venticinque anni esatti dai fatti, Srebrenica deve ora subire un nuovo attacco, altrettanto insidioso e, se possibile, altrettanto odioso: quello della contro-narrazione, della negazione. Come se, liberatisi del corpo, della carne e delle ossa, non restasse altro che liberarsi della memoria per completare lo scempio, per chiudere il cerchio. La negazione come ultimo stadio del genocidio, l’atto finale a compendio dell’episodio più sanguinoso avvenuto in terra europea dal secondo dopoguerra ad oggi.

Il rapporto del Memoriale di Srebrenica

Non sono bastate le sentenze, il riconoscimento anche formale dell’eccidio di Srebrenica come genocidio, gli oltre ottomila morti stimati, le seimila e seicento vittime  riconosciute al di là di ogni ragionevole dubbio e già sepolte nel cimitero-memoriale di Potocari: un conto che si aggiorna di anno in anno in un rito tanto doloroso quanto necessario, ora lo sappiamo anche più di prima. Non sono bastate le condanne a vita del responsabile politico di quella carneficina, Radovan Karadzic, né quella del suo braccio armato, l’uomo che sul campo la perpetrerò con inenarrabile crudeltà, Radko Mladic.

Nulla di tutto ciò è bastato: è questo quanto emerge, inequivocabilmente, dal rapporto appena curato da Monica Hanson Green per lo Srebrenica-Potocari Memorial and Cemetery for the Victims of the 1995 Genocide e significativamente intitolato “Il Genocidio di Srebrenica – Rapporto della Negazione 2020”.

Le mille strade della contro-narrazione

Il processo della contro-narrazione assume mille sfaccettature e si realizza secondo linee che si muovono in parallelo tra loro, salvo poi convergere verso l’obiettivo finale: la negazione.

C’è la minimizzazione dei fatti, lo sforzo di screditare le ricostruzioni numeriche di quel massacro, il riconteggio dei morti su basi di pura fantasia: un tentativo portato avanti da anni, da quando nel 2002 il “Centro di Documentazione della Repubblica Srpska per la Ricerca dei Crimini di Guerra” propose la cifra di 2.000 musulmani uccisi, indicandoli come militari e non come civili inermi. Un numero, questo, tornato spesso negli anni successivi, suggerito persino da Milorad Dodik, attuale membro serbo della presidenza tripartita di Bosnia, e riproposto come un mantra da Mladen Grujicic, primo sindaco serbo-bosniaco di Srebrenica che ha definito “false” molte delle tombe del memoriale.

In questo stesso alveo, si inserisce la teoria della cospirazione internazionale, quello del supposto pregiudizio del mondo intero contro la Serbia e i serbi; atteggiamento, questo, che ha radici profonde, e parente stretto di un altro stato mentale assai radicato, quello del vittimismo.

Altro elemento cardine del processo di revisione storica è la glorificazione dei criminali di guerra che prevede, nella sua logica perversa, persino l’inversione dei ruoli tra vittima e carnefice e lo sdoganamento dei simboli nazionalisti serbi più impresentabili. Sono svariati i casi che si inseriscono in questo contesto: non solo dediche di piazze, vie, monumenti e brani musicali al personaggio di turno, ma persino comparsate pubbliche, come quella, scandalosa, che vide protagonista Ratko Mladic collegato dalla sua cella in Olanda durante un programma televisivo nel novembre 2018.

Altro caso emblematico è quello che riguarda Vojislav Seselj: condannato in via definitiva nel 2018 dal Tribunale penale internazionale dell’Aja a dieci anni di carcere per crimini contro l’umanità, Seselj vive  libero a Belgrado dopo aver scontato i due terzi della pena, è membro del parlamento serbo ed ha recentemente pubblicato un volume di oltre tremila pagine con un titolo che non lascia dubbi “Non ci fu genocidio a Srebrenica”.

In questo filone viene inclusa persino la discussa attribuzione del Premio Nobel per la Letteratura 2019 a Peter Handke, considerato apologista dell’ex presidente serbo, Slobodan Milosevic, e autore di scritti in cui attribuisce alla mano degli stessi bosgnacchi (i bosniaci musulmani) un altro degli episodi simbolo della guerra in Bosnia: la strage del mercato di Markale.

La negazione compiuta? Cosa fare?

Il rapporto di Hanson Green è venato, in ogni pagina, da una sorta di consapevole pessimismo: consapevolezza e pessimismo che si originano dall’osservazione di quanto la contro-narrazione su Srebrenica abbia fatto breccia non solo in ampi settori della società civile serba e serbo-bosniaca ma persino nell’ambito di diversi circoli accademici e intellettuali delle destre occidentali, al punto che la negazione del genocidio non è mai stata così diffusa e socialmente accettata.

È dunque necessario fare qualcosa, sebbene l’impresa appaia di primo acchito, improba: la comunità internazionale, i governi di tutto il mondo, le istituzioni transnazionali e le ONG dovrebbero sentire l’obbligo morale di combattere contro il negazionismo. Sono diversi, ma per il momento ancora pochi, i governi che hanno introdotto leggi per vietare il negazionismo del genocidio; tra di essi, significativamente, ci sono Slovenia e Croazia ma non c’è la Bosnia. Lo scorso anno Belgio e Canada hanno approvato una legge che estende la proibizione del revisionismo dell’Olocausto ai genocidi di Srebrenica e Ruanda. Il negazionismo, poi, si combatte anche con l’educazione e nelle scuole, partendo dall’unificazione dei programmi scolastici che in Bosnia è resa quasi impossibile dalla segregazione etnica degli studenti e da libri di storia separati e inconciliabili.

Nell’introduzione al volume Emir Suljagic, direttore del Memoriale di Srebrenica, non ne fa solo una questione di giustizia sociale e di doverosa aderenza alla realtà storica: certo la negazione appare, innanzi tutto, come un intollerabile supplemento di sofferenza somministrato ai sopravvissuti. Basti pensare agli applausi e alle lacrime dei parenti delle vittime che accompagnarono la lettura della sentenza di condanna definitiva a Karadzic, accolta come una liberazione, come un macigno rimosso dal cuore. Ma c’è qualcosa di più e di diverso: negare significa creare il substrato ideale per la recrudescenza dell’odio, per l’innesco di nuove future violenze e, non sia mai, porre le basi perché “Srebrenica”, ovunque sia, accada di nuovo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 11, 2020, 01:00:04 am
https://www.eastjournal.net/archives/106896

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RUSSIA: Disastro ambientale a Norilsk, il diesel inonda l’Artico
Guglielmo Migliori 3 giorni ago

Lo scorso 29 maggio, una cisterna di carburante della centrale elettrica NTEK (Norilsk-Taimyr Energy Company) è esploso nella città di Norilsk, nella Siberia Artica. La terribile fuoriuscita ha inondato le acque del fiume Ambarnaya con oltre 20mila tonnellate di diesel e inquinanti chimici.

La negligenza dei dirigenti della centrale, insieme alla scarsa tempestività delle autorità locali nel comunicare l’accaduto al governo centrale, ha fatto sì che il carburante fuoriuscito si espandesse a macchia d’olio nelle acque fluviali, contaminando un’area complessiva di circa 350 km quadrati e spostandosi di oltre 12 km dal luogo della perdita originaria.

A quanto si apprende dalle prime stime, quella di Norilsk sarebbe una delle più gravi catastrofi ambientali nella storia recente della Russia. In termini di volume di inquinanti e sostanze tossiche fuoriuscite, il disastro di Norilsk sarebbe secondo solo all’incidente petrolifero di Murmansk del 1994.

Le responsabilità

Secondo le prime perizie, sembrerebbe che il collasso del serbatoio sia stato causato da un cedimento del terreno sottostante, reso friabile dal prematuro scioglimento del permafrost artico a causa di un inverno insolitamente caldo. La NTEK, compagnia energetica controllata da Norilsk Nickel, colosso leader mondiale nell’industria di nickel e palladio, ha tuttavia negato le accuse di omertà tramite le dichiarazioni del direttore Sergej Lipin.

Ad ogni modo, il Comitato Investigativo della Federazione Russa ha avviato un’inchiesta sull’incidente ambientale e sulla mancata tempestività nella comunicazione da parte di NTEK; inoltre, nonostante non sia ancora stata ancora depositata alcuna accusa formale, il direttore della centrale, Vjačeslav Starostin, sarà in stato di fermo sino al 31 luglio.

Come minimizzare la catastrofe?

Il ministro delle Risorse Naturali Dmitrij Kobylkin si è inoltre dichiarato scettico sulle possibilità di limitare al minimo le conseguenze dell’incidente senza una task force congiunta di esercito, governo e ministero delle Situazioni d’Emergenza.

Così, dopo aver aspramente criticato i dirigenti della centrale di Norilsk – responsabile di aver informato le autorità con due giorni di ritardo –  il presidente Vladimir Putin ha accontentato le richieste ministeriali e dichiarato lo stato d’emergenza federale nella regione di Krasnojarsk.

Il ministro Kolbykin ha anche criticato la strategia del governatore della regione di Krasnojarsk, Aleksander Uss, secondo il quale bisognerebbe bruciare il carburante drenato dalle acque dell’Ambarnaya: una pratica non certo ambientalista, e che potrebbe avere effetti disastrosi all’interno del circolo polare artico.

Anche Aleksej Knižnikov, rappresentante del WWF, ha dichiarato in proposito che la dinamica più adatta a minimizzare le conseguenze del disastro ambientale sarebbe quella di drenare l’acqua contaminata in speciali serbatoi, e lì separare le componenti di diesel.

Infine, il gigante russo dell’energia Gazprom ha tempestivamente risposto all’appello del governo ed ha subito inviato una squadra di 70 soccorritori e specialisti da San Pietroburgo, Megion, Nojabrsk e dal Chanty-Mansijsk. La compagnia fornirà inoltre alla task force tutta l’attrezzatura specialistica necessaria, tra cui idrovore, pompe petrolifere, ruspe, tende, bracci meccanici e sistemi di supporto autonomi. Gazprom si farà anche carico di buona parte degli spostamenti e della logistica della task force, per la quale trasferirà a Norilsk gli elicotteri e i mezzi delle proprie centrali nelle penisole di Gydan e di Jamal.

Il disastro di Norilsk si aggiunge dunque a una lunga serie di problematiche ambientali – quali il già citato incidente di Murmansk del 1994 o il preoccupante inquinamento del Mare di Kara – che rischiano di acuire ancor più il precario stato di conservazione dei ghiacci artici.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 11, 2020, 01:05:51 am
Dice il solito italiano medio:
"Solo in Italia accadono certe cose!"
... ah no, cazzo, mi son sbagliato!, siamo in Serbia!

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Elezioni-in-Serbia-tra-i-candidati-criminali-di-guerra-202672

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Elezioni in Serbia: tra i candidati, criminali di guerra

Due criminali di guerra - condannati in via definitiva - sperano di essere eletti parlamentari alla tornata del 21 giugno. Tra i candidati inoltre anche ricercati del Tpi e persone accusate di crimini commessi durante la guerra degli anni '90

10/06/2020 -  Milica Stojanović
(Pubblicato originariamente da Balkan Insight  )


"Credo che il mio programma riguardi tutti i serbi. Non avrò problemi a cooperare in parlamento con coloro che vorranno difendere i serbi perseguitati", ha dichiarato l’aspirante parlamentare Dragan Vasiljković all’emittente serba TV Pink il 17 maggio.

Vasiljković è noto nei Balcani come ‘Capitano Dragan’, un criminale di guerra che è tornato in Serbia il 28 marzo dopo essere stato in carcere in Croazia per i crimini commessi nel 1991.

Ora Vasiljković sta raccogliendo le firme per ottenere il supporto di cui ha bisogno per candidarsi alle prossime elezioni del 21 giugno. Se ci riuscirà, ci saranno due criminali di guerra candidati per la prossima legislatura.

Vasiljković non ha ancora un programma politico formalizzato, ma ha dichiarato che, se eletto, si occuperà della difesa dei “serbi perseguitati” in Croazia, Kosovo e Montenegro.

Ha dichiarato inoltre di essere favorevole a una scarcerazione anticipata per Milorad ‘Legija’ Ulemek e Zvezdan Jovanić, condannati per l’uccisione del Primo Ministro serbo Zoran Đinđić nel 2003. I due andrebbero liberati perché “sono eroi” che hanno combattuto in nome dei serbi.

L’altro criminale di guerra che ha annunciato la sua candidatura è il leader dell’ultranazionalista Partito radicale serbo, Vojislav Šešelj, condannato dal Meccanismo residuale del Tribunale penale internazionale per crimini di guerra contro i croati nel 1992.

Šešelj è già un deputato serbo - sebbene la sua condanna avrebbe dovuto escluderlo dal parlamento - e si sta candidando di nuovo.

Jovana Kolarić, ricercatrice al Centro per il diritto umanitario, una ong di Belgrado che si occupa di crimini di guerra nella ex Jugoslavia, ha affermato che esiste una contraddizione tra la retorica del governo serbo incentrata sul futuro e la pratica di glorificazione di quanti hanno commesso crimini di guerra nel passato.

"‘Guardando al futuro’, la Serbia pubblica e promuove libri scritti da persone condannate per crimini di guerra, citando le loro esperienze come se fossero un esempio, e rendendo loro omaggio in diversi modi", afferma Kolarić.

Lo scorso anno, il ministero della Difesa serbo ha organizzato un evento  per promuovere un libro che negava la responsabilità delle forze serbo-bosniache nel massacro di 71 civili a Tuzla, in Bosnia, nel 1995, e un secondo evento che pubblicizzava  un libro dell’ex generale delle Forze Armate della Jugoslavia Nebojša Pavković, attualmente in carcere per i crimini commessi in Kosovo.

‘Le sentenze per crimini di guerra non contano davvero’
Dragan Vasiljković è stato dichiarato colpevole  per i crimini di guerra commessi tra giugno e luglio 1991 alla fortezza di Knin nella Croazia orientale, dove poliziotti e militari croati in arresto vennero torturati, e per l’attacco ad una stazione di polizia nella città di Glina nel luglio 1991, che portò alla morte di un civile e di un giornalista.

Vasiljković era emigrato in Australia quando aveva quattordici anni, ma rientrò in Jugoslavia prima dello scoppio della guerra in Croazia. Venne inviato nella Croazia orientale, nel territorio controllato dai ribelli serbo-croati, per essere il comandante di un centro di addestramento per un’unità speciale serba paramilitare.

Divenne abbastanza noto da comparire in un fumetto di propaganda militare intitolato Knindže (fusione di Knin e Ninja); si candidò poi alle elezioni presidenziali serbe del 1992 alle quali, secondo la rivista Vreme, ottenne 28.010 voti.

Tuttavia, Kolarić ritiene che Vasiljković non possa diventare "un fattore politico significativo al di fuori di una coalizione con i partiti al governo".

Secondo Kolarić, inoltre, Vasiljković potrebbe essere visto come un punto debole dato che il suo ruolo durante la guerra sta per essere menzionato nella prossima sentenza del Tribunale dell’Aja relativa al processo agli ex comandanti dei servizi segreti serbi, Jovica Stanišić e Franko Simatović. "Credo che nessuno voglia attirare troppa attenzione su questa vicenda al momento".

Šešelj, personaggio di spicco della destra serba dai primi anni ‘90, ha ottenuto di nuovo un seggio in Parlamento nel 2016, dopo che il Tribunale dell’Aja (ICTY) lo aveva esentato dal carcere nel corso del processo consentendogli di tornare in Serbia per curare un cancro.

Nell’aprile 2018, il Meccanismo residuale lo condannò a dieci anni di carcere  per aver incitato a commettere crimini tramite discorsi nazionalisti nel villaggio di Hrtkovci, in Serbia, nel 1992. Avendo tuttavia già trascorso degli anni in custodia, non dovette scontare la pena.

In base alla legislazione serba, se un parlamentare riceve una condanna superiore a sei mesi il suo mandato deve terminare. Ma l’Assemblea serba non ha mai applicato questa legge nei confronti di Šešelj.

Come argomenta Kolarić, il fatto che non sia stato interrotto il mandato di Šešelj "è un chiaro messaggio: lui è privilegiato in questa società, e le sentenze per crimini di guerra non sono importanti, né meritano attenzione".

Da parlamentare, Šešelj ha avuto a disposizione "uno spazio pubblico per la relativizzazione e la negazione dei crimini di guerra… soprattutto del genocidio di Srebrenica", afferma Kolarić.

Il suo partito d’appartenenza, il Partito radicale serbo, partecipa alla coalizione di governo della municipalità di Belgrado di Stari Grad; questo gli ha consentito a febbraio di utilizzare il palazzo del municipio per promuovere un suo libro  in cui nega che il massacro di Srebrenica sia stato un genocidio.

Le altre accuse agli ultranazionalisti
Altri due candidati del Partito radicale serbo sono ricercati dal Tribunale dell’Aja, mentre un terzo candidato è accusato di crimini di guerra commessi durante il conflitto in Kosovo.

Vjerica Radeta e Petar Jojić, due parlamentari del Partito radicale serbo, sono stati accusati dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia di oltraggio alla corte nel corso del processo a Šešelj. I due sono accusati di minacce, ricatti e corruzione ai danni dei testimoni per influenzare le loro testimonianze o per impedirgli del tutto di testimoniare.

Il tribunale aveva inizialmente trasmesso un mandato di arresto nel gennaio 2015, ma un anno dopo la Corte Suprema di Belgrado proibì la loro estradizione all’Aja per l’assenza di basi giuridiche. Da quel momento, il Tribunale dell’Aja ha sempre respinto la richiesta serba  di processare i due ultranazionalisti a Belgrado.

Un altro parlamentare del Partito radicale serbo che si è candidato alle prossime elezioni è Božidar Delić, un ex generale delle Forze Armate della Jugoslavia, comandante della 549esima Brigata Motorizzata durante la guerra in Kosovo. Nel 2013 il Centro per il diritto umanitario ha pubblicato un dossier relativo agli attacchi su otto villaggi in Kosovo compiuti da parte di questa brigata tra marzo e aprile 1999, che hanno portato alla morte di 885 persone.

La Procura serba ha dichiarato a Balkan Insight nel 2013 che ci sono state diverse indagini su Delić  , ma che lui ha sempre negato di aver commesso crimini di guerra e non è mai stato incriminato.

Candidati sotto accusa
Nel dicembre dello scorso anno Aleksandar Šapić, ex pallanuotista, leader dell’Alleanza patriottica serba e presidente della municipalità di Novi Beograd, ha comunicato in una conferenza stampa i membri della sua lista alle prossime elezioni.

Šapić ha dichiarato: "Ogni persona dietro di me ha davanti a sé una carriera politica che merita grazie al suo passato".

Uno di loro era Svetozar Andrić, attualmente il vice di Šapić alla municipalità di Novi Beograd. Durante la guerra in Bosnia Erzegovina, Andrić era il comandante della Brigata Birač dell’esercito serbo-bosniaco, per diventare poi capo di stato maggiore dei Drina Corps.

Nel 2018 il Centro per il diritto umanitario ha presentato un esposto accusando Andrić di crimini di guerra. L’accusa era relativa al fatto che Andrić avesse "ordinato ‘l’espulsione’ della popolazione bosniaca dalla [città di] Zvornik" il 28 maggio 1992.

"Qualche giorno dopo, il 31 maggio 1992, Andrić diede l’ordine di creare il campo di Sušica a Vlasenica. Il campo è esistito fino al 30 settembre 1992. In quei mesi i detenuti si trovavano in condizioni disumane - dormivano sul pavimento e ricevevano un pasto al giorno. Molti di loro venivano picchiati ogni giorno, e le donne venivano stuprate. Circa 160 persone vennero uccise", ha dichiarato il Centro per il diritto umanitario.

"Inoltre, tra maggio e giugno 1992 la brigata comandata da Svetozar Andrić perseguitò i bosniaci in più di venti villaggi della municipalità di Vlasenica. Nel marzo dell’anno seguente, alcuni membri della brigata della quale Andrić era comandante diedero fuoco al villaggio di Gobelje nella municipalità di Vlasenica", prosegue la dichiarazione.

Kolarić ha affermato che la Procura serba non ha risposto al Centro per il diritto umanitario, "quindi non possiamo sapere quali misure sono state prese".

Balkan Insight ha contattato Andrić per un commento, ma al momento della pubblicazione non ha ancora risposto.

Un altro potenziale candidato accusato per la sua condotta durante la guerra è Momir Stojanović, il leader dell’organizzazione Iskreno za Niš della terza città più grande della Serbia, Niš. Stojanović spera di potersi candidare con l’alleanza Narodni Blok, che si oppone all’entrata nella Nato, alla vendita di infrastrutture chiave a stranieri, al riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo e all’ingresso dei migranti nel paese.

Stojanović è stato comandante delle truppe di Pristina durante la guerra in Kosovo. Ha già ricoperto la carica di parlamentare dal 2012 al 2016 con il Partito progressista serbo ed è stato a capo del comitato parlamentare per il controllo dei servizi segreti.

L’Interpol ha diramato nel 2015 un’allerta internazionale  per arrestare lui e altri sedici uomini che la missione dell’Unione europea in Kosovo sospetta di essere responsabili per l’uccisione di civili albanesi  nei villaggi di Meja e Korenica nell’aprile del 1999.

Durante il processo all’Aja ai capi politici, militari e della polizia per i crimini commessi durante la guerra in Kosovo, un testimone fece il nome di Stojanović come uno degli organizzatori delle violenze di Meja e Korenica. Stojanović era presente e negò l’accusa.

La Procura serba ha dichiarato a Balkan Insight di aver indagato su Stojanović e gli altri per questi crimini, ma di aver sospeso le indagini per mancanza di prove.

La costante presenza di criminali di guerra e dei loro sostenitori sulla scena politica serba è stata criticata dalla Commissione europea nel rapporto dello scorso anno sui progressi compiuti dal paese per l’ingresso nell’Unione europea.

"In molte occasioni le autorità statali hanno fornito spazi pubblici e hanno preso parte alla promozione di attività di criminali di guerra condannati dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. Ciò non contribuisce alla creazione di un ambiente favorevole a un giudizio imparziale ed efficace dei casi di crimini di guerra", sostiene il rapporto.

La Commissione europea ha sottolineato inoltre che gli ufficiali serbi hanno ripetutamente impugnato le decisioni del tribunale; il rapporto afferma che la Serbia deve ancora fare molto per "superare l’eredità del passato". Eleggere criminali di guerra non renderà la Serbia più vicina a quell’obiettivo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Giugno 11, 2020, 01:11:24 am
L'odio dell'Italia e degli italiani è caratteristico di una certa cultura politica. La tua regione è bellissima e ci si vive bene ma di quella mentalità ce n'è molta credo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 11, 2020, 01:14:31 am
L'odio dell'Italia e degli italiani è caratteristico di una certa cultura politica. La tua regione è bellissima e si vive bene ma di quella mentalità ce n'è molta credo.

Soprattutto tra gli anziani di sesso maschile.
Ma conosco anche persone più giovani che ragionano nello stesso modo, fra queste una femmina 37enne che definire malata di esterofilia è un complimento.
Stranamente, però, seguita a vivere in Italia...*

@@

* Anni fa voleva trasferirsi in Australia a raccogliere la frutta...
https://espresso.repubblica.it/attualita/2015/05/15/news/noi-schiavi-italiani-in-australia-ecco-come-funziona-davvero-qui-1.212880
"Voleva", appunto...
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Giugno 11, 2020, 01:22:43 am
Di recente ho incontrato una fiorentina che faceva discorsi simili. Le studentesse poi non ne parliamo, fanno tanti di quegli Erasmus che tornano apolidi. O musulmane. :lol:
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 13, 2020, 18:58:41 pm
https://www.eastjournal.net/archives/106748

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RUSSIA: Nuove leggi durante la pandemia
Martina Urbinati 1 giorno ago

La pandemia da Covid-19 ha inflitto un colpo durissimo alle democrazie europee. In Russia, la dubbia veridicità dei dati ufficiali sull’andamento dei contagi e sul numero di decessi è stato un tema ampiamente discusso dai media di tutto il mondo. Non migliore si può definire la gestione dell’emergenza: fin dall’inizio, la strategia anti-coronavirus adottata dal Cremlino è stata quella di scaricare scomode responsabilità su governatori regionali, mettendo in risalto le radicate fragilità della politica interna russa. Nonostante la crisi economica all’orizzonte e il tracollo dell’indice di gradimento personale del presidente russo Vladimir Putin, la Duma di Stato ha adottato nuove leggi che fanno discutere.

Una legge sulla cittadinanza per far fronte alla crisi demografica

Per anni, la presenza di norme estremamente restrittive in materia di naturalizzazione di cittadini stranieri non ha fatto altro che acutizzare il tracollo demografico in Russia. Dati alla mano, la popolazione attuale è rimasta sostanzialmente invariata rispetto a trent’anni fa, complici il basso tasso di natalità e il boom di emigrati russi verso i paesi dell’Europa occidentale e gli Stati Uniti.

Lo scorso aprile sia la Duma che il Consiglio Federale hanno approvato all’unanimità gli emendamenti apportati alla legge sulla cittadinanza: dal momento dell’entrata in vigore della stessa, a determinate categorie di cittadini stranieri sarà concessa la possibilità di ottenere la doppia cittadinanza senza più l’obbligo di risiedere sul territorio della Federazione Russa da almeno 5 anni o di aver lavorato in Russia per almeno tre anni. Queste nuove disposizioni vanno ad aggiungersi alle misure per la liberalizzazione delle politiche di cittadinanza introdotte lo scorso anno a favore dei residenti delle autoproclamate repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, nell’Ucraina orientale.

Ampliamento dei poteri delle forze dell’ordine

In un momento storico in cui le libertà personali sono state notevolmente ridotte per via della crisi epidemiologica, il governo russo ha presentato in parlamento un disegno di legge che amplierebbe i poteri delle forze dell’ordine. Tra le varie specifiche, la misura più controversa prevede che un agente di polizia non venga ritenuto perseguibile per atti compiuti durante l’esercizio delle sue funzioni. Memori delle proteste elettorali violentemente soppresse con percosse e arresti lo scorso anno a Mosca, c’è il rischio che, se approvato, questo provvedimento possa incentivare reati di abuso d’ufficio e che, allo stesso tempo, i colpevoli degli stessi rimangano impuniti.

Un unico database contenente le informazioni dei cittadini

Lo scorso 2 giugno il Consiglio Federale ha approvato la legge sulla creazione di un registro elettronico che permetterà di condensare in un unico luogo i dati anagrafici di tutti i cittadini della Federazione Russa. Per mezzo di questo strumento verranno ridotti i tempi per richiedere servizi pubblici, ha dichiarato Andrei Epišin, vicepresidente del comitato per i bilanci e i mercati finanziari. Una volta ultimato e perfezionato, autorità municipali, agenzie di stato e i cittadini stessi potranno usufruire di questo servizio.

Motivo di maggior preoccupazione è senza dubbio la protezione della privacy e dei dati sensibili dei cittadini russi, come sottolinea l’analista Karina Gorbačëva. Ancora prima che il disegno di legge venisse approvato dalla Duma di stato, alcuni giuristi e persino la Chiesa russa ortodossa si sono detti scettici riguardo a questo provvedimento, citando l’articolo 24 della Costituzione russa che proibisce la trasmissione di dati personali senza il consenso del soggetto stesso.

La riforma costituzionale si voterà a distanza

Costretto a posticipare il referendum costituzionale inizialmente previsto per lo scorso 22 aprile, Putin ha apportato un emendamento alla legge elettorale al fine di garantire il voto “a distanza” per posta o online. Il sistema di voto elettronico è già stato sperimentato in alcuni seggi in occasione delle scorse elezioni municipali di Mosca, non senza riportare difficoltà. Pertanto, la commissione elettorale ha ricordato la necessità di perfezionare il sistema di voto elettronico affinché possano essere scongiurati eventuali brogli elettorali e attacchi informatici.

L’attesa durerà dunque fino al prossimo 1 luglio, data in cui i cittadini dovranno esprimersi in merito agli emendamenti costituzionali approvati dalla Duma e precedentemente criticati in quanto “incostituzionali”. Il provvedimento più controverso riguarda l’azzeramento dei mandati presidenziali con cui l’attuale capo di stato russo potrebbe restare al potere fino al 2036. Per Putin, la partita finale contro il coronavirus si giocherà alle urne “in sicurezza”: è infatti molto probabile che le sorti dell’inquilino del Cremlino vengano decretate sulla base del suo operato durante questi ultimi mesi.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 13, 2020, 19:03:47 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Albania-l-informazione-in-quarantena-202724

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Albania: l'informazione in quarantena

Il COVID-19 ha messo in luce la debolezza dell'informazione in Albania. Il monopolio governativo della comunicazione sul coronavirus ha sollevato preoccupazioni sulla trasparenza nella gestione della pandemia e sulla libertà dei media

11/06/2020 -  Gentiola Madhi
La pandemia ha raggiunto ufficialmente l'Albania il 9 marzo, immediatamente seguita da due mesi di lockdown con severe misure restrittive, dichiarazione dello stato di emergenza (in vigore fino al 23 giugno) e sospensione parziale della Convenzione per la protezione dei diritti umani. Il governo ha adottato una pesante retorica bellica sul virus, con veicoli corazzati per le strade e pesanti multe, che ha destato un senso di paura nella popolazione.

All'inizio di maggio, le misure sono state allentate e la vita è quasi tornata alla normalità. Il tasso di infezione è stato inferiore a 20 persone al giorno, mentre il numero di test eseguiti rimane relativamente basso.

In generale, c'è una certa confusione tra la popolazione riguardo alle misure adottate, insieme a sfiducia e percezioni negative della capacità dell'Albania di affrontare adeguatamente la situazione, specialmente alla luce del numero di operatori sanitari recentemente emigrati in Germania. Si teme che il tasso di infezione possa tornare a salire.

Il primo ministro al timone
Un aspetto chiave nella gestione della pandemia sta nella comunicazione efficace e coerente. Come altri paesi, l'Albania ha istituito un comitato tecnico di esperti incaricato di prendere decisioni per contenere l'epidemia. Tuttavia, il lavoro del Comitato è stato caratterizzato da poca trasparenza sulle sue competenze e sulla misura in cui le sue raccomandazioni sono state convertite in decisioni politiche. Fino ai primi di maggio, non si sapeva nemmeno il nome del presidente del Comitato.

La pandemia ha offerto un'opportunità al primo ministro Edi Rama, che ha preso il timone della comunicazione con una presenza costante sui social media e sull'emittente online ERTV. Solo nel primo mese di lockdown, Rama ha pubblicato 407 post su Facebook (13 al giorno) e 47 ore di video  , dando così vita alla prima esperienza di governance tramite i social media in Albania.


"Fondamentalmente, il primo ministro ha monopolizzato non solo il contenuto (ciò che apprendiamo e pensiamo sulla crisi), ma anche la cornice (in che modo pensiamo alla crisi) e i mezzi (come riceviamo le informazioni)", spiega Blerjana Bino, co-fondatrice di Science and Innovation for Development (SCiDEV).

La maggior parte delle decisioni è stata pubblicata per la prima volta sull'account Facebook di Rama e successivamente nella Gazzetta ufficiale, mentre le "conferenze stampa" erano in realtà chiuse ai giornalisti
.

La centralizzazione dell'informazione è stata motivata con la necessità di combattere disinformazione e "infodemia" sul coronavirus. Tuttavia, "la narrazione bellica del governo minaccia i diritti umani e le libertà, nonché la libertà dei media, in modo sproporzionato rispetto alla situazione", sostiene Bino.

Media sotto attacco
La "messa in quarantena" dell'informazione ha portato ad una generale mancanza di trasparenza e responsabilità sulla gestione della pandemia da parte del governo, confermando ancora una volta il disprezzo di quest'ultimo nei confronti dei media. I media nazionali hanno avuto scarse opportunità di informare il pubblico e contrastare la narrazione del governo.

L'ostilità nei confronti dei media è diventata evidente alla fine di marzo, quando il primo ministro ha inviato un messaggio vocale ai telefoni cellulari dei cittadini, avvisandoli di rimanere al sicuro e di "proteggersi dai media". Non è la prima volta che il governo mostra una posizione così drastica contro la libertà dei media: all'inizio di quest'anno ha adottato un controverso pacchetto "anti-diffamazione", attualmente in fase di revisione da parte della Commissione di Venezia.

“Viviamo una pericolosa crisi di comunicazione. Secondo me, il governo albanese è uno di quei regimi che usano il coronavirus per interessi particolari e a breve termine”, afferma Lorin Kadiu, direttore esecutivo dell'organizzazione Citizens Channel. "Abbiamo sollevato preoccupazioni sul monopolio dell'informazione e la volontà di silenziare le voci critiche", aggiunge.

Durante la pandemia, un precedente è stato creato dall'Ispettorato nazionale della sanità, che ha multato la TV privata Ora News per presunta violazione delle regole di distanziamento sociale durante due programmi in prima serata. Inoltre, l'Ispettorato ha raccomandato la sospensione delle trasmissioni. La decisione è stata dichiarata sproporzionata e politicamente motivata dalle organizzazioni dei media. La pressione dell'opinione pubblica ha portato al ritiro di tutte le misure da parte dell'Ispettorato una settimana dopo.

Nonostante le restrizioni, i media hanno cercato di dare spazio a valutazioni alternative da parte degli esperti, in particolare coinvolgendo le competenze mediche della diaspora. "Esperti di alto livello sono stati presenti sui media e hanno risposto alle preoccupazioni dei cittadini, ma hanno ripetutamente taciuto su importanti questioni relative alla trasparenza e al diritto dei cittadini di sapere”, afferma Kadiu. Tuttavia, "rispetto allo spazio in prima serata dedicato ai soliti analisti e opinionisti, direi che le analisi degli esperti rimangono in una certa misura emarginate nella sfera pubblica", conclude Bino.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 13, 2020, 19:05:49 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Sud-est-Europa-violazioni-dei-diritti-digitali-durante-la-pandemia-da-Covid-19-202654

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Sud-est Europa: violazioni dei diritti digitali durante la pandemia da Covid 19

Una recente ricerca condotta da BIRN e Share Foundation ha messo in luce una serie di casi di violazione dei diritti digitali in Serbia, Bosnia Erzegovina, Ungheria, Croazia, Romania e Macedonia del Nord

12/06/2020 -  Media Centar Sarajevo
(Originariamente pubblicato da Mediacentar Sarajevo, il 4 giugno 2020)

Nell’ambito di un monitoraggio effettuato dal Balkan Investigative Reporting Network  (BIRN) e dalla Fondazione SHARE  durante la pandemia di coronavirus (dal 26 gennaio al 26 maggio 2020) sono stati registrati 163 casi di violazione dei diritti digitali in Bosnia Erzegovina, Ungheria, Croazia, Serbia, Romania e Macedonia del Nord. Come riporta il portale Detektor, in più della metà dei casi registrati si è trattato di propaganda, disinformazione, diffusione di notizie false e di informazioni non verificate. Quasi l’80% delle vittime è rappresentato da semplici cittadini.

Dei 163 casi di violazioni registrati, in 68 casi si è trattato di manipolazioni digitali, mentre 25 casi hanno riguardato la diffusione di notizie false e informazioni non verificate, allo scopo di danneggiare la reputazione della vittima.

Per quanto riguarda i casi registrati in Bosnia Erzegovina, su una pagina Facebook sono stati pubblicati alcuni post che invitavano a distruggere le antenne 5G a Tuzla, mentre sul portale Buka sono state pubblicate informazioni false sui gruppi sanguigni che sarebbero più esposti al rischio di Covid 19.

In quasi il 25% dei casi, sono i funzionari statali, oppure lo stato, ad essere ritenuti responsabili delle violazioni dei diritti e delle libertà digitali.

Nel periodo preso in considerazione, molti governi hanno adottato regole e misure straordinarie per contrastare la diffusione del coronavirus, la cui implementazione si è rivelata inadeguata rispetto agli obiettivi prefissati. Così ad esempio, i governi di Serbia, Ungheria e Romania hanno approvato alcuni provvedimenti che hanno limitato la libertà dei media.

Tra le misure applicate per contrastare la circolazione di notizie false e la diffusione del panico sui social network, le autorità hanno più spesso optato per l’arresto o per una sanzione amministrativa pecuniaria. In Serbia si sono verificati numerosi casi di arresto e fermo, tra cui il caso della giornalista Ana Lalić, che è stata sottoposta al fermo di 48 ore per aver denunciato, in un suo articolo, la mancanza di dispositivi di protezione nel Centro clinico della Vojvodina a Novi Sad.

Per quanto riguarda la Bosnia Erzegovina, a Sarajevo una persona è stata arrestata per aver minacciato la polizia nei commenti scritti sul portale Klix, mentre una persona di Bijeljina è stata arrestata per aver pubblicato sul suo profilo Facebook alcuni messaggi contenenti minacce rivolte alla polizia. Alcune persone sono state sanzionate con una pena pecuniaria per aver pubblicato notizie false e per aver diffuso il panico sui social network, tra cui una persona di Bosanska Gradiška alla quale è stata inflitta una multa di 1000 euro.

Durante la pandemia di coronavirus sono stati registrati anche 18 casi di violazione del diritto alla protezione dei dati personali. Uno di questi casi si è verificato in Republika Srpska dove il governo ha lanciato un sito web  dedicato al coronavirus su cui è stata pubblicata una lista delle persone che avevano violato l’obbligo di auto-isolamento.

Anche i cyber criminali hanno approfittato della pandemia di coronavirus. Sono stati infatti registrati 11 casi di frode informatica, di cui 3 casi di distruzione e furto di dati e di programmi.

In questo periodo di emergenza, alcune categorie di persone sono state particolarmente esposte a minacce, discriminazioni e messaggi d’odio, tra cui giornalisti, operatori medici, cittadini in quarantena, donne, migranti, cinesi, rom ed ebrei.

I dati aggiornati sui casi di violazione dei diritti e delle libertà digitali sono disponibili online, nelle lingue locali, per Bosnia Erzegovina  , Croazia  , Ungheria  , Macedonia del Nord  , Romania  e Serbia  . È disponibile anche un database regionale  .

Le informazioni sui casi di violazione dei diritti digitali registrati durante la pandemia di coronavirus sono disponibili anche sul portale BIRN Investigative Resource Desk  (BIRD). La versione integrale del rapporto, in lingua inglese, è disponibile a questo indirizzo  .
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 20, 2020, 00:41:22 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-e-Bosnia-Erzegovina-tra-robot-e-zombie-203056

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Serbia e Bosnia Erzegovina: tra robot e zombie

No, non è un racconto horror e nemmeno un fantasy. In questo commento robot e zombie diventano metafore - drammatiche - della conduzione politica di due paesi, Serbia e Bosnia Erzegovina

19/06/2020 -  Ahmed Burić Sarajevo
Il video  di una recente visita del presidente serbo Aleksandar Vučić allo spazio espositivo del Centro per la robotica e l’intelligenza artificiale presso la Facoltà di Scienze della Formazione di Belgrado è diventato virale in tutta la regione. Durante la visita, ideata dal team di pubbliche relazioni del presidente come parte integrante della sua campagna elettorale, Vučić ha parlato con un robot intelligente (o forse, nello spirito di rispetto della parità di genere, sarebbe più corretto dire una robot?) di nome Ema progettato dall’azienda cinese NetDragon Websoft.

Dopo una presentazione iniziale, alla domanda del presidente Vučić sul perché sia venuta in Serbia, Ema, che sta imparando a relazionarsi con gli esseri umani, ha risposto: “Amo la Serbia. Visto che sono una forma di tecnologia intelligente, è ovvio che ho scelto di stare in Serbia. Non solo per la sua gente straordinaria, la sua ricca tradizione e la natura, ma anche perché questo paese ha davanti a sé un futuro luminoso. Sono venuta a causa delle menti straordinarie di questo paese, per migliorare l’educazione dei giovani in Serbia, con l’aiuto delle moderne tecnologie educative provenienti dalla Cina, lo studio delle lingue e lo sviluppo delle discipline scientifiche. Il Centro per la robotica e l’intelligenza artificiale dove lavoro garantirà ai giovani la migliore educazione, rendendo orgogliosi tutti i genitori, e la Serbia diventerà uno dei paesi più avanzati, esattamente come dovrebbe essere”.

Dopo che Ema ha concluso il suo breve discorso, il presidente Vučić ha rivolto uno sguardo all’ambasciatrice cinese a Belgrado, Chen Bo, e a quel punto nel video si sente una risata di sollievo e di gioia.

Anche Ema è probabilmente uno degli assi nella manica del presidente serbo, grazie ai quali Vučić sicuramente riuscirà a sconfiggere tutte le altre forze politiche alle imminenti elezioni parlamentari.

L’epoca del declino globale del pensiero politico giova perfettamente ai dittatori locali: gli elettori fedeli di Janša in Slovenia, quelli di Orbán in Ungheria e l’onnipotente Putin che dalla Russia porta vento in poppa ai leader balcanici, ci fanno pensare che l’attuale situazione persisterà ancora per molto tempo.

Praticamente intere generazioni se ne sono andate dai Balcani, lasciando i propri paesi nelle mani di criminali emotivamente deprivati e narcisisti, che hanno privatizzato i beni pubblici, approfittandone per gettare le basi della propria ricchezza. I popoli balcanici, snervati dalle guerre e dalla retorica nazionalista, hanno accettato tutto, “pur di non sparare di nuovo”, e ciò ha portato alla situazione attuale in cui le vecchie forze nazionaliste si mantengono al potere con varie manovre, anche comprando voti e assumendo i propri elettori nel settore pubblico.

Date queste premesse, risulta ovvio che, qualunque sia l’esito delle imminenti elezioni parlamentari in Serbia, questa tornata elettorale non cambierà molto la situazione politica nel paese.

Ad ogni modo, la robot Ema – a giudicare dai risultati di una ricerca sugli atteggiamenti valoriali degli studenti serbi, condotta dall’Istituto per la ricerca sociale della Facoltà di Filosofia dell’Università di Belgrado, insieme al Comitato di Helsinki per i diritti umani in Serbia – avrà molto da fare per migliorare l’educazione serba.

La ricerca in questione  , i cui risultati sono stati pubblicati qualche settimana fa, è stata condotta nel 2019 nelle scuole superiori in cinque città serbe: Belgrado, Novi Pazar, Niš, Kragujevac e Novi Sad. I dati non vanno mai commentati senza essere contestualizzati, ma alcuni dei risultati emersi dalla ricerca sono piuttosto sconfortanti: stereotipi negativi sulle persone LGBT, aborto considerato come peccato, e persino l’idea secondo cui la donna a volte dovrebbe essere “sollecitata”, ricorrendo alla violenza, ad adempiere ai propri doveri coniugali.

Per quanto riguarda l’atteggiamento degli studenti serbi nei confronti dei loro vicini, la situazione è la seguente: più della metà degli intervistati (la ricerca è stata effettuata su un campione di circa 900 studenti) ritiene che il Kosovo sia il cuore della Serbia e che la Serbia non ci rinuncerà mai.

Tenendo conto di questo dato, il numero degli studenti che non credono che i serbi non abbiano commesso alcun crimine durante le ultime guerre combattute sul territorio dell’ex Jugoslavia è più alto di quanto ci si aspetterebbe, il 32%. La percentuale di coloro che riconoscono il genocidio di Srebrenica sale addirittura al 38,2%, un dato che lascia sperare che gli studenti intervistati possano costituire una solida base partendo dalla quale la donna robot Ema potrebbe raggiungere risultati notevoli nel campo dell’educazione, contribuendo a una migliore comprensione del ruolo dello stato e del popolo serbo nella recente storia del sud-est Europa.

Immaginate inoltre che Ema trovi un impiego in una scuola a Šabac, dove dovrà spiegare ai ragazzi chi sono (stati) Ratko Mladić e Radovan Karadžic, che il 31,2% degli intervistati considera criminali di guerra. Quindi, la classe sarebbe divisa, ma prevarrebbero quelli che ritengono che il duetto Mladić-Karadžić condannato all’Aja non sia colpevole di nulla, così come più della metà degli intervistati pensa che i serbi non siano responsabili dei crimini commessi in Kosovo alla fine degli anni Novanta del secolo scorso. In tale atmosfera, per Ema non sarebbe facile tenere lezioni.

Vi è però anche l’altro lato della storia. Il 43% degli intervistati crede che sia possibile una riconciliazione tra serbi e croati, il 53% crede in una riconciliazione tra serbi e bosgnacchi e il 23% in una riconciliazione tra serbi e albanesi. Inoltre, più della metà degli intervistati ritiene che la responsabilità delle guerre degli anni Novanta ricada sulle élite politiche e non sui popoli ex jugoslavi.

Per quanto riguarda invece la Bosnia Erzegovina, ovvero il suo popolo più numeroso, quello bosgnacco, il principale leader politico bosgnacco, Bakir Izetbegović, non socializza con i robot – anche perché in Bosnia Erzegovina, a dire il vero, di robot non ce ne sono affatto – ma si può tranquillamente affermare che si comporta come se fosse uno zombie. Nell’ultima intervista di circa un mese fa – che Izetbegović ha scelto di rilasciare, dopo mesi di silenzio, non a uno dei media pubblici e nemmeno a uno dei rispettabili media privati, bensì a un’emittente piuttosto oscura, la Televisione musulmana Igman - il leader bosgnacco ha evitato di affrontare quasi tutte le questioni di rilievo. Questa intervista è l’esempio della spudoratezza dei media, un’agiografia assurda di un uomo assurdo che, grazie alle circostanze storiche, si è trovato a guidare l’unico popolo europeo vittima di un genocidio dopo la Seconda guerra mondiale.

In questi giorni, forse più che mai, sta emergendo il carattere paradossale delle elezioni nei Balcani. Le forze politiche che hanno deciso di boicottare le elezioni in Serbia si sono semplicemente rese conto di non essere sufficientemente forti da far vacillare il regime di Vučić e del suo partito progressista serbo (SNS), al potere ormai da otto anni.

Quanto alle prossime elezioni in Bosnia Erzegovina, forse l’opzione migliore sarebbe quella di organizzare il boicottaggio delle elezioni, come un atto di disobbedienza civile. Ma tale opzione porterebbe alla conferma dello status quo, ed è proprio quello che auspicano il Partito di azione democratica (SDA) di Izetbegović e l’Unione democratica croata della Bosnia Erzegovina (HDZ BiH).

Qualche giorno fa, i leader dei due partiti hanno finalmente raggiunto un’intesa sullo svolgimento delle elezioni amministrative a Mostar, che non si tengono da oltre dieci anni. Ma non lo hanno fatto perché ci tengono a migliorare la vita della popolazione locale, bensì perché vogliono rimanere al potere. E per far sì che l’attuale brutta situazione si protragga all’infinito.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Giugno 20, 2020, 01:31:13 am
Citazione
Praticamente intere generazioni se ne sono andate dai Balcani, lasciando i propri paesi nelle mani di criminali emotivamente deprivati e narcisisti,
E' anche vero che in Italia clan malavitosi hanno il controllo del territorio anche al Nord, in stretta sinergia con le amministrazioni locali. Tutto il mondo è Paese.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 20, 2020, 09:55:24 am
E' anche vero che in Italia clan malavitosi hanno il controllo del territorio anche al Nord, in stretta sinergia con le amministrazioni locali. Tutto il mondo è Paese.

Ma questo non c'è bisogno di specificarlo, perché l'italiano medio è straconvinto di vivere nel Paese più mafioso e corrotto al mondo, mentre al tempo stesso ignora alla grande che altrove è pure peggio.
Il mio "compito" non è dimostrare che l'Italia è un Paese "meraviglioso e incorruttibile", bensì che il cosiddetto "estero" non è affatto il paradiso che i nostri connazionali credono sia.

E' un po' come quando si parla di violenza: evidenziare che esiste anche la violenza al femminile non equivale a negare quella maschile.
Tra l' altro a parlare in maniera ossessiva di quest' ultima pensano quotidianamente i media, per cui non c'è bisogno di parlarne anche in questi spazi.
Quegli stessi media che invece glissano regolarmente quando c'è di mezzo la violenza femminile.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Giugno 20, 2020, 14:06:30 pm
Nel mondo globale, anche se in proporzioni variabili, le dinamiche sono le stesse non solo a livello orizzontale (posizione geografica) ma anche verticale, dall'ONU fino alle aggregazioni sociali di base. E' tipico di un regime totalitario voler controllare tutto ad ogni livello.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 20, 2020, 21:20:49 pm
Sì, ma perlomeno in Europa (sia dell'ovest che dell'est) l'Italia è realmente un caso particolare, per quanto riguarda l' autodenigrazione e il disprezzo di sé.
Come ho già avuto modo di scrivere anni fa, nemmeno gli albanesi degli anni Novanta (quando l'Albania era il terzo paese più povero al mondo) o i rumeni usciti dalla dittatura comunista erano così sprezzanti nei confronti del proprio paese e dei propri connazionali.
In questo gli italiani son veramente un caso a sé.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Giugno 20, 2020, 21:52:54 pm
Secondo te da dove viene questa mentalità?
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 21, 2020, 01:14:47 am
Dal passato, dal fatto che da popolo di dominatori (Impero romano) l'Italia è stata per secoli un popolo dominato, servo di altri popoli.
https://books.google.it/books?id=a8hEDwAAQBAJ&pg=PT8&lpg=PT8&dq=italiani+popolo+sottomesso+per+secoli&source=bl&ots=v2SPzFeJbv&sig=ACfU3U3lYaweiV0ArBCRQ7KZ_WDjiT9Xbg&hl=it&sa=X&ved=2ahUKEwiZrLuKxZHqAhXEk4sKHeeiCD0Q6AEwAnoECAUQAQ#v=onepage&q=italiani%20popolo%20sottomesso%20per%20secoli&f=false

Gli italiani sono anche storicamente considerati un popolo di traditori,
https://it.wikipedia.org/wiki/Pregiudizio_contro_gli_italiani

Citazione
Katzelmacher, Katzener: deriva dall'accusa di tradimento lanciata dall'Impero austro-ungarico al Regno d'Italia in occasione della prima guerra mondiale. L'Italia nel 1914 si rifiutò di entrare in guerra al fianco dell'Austria, a cui era legata dalla Triplice Alleanza; poi nel 1915 le dichiarò guerra, schierandosi dalla parte dei suoi avversari della Triplice Intesa. Dopo la guerra il Regno d'Italia incorporò terre abitate prevalentemente da popolazioni di lingua tedesca, come l'Alto Adige. Katzelmacher deriva da "fattori di gattini", nel senso della prolificità familiare, oppure da "venditori di cucchiai", per le attività dei commercianti ambulanti transfrontalieri. I due termini sono diffusi in tutti i paesi di lingua tedesca e nelle aree della Repubblica italiana che in passato erano austriache. Il termine si diffuse rapidamente nell'Impero austro-ungarico grazie all'opera satirica del disegnatore Arpad Schmidhammer al suo libello "Maledetto Katzelmacher", che raffigura la caricatura di un bandito meridionale[senza fonte];

oltre ad essere un (non) popolo disunito da 159 anni. al contrario (ad esempio) di quello francese, che è un popolo unito da 1500 anni.
A questo aggiungiamo la diffusissima idea secondo cui la mafia sarebbe stata "inventata" dagli italiani, mentre la realtà è ben diversa.
https://alleanzacattolica.org/la-mafia-cinese/
http://www.nihonjapangiappone.com/pages/societa/yakuza.php
C'è chi arrivò molto tempo prima...

@@

https://oltrelalinea.news/2019/08/02/esterofilia-insostenibile-piaga-dellitalia/?fbclid=IwAR2Ui5AKTe__ePvDOGvOrzroWRf_qPbyJvmpIdAfWsJSQqRNcGEZfUQiFGk

Citazione
Esterofilia: insostenibile piaga dell’Italia
Agosto 2, 2019

Tra le cause dei vari mali che affliggono il nostro Paese, l’esterofilia ha senza ombra di dubbio un ruolo di primaria importanza: è quella esagerata – e, d’altronde, anche immotivata – ammirazione per l’estero, che scaturisce non tanto dal riconoscimento autentico delle virtù dei Paesi stranieri, quanto piuttosto da una forte tendenza tutta italiana all’auto-disprezzo, dall’irresistibile voglia di denigrare, a torto od a ragione, la propria Nazione.

Di conseguenza, la cosa migliore da fare è cercare fortuna al di là delle Alpi (in Svizzera, in Francia od in Germania), oppure avventurarsi addirittura nei Paesi scandinavi, dove di civiltà – secondo una narrazione di tal fatta – se ne trova a palate. Là, o comunque non qua, il sole splende sempre un po’ di più, ed il Tafazzi che è dentro ogni italiano medio non vede l’ora di uscire, per gridare a pieni polmoni che l’Italia fa schifo e che solo espatriando a Londra si può sperare nel campare servendo caffè. Non certo rimanendo in Italia!

E quando, per sua disgrazia, l’italiano medio esterofilo incontra un italiano che no, l’intenzione di andare all’estero proprio non ce l’ha, sul suo volto compare la stessa espressione mista di tristezza e di compassione tipica di chi sta assistendo ad una condanna a morte. Sarà che, come narra Mameli, «noi siamo da secoli calpesti, derisi, / perché non siam popolo, perché siam divisi», ma è proprio vero che è anche per merito di questa mentalità piccolo-borghese che oggi l’Italia si ritrova totalmente asservita alle potenze straniere.


Nessuna descrizione della foto disponibile.
Anche in virtù di questa ingrata e ottusa esterofilia, tale italiano medio non ha fatto altro che giustificare la progressiva perdita di sovranità della sua Nazione. Se tali italiani medi sono i primi a non aver riguardo per la propria Patria, per quale motivo, infatti, dovrebbero aspettarsi rispetto dai Paesi stranieri? L’amore spasmodico ed aprioristico per l’estero è una forma di ignoranza e di mancanza di spirito di coesione, è parte integrante di quel provincialismo culturale anti-italiano che considera l’espatrio un traguardo da raggiungere, un trofeo da mettere in mostra ed un indicatore dello “status quo”.

Questa insensata esterofilia italiana non è più sostenibile. O, meglio, non lo era nemmeno prima, ma oggi come non mai ne cogliamo i rancidi frutti: la graduale svendita della nostra economia a beneficio di chi, con risolino beota, definisce gli italiani «pizza, mafia e mandolino», l’amnesia artistico-culturale di una Nazione che è la culla della civiltà occidentale e che, sotto sotto, fa invidia a tutto il mondo per le sue multiformi potenzialità: ingegno, senso del bello, patrimonio storico.

L’antidoto al veleno esterofilo è il recupero della memoria nazionale. È un passo del tutto importante e necessario da compiere, e gli italiani, forse, stanno cominciando a ricordare.

(di Flavia Corso)


https://it.quora.com/Perch%C3%A9-gli-italiani-sono-cos%C3%AC-esterofili?fbclid=IwAR1MHEfUnQKEGfXu_EDQGK5ZIbYCsa_-G6t5aIqx-0dif-si8R_Ps3VWDEY

Citazione
Perché gli italiani sono così esterofili?
4 Risposte
Adalberto Eroli
Adalberto Eroli, Ex correttore di bozze
Risposto 30/dic/2018 · L'autore ha 232 risposte e 39mila visualizzazioni di risposte
andrebbe forse ascritta tra le patologie psichiche? mi piacerebbe avere, in merito, una considerazione da psichiatri e dottori.
Di certo tutti quelli che conosco che vivono all’estero mi parlano dei luoghi in cui vivono come di una sorta di paradisi in terra.
Un mio conoscente che vive a Londra ne parla come una città in cui è tutto eccezionale e in cui non esistono criminali (eppure ci sono stati 85 morti nel 2018, non è male come eden terrestre!).
un altro che vive a Los Angeles ne parla come un baluardo dell’ambiente in cui nessuno usa l’automobile (le autostrade a 10 corsie evidentemente sono piste ciclabili! e poi che gli statunitensi non usino l’auto è una castroneria pura! ci vanno pure a mangiare gli hamburger in auto e si fanno servire senza scendere). Mi parlò della california come di uno Stato fantastico in cui mai e poi mai esistono - come da noi - incendi o catastrofi naturali (il più grande incendio degli ultimi 80 anni a Malibù, evidentemente non è stato preso in esame).
Di fronte a questi deliri la mia mente sospende ogni giudizio e rinnovo quindi l’invito a qualche psichiatra o neurologo ad aiutarmi a capire di che genere di patologia psichica stiamo parlando e se è curabile.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Giugno 21, 2020, 01:21:31 am
Territori prevalentemente tedeschi?! E il Triveneto dove lo mettiamo? Venezia e Trieste erano austriaci, il redattore se l'è dimenticato?
Citazione
oltre ad essere un (non) popolo disunito da 159 anni. al contrario (ad esempio) di quello francese, che è un popolo unito da 1500 anni.
Curiosamente un intellettuale italo-francese, tale Condemi, ha detto esattamente il contrario: i francesi non sono più un popolo, perché la loro memoria storica è stata cancellata, e il 10-20% della popolazione non è di cultura francese.
E' quanto stanno cercando di fare anche da noi, ragione perché non mi stanco di insistere sul nostro retaggio culturale, messo ovunque in discussione.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 21, 2020, 01:30:32 am
Curiosamente un intellettuale italo-francese, tale Condemi, ha detto esattamente il contrario: i francesi non sono più un popolo, perché la loro memoria storica è stata cancellata, e il 10-20% della popolazione non è di cultura francese.

Eh, ma ce ne vorrà ancora di tempo prima di raggiungere i livelli italiani...
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Giugno 21, 2020, 01:40:22 am
Indubbiamente la Francia è unita da un tempo dieci volte superiore al nostro, ragion per cui siamo ampiamente colonizzati da quel Paese, a partire dalla nostra classe politica che risponde a Parigi non al popolo italiano.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 23, 2020, 00:58:55 am
https://www.eastjournal.net/archives/107354

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Dietro l’omicidio Caruana Galizia: le tangenti dell’energia dall’Azerbaigian al Montenegro
Andrea Zambelli 12 ore ago

Il 16 ottobre 2017, Daphne Caruana Galizia veniva assassinata in un’autobomba davanti a casa sua, a Malta. Tre anni dopo, l’allora premier maltese Joseph Muscat ha dovuto lasciare il comando, ma il suo entourage – coinvolto direttamente nell’omicidio – resta al potere, mentre il processo a killer e mandanti va a rilento. Solo la settimana scorsa, i giudici hanno chiesto di indagare sull’ex capo della polizia, che avrebbe passato informazioni relative all’indagine ai presunti assassini.

Al momento dell’omicidio, Caruana Galizia indagava su una rete di corruzione internazionale che girava attorno alla società offshore 17 Black Limited, registrata negli Emirati Arabi Uniti. La giornalista era certa che tale compagnia servisse per incanalare le tangenti agli uomini del governo maltese,  come scrisse già allora nel suo blog. Non ne aveva però le prove.

L’anno scorso, la polizia maltese ha incriminato come mandante dell’omicidio Caruana Galizia uno degli affaristi più ricchi di Malta, Yorgen Fenech, che la Reuters aveva rivelato essere il proprietario di 17 Black. Ora, una nuova indagine di Reuters e Times of Malta getta luce sulle attività di tale società offshore.

Gli affari energetici maltesi in Montenegro

Nel novembre 2015, la società pubblica maltese dell’energia, Enemalta, decideva di investire nell’eolico in Montenegro. Il parco eolico di Možura, sulle colline sopra Ulcinj, era stato lanciato nel 2010 come primo grande programma di energia rinnovabile nel paese adriatico, e dato in concessione alla società spagnola Fersa Renovables. L’acquisto, in consorzio con la cinese Shanghai Electric Power nell’ambito della Belt and Road Initiative, arriva dopo vari viaggi del ministro dell’energia maltese, Konrad Mizzi, in Montenegro.

La compravendita passa per un intermediario: Cifidex Ltd, società registrata alle Seychelles. Cifidex acquista le azioni di Možura da Fersa il 10 dicembre 2015 per 2,9 milioni di euro; due settimane dopo, le rivende a Enemalta per 10,3 milioni di euro – oltre tre volte il prezzo originale. Nello stesso periodo, 17 Black registra un utile di 4,6 milioni di euro.

Nello stesso mese, i contabili di Mizzi e dell’allora capo di gabinetto del premier maltese, Keith Schembri, scrissero in una e-mail che Schembri e Mizzi avrebbero ricevuto pagamenti da 17 Black per servizi non meglio specificati. Tale e-mail, già segnalata da Reuters e altri, si trova all’interno del dossier relativo all’apertura di una società offshore a Panama da parte dei due dirigenti pubblici maltesi.

Schembri – oggi sotto inchiesta per l’omicidio Caruana Galizia – aveva confermato a Reuters nell’aprile 2018 di avere un piano aziendale con 17 Black, poi mai andato in porto. Mizzi ha negato ogni coinvogimento, sostenendo di aver agito solo nelle sue funzioni di ministro. Non è noto cosa 17 Black abbia fatto dei fondi provenienti da Enemalta.

La connessione azera

Fonti direttamente coinvolte nella transazione hanno spiegato a Reuters che Cidifex avrebbe ottenuto i tre milioni per l’acquisto tramite un prestito da 17 Black, rimborsando quindi i 3 milioni assieme a un “profit share” da 4,6 milioni entro maggio 2016.

A chi appartiene Cidifex? Secondo le fonti di Reuters, il proprietario sarebbe Turab Musayev, cittadino britannico e dirigente della filiale svizzera della compagnia petrolifera statale dell’Azerbaigian, la Socar. Musayev e Fenech erano soci in affari nel consorzio che nel 2017 ha costruito una nuova centrale elettrica a gas da 450 milioni di euro a Malta – con un accordo monopolistico d’intermediazione sul prezzo del gas che fa perdere a Malta milioni di euro l’anno, come rivelato dal Daphne Project. Socar ha negato ogni coinvolgimento o conoscenza dell’affare Možura.

La rete corruttiva internazionale dell’energia

La costruzione delle pale eoliche sopra Ulcinj è iniziata a novembre 2017, e il parco eolico di Možura è stato inaugurato nel novembre 2019 alla presenza dei due primi ministri, Joseph Muscat and Duško Marković. I 23 generatori eolici dovrebbero produrre 112 GWh all’anno, che il governo montenegrino si è impegnato a comprare a un prezzo fisso di 95.99 €/MWh, oltre a fornire 115 milioni in incentivi per 12 anni. Il terreno del parco eolico, ceduto in leasing fino al 2035 al consorzio sino-maltese International Renewable Energy Development Ltd (IRED), dovrebbe quindi tornare di proprietà del governo montenegrino.

Compravendite a prezzo gonfiato di progetti in “energia verde” tramite intermediari offshore che riversano poi gli utili a mò di tangente in altre società offshore vicine ai dirigenti pubblici che approvano l’acquisto: Daphne Caruana Galizia era sulle tracce di una rete internazionale di corruzione nel settore energetico che operava in tutte le giurisdizioni offshore, da Malta al Montenegro, da Panama agli Emirati e alle Seychelles. Forse anche per questo la sua voce è stata fatta tacere.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 23, 2020, 01:01:01 am
https://www.eastjournal.net/archives/107296

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RUSSIA: Il Cremlino dietro le dimissioni collettive di alcuni giornalisti
Amedeo Amoretti 4 giorni ago

Lunedì 16 giugno, cinque redattori storici del giornale russo Vedomosti hanno rassegnato le dimissioni. La decisione presa da Dmitrij Simakov, Boris Safronov, Filipp Sterkin, Kirill Charatjan e Aleksandr Gubskij segue la nomina di Andrej Šmarov come neo-direttore della testata. Gubskij lavorava per Vedomosti dal 1999, anno di fondazione del giornale, mentre gli altri quattro giornalisti da circa quindici anni.

Le motivazioni delle dimissioni collettive

Secondo quanto riportato da Reuters, i cinque giornalisti dimissionari non avrebbero affatto apprezzato lo scarso rispetto mostrato da Šmarov nei confronti delle regole del giornale e delle persone stesse. Essi denunciano, in particolare, un regime di censura che sarebbe stato adottato dal neo-direttore nei confronti di articoli critici riguardo alla figura del presidente russo Vladimir Putin.

Demjan Kudrjavtsev, il precedente proprietario che aveva acquistato il quotidiano nel 2015, ha annunciato nel marzo 2020 la volontà di vendere Vedomosti. Tuttavia, nonostante il formale passaggio di proprietà ai due imprenditori Konstantin Zjatkov e Aleksej Golubovič non fosse stato ancora ultimato, Šmarov è stato nominato nuovo direttore di Vedomosti nello stesso mese.

L’inchiesta sull’acquisto e la vendita di Vedomosti

Il 12 maggio 2020, giornalisti di Meduza, Forbes, The Bell e dello stesso Vedomosti avevano pubblicato un’inchiesta sulle transazioni economiche e le negoziazioni per l’acquisto del quotidiano Vedomosti. Le accuse sono numerose, ma è necessario citarne almeno due.

Innanzitutto, l’acquisto di Delovoi Standard Ltd, società offshore proprietaria di Vedomosti, da parte dell’imprenditore Demjan Kudrjavtsev nel 2015 sarebbe stato guidato dal governo russo, in coordinazione con l’imprenditore Dmitrij Bosov, deceduto un mese fa. Tra il 2015 e il 2016, il trasferimento di proprietà di Vedomosti da Delovoi Standard Ltd ad Arkan Investment (società in mano alla moglie di Kudrjavtsev) avrebbe valso all’imprenditore un guadagno di circa 14 milioni di euro in pochi mesi. Tuttavia, la somma necessaria per il passaggio di proprietà (circa 24 milioni di euro) sarebbe stata finanziata in toto da fonti esterne, e per la maggioranza da Bosov.

In secondo luogo, le negoziazioni per la vendita di Vedomosti ai due imprenditori nel marzo 2020 sarebbero state gestite da Michail Leontev, portavoce di Rosneft, compagnia petrolifera in mano al governo russo. Infatti, secondo l’inchiesta, Rosneft controllerebbe Vedomosti tramite una concatenazione di debiti che coinvolgerebbe la Russian Regional Development Bank (RRDB), la cui proprietà appartiene a Rosneft, Konstanta LLC, Arkan Investment (unico azionista di Vedomosti) e Business News Media (la casa editrice del giornale). In questo modo, Rosneft avrebbe avuto voce in capitolo nella scelta del nuovo direttore, un uomo che fosse vicino alla presidenza russa e che, di conseguenza, potesse censurare qualsivoglia articolo non gradito al Cremlino. Infatti, secondo Meduza, Šmarov sarebbe “il candidato dell’amministrazione Putin”.

Il caso di Kommersant

Non è la prima volta che giornalisti russi si dimettono per protestare contro un regime di censura nei loro confronti. In particolare, a maggio 2019, a seguito del licenziamento di due giornalisti della testata Kommersant – rei di aver pubblicato indiscrezioni su un possibile cambio di timone alla presidenza del Consiglio federale russo – una decina di colleghi rassegnò le dimissioni in loro solidarietà. Alle accuse di censura, un portavoce di Ališer Usmanov, proprietario del quotidiano, affermò che il licenziamento non fosse il frutto di una decisione politica e che Usmanov non interferisse nella linea editoriale di Kommersant.

Le dimissioni dei cinque giornalisti di Vedomosti, esattamente come quelle che hanno coinvolto la testata Kommersant un anno fa, rappresentano un atto simbolico nei confronti del settore editoriale russo. Essi chiedono semplicemente la libertà di esercitare la propria professione senza alcuna censura.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 05, 2020, 11:51:22 am
https://www.eastjournal.net/archives/107600

Dice l'italiano medio, specie se di sesso maschile:
"Siamo sempre i numeri uno!", solo in Italia succedono certe cose!"

Ah no, cazzo!, mi son sbagliato... accade nella locomotiva d'Europa, dove tutto funziona a meraviglia, i lavoratori son sempre ben pagati e rispettati, lo stato ti porta anche l'acqua con le orecchie, e non vi è traccia alcuna di criminalità e corruzione...  :doh:


Citazione
Le vite di operai bulgari e romeni nel più grande mattatoio d’Europa
Giorgia Spadoni 2 giorni ago

Situato nella Renania Settentrionale-Vestfalia, in Germania, l’impianto di macellazione di Gütersloh, proprietà del colosso della carne Tönnies, è il più grande mattatoio d’Europa, nonché attualmente il maggiore focolaio tedesco di Covid-19. Tra gli oltre 7000 impiegati, principalmente bulgari, romeni e polacchi, i casi di contagio accertati sono più di 1300. La sezione bulgara di Deutsche Welle ha pubblicato le esperienze dirette di tre ex-lavoratori dell’azienda tedesca – un romeno e due bulgari – denunciando le disumane condizioni lavorative imposte. Ne proponiamo di seguito la traduzione.


“La notte sentivo i colleghi piangere”

Il 25 giugno è uscita l’intervista all’operaio romeno.


Ho lavorato per due anni nei mattatoi del gruppo Tönnies. Raramente il turno finiva dopo le contrattuali otto ore. Nella maggior parte dei casi lavoravamo dalle 12 alle 13 ore al giorno. Segnavamo le ore aggiuntive, ma non venivano mai conteggiate nello stipendio. Era molto freddo e umido [all’interno del laboratorio, nda], i nastri trasportatori si muovevano molto velocemente. La notte, nell’alloggio comune sentivo i colleghi piangere per i forti dolori e le mani gonfie, ma ci incoraggiavamo a vicenda dicendoci: “Resisti”.

Un mio amico mi chiedeva insistentemente di portarlo con me, voleva lavorare in Germania a tutti i costi. Gli dissi di mettersi da parte soldi sufficienti per potersi comprare il biglietto di ritorno in caso di bisogno. Il mio si è rivelato un ottimo consiglio, poiché dopo un solo giorno di lavoro da Tönnies si arrese e decise di ritornare in Romania.

Quando c’era un controllo, la velocità dei nastri trasportatori veniva rallentata, e il lavoro diventava più semplice. Ma si sapeva in anticipo quando sarebbe stato il controllo. Perché non lo facevano di sorpresa? Solo in quel caso gli ispettori sarebbero stati in grado di vedere quali erano le vere condizioni lavorative. Ci intimavano di non aprire la bocca. Il motto era: “Non appena arriva il controllo, dite che non parlate tedesco”. La situazione peggiorava quando ci ammalavamo – i capi ci gridavano di non presentare certificati medici. Proprio per questo motivo ho deciso di licenziarmi. Avevo preso una brutta influenza, cosa che succedeva spesso dato che lavoravamo tutti al freddo. Mi hanno urlato contro e allora mi sono detto: “Basta, me ne vado”.

Il principale era tedesco, ma il responsabile di produzione era romeno. Doveva fare da interprete, visto che la maggior parte di noi operai non parlava tedesco. Tutti i responsabili di produzione avevano il compito di assicurarsi che i lavoratori non si assentassero per malattia.

Alcune delle abitazioni dove ho alloggiato erano molto pulite, ma c’erano delle eccezioni. E si stava sempre molto stretti – in un appartamento siamo stati in 10, 12, perfino 14. L’affitto mensile era di 200 euro a persona. I condomìni appartenevano a dei subappaltatori. Un subappaltatore romeno aveva comprato un intero stabile e dava le abitazioni in affitto agli operai. Non è umano però comprimere così tanta gente in un’unica abitazione.

[Sono rimasto in contatto] con due colleghi, che adesso sono in quarantena. Dicono di ricevere cibo e acqua a sufficienza, ma sono molto spaventati e agitati perché non hanno la più pallida idea di cosa aspettarsi nell’immediato futuro.

“Lavorare, dormire, lavorare, dormire”

Il 26 giugno sono state pubblicate le testimonianze di due lavoratori bulgari, apparse inizialmente sul quotidiano Aachener Nachrichten, con i nomi di fantasia Stefan e Ivan.

Stefan ha lavorato per cinque mesi nel mattatoio, e per tutto il tempo ha sempre fatto il turno di notte – dalle 17:30 alle 4 del mattino. Più volte ha chiesto di poter lavorare non solo di notte, ma nessuno gli ha dato ascolto. Il 58enne bulgaro ha trascinato per notti intere pezzi di carne da 20 chili per 1200 euro al mese. Nemmeno Ivan lavora più per il mattatoio Tönnies, e nei suoi ricordi regna un’unica sensazione: “Freddo, faceva molto freddo”. Entrambi i bulgari parlano continuamente del freddo del mattatoio.


Stefan e Ivan raccontano che la maggior parte dei lavoratori rimane solo per pochi mesi da Tönnies. Dopodiché o rinunciano, oppure vengono licenziati. Stefan conferma come tutto ciò non avvenga per caso: “Cacciano gli operai prima che terminino i sei mesi di prova”, dice. Così i lavoratori non hanno diritto al congedo completo e possono essere licenziati secondo una procedura più rapida – anche in caso di malattia. Stefan racconta inoltre di come i capi aumentavano di proposito la velocità dei nastri trasportatori per ridurre i tempi dei giri, trasformando il lavoro in un vero inferno.

Per quanto riguarda l’alloggio, Ivan non ha avuto alcun problema, ma solo perché si è subito fatto ospitare da parenti. Non sa come vivevano gli altri, perché al lavoro di tempo per chiacchierare non ne rimaneva. “Lavorare, dormire, lavorare, dormire” – questa era la giornata tipo. Stefan era stato collocato da un subappaltatore in un alloggio condiviso dove tutto era ‘normale’. All’inizio vivevano in due per camera, ma già dopo il primo mese hanno dovuto stringersi, arrivando ad abitare in otto una sola stanza, con una cucina e un bagno a disposizione.

Oggi Stefan vive in un’altra provincia tedesca, cerca un nuovo lavoro e studia tedesco. Ivan si è già sistemato – lavora come corriere. “Almeno non è freddo come nel mattatoio”, dice.

Un muro di silenzio

Il secondo articolo cita un rapporto stilato nel 2019 dal Ministero del lavoro nella Renania Settentrionale-Vestfalia, in cui si afferma come compiere ingenti sforzi fisici per lunghi periodi a una temperatura sotto i 12 gradi comporti seri danni alla salute. 30 stabilimenti di lavorazione della carne nella zona sono stati ispezionati proprio a causa di questo problema, e nell’85% dei casi sono state riscontrate gravi carenze. I media tedeschi hanno però iniziato solo adesso a rompere il silenzio che ha finora nascosto le scandalose condizioni di lavoro nei mattatoi del paese.

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https://www.eastjournal.net/archives/107793

Citazione
ROMANIA: I lavoratori sfruttati dalla mafia della carne
Francesco Magno 3 giorni ago

Negli ultimi giorni i media internazionali hanno dato risalto all’emergere di un nuovo importante focolaio di infezione da coronavirus in un grosso mattatoio di Gütersloh, cittadina tedesca della Renania settentrionale. Sono più di 1.500 i contagiati nella zona, per buona parte lavoratori nell’impianto appartenente al colosso della macellazione Tönnies, quasi tutti di nazionalità romena o bulgara. La diffusione della malattia ha portato alla ribalta dei temi per troppi anni taciuti, come le condizioni di lavoro dei cittadini est-europei all’interno dei mattatoi tedeschi, e il sistema criminale attraverso il quale essi sono reclutati e inviati in Germania. La giornalista di Deutsche Welle Alina Kuhnel sta portando avanti un’inchiesta internazionale tra la Romania e la Germania, che sta facendo emergere i lati più oscuri di quello che si profila sempre più come un vero e proprio traffico di esseri umani.

Il reclutamento

La Tönnies, come altre imprese del settore, da anni si avvale di società di intermediazione che hanno il compito di selezionare la forza lavoro direttamente in Romania e Bulgaria e di organizzare il trasferimento in Germania. Il flusso di lavoratori è aumentato in misura considerevole dopo il 2007, anno di ingresso dei due paesi nell’UE. In precedenza, erano soprattutto ungheresi e polacchi ad essere scelti; molti di loro si sono trasformati in intermediari dopo il 2007. Il reclutamento viene portato avanti nelle zone più disagiate e povere di Romania e Bulgaria, avvalendosi del sostegno di influenti politici locali che, secondo la Kuhnel, o sono spesso implicati tramite dei prestanome nella gestione delle società di intermediazione o ricevono delle tangenti commisurate ai lavoratori forniti.

Il salario non viene elargito dalla Tönnies , ma dagli intermediari, che dalla cifra pattuita inizialmente trattengono il denaro per il trasporto in Germania, per l’affitto mensile (dai 200 ai 300 euro al mese) e per le divise da lavoro (fino a 100 euro al mese). Ai lavoratori resta una cifra irrisoria, molto meno dei 9,35 euro l’ora di salario minimo stabilito dalla legge tedesca.

Le condizioni di vita e di lavoro

I lavoratori che raggiungono la Germania sono sottoposti a turni massacranti, senza alcun tipo di tutela. Uno di loro, un bulgaro di 58 anni ex dipendente della Tönnies, ha riferito al quotidiano Aachener Nachrichten di aver lavorato per 5 mesi nel mattatoio, sempre nel turno notturno – dalle 17.30 alle 4 del mattino – trasportando pezzi di carne da 20 kg in ambienti con temperature sempre al di sotto dei 12 gradi. Terminato il turno, gli impiegati tornano agli alloggi forniti dagli intermediari, spesso fatiscenti, angusti e sporchi: otto persone possono vivere all’interno dello stesso monolocale, condividendo un bagno e una cucina. Alcuni non resistono a lungo e tornano indietro dopo poche settimane; molti altri vengono licenziati prima della fine dei sei mesi di prova, in modo che l’azienda possa avvalersi della procedura di licenziamento rapido, che lascia il lavoratore del tutto privo di garanzie. Il governo regionale della Renania settentrionale era da tempo a conoscenza della situazione, come dimostra un rapporto prodotto nel 2019 in cui venivano denunciate le precarie condizioni di lavoro dei mattatoi; da allora, tuttavia, niente è cambiato.

Il risvolto giudiziario

Nel 2017 l’ambigua attività delle società di intermediazione è finita sotto la lente di ingrandimento della giustizia tedesca: la procura di Duisburg ha accusato di evasione fiscale diversi uomini di affari implicati nella gestione di queste società. L’inchiesta, partita da “mere” questioni tributarie, ha scoperchiato il sistema di abusi e malaffare legato all’industria della carne. Il processo si è concluso con diverse condanne, anche di molti romeni con legami in Germania impegnatisi per anni nel traffico di lavoratori. Uno di loro è riuscito a fuggire prima dell’arresto e a cambiare identità; in breve tempo l’Interpol ha scoperto il suo nascondiglio, ma non ha potuto arrestarlo, dal momento che il suddetto intermediario si era impiccato prima di cadere nelle mani della giustizia.

Speranze di cambiamento

Se il Covid-19 non si fosse diffuso con tanta velocità all’interno del mattatoio Tönnies difficilmente la vicenda sarebbe finita sotto i riflettori della stampa internazionale. Il mese scorso il ministro del lavoro romeno, Violeta Alexandru, si è recata a Berlino per discutere con il suo omologo tedesco di possibili cambiamenti legislativi. Tutti sono concordi sulla necessità di eliminare il sistema degli intermediari, dando all’azienda la piena responsabilità del pagamento dei salari e del rispetto delle condizioni di lavoro. Il miliardario Clemens Tönnies si è dichiarato disposto, suo malgrado, ad accettare possibili modifiche normative. Difficile credere, tuttavia, che un sistema di cui molti hanno approfittato per anni possa essere cancellato in breve tempo. Gli unici a patire, come sempre in questi casi, sono i lavoratori romeni e bulgari, molti dei quali si trovano adesso in quarantena nelle loro fatiscenti case tedesche, ambiente ideale per la trasmissione del contagio. Sebbene la normativa preveda che essi continuino a essere pagati integralmente anche durante la convalescenza, l’azienda ha comunicato loro che riceveranno soltanto il 60% della paga ordinaria.

Tutto questo non fa che aumentare il senso di frustrazione crescente di Romania e Bulgaria, i cui cittadini sentono sempre più spesso di essere europei di serie B.

Questo articolo è frutto di una collaborazione con OBCT.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Luglio 05, 2020, 14:12:51 pm
Ho visto un documentario di un'ora su quell'impianto trasmesso da Arte, con decine di lavoratori intervistati. Una zona ai limiti dela legalità in piena Germania, il "Paese più progredito d'Europa": sfruttamento, mancato rispetto delle norme, licenziamenti. Allucinante.

Per un curioso paradosso, in questo periodo in cui il lavoro arranca vivo grazie al sostegno di un rumeno, tale Sarolescu, che mi invia regolarmente generosi contributi.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 05, 2020, 18:43:25 pm
Ho visto un documentario di un'ora su quell'impianto trasmesso da Arte, con decine di lavoratori intervistati. Una zona ai limiti dela legalità in piena Germania, il "Paese più progredito d'Europa": sfruttamento, mancato rispetto delle norme, licenziamenti. Allucinante.

Per un curioso paradosso, in questo periodo in cui il lavoro arranca vivo grazie al sostegno di un rumeno, tale Sarolescu, che mi invia regolarmente generosi contributi.

Leggi qua.

https://www.investireoggi.it/forums/threads/corruzione-tedesca-la-germania-e-il-cuore-marcio-mafioso-delleuropa.93839/
Citazione
Corruzione tedesca: fatta la legge sono specializzati a trovare l'inganno
anzi penso che i politicanti crucchi facciano le leggi in modo che siano facilmente aggirabili
e tutto in segreto naturalmente

Die Anstalt e l'esportazione di armi tedesche (sub.ITA)
tontolina

I REGALI DI DEUTSCHE BANK: la strategia tedesca di crescita in Cina

Un’inchiesta della SEC, Security and Exchange Commission, Statunitense rivela la tattica di espansione di Deutsche Bank in Cina, basata essenzialmente su regali ai potenti ai maggiori funzionari di Partito ed assunzioni estremamente compiacenti. [sai la novità.... un po' di corruzione ... è la stessa cosa che ha fatto la Siemens in grecia e la Thyssenkrupp in Italia dove è stata condannata ma la sentenza non viene applicata in Germania]

La Banca fra il 2002 ed il 2014 ha allargato il proprio potere nel paese orientale attraverso doni e favori. Secondo documenti interni sono stati distribuiti doni di valore per un totale di oltre $ 200.000 a importanti funzionari di partito . Ad esempio l’allora leader comunista Jiang Zemin ha ricevuto in dono una tigre di cristallo per circa 15.000 dollari e un impianto stereo da Bang & Olufsen, mentre l’ex primo ministro Wen Jiabao venne omaggiato con un cavallo di cristallo del valore di circa $ 15.000 a completamento della sua collezione dello zodiaco cinese. La Banca ha poi assunto una persona di dubbia moralità, ma vicina allo stesso Premier Wen che ricevette 2 milioni di dollari come compensazione per l’acquisizione della Huaxia Bank, istituto di credito sotto il controllo dello stato.

La banca ha poi assunto più di cento figli di dirigenti di potenziali o esistenti partner , quasi tutte società pubbliche o a partecipazione pubblica, In questo modo nella banca sono entrati membri dell’élité comunista e degli alti quadri del Partito e di membri del Politburo. Ad esempio, le figlie di Wang Yang, prima leader comunista del Guandong e poi vice primo ministro, e di Li Zhanshu, numero tre del Partito ed interlocutore della Merkel a Pechino, hanno trovato un lavoro nella Banca tedesca.

In totale ci sono stati 19 casi di assunzioni nepotistiche collegati ad affari per 190 milioni di dollari che avrebbero potuto portare a sanzioni da parte della SEC per corruzione che, se scoperti per tempo, avrebbero potuto portare ad una sanzione fra gli 84 ed i 120 milioni da parte dell’organo di controllo americano. La fortuna vuole che le indagini interne, compiute da più studi legali, abbiano anche scoperto come queste attività siano ormai andate in prescrizione.
Però da un lato si evidenza come sia BaFin, l’autorità di controllo tedesca, sia la BCE, evidentemente “C’avevano Judo” in quel periodo, e d’altro canto mostrano come molte aziende tedesche si siano rapidamente espanse in Cina: a suon di regali e di nepotismo.

https://www.panorama.it/economia/tedeschi-mazzettari-incalliti

https://www.truenumbers.it/corruzione-germania-dati/

https://www.firstonline.info/corporate-germania-i-grandi-scandali-che-hanno-scosso-lestablishment-tedesco-prima-di-vw/

Citazione
Corporate Germania: i grandi scandali che hanno scosso l’establishment tedesco prima di Vw
24 Settembre 2015, 5:20 | di FIRSTonline | 0

Lo scandalo delle emissioni truccate della Volkswagen sta scuotendo fortemente la Corporate Germania ma non è la prima volta che la casa automobilistica finisce sotto accusa e altri grandi nomi del business tedesco sono finiti sul banco degli imputati: da Deutsche Post a Deutsche Bank, da Bayer a Lufthansa fino alla Siemens

Corporate Germania: i grandi scandali che hanno scosso l’establishment tedesco prima di Vw
Lo scandalo delle emissioni truccate dalle Volkswagen è terribile ma è solo l’ultimo di una lunga serie che negli ultimi dieci anni ha fortemente incrinato l’immagine e la credibilità della casa autobilistica tedesca ma anche dei più grandi nomi della Corporate Germania. Dalla frode fiscale allo spionaggio e alla corruzione, molti grandi gruppi tedeschi ne hanno fatte di tutti i colori. Ecco quali

VOLKSWAGEN

La casa automoblistica di Wolfsburg ha già attraversato momenti difficili come ai tempi dello scandalo dei manager di circa dieci anni fa. Un vero e proprio caso di corruzione in cui i manager Volkswagen offrivano ad alcuni membri sindacalisti presenti nel cda del gruppo denaro e escort in cambio di voti all’interno dello stesso consiglio.

SIEMENS

Salatissimo il conto da pagare per Siemens per le attività di corruzione per aggiudicarsi appalti in tutto il mondo: 1,5 miliardi di euro. Lo scandalo corruzione in Siemens, emerso nel 2006, ha portato il colosso tedesco a dover sborsare 600 milioni alle autorità tedesche, 800 milioni alle autorità americane e altri 100 milioni a organizzazioni internazionali non profit che combattono la corruzione negli affari.

DEUTSCHE POST

Nel 2008 l’amministratore delegato di Deutsche Post, Klaus Zumwinkel si dimette dopo essere finito sotto inchiesta per frode fiscale per aver trasferito 10 milioni di euro in Liechtenstein.

DEUTSCHE BANK

Per una delle più grandi e importanti banche di Germania due pesantissimi scandali nel giro di pochi anni: nel dicembre 2012 arriva l’accusa di frode fiscale in relazione alla certificazione delle emissioni di carbonio, noto anche come scandalo CO2. A questo si aggiunge anche lo scandalo Libor e cioè il caso legato alla manipolazioni del tasso Libor e di altri benchmark di riferimento per il mercato interbancario per cui dovrà pagare un totale di 2,5 miliardi di dollari di ammenda alle autorità statunitensi e britannica.

BAYER

Il gruppo farmaceutico tedesco è spesso alle prese con cause miliardarie come quella in corso negli Stati Uniti dove sono in ballo 5,6 miliardi di dollari. Nel 2014 sempre negli Usa Bayer ha già sborsato 1,9 miliardi di dollari di indennizzi alle vittime del drospirenone, farmaco presente nelle pillole contraccettive.

LUFTHANSA

Negli anni passati era emerso che i dirigenti della compagnia aerea tedesca controllassero alcuni lavoratori dell’azienda spiandoli nella propria vita privata. A questo si aggiunge anche il disastro Germanwings del volo della compagnia aerea low cost di casa Lufthansa che si schiantò sulle Alpi francesi a causa di un gesto folle da parte del copilota.


Il bello, però, è che un oceano di italiani è realmente convinto che quel paese sia immune dalla corruzione...
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Luglio 05, 2020, 21:47:22 pm
Pazzesco. Sapevo di Volkswagen e della speculazione finanziaria ma non ero al corrente di tutto ciò. Credo che la globalizzazione abbia enormemente accentuato questi fenomeni.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 06, 2020, 00:23:58 am
Comunque, tornando ai paesi dell' est, di recente mi è toccato nuovamente di sentire una rumena 38enne (residente in Italia dal 2002) di Galati, che intonava un peana alla società comunista...  :sick: :doh:
Ovviamente le ho fatto notare che la summenzionata società non era affatto 'sto paradiso terrestre...
Questa gente è veramente incredibile, nega pure l'evidenza.
Per dire, questo è ciò che accadeva in Romania ai tempi del comunismo.

Citazione
ROMANIA
Proibito piangere
di Rossella Simone

Grazie a Elena Ceausescu, moglie del conducator Nicolae, in Romania soffia un
ponentino a favore dell'emancipazione della donna. Donne ai vertici delle industrie,
capo-fabbrica, docenti all'Università, in carriera politica. In effetti Elena Ceausescu,
69 anni, laureata in chimica nel 1976, quando era già first lady, si fregia di ben 26
titoli accademici acquisiti a tempo record.
Nella vita lavorativa la donna rumena è equiparata in tutto all'uomo. L'orario di lavoro
è di quarantasei ore e gli operai e operaie sono portate sui posti di lavoro in fabbrica
o nei campi con un camioncino malandato che li va a riprendere anche dopo quattro o
cinque giorni.
I giorni di festa e le domeniche sul calendario non sono segnati in rosso.
Alla sera, quando è possibile, marito e moglie si ritrovano nella penombra - è consentita
solo una lampadina da 45 watt per casa - e preparano insieme la cena. Cavoli e pomodori.
Non c'è gas per bollire un uovo e poi nelle città un uovo non lo si trova nemmeno.
I termosifoni non raggiungono i dieci gradi e l'energia viene erogata casualmente per poche
ore al giorno. In una notte di meno dieci gradi nell'inverno del 1985, la professoressa di
statistica Gabriela Cressi e suo marito Grigore Hagiu, popolare poeta, si sono addormentati
vicino al fuoco. Durante il sonno il gas è mancato e poi ha ripreso a uscire. Non si sono più
svegliati. Molti sono i divorzi causati dai disagi del vivere quotidiano e poi non si riesce a
mettere qualcosa sotto i denti nemmeno con due stipendi. I più fortunati hanno i genitori
oppure i suoceri che verso le tre di notte, escono di casa con la loro inseparabile bisaccia,
per trovare qualcosa da mangiare.
La politica economica di Ceausescu ha infatti ridotto il paese alla fame. Tutta la produzione
economica della Romania, che è una immensa distesa di campi coltivati e di pascoli, sparisce
per l'esportazione o per le tavole della nomenklatura - più di centoventi sono i parenti della
famiglia del conducator nei posti di potere - oppure viene venduta a prezzi esorbitanti
al mercato nero. Le donne più anziane con  i bambini più piccoli rimangono in coda per ore,
pazienti, lavorando all'uncinetto. Le più giovani con discrezione si avvicinano ai turisti per
pagare con i loro leva, la moneta rumena, caffè, scatolette di carne, qualcosa da mangiare
per i loro figli. In silenzio perché parlare con uno straniero è vietato e la securitate, la
polizia politica di stato, sorveglia su tutto.
Ma, Se è proibito piangere, come dice il titolo di un libro della rumena Maria Mailat da due
anni esule in Francia, le donne non perdono la speranza e la voglia di lottare.
Molte tentano di scappare verso il campo di Debrecen in Ungheria attraverso interminabili
paludi, altre verso la Iugoslavia a nuoto sul Danubio.
Molte ce la fanno, altre come Vasilica Bruta e Emilia Popescu vengono catturate dalle guardie
di frontiera, picchiate e spedite per almeno un anno e mezzo nella prigione di Oradea.
Nel campo di Padinska Skela, vicino a Belgrado, è arrivato in agosto un rumeno disperato.
La moglie era stata uccisa di notte mentre a nuoto cercavano di raggiungere la riva iugoslava
di Kladovo. La Militia spara a tutto quello che si muove. Molte donne invece combattono
in patria per i loro diritti ma Ceausescu non ama le critiche. La moglie di Dimitru Mircescu che
insieme al marito chiedeva il rispetto dei diritti dell'uomo, è morta lanciata da una finestra di
casa sua dalla polizia, nell'ottobre del 1986. Dimitru è internato da due anni in un ospedale psichiatrico e di lui non si sa più nulla.
Doina Cornea, insegnante di francese all'Università di Cluj, è diventata nel 1982 la figura
emblematica dell'opposizione al regime. Nell'agosto 1988 ha indirizzato una lettera aperta,
firmata da altre 28 persone tra cui nove donne, a Ceausescu, per protestare contro la
"sistematizzazione territoriale" varata all'inizio dell'anno.
Tale piano prevede la distruzione di più di metà dei 13mila villaggi rumeni e il trasporto
forzato dei loro abitanti in 558 "centri agroindustriali", casermoni fatiscenti di cemento,
addossati alle città, con la cucina in comune e il cesso in cortile.
Tutto questo sradicamento per recuperare il tre per cento di terreno agricolo, per alzare
l'indice di urbanizzazione e soprattutto per assimilare le minoranze magiare, tedesche, slave
e zingare "all'uomo nuovo rumeno con una unica nazionalità".
Da allora Dorina Cornea ha perso il lavoro, è agli arresti domiciliari, il suo telefono è isolato,
la corrispondenza intercettata, non può ricevere visite. Sotto la sua casa stazionano agenti
della securitate. Ma, con ostentato orgoglio la rivista ufficiale Femeia - la donna -
continua a mostrare donne e bambini che appaudono Ceausescu, "artefice della grandiosa
epoca in cui viviamo".


Citazione
ABORTO
ASSOLUTAMENTE VIETATO

Nel 1966 Ceausescu ha lanciato una campagna per l'aumento demografico secondo
cui ogni famiglia deve avere almeno cinque figli. Per questo in quell'anno sono stati
vietati tutti i contraccettivi. La prima domanda alla frontiera infatti è:"armi, munizioni,
preservativi?". E' stata introdotta nelle scuole e nelle fabbriche una visita ginecologica
obbligatoria e senza preavviso per tutte le donne dai 14 anni in avanti, alla presenza
del dottore e del maestro dello sport. L'aborto assolutamente vietato. La pena per il
medico che lo praticava era 10 anni di prigione. E così dalle 273.687 nascite del 1966
si è passati alle 527.764 del 1967. Quasi il doppio, un grande successo del regime.
Le statistiche però nascondevano il tasso di mortalità infantile in quegli anni.
83 morti per stenti e malnutrizione su mille nati, come in Cambogia.
Nel 1984 il regime ha rafforzato le pene per i medici che aiutano le donne ad abortire.
25 anni di prigione e, se recidivi, anche la pena di morte.
E se una donna arriva all'ospedale a causa di un aborto spontaneo, il medico non può
intervenire se non in presenza di un funzionario statale che autorizzi il suo operato.
Di sovente però questo ritarda ad arrivare e la donna muore senza nessuna assistenza.
Ciò nonostante le donne continuano ad abortire. Le statistiche non ufficiali raccontano che
ogni anno ci sono 1311 interruzioni di gravidanze note per mille nati vivi.

Ma il bello è che stavano talmente bene da decidersi di andarsene dal proprio paese...
Son veramente l'esatto contrario degli italiani, che invece i peana li intonano a tutto ciò che italiano non è!
Poi, ovviamente, esistono pure delle (rarissime) eccezioni, tipo un albanese di mia conoscenza, che anni fa si prese di petto un moldavo che stava magnificando il comunismo...
Ricordo che gli disse anche di star zitto e di raccontare meno cazzate, perché lui "si ricordava bene di cosa era stata realmente la società comunista".
Di povertà ce n'era a palate... per non parlare di tutto il resto.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Luglio 06, 2020, 01:36:59 am
Il rumeno che mi ha rifatto le tubature (è un artista, devo riconoscerlo) ha anche lui decantato il comunismo in Romania: nel frattempo ha cambiato due macchine (senza contare i furgoni) e si è comprato una casa faraonica da cui è scappata anche la 2° moglie (rumena anche lei). Mica male per un comunista...

Se penso ai milioni di aborti (sei milioni di italiani sterminati), oggi praticati anche al 9° mese o addirittura dopo la nascita (tralascio i particolari agghiaccianti), Ceausescu ci fa la figura di un paladino dei diritti umani.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 09, 2020, 01:29:55 am
https://www.eastjournal.net/archives/107982

Citazione
SERBIA: Proteste e scontri dopo l’annuncio di nuove restrizioni
Milena Nuferosic 9 ore ago

È stata una notte di proteste e scontri a Belgrado, dopo che circa 5mila cittadini si sono riuniti spontaneamente davanti al parlamento in seguito all’annuncio del presidente serbo Aleksandar Vucic di introdurre nuove restrizioni contro la pandemia. La tensione è salita dopo che alcuni manifestanti hanno provato a irrompere nel parlamento. La polizia ha risposto con cariche e fumogeni, provocando ulteriormente l’ira dei tanti giovani che hanno occupato l’intera zona intorno all’assemblea, dove sono stati dati alle fiamme diversi veicoli della polizia ed è continuato un fitto lancio d’oggetti fino a tarda notte. Sono stati riportati diversi casi di azioni violente e brutali da parte delle forze armate, anche se al momento non si hanno stime su arresti e feriti. A riportare tutta la notte in collegamento in diretta un’equipe della tv indipendente N1, prima a giungere sul posto, mentre i 3 canali di RTS – la TV di stato – trasmettevano programmi di intrattenimento.

Restrizioni contro gli assembramenti, sia all’aperto che al chiuso, e un coprifuoco a partire dalle 18 di venerdì fino alle 5 di lunedì prossimo. Sono queste le principali misure annunciate martedì alle 18 dal presidente Vucic in una conferenza stampa in cui ha condannato il senso di irresponsabilità delle persone per l’emergenza sanitaria. La conferenza stampa – in cui il presidente è sembrato visibilmente provato – ha scatenato l’insoddisfazione di migliaia di cittadini. I numeri del contagio da COVID-19, infatti, sono ripresi a salire nelle ultime due settimane, in particolare nella regione meridionale del Sangiaccato, dove si concentrano i peggiori focolai e dove gli ospedali sono ormai al collasso.

Lo scarso equipaggiamento delle strutture sanitarie e la manipolazione delle informazioni relativamente al numero di contagiati, così come sul numero di respiratori a disposizione, avrebbero contribuito alla rabbia dei cittadini. Il lockdown in Serbia, con lunghissimi coprifuoco e rigorose limitazioni alla libertà di movimento, era durato da metà marzo fino a inizio maggio. Il governo aveva quindi rimosso le misure di contenimento fino al ripristino totale della normalità, con tanto di stadio pieno per il derby di Belgrado, a cui hanno assistito oltre 25mila persone, risultando il più grande assembramento in Europa dalla fine del lockdown. In molti accusano Vucic di aver voluto dare un’apparenza di normalità in vista delle parlamentari del 21 giugno, quando ha trionfato con oltre il 63% dei voti il suo Partito Progressista Serbo. L’indomani delle elezioni – in cui hanno superato lo sbarramento del 3% solo altri 2 partiti (uno di questi sono i socialisti alleati di governo) – il portale BIRN ha pubblicato un’inchiesta secondo cui le autorità hanno mentito sui dati dell’epidemia, nascondendo i numeri dei morti, che sarebbero tre volte più alti di quelli dichiarati.

La conferenza di Vucic di ieri è stata quindi la goccia che ha scatenato l’insoddisfazione. I cittadini non accettano di essere ritenuti responsabili da un governo accusato di aver manipolato l’informazione e di aver voluto solo portare gli elettori ai seggi (sfidando anche il boicottaggio delle opposizioni). Alcuni ritengono che gli stessi festeggiamenti nella sede di SNS nella notte elettorale del 21 giugno, con tanto di balli tradizionali e nessun distanziamento sociale, siano la dimostrazione delle gravi responsabilità di Vucic e di tutta la classe dirigente nella gestione della pandemia. Anche il ministro della Difesa, Aleksandar Vulin, il capo dell’ufficio per il Kosovo, Marko Djuric, e la presidente del parlamento, Maja Gojkovic, sono risultati positivi al coronavirus successivamente alla festa alla sede del partito.

Mentre la premier Ana Brnabic a notte inoltrata ha dichiarato che lo stato difenderà la legalità, tutto lascia credere che le proteste continueranno nei prossimi giorni e che in molti non vorranno rispettare il coprifuoco imposto per il fine settimana. Al 7 luglio la Serbia registra oltre 16mila casi di contagio e 330 morti.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 09, 2020, 01:37:30 am
https://www.eastjournal.net/archives/107502

Citazione
SERBIA: Nuova alluvione, nuove polemiche?
Pietro Aleotti 2 settimane ago

La Serbia è stata flagellata, martedì scorso, da piogge torrenziali che hanno coinvolto soprattutto la parte centro-occidentale del paese, al confine con la Bosnia Erzegovina che, pure, lamenta numerosi allagamenti. Le piogge hanno provocato lo straripamento dei corsi d’acqua e il conseguente alluvionamento di vaste aree del settore interessato: una decina di municipalità in Serbia, due in Bosnia. Particolarmente colpite sono state Zvornik, in Bosnia, Ivanjica, Ljubovija, Loznica, Krupanj, Osecina, Lucani, Kraljevo e Guca, in Serbia.


Non si contano, ad oggi, vittime tra gli abitanti (solo un ferito grave a Kraljevo), ma è già possibile stimare che i danni siano molto ingenti: l’interruzione di strade e ferrovie ha provocato l’isolamento di molti centri, a Ljubovija sono crollati tre ponti mentre sono centinaia le case sommerse. A Kraljevo, dove ad esondare è stato il fiume Ibar, due ristoranti sono stati trascinati dalla forza della corrente. Vista la situazione le autorità locali hanno proclamato lo stato di emergenza e messo sotto osservazione speciale anche il Danubio e la Sava.


La polemica dietro l’angolo…

Ancora in piena emergenza si intravedono già le argomentazioni polemiche che accenderanno la discussione politica delle prossime settimane: dopo la devastante alluvione che coinvolse la Serbia (e non solo) nel 2014, le autorità hanno speso quasi 80 milioni di euro nella realizzazione e nella manutenzione delle opere di difesa, inclusa la costruzione di diverse protezioni fluviali.

Di questi, nel quinquennio tra il 2014 e il 2019, ben 4,4 milioni di euro sono stati destinati proprio ai comuni finiti sott’acqua in questi giorni. In particolare, Ljubovija e Osecina hanno ricevuto, ciascuna, una cifra vicina al milione di euro per la ristrutturazione di ponti, argini e dighe.

Se siano tanti o pochi e, soprattutto, se siano stati spesi bene è difficile dirlo. Da una parte, infatti, resta l’osservazione inconfutabile che, secondo quanto dichiarato dal primo cittadino, Milovan Kovacevic, a Ljubovija alcuni argini avrebbero ceduto sotto la pressione delle acque del torrente Ljubovida, lasciando intendere che qualcosa sia “andato storto”. D’altra, va detto che i 210 millimetri di pioggia che secondo il primo ministro serbo, Ana Brnabic, sarebbero stati segnali in alcune zone del paese rappresentano, da soli, quasi un terzo delle precipitazioni mediamente registrate in Serbia nell’arco di un anno. E che i 60 millimetri, circa, misurati lo scorso martedì nei dintorni di Ljubovida sono, secondo i dati del Servizio Idrometereologico Nazionale, le piogge normalmente attese per tutto il mese di giugno, storicamente il più piovoso dell’anno.

Il territorio fragile

La Serbia e più in generale l’intera regione si conferma un’area fortemente predisposta a questi accadimenti e, soprattutto, un’area dal tessuto urbano e infrastrutturale assai fragile e, conseguentemente, ad alto rischio. Un anno fa, a inizio giugno 2019, un evento simile riguardò un’area per larga parte sovrapponibile a quella coinvolta oggi con un bilancio molto pesante in termini di danni: decine di strade danneggiate, cinquanta ponti crollati o danneggiati, migliaia di ettari di terreni agricoli inondati e nove comuni posti in stato d’emergenza.

Nella memoria collettiva, tuttavia, è l’alluvione del maggio del 2014 a rimanere maggiormente impressa, per estensione (quasi tutti i Balcani coinvolti) e danni. In quei giorni le piogge più intense degli ultimi 120 anni lasciarono uno strascico a dir poco drammatico: oltre 60 morti – la Bosnia a pagare lo scotto più caro, con 30 vittime – 30 mila evacuati e danni stimati per 3,5 miliardi di euro, congiuntamente tra Serbia e Bosnia. Un episodio talmente violento, esteso e trasversale da far dimenticare, una volta tanto, le ataviche rivalità regionali, facendo prevale la cooperazione e la solidarietà transnazionale anche tra Croazia, Serbia e Bosnia.

Fortunatamente le inondazioni di martedì scorso non hanno avuto né quella magnitudo né quelle conseguenze. Solo a bocce ferme, tuttavia, si potrà fare una stima più precisa e mettere mano ai necessari interventi di ripristino della normalità. Dovendo, tra l’altro, fare i conti con la crisi pandemica in atto che ha visto, proprio nell’ultimo periodo, una nuova recrudescenza in tutta la Serbia.

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a Ljubovija sono crollati tre ponti

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Un anno fa, a inizio giugno 2019, un evento simile riguardò un’area per larga parte sovrapponibile a quella coinvolta oggi con un bilancio molto pesante in termini di danni: decine di strade danneggiate, cinquanta ponti crollati o danneggiati,

Ma i ponti non crollavano "solo in Italia" ?
(Italiano medio docet)
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 09, 2020, 01:40:20 am
https://www.eastjournal.net/archives/107933

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RUSSIA: Una nube radioattiva solca i cieli del nord Europa
Gianmarco Riva 5 ore ago


Qualche giorno fa, una misteriosa nube radioattiva è stata scoperta solcare i cieli della penisola scandinava e dell’Artico europeo. Secondo quanto messo in evidenza dagli esperti, l’origine di tale fenomeno potrebbe trovarsi in Russia.

L’origine del problema…

Tutto ha inizio tra il 2 e l’8 giugno, quando il DSA (l’organo norvegese per il controllo delle radiazioni nucleari) avverte che insolite quantità di iodio radioattivo sono state rilevate dalle due stazioni meteorologiche di Svanhovd e Viksjøfjel, a poca distanza dal confine che separa la Norvegia dalla penisola di Kola, in Russia. Circa una decina di giorni dopo, tra il 16 e il 17 giugno, le autorità svedesi comunicano la scoperta di altri isotopi, simili ai primi. Questa volta la segnalazione proviene dalle due stazioni CTBTO – la rete globale di monitoraggio radiologico e sistemico – delle isole Svalbard e dell’area di Kirkness. La CTBTO non è stata l’unica stazione di monitoraggio ad aver registrato livelli anomali di materiale nucleare nell’aria. Nello stesso periodo di giugno, anche le autorità di radioprotezione e sicurezza nucleare di Svezia, Finlandia e Paesi Bassi hanno riscontrato la stessa anomala presenza.

…probabilmente un reattore in Russia

Gli isotopi rilevati indicano che il loro rilascio proviene probabilmente da un reattore nucleare. Questa ipotesi viene avvallata anche da Rashid Alimov, noto attivista di Greenpeace Russia. In una comunicazione al Barents Observer, Alimov ha sottolineato come la composizione di questi isotopi sia indicativa della loro possibile sorgente, ovvero un elemento di combustibile esaurito da un reattore. Alcuni ritengono che possa trattarsi di un incidente avvenuto all’interno di una centrale nucleare. Nonostante le diffuse preoccupazioni, l’agenzia governativa svedese ha rassicurato l’opinione pubblica sottolineando che il livello delle emissioni radioattive non costituisce un pericolo, né per la salute dell’uomo né per quella ambientale.

L’Istituto nazionale olandese per la sanità pubblica e l’ambiente (RIVM) ha analizzato i dati forniti dalle autorità scandinave, concludendo che i radionuclidi rilevati potrebbero provenire dalla Russia occidentale: un’area in cui, di fatto, si trovano diversi impianti nucleari, tutti attualmente attivi. Tra questi, si ricorda quello di Leningrad, situato nei pressi di San Pietroburgo, sulla sponda meridionale del Golfo di Finlandia. A porre l’attenzione su questa centrale sono i quattro reattori di cui è composta: tutti di stampo sovietico e simili a quelli della famosa centrale di Chernobyl. Inoltre, vi sono centrali civili operative anche in prossimità delle città di Smolensk, di Tver e di Murmansk.

Un’ipotesi da confermare

Citando un portavoce di Rosenergoatom (la filiale della centrale elettrica del gruppo nucleare statale Rosatom), l’agenzia di stampa russa TASS ha riferito che le due centrali situate nella regione nord-occidentale del paese non avevano segnalato alcun problema; non erano quindi responsabili delle radiazioni rilevate la settimana precedente. Sia lo stabilimento di Leningrad che quello di Kola vicino a Murmansk “funzionano normalmente, con livelli di radiazione all’interno della norma”. Rospotrebnadzor (il servizio federale russo per la sorveglianza e la protezione dei diritti dei consumatori) ha dichiarato di aver misurato i livelli di radiazione in seguito al rapporto della CTBTO e che tutte le misurazioni indicavano stabilità. Anche il portavoce del Cremlino, Dimitrij Peskov, ha affermato che il “moderno sistema di monitoraggio della sicurezza delle radiazioni” della Russia non ha registrato “situazioni o emergenze minacciose”.

Stando a quanto riportato dal RIVM, si ritiene che le due centrali di Leningrad e Kola possano essere coinvolte nell’incidente poiché situate nell’area interessata. Al momento, però, non vi sono prove certe che possano determinare l’origine esatta della nube radioattiva, e quindi che la colpa sia da attribuirsi alle centrali elettriche russe. Tuttavia, la Russia ha una lunga storia di verità nascoste quando si tratta di questioni nucleari.

Nel 2017, una misteriosa nube radioattiva attraversò i cieli dell’Eurasia. Anche in quel caso molte agenzie avevano concluso che si potesse trattare di un incidente nucleare, o quantomeno di un malfunzionamento di qualche centrale, avvenuto in Russia. Al tempo Mosca negò dapprima l’esistenza della nube, per poi cambiare posizione e prendere atto del problema, senza però rendersene responsabile. Un altro esempio è quello dell’agosto dell’anno scorso, quando un incidente nucleare in una struttura missilistica aveva ucciso sette persone e rilasciato nell’aria materiale radioattivo. Anche in quel contesto, Mosca non aveva riconosciuto pubblicamente l’incidente per due giorni. Forse, anche quest’ultimo sarà l’ennesimo evento di cui non sapremo mai la vera causa.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 09, 2020, 01:45:31 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Metodo-Srebrenica-203344

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Metodo Srebrenica è uno sconvolgente romanzo documentario edito da Bottega Errante in cui il suo autore, Ivica Đikić, non intende spiegare perché è successo il genocidio di Srebrenica ma come è successo. Recensione

08/07/2020 -  Veronica Tosetti
Come ogni anniversario segna il progressivo allontanamento da quanto accaduto, così contribuisce alla formazione della distanza prospettica della storia. Ivica Đikić, giornalista e scrittore croato nato a Tomislavgrad, non ha preso in considerazione l’idea di scrivere di Srebrenica fino al 2005, dopo il decimo anniversario del massacro di Srebrenica, avvenuto tra l’11 e il 17 luglio 1995 in Bosnia Erzegovina. Prima per lui Srebrenica era solo “uno dei toponimi dei misfatti balcanici, di quei toponimi che si ricordano spesso, perché sono diventati luoghi comuni”.

E' servito l’incontro con il giornalista sarajevese Emir Suljagić ad avvicinarlo alle vicende di quell’indicibile orrore e soprattutto alla figura di Ljubiša Beara, il colonnello condannato nel 2002 dal Tribunale dell’Aja in quanto diretto responsabile e artefice dell’intera operazione. Đikić ha poi impiegato circa 10 anni per portare a compimento il suo libro su Srebrenica, partendo dalla convinzione di realizzare un romanzo e poi allontanandosi da quell’idea sempre di più.

Copertina
La copertina di Metodo Srebrenica
Come si fa ad organizzare l'uccisione di 8.000 uomini? Questo romanzo documentario non ci illustra il perché è successo, ma il come è successo. Proprio attraverso il racconto delle modalità pratiche ci fa entrare nelle pieghe umane e mostruose di questo tragico episodio della storia recente europea. Il genocidio di Srebrenica è stata un'operazione razionale e pianificata, coordinata e organizzata dal colonnello Beara. In questo libro Đikić, oltre a seguire ogni movimento di Beara durante quei tre giorni e tre notti del luglio 1995, narra la sua vita prima e durante la guerra, con elementi che collocano la storia principale nel più ampio contesto delle circostanze politiche e sociali dell'epoca.

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"Sapevo di dover tentare di capire, benché si trattasse di cose incomprensibili, di dover cercare di penetrare nel cuore del misfatto, fino alle motivazioni di coloro che avevano ordinato ed eseguito le uccisioni: questo era il presupposto per poter scrivere qualcosa di minimamente credibile e autentico”, si legge nel lungo e importante prologo che apre il libro. Per rispetto di quanto è accaduto dunque - e per il principio per cui è impossibile parlare di ciò che non si conosce -, l’unica soluzione possibile è stata abbracciare il rigore della ricostruzione storica, delle voci, dei nomi, dei fatti: Đikić dà alle stampe Beara nel 2016, a poca distanza dal ventesimo anniversario del genocidio e nel 2020 arriva finalmente in Italia con il titolo Metodo Srebrenica (grazie alla traduzione di Silvio Ferrari e a Bottega Errante Edizioni). Come suggerisce il titolo originale dell’opera, l’autore decide di concentrarsi sulla figura del colonnello, incaricato formalmente dal generale Ratko Mladić di eliminare tutti i civili maschi e adulti (ma non soltanto) di religione musulmana nella zona circostante l’enclave formalmente protetta dall’ONU di Srebrenica.

Di Beara, il lettore scopre ogni dettaglio: nato a Sarajevo e poi cresciuto a Spalato, fa carriera nella Marina dell’Armata Popolare Jugoslava (JNA) fino a diventare capo di vascello; nel 1991, quando la JNA comincia ad assolvere gli interessi dei serbi e non più dell’intera popolazione jugoslava, Beara farà trasferire la famiglia a Belgrado per poter affiancare il generale Aleksandar Vasiljević, assumendo il ruolo di colonnello. Al colonnello Beara viene dunque affidato il compito finale, risolutivo, all’interno del contesto di una guerra di sfinimento che i serbi stavano infliggendo ai bosgnacchi, i “turchi” sul territorio della valle della Drina. Srebrenica, Bratunac e Kravica, sono le località più importanti teatro di questi giochi strategici, luoghi entro i confini della Bosnia in cui resistono numerosissimi musulmani. Il compito è di effettuare una vera e propria pulizia etnica. E quello che accade non sarà reso noto agli occhi del resto del mondo fino a una settimana dopo, a genocidio ultimato. Sono oltre 8mila i civili uccisi. Al lettore non viene tralasciato nessun dettaglio, nessun nome. Si scopre che quello che accadde a Srebrenica è lasciato esclusivamente nelle mani di quest’uomo che con perizia e freddezza riesce a portare a compimento praticamente da solo un’operazione che non era nemmeno stata pianificata dalle alte sfere del corpo militare.

Il Beara raccontato da Đikić non può essere un Limonov, se si volesse tracciare un parallelismo con un altro grande romanzo di non-fiction, perché è un personaggio senza volto e senza corpo. Più che una persona appare come un’intenzione. Ogni tanto emergono dei dettagli che lo contestualizzano nello spazio: quando affronta Miroslav Deronjić, il sindaco di Bratunac su uno dei ponti cittadini dove scorre la Drina, per negoziare l’uccisione di migliaia di uomini presso l’ex mattonificio, o quando esausto si lascia andare all’alcool. Si scopre poi un fatale errore militare che rischia di offuscare la sua carriera e il suo più grande desiderio, ovvero di compiacere il generale Ratko Mladić.

Ma Metodo Srebrenica non corrisponde nemmeno a La banalità del male della soluzione definitiva jugoslava. Non c'è la pretesa di arrivare alle origini del male o di capirlo, ma piuttosto di destrutturarlo ai suoi minimi termini, fin nella più esile delle sue azioni. La dichiarazione di intenti di Đikić è chiara: “Un procedimento del genere – cioè lo smontaggio e la riduzione ai fattori elementari, con la confusa speranza di riuscire ad avvicinarci alle motivazioni del misfatto – può essere vissuto e qualificato come una razionalizzazione del delitto – in questo caso del genocidio – o addirittura come qualcosa di più maligno della razionalizzazione?”

Inquadrare questo libro non è semplice: saggio, romanzo documentario, non-fiction? Pur sviscerando gli eventi con precisione scientifica, la definizione romanzo non può che essere comunque quella più corretta. La struttura rimane un elemento essenziale: non solo nella parte centrale dove avviene la ricostruzione di quei giorni e di alcuni episodi delle guerre della ex-Jugoslavia cruciali per questo avvenimento, ma anche le parti di prologo, post-scriptum ed epilogo. Senza la voce di Đikić che accompagna il lettore nel difficile processo di scrittura, nei dilemmi di forma che hanno accompagnato il suo intento, questo romanzo non sarebbe tale. Pur esponendo con grande onestà i suoi obiettivi e i limiti incontrati, durante la ricostruzione il narratore rimane completamente esterno, mostrando la quasi onniscienza della materia trattata. La voce di Đikić interviene in pochi, essenziali passaggi quando è inevitabile farlo. Anche per questo siamo lontani dallo stile di Limonov di Carrère, il ritratto di un personaggio “plus grand que la vie”, nel bene e nel male, reso tale anche dallo sfoggio di talento del suo autore.

Solo alla fine, con il post-scriptum, il lettore è in grado di liberarsi di tutta la tensione, abilmente costruita dall’autore in un’escalation di orrore, regalando un racconto in coda all’impietoso resoconto, millimetrico, chirurgico, senza scampo. La chiosa narrativa mette in scena alcuni personaggi che ricordano chiaramente quelli di Cirkus Columbia, (dello stesso autore e sempre edito da Bottega Errante Edizioni), un testo intenso e doloroso. Anche in quest'ultimo Đikić offre una storia senza assoluzione: due bosniaci emigrati in Canada come tanti altri, appartenenti alla diaspora jugoslava, in un ipotetico presente post-Srebrenica.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 09, 2020, 01:47:35 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Dramma-Covid-19-in-Serbia-bugie-di-stato-203362

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Dramma Covid-19 in Serbia: bugie di stato

Nelle settimane che hanno preceduto le elezioni politiche la vita in Serbia andava avanti come se il coronavirus non ci fosse più. Ma non era così, ed ora si rischia il dramma. Politica, bugie e contagi in quest'analisi

07/07/2020 -  Antonela Riha Belgrado
A più di tre mesi dalla proclamazione dell’epidemia di coronavirus, in Serbia si registra un drammatico aumento di contagi e decessi da Covid 19. La brusca impennata di nuovi casi di coronavirus ha coinciso con la campagna elettorale per le elezioni politiche, tenutesi lo scorso 21 giugno, durante la quale sono state revocate quasi tutte le misure di contenimento del contagio.

Nel frattempo sono emersi nuovi dati sui pazienti contagiati e morti da Covid 19, che divergono da quelli diffusi dalle autorità. Pertanto, è lecito supporre che alla vigilia delle elezioni le autorità abbiano taciuto il vero numero di contagiati e morti.

In Serbia lo stato di emergenza a causa della pandemia di coronavirus è stato proclamato lo scorso 15 marzo ed è stato revocato lo scorso 6 maggio. Lo stato di emergenza è stato introdotto, tra l’altro, perché questo era l’unico modo legittimo per posticipare le elezioni politiche, inizialmente fissate per lo scorso 26 aprile. La revoca delle misure di contenimento più severe, motivata con un presunto calo dei contagi, ha consentito al presidente Aleksandar Vučić di organizzare le elezioni prima che emergessero tutte le conseguenze dell’epidemia di coronavirus, sia sanitarie che economiche.

E prima del trionfo del Partito progressista serbo (SNS) guidato da Vučić, che ha ottenuto una vittoria schiacciante alle elezioni politiche, in Serbia sono stati organizzati numerosi comizi elettorali e concerti. Inoltre, la Serbia è il primo paese dove, nel bel mezzo della pandemia, si è tenuta una partita di calcio con 16mila tifosi sugli spalti, senza alcuna misura di protezione. La vita andava avanti come se il coronavirus non ci fosse più, fino all’indomani del voto.

Cittadini e medici protestano
Nel sud-ovest della Serbia, nella regione del Sangiaccato, dove vivono molti bosgnacchi, di fede islamica, un primo aumento del numero di contagi si è verificato dopo la festa di fine Ramadan celebrata lo scorso 24 maggio. Successivamente nel Sangiaccato sono stati organizzati diversi comizi elettorali a cui hanno partecipato numerosi cittadini, senza alcun dispositivo di protezione. Subito dopo le elezioni è stato reso noto che 20 medici e 40 infermieri dell’Ospedale generale di Novi Pazar, la più grande città della regione, sono stati contagiati dal coronavirus e a quel punto è emerso che il numero di pazienti con sintomi gravi stava crescendo ormai da giorni.

Poco dopo da Novi Pazar, ma anche dalle città vicine di Tutin e Sjenica, sono giunte le testimonianze di alcuni medici e cittadini che, sui social network e sui media indipendenti, hanno parlato di come negli ospedali del Sangiaccato mancassero i più basilari dispositivi e farmaci, dalle mascherine ai guanti, dall’ossigeno ai respiratori, ma anche personale medico. All’inizio di aprile il presidente Vučić ha consegnato personalmente  13 respiratori all’ospedale di Novi Pazar, ma poi è emerso che alcuni di questi respiratori non erano funzionanti.

A destare ulteriore preoccupazione nei cittadini del Sangiaccato è stata la notizia secondo cui le autorità locali avrebbero indetto una gara d’appalto per l’acquisto di bare di metallo, il cui uso non è previsto dal rito funebre dei bosgnacchi, suggerendo che le autorità si stavano preparando al peggio. Le immagini dei pazienti sdraiati nei corridoi degli ospedali hanno ricordato le immagini che qualche mese fa ci giungevano dall’Italia e dalla Spagna. Mentre le autorità tacevano, i medici del Sangiaccato hanno chiesto aiuto pubblicamente, e l’aiuto è arrivato dai cittadini che hanno organizzato una raccolta fondi sui social.

Quando, lo scorso 30 giugno, la premier Ana Brnabić e il ministro della Salute Zlatibor Lončr si sono finalmente recati a Novi Pazar, i cittadini li hanno accolti con fischi e urla, gridando: “ladri” e “mafia”, mentre alcuni medici hanno voltato loro le spalle in segno di protesta. La premier ha commentato la reazione di cittadini e medici, definendola una politicizzazione e aggiungendo che non si lascerà intimidire.

Qualche giorno più tardi si è fatto sentire anche il presidente Vučić, affermando che l’ospedale di Novi Pazar è uno dei migliori ospedali in Serbia, che dispone di tutte le attrezzature necessarie e che la notizia secondo cui i respiratori che lui aveva consegnato all’ospedale di Novi Pazar non sarebbero funzionanti è una bugia. Le notizie che continuano ad arrivare dal Sangiaccato smentiscono quanto affermato da Vučić, mentre i medici e i familiari delle persone affette da Covid 19 testimoniano della grave situazione negli ospedali e ambulatori nella regione.

Dati divergenti
Il giorno dopo le elezioni, lo scorso 22 giugno, il portale di giornalismo investigativo BIRN, citando dati provenienti dal sistema nazionale di informazione sul Covid 19, ha riportato che in Serbia il numero di contagiati e morti da coronavirus è superiore a quello riferito dall’Unità di crisi per il contenimento della diffusione del virus istituita dal governo. Secondo un documento di cui BIRN è venuto in possesso, in Serbia nel periodo compreso tra il 19 marzo e l’1 giugno 2020 632 persone sono morte per Covid 19, una cifra superiore a quella ufficiale, pari a 244 unità. Nell’ultima settimana prima delle elezioni, il numero di nuovi contagi oscillava tra 300 e 340 al giorno, numeri molto superiori a quelli comunicati dalle autorità, che parlavano di 97 nuovi casi al giorno.

Secondo i dati comunicati dalle autorità, nei giorni immediatamente precedenti le elezioni ci sarebbe stato un solo decesso legato al Covid 19 al giorno. A suscitare dubbi sulla possibilità che il numero di decessi fosse superiore a quello dichiarato è il dato, riportato da BIRN, secondo cui lo scorso 12 aprile, giorno in cui è stato raggiunto il picco dei decessi, sono morte 23 persone, mentre le autorità hanno dichiarato 6 decessi. I medici dell’Unità di crisi, che prima delle elezioni ogni giorno hanno fornito all’opinione pubblica informazioni sull’andamento dell’epidemia, ora cercano di spiegare quella differenza tra decessi comunicati e quelli effettivi con il fatto che esistono vari sistemi di notifica di nuovi contagi e morti.

Tuttavia, questa spiegazione lascia aperta una domanda: com’è possibile che i dati di cui BIRN è venuto in possesso parlino di 77 morti da Covid 19 a Niš, nel sud della Serbia, mentre secondo i dati provenienti da un altro documento ufficiale a Niš nello stesso periodo i decessi per Covid 19 sarebbero stati 243. Resta ignoto chi e come abbia cambiato i dati che fin dall’inizio della pandemia venivano comunicati dagli esperti dell’Unità di crisi.

Il governo nega ogni responsabilità
La premier Ana Brnabić ha cercato di spiegare queste divergenze nei dati ufficiali in un modo del tutto particolare. “Diciamo che ho i sintomi, vado in un ambulatorio Covid, mi fanno il tampone e risulto positiva. […] Poi presento complicazioni, decido di andare alla Clinica di malattie infettive e vengo investita da un autobus […] Pensate che io debba essere registrata come morta per coronavirus? E di casi come questo chissà quanti ce ne sono…”, ha affermato la premier.

Non si sa quanti cittadini serbi siano stati investiti da un autobus durante la pandemia, ma è altrettanto difficile stabilire quante siano le persone contagiate dal coronavirus, e una parte dell’opinione pubblica dubita della veridicità delle informazioni ufficiali sul numero di decessi.

Entro la fine della scorsa settimana in dieci città serbe è stata dichiarata la cosiddetta situazione straordinaria, che comprende varie misure, tra cui il divieto di assembramenti e sanzioni per chi non rispetta l’obbligo di indossare la mascherina nei luoghi chiusi. Ma nonostante il peggioramento della situazione epidemiologica, le elezioni che, a causa di varie irregolarità, dovevano essere ripetute in 234 seggi elettorali si sono svolte lo scorso 1 luglio.

Il governo continua a ripetere che la situazione è sotto controllo, che le condizioni degli ospedali serbi sono “come in Germania” e incomparabilmente migliori rispetto ad altri paesi della regione. I funzionari statali negano che l’aumento di contagi e morti abbia a che fare con la campagna elettorale ed evitano di commentare certe notizie, come quella secondo cui almeno 11 funzionari dell’SNS e stretti collaboratori di Vučić, tra cui anche la presidente uscente del parlamento serbo Maja Gojković, avrebbero contratto il coronavirus durante una festa organizzata nella notte delle elezioni per celebrare la vittoria dell’SNS.

L’ennesima decisione irragionevole del governo, quella di chiudere le residenze universitarie a Belgrado, dove vivono gli studenti provenienti da tutta la Serbia, ha suscitato una rivolta degli studenti che sono scesi in strada per protestare. La decisione è poi stata revocata per evitare nuovi disordini e gli studenti sono rimasti a Belgrado. Così è stato evitato il rischio di un ulteriore diffusione del virus, dato che un focolaio di nuovi casi è stato registrato proprio tra gli studenti che hanno sostenuto gli esami all’Università di Belgrado nella sessione estiva.

Sui media indipendenti e sui social network continuano a circolare le immagini sconvolgenti di persone che aspettano davanti agli ambulatori di essere sottoposte a tampone, le testimonianze di persone che con febbre alta sono state rimandate a casa dall’ospedale, gli appelli dei medici che chiedono aiuto. All’inizio della pandemia, uno dei medici dell’Unità di crisi del governo serbo ha dichiarato che il coronavirus è “il virus più ridicolo al mondo”. Quattro mesi dopo, nessuno ci ride più sopra.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Luglio 09, 2020, 12:54:18 pm
Ogni commento è superfluo:

Codice: [Seleziona]
https://youtu.be/bMjeIhIPhkg?t=1114
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 11, 2020, 14:27:31 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-acque-che-avvelenano-203276

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Romania: acque che avvelenano

In Romania l'acqua distribuita dalla rete pubblica è inidonea al consumo nei due terzi dei comuni rurali. È la drammatica conclusione di un'indagine di Recorder, che evidenzia la negligenza delle aziende che costruiscono la rete e delle istituzioni locali coinvolte in casi di corruzione

10/07/2020 -  Alex Nedea
(Pubblicato originariamente da Recorder  , selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans  e OBCT)

Secondo la legge sull'acqua potabile adottata nel 2002, lo stato romeno ha il dovere di controllare regolarmente la qualità della rete idrica pubblica. Questa legge stabilisce il livello massimo di sostanze presenti nell’acqua, il cui superamento mette in pericolo la salute dei consumatori. Tuttavia, nelle zone rurali, l'acqua viene testata con minore frequenza rispetto alle città e i risultati, anche quando rivelano livelli troppo elevati di sostanze pericolose, spesso non vengono comunicati ai consumatori. Recorder ha raccolto presso la Direzione della Salute Pubblica (DSP) i risultati delle analisi delle reti idriche di 1568 comuni rurali in Romania. In 892 di essi, i risultati mostrano che sono stati superati i livelli massimi di ammonio e nitrito, oltre a quelli dei batteri provenienti da feci umane e animali.

Quale la causa di queste contaminazioni su larga scala? Per capire meglio Recorder ha consultato ingegneri di perforazione, geotecnici, medici, rappresentanti della Direzione della Salute Pubblica e dipendenti delle aziende facenti parte delle reti di distribuzione. In generale, le acque sotterranee si trovano in tre diversi livelli acquiferi, isolati da strati impermeabili di argilla.

Pozzi poco profondi
La prima è la falda acquifera, di solito a 30 metri di profondità. Tra i 30 e i 100 metri si trova la falda media e a più di 100 metri la falda profonda. In Romania, la maggior parte dell'acqua proveniente dalle falde freatiche è contaminata da attività agricole, escrementi di animali e dai residui dei servizi igienici scavati nei cortili. Secondo l'idrogeologa Delia Sinescu, la raccolta di acque sotterranee nel sud del paese avrebbe dovuto essere vietata già 20 anni fa. "I consumatori ne muoiono", dice, "e i giardini non dovrebbero nemmeno essere innaffiati. Alcuni bambini si sono ammalati perché i loro genitori nelle zone rurali usavano quest'acqua per fare loro il bagno", avverte.

Gli idrogeologi quindi consigliano di trivellare almeno fino alla seconda o addirittura alla terza falda acquifera. Anche i pozzi che attraversano la prima falda devono essere completamente impermeabili, in modo che l'acqua contaminata non vi penetri. Eppure queste raccomandazioni scientifiche vengono ignorate in nome del profitto. Le aziende responsabili della rete non sempre seguono queste linee guida e talvolta non scavano abbastanza in profondità per raggiungere la seconda falda. Con 100 euro al metro di perforazione, questi sono piccoli risparmi che però hanno gravi conseguenze per la salute.

Queste aziende hanno spesso contatti politici che permettono loro di vincere le gare d'appalto e beneficiare della negligenza delle istituzioni. Per rendere l’amicizia tra politici e imprenditori il più proficua possibile, le leggi vengono calpestate o adattate agli interessi di entrambi. La promulgazione della legge sull'acqua nel 2002 è stata una delle condizioni imposte da Bruxelles per l'adesione della Romania all'UE. Ma le direttive europee e le leggi romene vengono semplicemente ignorate. Quando viene inaugurata una rete di distribuzione dell'acqua, questa deve essere controllata almeno un anno dopo la perforazione. La legge però non specifica chi deve effettuare questo controllo, né quanto devono pagare gli inadempienti. In pratica, le imprese di costruzione non si preoccupano di questo passo fondamentale, ma chiedono comunque alla DSP un permesso di esercizio sanitario. La negligenza delle istituzioni permette alle aziende incaricate dei lavori di non preoccuparsi della qualità dell'acqua.

Un esempio
Nel comune di Gângiova, dove poco dopo l'inaugurazione della rete idrica Recorder ha scoperto che l'acqua era contaminata, la società Condor Păduraru sostiene che l'acqua era potabile quando il progetto è stato completato. E infatti, secondo le analisi della DSP, era adatta al consumo. Tuttavia, i rappresentanti della DSP hanno poi dichiarato di aver effettuato queste analisi su campioni portati da rappresentanti dell'azienda e si è poi scoperto che l'acqua proveniva da Șimnic, un comune situato a 70 chilometri da Gângovia.

Falsificare le analisi fornendo campioni falsi è una pratica comune, dice un dipendente di una grande impresa di costruzioni nel sud del paese. "Tre volte ho visto persone versare acqua minerale in bottiglia in bottiglie campione", dice. I municipi firmano la conferma di ricezione dei lavori basandosi su queste analisi, le aziende si fanno pagare e gli abitanti consumano acqua contaminata.

Dopo la ricezione e prima della messa in funzione della rete di distribuzione, le autorità locali devono ottenere un'autorizzazione sanitaria dalla DSP. "Ma prima di richiedere questa autorizzazione, ci portano dei campioni per controllare la qualità dell'acqua. Ma anche se la qualità dell'acqua non è buona, nessuno torna a chiederci il permesso", spiega Ștefan Popescu, della sede dalla DSP di Dolj.

Quindi le reti di distribuzione dell'acqua sono state inaugurate senza l'autorizzazione della DSP. I municipi approfittano del fatto che le sanzioni pecuniarie sono basse, 4000 lei [circa 830 euro] se si scopre che l'acqua non è adatta al consumo. Per evitare questa multa basta indicare che l'acqua non è potabile, cosa che la maggior parte dei consigli comunali non si preoccupa nemmeno di specificare.

Frode ai fondi europei
Nel 2007, quando la Romania è entrata nell'UE, Bruxelles le ha imposto una serie di obiettivi per allinearla agli standard europei. Uno dei più importanti è stata la modernizzazione delle infrastrutture nelle zone rurali. All'epoca, metà della popolazione romena non era collegata alle fognature e un terzo sopravviveva ancora attingendo all’acqua dei pozzi. Per costruire queste nuove infrastrutture, l'UE ha stanziato 2 miliardi di euro.


Bucarest ha speso i soldi forniti dall'Unione Europea, ma i progetti sono stati realizzati in maniera molto scarsa: bandi di gara con vincitori predeterminati da tempo, aziende legate a partiti che gonfiano i prezzi, lavori eseguiti solo sulla carta e mai messi in atto, attrezzature ad alte prestazioni sostituite da impianti più economici, reti idriche che collassano poco dopo l'inaugurazione...


Dopo la prima parte di questa indagine, l'Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF) ha fatto il punto della situazione e avviato una valutazione delle informazioni presentate da Recorder. L'OLAF opera sotto l'egida della Commissione europea e indaga su casi di frode contro il bilancio dell'UE, corruzione e grave negligenza a livello delle istituzioni europee. In Romania, anche la Direzione nazionale anticorruzione (DNA) si è attivata dopo l'indagine di Recorder. Anche i ministeri dell'Ambiente e dell'Agricoltura romeni hanno effettuato indagini interne in tutto il paese. I risultati di queste indagini confermano le gravi irregolarità segnalate da Recorder.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 11, 2020, 14:29:44 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Srebrenica-25-anni-203456

Citazione
Srebrenica, 25 anni

Alla commemorazione per i 25 anni dal genocidio di Srebrenica si attendevano centomila persone. Saranno, causa restrizioni Covid-19, molte meno. Le numerose iniziative artistiche e di memoria quest'anno, in assenza di un momento di conforto collettivo, acquisiscono ancora maggiore importanza

10/07/2020 -  Alfredo Sasso
I funerali delle vittime identificate negli ultimi dodici mesi – quest'anno in tutto otto - si terranno regolarmente, così come si svolgerà la tradizionale commemorazione dell’11 luglio. Ma il venticinquesimo anniversario del genocidio di Srebrenica si svolgerà in una cornice molto ridimensionata. L'incidenza del Covid, che in Bosnia Erzegovina era stata relativamente contenuta nei mesi primaverili, si è riacutizzata nelle ultime settimane, comportando nuove restrizioni sugli eventi pubblici e sugli arrivi dall'estero.

Prima della pandemia, gli organizzatori prevedevano circa centomila persone e di questi almeno diecimila, provenienti da tutto il mondo, sarebbero stati i partecipanti attesi alla Marcia della Pace. È il cammino di circa cento chilometri che riprende a ritroso quello compiuto da migliaia di bosniaci musulmani nel luglio 1995, che cercarono – solo una piccola parte vi riuscì - di mettersi in salvo dalle milizie serbo-bosniache che avevano appena occupato la cittadina di Srebrenica per poi operare l'eliminazione sistematica di tutti gli uomini adulti catturati, almeno 8.372 secondo l’elenco del Memoriale di Potočari.

In questa edizione della marcia, partita la mattina dell'8 luglio, i partecipanti ammessi al cammino sono stati solo un centinaio, tutti reduci della marcia di 25 anni fa. “Ogni notte sogno tutto questo“, racconta uno di loro, Nazif Krdžić, al portale Klix.ba  . "Allora affiorano i ricordi di quelli che si misero in marcia insieme a me e che però non sono arrivati vivi”. Un altro, Almedin Bećirović, è tornato dall’Olanda per ricordare i due fratelli e il papà, morti durante la marcia del 1995. "Mi sforzo al massimo di rendere omaggio, a prescindere dall’appartenenza religiosa. Ma chi nega il genocidio dovrebbe essere punito, è inaccettabile".

Dossier

L'11 luglio del 1995 prendeva avvio il genocidio di Srebrenica. Sono trascorsi 25 anni da allora ma di quei fatti, monito per l’intera umanità, non vi è ancora pieno riconoscimento. In un nostro dossier le commemorazioni delle vittime, la ricerca degli scomparsi, la riflessione sul presente

Sono numerose le diverse iniziative artistiche e di memoria, che quest’anno acquisiscono ancora maggiore importanza, nell’assenza del momento di conforto collettivo. I capannoni del villaggio di Potočari, ex-base del battaglione olandese dell’Onu - che nel 1995 doveva difendere la zona protetta di Srebrenica e abbandonò invece la popolazione civile al proprio destino – sono oggi lo spazio espositivo del Memoriale di Potočari che si trova davanti al cimitero delle vittime, alle porte della cittadina. È qui che il pittore Safet Zec esporrà fino al 7 ottobre la mostra “Exodus”, con alcuni dipinti che raffigurano scene tragicamente iconiche della popolazione in fuga da Srebrenica: una "risposta artistica e umana" all’orrore, ha spiegato Zec. Lo stesso Memoriale sta presentando sul proprio sito diversi progetti, da 12 dana sjećanja (“12 giorni di memoria”, versione in inglese qui  ) raccolta di testimonianze e storie di vita legate ai tragici eventi di Srebrenica con particolare attenzione alle donne e al loro ruolo di "vittime, testimoni, familiari ed attiviste per la verità", alle testimonianze di coloro che vissero il genocidio da bambini (video, sottotitolati in inglese, qui  ).

Sempre in questi giorni, l’artista bosniaca-americana Aida Sehović proporrà per la prima volta a Srebrenica la sua installazione  Što te nema (“Perché non ci sei”), che consiste nella disposizione di circa 8.000 tazzine di caffè bosniaco (i fildžani) raccolte nel corso degli anni da famiglie bosniache di tutto il mondo. È un “monumento nomade” che, secondo le parole dell’artista, intende rappresentare simbolicamente il numero delle vittime del genocidio di Srebrenica e uno spazio di “guarigione e conciliazione collettiva”.

Questi e tanti altri progetti servono non solo a tenere alta l’attenzione internazionale, ma anche a custodire la memoria dei fatti di Srebrenica come un processo vivo, partecipativo, ispirato a valori universali. Quanto mai necessario dato che nei dodici mesi dall’ultima commemorazione si segnalano mancati progressi e, al contrario, sono stati fatti veri passi indietro in molti aspetti decisivi per una elaborazione del trauma, premessa necessaria una riconciliazione sociale.

Processi incompleti
La sentenza definitiva della giustizia internazionale al generale Ratko Mladić, originariamente prevista per lo scorso marzo, avrebbe dovuto chiudere una volta per tutte il percorso giudiziario e completare quel senso di riparazione atteso da tanto, troppo tempo. Invece l’IRMCT (la Corte di secondo grado erede del Tribunale internazionale per l’ex-Jugoslavia) ha rinviato tutto al 2021, per l’emergenza-pandemia e per i problemi di salute dello stesso Mladić.

È vero che una conferma dell’ergastolo appare prevedibile, se non scontata, considerando i precedenti e la giurisprudenza consolidata. Ma l’indeterminatezza lasciata dal mancato punto finale ravviva la sensazione di ingiustizia. Qualcuno  , seguendo la analogia che viene spesso tracciata tra la corte dell'ex-Jugoslavia e quelle post-seconda guerra mondiale, segnala che è come se il Tribunale di Norimberga fosse stato ancora operativo nel 1971.

A tutto ciò si aggiunge la frustrazione per i tanti quadri medi e inferiori tra ufficiali militari e di polizia che non sono mai stati perseguiti dalla giustizia internazionale. La cooperazione tra le procure dei diversi paesi post-jugoslavi, che pure ha avuto momenti virtuosi in passato, oggi è ai livelli minimi e risente delle pressioni politiche – a Belgrado, ma anche a Zagabria e Sarajevo - per accelerare certi procedimenti e insabbiarne altri. "Tutti hanno le ‘nostre’ vittime e i ‘loro’ crimini di guerra", ha recentemente commentato  l’attivista serba per i diritti umani Natasa Kandić, osservando con amarezza che l’attuale clima per la giustizia sui crimini di guerra è il “peggiore di sempre”.

Un altro processo che non si completa, e che a questo punto potrebbe non completarsi mai, è quello della riesumazione dei corpi nelle fosse comuni primarie, secondarie o terziarie. Delle 8.372 vittime sono circa 1.700 quelle i cui resti non sono stati ancora ritrovati. Non è una questione che riguarda solo Srebrenica: secondo i dati dell'Istituto persone scomparse della Bosnia Erzegovina (MPI) sono circa 7.000 i dispersi delle guerre del 1991-95 in tutta la Bosnia Erzegovina e 12.000 in tutta la ex-Jugoslavia. Le riesumazioni sono calate drasticamente negli ultimi anni, per tante ragioni: ci sono sempre meno testimoni, i documenti sono stati occultati o distrutti, le frane e alluvioni che a più riprese colpiscono la regione stanno cambiando la conformazione dei terreni. Anche per questo le ferite della memoria restano aperte.

Revisionismo
L'aspetto più preoccupante è quello del revisionismo sui fatti di Srebrenica, sempre più diffuso e consolidato da parte degli ambienti istituzionali, culturali e educativi della Republika Srpska, e che riceve legittimazioni dal clima internazionale. Un rapporto del Memoriale di Srebrenica-Potočari, pubblicato lo scorso maggio, ha esaminato con cura le tecniche di costruzione del discorso revisionista, dal tentativo di minimizzare i numeri degli uccisi al ribaltamento della ricostruzione storica, ovvero il descrivere la presa di Srebrenica del luglio 1995 come un’operazione di autodifesa e liberazione invece che un crimine contro l’umanità. A seconda delle necessità, quindi, si nega la legittimità delle prove oppure le si rivendica come atti giusti e necessari. Radovan Karadžić – a cui resta intitolato, dal 2016, il dormitorio universitario di Pale -, Ratko Mladić e gli altri vengono sempre più glorificati nel discorso pubblico come padri fondatori ed eroi civili dell’entità serbo-bosniaca.

Le straordinarie raccolte di testimonianze, documenti e ricostruzioni fattuali compiute dai tribunali e dalla società civile sono necessarie e preziose, ma non sufficienti. Serve un lavoro paziente nell’educazione e nella comunicazione, dove le ricadute della segregazione identitaria e dei discorsi d’odio sono gravi e durature. Lo scorso gennaio ha creato grande sensazione nella comunità locale il caso di una fotografia di alunni della scuola elementare di Srebrenica travestiti da combattenti cetnici - le milizie ultranazionaliste serbe della Seconda guerra mondiale, la cui simbologia fu riadottata negli anni Novanta – a cui non è seguita alcuna riflessione pubblica né espressioni di condanna da parte delle autorità cittadine.

Diversi analisti ricordano, tra gli eventi che hanno contribuito a relativizzare il genocidio, la consegna del Premio Nobel per la letteratura 2019 a Peter Handke. Le posizioni dello scrittore austriaco su Srebrenica e sull’intero conflitto in Bosnia Erzegovina sono apertamente negazioniste rispetto ai crimini di guerra e costituiscono parte integrante della sua produzione letteraria. Ma l’impressione è che una parte consistente del mondo intellettuale mondiale – e quello italiano non ha fatto eccezioni – le abbia trattate come opinioni legittime, o comunque di poco conto di fronte alle capacità attribuite all’autore di “esplorare la specificità dell’esperienza umana”, nelle discusse parole dell’Accademia di Svezia che gli sono valse il premio.

Tanta leggerezza sarebbe stata probabilmente impensabile anche solo pochi anni fa, quando le guerre jugoslave erano ancora memoria viva per società civili europee e occidentali. E questo preoccupa molti bosniaci solidali con la causa di Srebrenica, che hanno percepito il caso Handke come un segnale di oblio, persino di doppio standard del mondo occidentale rispetto ad altri crimini ed oppressioni che continuano a muovere e polarizzare le coscienze. I negazionisti locali invece hanno approfittato dell’occasione di legittimità, idolatrando Handke al punto di sostenere l'erezione di una sua statua a Banja Luka o nella stessa Srebrenica.

Saltare muri
Nei media e nello spazio pubblico, i pochi personaggi pubblici che criticano la visione conformista della “propria” parte diventano immediatamente oggetto di campagne di discredito sui social, attacchi ad personam sui media, pesanti pressioni sul lavoro e sulla sfera privata. È un fenomeno consolidato nella Republika Srpska, ma che avviene anche a Sarajevo, a Mostar e in tutta la Bosnia Erzegovina, a prescindere dall’appartenenza nazionale.

Le memorie e le sofferenze si usano come un martello per conservare lo status quo e perpetuare sistemi di potere attraverso differenze sociali e paure esistenziali, invece che come punto di partenza inevitabile per ripensare un futuro comune. Servono tanti “traditori della compattezza etnica” disposti a esplorare frontiere, saltare muri e costruire ponti di dialogo (secondo la celebre definizione di Alexander Langer  rievocata in un recente dibattito  dall’ambasciatore italiano a Sarajevo Nicola Minasi) per guardare al futuro. Un futuro che per tante ragioni – desertificazione produttiva, azzeramento della forza lavoro, isolamento geografico, emigrazione, spopolamento – appare sempre più difficile in questo pezzo di Bosnia, di Balcani, di Europa.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 11, 2020, 14:32:36 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/25-anni-alla-ricerca-di-Selma-202937

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25 anni alla ricerca di Selma

Selma Musić scomparve nel 1995 durante la presa di Srebrenica. Aveva 7 anni. Nel 2019 i genitori scoprirono in una foto che era arrivata sana e salva sul territorio della Federazione. Una speranza per continuare la loro ricerca

09/07/2020 -  Nicole Corritore
L’11 luglio del 1995 le truppe serbo-bosniache di Ratko Mladić entrarono a Srebrenica, cittadina decretata “Area protetta” dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU nel 1993 e posta sotto protezione dei Caschi blu, dove si erano rifugiati migliaia di bosniaci musulmani fuggiti dai villaggi della zona. In pochi giorni vennero deportate, uccise e occultate in fosse comuni più di 8mila persone, tutti bosgnacchi (bosniaco-musulmani). Centinaia di civili, tra bambini, donne e anziani, vennero sfollati con la violenza, altri tentarono la fuga percorrendo quella che fu per molti una marcia della morte.

Selma Musić aveva sette anni e dieci mesi. La madre Alija si trovava il 12 luglio a Potočari, pochi chilometri da Srebrenica, davanti alla base dei Caschi blu, in cerca di salvezza assieme a centinaia di altri civili. Con lei altri tre figli: Alen di 5 anni, Elvira di 2 e Sadik di sei mesi. Nella folla terrorizzata, spinta a forza dai soldati, Alija perse di vista la figlia Selma. Selma Musić è nata il 17 settembre 1987 a Bukovici, comune di Vlasenica. È scomparsa il 12 luglio 1995 a Potočari vicino a Srebrenica. È stata vista l'ultima volta il 13 luglio 1995 a Ravne, vicino a Kladanj, nel cosiddetto “territorio libero”. Da allora non se ha più traccia.

Informazioni su Selma
Selma Musić è nata il 17 settembre 1987 a Bukovici, comune di Vlasenica. Occhi nocciola, capelli biondo-castano, pelle chiara, presenta difficoltà motoria a braccio e gamba sinistra. E’ scomparsa il 12 luglio 1995 a Potočari vicino a Srebrenica. È stata vista l'ultima volta il 13 luglio 1995 a Ravne, vicino a Kladanj, nel cosiddetto “territorio libero”. Da allora non se ne ha più traccia. Quest'anno compirebbe 33 anni.

Se si dispone di informazioni, segnalarlo alla Croce Rossa del proprio paese o all'Interpol o alla polizia locale. Per ulteriori informazioni si veda la pagina Facebook: “Missing Selma Music since July 12 1995 in Srebrenica, Potocari  ”.

Ascolta l'appello audio di Elvira Musić

La famiglia di Selma ha continuato a cercarne le tracce sino ad oggi, senza risultato. In Bosnia è stata inserita nella lista degli scomparsi e negli anni si è cominciato a credere che fosse stata uccisa e il suo corpo occultato in una fossa comune. Ma nel 2019 è accaduto qualcosa.

La sorella Elvira, oggi ventisettenne, mi ha contattata: “Ciao, ho visto un video in cui hai tenuto un'intervista sui bambini scomparsi dalla Bosnia. I miei genitori e io stiamo cercando mia sorella scomparsa in quegli anni. Di recente è apparsa una sua foto che indicava che era viva...”. Elvira aveva letto l’inchiesta di OBCT e i servizi realizzati dalla Rai sulla storia dei “Bambini di Bjelave  ”, che da Sarajevo nel luglio del 1992 vennero portati in Italia con l’accordo di farli rientrare in Bosnia alla fine della guerra, ma finirono poi in adozione nonostante i genitori biologici fossero ancora in vita.

Grazie ad Elvira abbiamo ricostruito la vicenda della tragica scomparsa della sorella e ci ha inviato un appello audio, nella speranza che quante più persone lo condividano per aiutare la sua famiglia in questa estenuante ricerca: “Sono Elvira, sorella di Selma Musić che è sparita a Srebrenica nei giorni della caduta della città e che tutta la mia famiglia sta cercando da 24 anni. Quando è scomparsa io avevo solo due anni, per cui purtroppo non mi ricordo di lei. Ciò che mi porto dentro da tutta la vita sono i racconti su di lei che mi hanno riportato i nostri genitori, oltre a una grande sofferenza e un grande vuoto.”

Siamo entrati in contatto con il padre, Salim, che ha raccontato quell’11 luglio: “Ho dovuto prendere la via dei boschi, assieme a tanti altri ragazzi e uomini. Solo io so cosa ho passato e quanto quel cammino sia stato duro. È difficile da raccontare e mai lo dimenticherò. Il momento più duro è stato però quando ho dovuto dividermi dalla mia famiglia, ma ancora peggio quando ho saputo che Selma era scomparsa”.

Selma Musić in Kladanj, July 1995
Photo Ahmet Bajrić Blicko

“Srebrenica era caduta. Mentre gli uomini tentavano la fuga attraverso i boschi, donne, bambini e vecchi si sono incamminati verso la base ONU - ha raccontato invece nel marzo del 2019  la moglie Alija - A Potočari c’era il caos, una folla enorme, la paura si respirava ad ogni passo. Portavo in braccio Sadik, il più piccolo, gli altri tre mi camminavano davanti. Ad un certo punto Selma è sparita dalla mia vista, è stata questione di un secondo.” Alija ha cominciato a cercarla per ore in mezzo a quella massa umana, rivolgendosi anche a Ratko Mladić: “Gli ho tirato la manica della camicia dicendogli che avevo perso mia figlia, ma mi ha spinta via. Poi ci hanno stipati sugli autobus...”. Assieme a centinaia di sfollati verranno mandati verso il cosiddetto “territorio libero” controllato dall’Armija BiH.

Il marito Salim invece ha percorso più di 100 km a piedi lungo quella che è stata chiamata la “Marcia della morte” e - a differenza di molti altri morti di stenti, per le ferite o uccisi lungo il tragitto - è riuscito ad arrivare in territorio libero: “Ho ritrovato mia moglie e i miei tre figli il 20 luglio, a Lukavac [a nord-ovest della città di Tuzla]”. Segnalarono subito alla Croce Rossa e all’Unhcr (Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati) la sparizione di Selma.

Nei sette anni in cui vissero da sfollati in un villaggio nei pressi Lukavac [nel Cantone di Tuzla], non ebbero alcuna informazione su Selma e nel 2002 tutta la famiglia ha ottenuto i visti per gli Stati Uniti. Oggi Salim, con la moglie Alija e i due figli Alen e Sadik, vivono a Saint Louis nel Missouri, mentre Elvira vive con il marito e due figli nell’Iowa.

Ma l’anno scorso è accaduto un fatto inaspettato, come ci ha raccontato Elvira: “A marzo 2019, solo per caso, mia mamma ha visto una foto apparsa su una pagina Facebook e ha riconosciuto subito i vestiti che Selma portava quel giorno... ci ha chiamati tutti per dircelo”. “I miei genitori fin dalla sua scomparsa hanno continuato a cercare tracce di mia sorella nei modi più disparati ma senza alcun risultato per 24 anni e questo evento ci ha dato nuove speranze”, ha proseguito Elvira. Hanno poi proseguito la ricerca attraverso il profilo Facebook aperto dal fratello di Elvira nel 2011 “Missing Selma Music since July 12 1995 in Srebrenica, Potocari  ”.

La foto a cui si riferisce Elvira è del fotoreporter Ahmet Bajrić (Blicko), scattata a Ravne nei pressi di Kladanj, dove arrivarono decine e decine di donne, bambini e vecchi deportati da Potočari tra il 12 e il 14 luglio. “Ravne era uno dei primi punti di accoglienza di civili in arrivo da Srebrenica. Non ricordo esattamente quando ho scattato quella foto, credo il 13 luglio”, ha dichiarato il fotoreporter a Dnevni Avaz  il 21 maggio dell’anno scorso.

Selma Musić as she would be as an adult
(Age progression elaboration)

Ahmet Bajrić assieme ai colleghi di Radio Zvornik, era tra i pochi giornalisti presenti in quei giorni di luglio a Ravne, vicino a Kladanj, al confine con il territorio controllato dall’esercito serbo-bosniaco. Ha raccontato a OBCT che la foto, come tante altre che aveva scattato in quei giorni tra gli sfollati che arrivavano da Srebrenica, sono state pubblicate su internet e che i genitori di Selma l’hanno contatto dichiarando di aver riconosciuto Selma in uno scatto: “Per loro, questa foto è la dimostrazione che Selma è arrivata salva sul territorio della Federazione”, ha aggiunto Ahmet Bajrić. Il fotografo ha autorizzato OBCT alla pubblicazione  auspicando il ritrovamento di Selma.

Il fotoreporter ha in seguito incontrato i genitori di Selma. Dopo aver visto quella foto hanno deciso infatti di partire per la Bosnia, come racconta il padre di Selma: “In aprile [2019] appena arrivati abbiamo consegnato la foto alla Croce Rossa e alla polizia. Poi abbiamo cominciato a visitare tutte le case di accoglienza di minori della zona di Kladanj. Ci avevano promesso che avrebbero cercato informazioni, ma fino ad oggi non abbiamo ricevuto nulla. Non ci diamo per vinti e torneremo in Bosnia per proseguire le ricerche”.

Hanno poi denunciato la scomparsa anche all’FBI il quale, in base alla foto della bambina, ha realizzato una ricostruzione - attraverso un processo di “age progression” - su come potrebbe apparire oggi, da adulta.

Durante le ricerche, si è sparsa la voce, ma senza alcuna prova finora, che potrebbe essere stata portata fuori dalla Bosnia Erzegovina. “Mi chiedo se ci sia la possibilità che sia stata portata in Italia e se comunque potreste aiutarci in qualsiasi modo”, ha proseguito Elvira. “Il nostro più grande desiderio è trovarla. Per questo spero tanto che questo articolo e questo mio appello arrivino lontano e che chiunque abbia informazioni di qualsiasi tipo su Selma, ce le faccia avere e ci restituisca la pace. Almeno per dirci che sta bene, ovunque lei sia oggi.”
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 11, 2020, 14:37:59 pm
Chissà se Fusaro il complottista ha visto questo video...

https://www.balcanicaucaso.org/Media/Multimedia/Belgrado-i-video-shock-della-violenza-della-polizia

Citazione
Belgrado: i video shock della violenza della polizia

Sui social media sono stati pubblicati vari video che documentano la brutalità della polizia contro i manifestanti riunitisi martedì sera a Belgrado per condannare la gestione ufficiale della crisi del coronavirus e la reimposizione di un coprifuoco nel fine settimana. Qui raccolti da Balkan Insight


Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Luglio 13, 2020, 20:05:21 pm
Perché cosa ha detto Fusaro?
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 13, 2020, 21:21:31 pm
Perché cosa ha detto Fusaro?

Beh, negli ultimi mesi non ha fatto altro che parlare di "rischio dittatura in Italia", "stato di polizia", ecc, perciò mi chiedevo (retoricamente...) se il succitato prof avesse visto cosa accade altrove... ovvero in paesi dove la polizia mena per davvero, anche perché in quei luoghi "può farlo"...
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Luglio 13, 2020, 23:13:50 pm
Sicuramente non intende dire che all'estero va meglio; del resto ha ragione
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 14, 2020, 00:10:38 am
Sicuramente non intende dire che all'estero va meglio; del resto ha ragione

Non proprio, altrimenti che italiano medio sarebbe ?
Poi, il fatto che sia un prof di filosofia non significa nulla, perché l'esterofilia è una malattia che colpisce sia il laureato che il connazionale con la terza media.

Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Malpais - Luglio 14, 2020, 14:20:56 pm
A mio parere Fusaro parla della realtà italiana semplicemente perchè vive in Italia, ma non ritiene che la prassi italiana di gestione dell'emergenza sia sostanzialmente diversa rispetto agli altri Paesi (e se anche lo credesse, l'accusa non sarebbe al proprio Paese, ma all'autorità politica che su di esso comanda). In realtà, Fusaro è stato tra i primi a scagliarsi contro il governo e la polizia francesi, e in favore dei gilet gialli; ha detto di tutto e di più contro le democrazie occidentali, mentre loda abitualmente il nostro Paese, per la sua cultura e le sue tradizioni. Ricordo, ad esempio, la polemica contro l'apertura di Starbucks a Milano e, d'altra parte, l'elogio del tradizionale caffè italiano; e così numerose difese delle tipicità italiane (luoghi turistici, aziende, cucina, arte...). Tra l'altro il nostro filosofo ha dichiarato guerra agli anglicismi e difende a spada tratta l'utilizzo della lingua italiana, cosa non proprio da esterofilo. Talvolta può apparire grottesco, ma è indubbio che abbandonare la propria lingua in favore dell'inglese significa rinunciare alla propria identità in favore del progetto cosmopolita; peraltro, rispolverando spesso termini italiani arcaici, Fusaro porta gli italiani che lo ascoltano a pensare all'antichità della propria lingua, delle proprie radici, del proprio passato. In definitiva, a me Fusaro sembra, nel suo campo, un patriota dei nostri tempi, sebbene non raramente dissenta dal suo pensiero.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 14, 2020, 19:58:33 pm
Malpais

Citazione
A mio parere Fusaro parla della realtà italiana semplicemente perchè vive in Italia

Il problema degli intellettuali italiani (e non solo) come Fusaro è quello di non parlare mai della realtà di altri Paesi.
Il che significa che i suddetti, in buona compagnia dei media, contribuiscono ad alimentare fortissimamente la mentalità anti-italiana fortemente radicata nell' italiano medio.
Anch'io vivo in Italia, ma nonostante ciò mi interesso della realtà degli altri Paesi da quando ero ragazzo.
E se lo faccio io che sono un signor nessuno, che nella vita si occupa di tutt' altro, perché non lo fa un laureato con 110 e lode, nonché docente presso l'Istituto alti studi strategici e politici di Milano ?
https://it.wikipedia.org/wiki/Diego_Fusaro
Citazione
Studi e insegnamento
Diplomato al Liceo classico statale Vittorio Alfieri di Torino (100/100 con menzione), Fusaro ha conseguito la laurea in Filosofia della storia (110 e lode) e successivamente la laurea magistrale con una tesi in Storia della filosofia moderna su Karl Marx presso l'Università degli Studi di Torino.[1][2] Dopo aver conseguito un dottorato di ricerca presso l'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano in Filosofia della storia, è stato ricercatore a tempo determinato di tipo A in Storia della filosofia presso la stessa università dal 2011 al 2016.[3] Nel febbraio del 2016, ha tenuto un seminario sulla figura di Antonio Gramsci presso l'Università di Harvard[4]. È attualmente docente presso l'Istituto alti studi strategici e politici di Milano.




Citazione
; ha detto di tutto e di più contro le democrazie occidentali

Altra contraddizione di Fusaro: critica le democrazie occidentali ma si guarda bene dal fare altrettanto nei confronti delle pseudo "democrazie" orientali.
Ad esempio: nei mesi scorsi, durante la pandemia, Fusaro ha fatto riferimento più volte al rischio che nel nostro Paese vi fosse una deriva autoritaria, in sostanza si arrivasse a uno stato di polizia, quindi a una dittatura (per non parlare di tutte le sue scemenze sul covid-19 "fabbricato" in laboratorio, ecc...), poi il tipo che ti fa ?
Loda Orban e Xi Jinping che con la democrazia c'entrano come i cavoli a merenda.

https://www.lastampa.it/esteri/2020/03/30/news/in-ungheria-il-parlamento-da-i-pieni-poteri-a-orban-per-combattere-il-coronavirus-per-l-opposizione-e-dittatura-1.38657562

https://it.wikipedia.org/wiki/Xi_Jinping

Ridicolo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Luglio 14, 2020, 21:17:06 pm
A mio parere Fusaro parla della realtà italiana semplicemente perchè vive in Italia, ma non ritiene che la prassi italiana di gestione dell'emergenza sia sostanzialmente diversa rispetto agli altri Paesi (e se anche lo credesse, l'accusa non sarebbe al proprio Paese, ma all'autorità politica che su di esso comanda). In realtà, Fusaro è stato tra i primi a scagliarsi contro il governo e la polizia francesi, e in favore dei gilet gialli; ha detto di tutto e di più contro le democrazie occidentali, mentre loda abitualmente il nostro Paese, per la sua cultura e le sue tradizioni. Ricordo, ad esempio, la polemica contro l'apertura di Starbucks a Milano e, d'altra parte, l'elogio del tradizionale caffè italiano; e così numerose difese delle tipicità italiane (luoghi turistici, aziende, cucina, arte...). Tra l'altro il nostro filosofo ha dichiarato guerra agli anglicismi e difende a spada tratta l'utilizzo della lingua italiana, cosa non proprio da esterofilo. Talvolta può apparire grottesco, ma è indubbio che abbandonare la propria lingua in favore dell'inglese significa rinunciare alla propria identità in favore del progetto cosmopolita; peraltro, rispolverando spesso termini italiani arcaici, Fusaro porta gli italiani che lo ascoltano a pensare all'antichità della propria lingua, delle proprie radici, del proprio passato. In definitiva, a me Fusaro sembra, nel suo campo, un patriota dei nostri tempi, sebbene non raramente dissenta dal suo pensiero.
C'è poco da aggiungere, se non che sarebbe fuori contesto fare paragoni con la Nigeria.
Citazione
Altra contraddizione di Fusaro: critica le democrazie occidentali ma si guarda bene dal fare altrettanto nei confronti delle pseudo "democrazie" orientali.
Qui però hai centrato un problema, la Cina è una dittatura che si è apparentemente occidentalizzata, nella misura in cui l'Occidente somiglia sempre più a un regime maoista.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 16, 2020, 00:50:42 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Slovenia/Slovenia-legge-sui-media-se-ne-discutera-fino-a-fine-agosto-203612

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Slovenia: legge sui media, se ne discuterà fino a fine agosto

Il portale di RTVSLO

Il governo sloveno ha proposto una riforma dei media che prevede un calo drastico delle risorse per il settore radiotelevisivo pubblico. Al seguito delle proteste, anche internazionali, il dibattito sulla proposta è stato prorogato sino a fine agosto

15/07/2020 -  Redazione
Ad inizio luglio si è acceso il dibattito in Slovenia su tre proposte di legge volte a riformare il settore dei media. Queste ultime – messe a punto dal ministero della Cultura e i cui contenuti sono emersi in questi giorni - riguardano la radiotelevisione pubblica, l'agenzia di stampa slovena STA e infine i media in generale.

Tra le modifiche previste vi sarebbero anche tagli alla Radiotelevisione di Slovenia, con l'8% del canone che andrebbe a finanziare il settore dei media privati. RTV Slovenia perderebbe inoltre la rete di trasmettitori, trasferita ad una società economica di proprietà statale.

Inizialmente il tempo previsto per il dibattito pubblico era stato limitato a pochi giorni ma è stato poi prorogato – come richiesto sia a livello locale che internazionale - fino alla fine di agosto.

Sulla questione è intervenuto immediatamente il direttore generale di RTV Slovenia, Igor Kadunc, affermando che la perdita di fondi annunciata rischia di portare alla fine di RTV Slovenia. Dei tagli rischiano di farne le spese in particolare i programmi regionali e delle minoranze. In questo caso, ha sottolineato Kadunc, è evidente che si tratta di una decisione politica.

La lettera del consorzio MFRR
Anche il consorzio Media Freedom Rapid Response, di cui OBCT fa parte, ha inviato alle autorità slovene un appello: si chiede che il processo di consultazione sia approfondito ed attento a coinvolgere tutte le voci, visto che il pacchetto di emendamenti rischia di indebolire l'emittente pubblica e l'informazione in Slovenia

In questi giorni hanno fatto sentire la loro voce anche la Federazione europea dei giornalisti (EFJ), l'Unione europea delle radiotelevisioni pubbliche EBU e SEEMO  , organizzazione che tutela la libertà di stampa nel sud-est Europa. Le tre organizzazioni si sono dette preoccupate sia dai contenuti delle riforme previste che dai pochi giorni inizialmente garantiti al dibattito pubblico.

“Senza emendamenti alle proposte di legge RTVSLO vede profondamente a rischio la propria indipendenza”, ha dichiarato la direttrice di EFJ Renate Schroeder.

Tra chi ha scritto al governo sloveno chiedendo la proroga dei termini per il dibattito pubblico vi è stata anche la EBU il cui direttore, Noel Curran, ha sottolineato – soffermandosi in particolare sui tagli previsti - che RTVSLO è un'istituzione democratica fondamentale alla quale vanno garantiti fondi adeguati, stabili e prevedibili per permetterle di adempiere il suo importante ruolo nella società.

"In questi tempi difficili abbiamo bisogno più che mai di un servizio di radiodiffusione pubblica ben finanziato, indipendente e forte in Slovenia. Abbiamo bisogno di una discussione pubblica secondo gli standard internazionali, aperta a tutti coloro che sono interessati al cambiamento e che dovrebbero dire la loro nel processo”, ha specificato poi Oliver Vujović, segretario generale di SEEMO.

L'Unione slovena dei giornalisti ha denunciato che la riforma mette a rischio nel medio-termine 650 posti di lavoro e che essa “è realizzata contro la pluralità e la natura democratica del panorama dei media in Slovenia”.

Critiche fatte proprie anche da varie confederazioni sindacali tra cui la KSJS il cui segretario, Branimir Štrukelj, ha invitato a chiamare le cose per il loro nome: “Questo è un tentativo di introdurre il controllo su due media fondamentali nel paese: RTVSLO e l'agenzia stampa STA che dovrebbero invece promuovere una pluralità di punti di vista ed interessi”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: fritz - Luglio 31, 2020, 19:05:29 pm
Frank, ti volevo chiedere un parere su questi tre posti: Germania Est, R. Ceca e Ungheria.

Secondo te com'e' vivere li' per un paio di mesi? In R. Ceca e Ungheria come sono messi con l'inglese?

Edit

E a nazifemminismo come son messi?
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 01, 2020, 19:49:27 pm
Frank, ti volevo chiedere un parere su questi tre posti: Germania Est, R. Ceca e Ungheria.

Secondo te com'e' vivere li' per un paio di mesi? In R. Ceca e Ungheria come sono messi con l'inglese?

Edit

E a nazifemminismo come son messi?

fritz, con i soldi in tasca si può vivere bene in molti paesi di questo tormentato mondo... quindi anche in Germania, R.Ceca e Ungheria.

Non sono mai stato in Germania, (né dell'ovest né dell'est) ma credo saprai bene che quella orientale è più povera di quella occidentale, perciò cos'è che ti attrae di quel paese ?

Riguardo alla Repubblica Ceca e l'Ungheria posso dirti che da quelle parti ci son stato solo come turista e per pochi giorni (visitai Praga e Budapest).
In Ungheria le lingue straniere più parlate sono l'inglese e il tedesco (ma molti, soprattutto se anziani, parlano solo l'ungherese), tuttavia fuori Budapest l'inglese non è molto usato.
In R.Ceca l'inglese lo parlano soprattutto i giovani, ma anche in questo caso molti abitanti di quei luoghi parlano solo il ceco.
Inoltre i cechi sono solitamente freddi e distaccati e contrariamente a quanto credono molti italiani, le femmine "non te la sbattono in faccia".

Mi chiedi del "nazifemminismo", che io già reputo un errore definirlo tale, perché il femminismo dovrebbe essere definito misandrico e non nazista, per tutta una serie di motivi che ora non ho voglia di riesumare.
No, da quelle parti il femminismo non è radicato come in Italia, Spagna, Australia, Usa, ecc, però sappi che anche lì le femmine spaccano i maroni come in Italia, perché la loro indole è la stessa ovunque, in ogni tempo e in ogni luogo.

Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: fritz - Agosto 01, 2020, 21:15:07 pm
La Germania Est la conosco perche' ci sono stato piu' volte. Pensavo che tu fossi molto piu' esperto perche' ti vedo spesso mettere post sull'Europa dell'Est.

Sono d'accordo sul fatto che le donne sono rompicoglioni ovunque; pero' almeno non finisci sotto un ponte o in galera solo per averci parlato o provato a parlarci, in quei luoghi...
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Agosto 01, 2020, 22:27:50 pm
Citazione
Inoltre i cechi sono solitamente freddi e distaccati e contrariamente a quanto credono molti italiani, le femmine "non te la sbattono in faccia".
Ho conosciuto una ceca, ricercatrice in biologia, era completamente apatica. Ora vive sola, ogni tanto si vede in un circolo con altre donne. In generale nei Paesi del'Est (Polonia, R. Ceca, forse Lituania) c'è un'atmosfera devitalizzata, la gente è spesso mesta dev'essere un residuo dell'era sovietica.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 02, 2020, 00:02:45 am
La Germania Est la conosco perche' ci sono stato piu' volte. Pensavo che tu fossi molto piu' esperto perche' ti vedo spesso mettere post sull'Europa dell'Est.

La realtà dell' Europa dell'est mi interessa per tutta una serie di motivi, ma questo non significa che abbia girato tutto l'est, anche perché per farlo ci vuole tempo e denaro, ed io che vivo (in affitto) per conto mio da eoni, non è che ne abbia molto...
Ne ho girati e conosciuti alcuni (Romania in primis, Albania in secundis), questo sì.


Citazione
Sono d'accordo sul fatto che le donne sono rompicoglioni ovunque; pero' almeno non finisci sotto un ponte o in galera solo per averci parlato o provato a parlarci, in quei luoghi...

Sì, ma in quei luoghi hanno altre rogne, che è sempre bene ricordare.
Per dire...
https://www.iene.mediaset.it/video/kanun-vendetta-famiglia-tradizione-albania_287916.shtml
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Il Kanun è una tradizione che sembra uscita dal Medioevo ma viene praticata ancora in alcune regioni dell'Albania. Consiste nel vendicare l'uccisione di un proprio familiare ammazzando un membro dell'altra famiglia. Luigi Pelazza ha incontrato le vittime di questa follia
Guarda la puntata del 27 gennaio
Il Kanun è una legge morale terribile. Consiste nel vendicare l'uccisione di un membro della propria famiglia uccidendo un membro dell'altra. Non c'è scappatoia, il cerchio si chiude solo quando il sangue è lavato con il sangue.

Questo non succede dall'altra parte del mondo ma vicino a noi, in alcune regioni dell'Albania.

Luigi Pelazza ha incontrato delle famiglie a cui è stata giurata vendetta. Le persone minacciate, spesso ragazzi giovani, sono costretti a vivere segregati in casa, non possono uscire nemmeno per andare a scuola, è l'insegnante ad andare a casa loro.

In questa tradizione ci sono persino dei cavilli, come se fosse una vera e propria legge. Per esempio, se la persona minacciata ha bisogno di uscire di casa per andare in ospedale, i mediatori delle due famiglie si accordano su un periodo di tregua per permettere le cure.

Di questa tradizione orribile, come ci mostra Luigi Pelazza nel suo servizio, c'è una traccia anche in Italia. Un uomo per legittima difesa ha ucciso un rapinatore albanese. I famigliari della vittima gli hanno giurato vendetta.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 02, 2020, 00:05:49 am
La Germania Est la conosco perche' ci sono stato piu' volte.

E com'è ?
Che idea ti sei fatto di quei luoghi ?
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 02, 2020, 00:08:43 am
Ho conosciuto una ceca, ricercatrice in biologia, era completamente apatica. Ora vive sola, ogni tanto si vede in un circolo con altre donne. In generale nei Paesi del'Est (Polonia, R. Ceca, forse Lituania) c'è un'atmosfera devitalizzata, la gente è spesso mesta dev'essere un residuo dell'era sovietica.

Sì, l'era sovietica c'entra molto e peraltro si ripercuote anche in ambito relazionale e sessuale.
Non a caso ho scritto più volte che, ad esempio, le rumene non sono affatto più disinibite delle italiane.
Anzi, casomai è il contrario.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Agosto 02, 2020, 01:27:31 am
Non a caso ho scritto più volte che, ad esempio, le rumene non sono affatto più disinibite delle italiane.
No infatti sono molto riservate. Tranne quelle del mondo dello spettacolo, per ovvi motivi.
In Russia l'atmosfera è decisamente più allegra, ma S. Pietroburgo è una città benestante e non fa testo.
Sarebbe interessante sapere com'è la situazione in Ungheria, ma le ungheresi sono generalmente piene di gioia di vivere e pare alquanto intelligenti.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: fritz - Agosto 02, 2020, 01:54:53 am
No infatti sono molto riservate. Tranne quelle del mondo dello spettacolo, per ovvi motivi.
In Russia l'atmosfera è decisamente più allegra, ma S. Pietroburgo è una città benestante e non fa testo.
Sarebbe interessante sapere com'è la situazione in Ungheria, ma le ungheresi sono generalmente piene di gioia di vivere e pare alquanto intelligenti.

Vicus ... Ha ragione Frank. Tutto il mondo e' paese quando si parla di donne, non ti fare illusioni. In Russia le donne non sono affatto piu' allegre ...

Le ungheresi non lo so, devo andarci tra qualche mese e vi dico.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Agosto 02, 2020, 03:10:14 am
Sono lieto di sapere che sei stato anche tu in Russia. Le russe sono in media più allegre delle altre donne dell'est, polacche specialmente, che sono meste per usare un eufemismo.
Poi in Polonia sono andato per tenere una conferenza all'università, non per andare a battone o a discoteche dove sono certo che le donne hanno il sorriso stampato sulla faccia, ad uso degli italiani (e altri occidentali) gonzi che cercano di accalappiare (come da certe interviste trasmesse dalla Rai...)
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: fritz - Agosto 02, 2020, 11:56:09 am
Sono lieto di sapere che sei stato anche tu in Russia. Le russe sono in media più allegre delle altre donne dell'est, polacche specialmente, che sono meste per usare un eufemismo.
Poi in Polonia sono andato per tenere una conferenza all'università, non per andare a battone o a discoteche dove sono certo che le donne hanno il sorriso stampato sulla faccia, ad uso degli italiani (e altri occidentali) gonzi che cercano di accalappiare (come da certe interviste trasmesse dalla Rai...)


Mah, io tutta 'sta allegria non l'ho vista. Sulla Polonia, non so dove tu sia stato, ma sappi che il femminismo in Polonia ha ormai sdoganato ...
E' anche un mito a mio parere che le russe siano bellissime. Non sono poi tanto diverse dalle italiane ...

I documentari della Rai lasciali perdere, la Rai e' una schifezza di "servizio pubblico" al servizio del pensiero dominante.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 02, 2020, 14:17:02 pm
No infatti sono molto riservate. Tranne quelle del mondo dello spettacolo, per ovvi motivi.
In Russia l'atmosfera è decisamente più allegra, ma S. Pietroburgo è una città benestante e non fa testo.
Sarebbe interessante sapere com'è la situazione in Ungheria, ma le ungheresi sono generalmente piene di gioia di vivere e pare alquanto intelligenti.



Mah, guarda, io non son mai stato a San Pietroburgo (conosco però una russa di San Pietroburgo che mi chiavavo 13 anni fa e che vive a Perugia da 25 anni), ma so per certo che le realtà rurali son ben diverse.
Da quelle parti le differenze tra grandi città e campagna sono molto marcate e in certe zone della Russia la povertà è ancora tanta, sebbene l'arrivo di Putin e i suoi metodi ne abbiano ridotto la diffusione rispetto a 20 anni fa.
Perciò già il fatto di condurre una vita di merda toglie gioia e allegria.
Per quanto riguarda le ungheresi non me le ricordo molto diverse dalle italiane.
Son femmine...
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 02, 2020, 14:27:47 pm
A proposito di Ungheria.

https://www.eastjournal.net/archives/32577

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UNGHERIA: Lo scandalo del monopolio del tabacco
Claudia Leporatti 17 Luglio 2013

Il cambiamento è di forte impatto, non solo per i fumatori. Prima di tutto cambia l’aspetto delle città. Passeggiando per Budapest già da diverse settimane si nota un’esplosione di insegne marroni e di simboli rotondi bordati con i colori della bandiera ungherese, verde, bianco e rosso. Positivo da un lato per i turisti che trovano finalmente la lettera “T” a indicare i punti vendita di sigarette, poco appagante per gli occhi il resto. Un’uniformità che spaventa, non importa che interessino o meno gli articoli da fumo. I negozi hanno i vetri oscurati e mettono un poco di tristezza addosso. Con quel divieto d’accesso ai minori di 18 anni fanno pensare a degli squallidi locali a luci rosse. Dal 1 luglio 2013 i tabacchi possono essere venduti solo in appositi punti vendita, gestiti dai vincitori delle circa 5mila licenze concesse dietro bando dal governo ungherese. Tutti gli altri rivenditori hanno a disposizione l’estate per finire le scorte, poi non potranno più commercializzare sigarette e tabacco. Secondo la stampa locale in questo modo i punti vendita dove, in Ungheria, è possibile acquistare tabacchi sono passati da 42mila a 5.400.

La vera rivoluzione, o dovremmo dire terremoto, è ai danni dei proprietari dei vari piccoli empori tanto diffusi in Ungheria, i minimarket spesso aperti 24 ore noti come “ABC”, dove trovare generi alimentari di base, alcolici, prodotti per l’igiene e, fino a poco tempo fa, le sigarette. Già colpiti duramente dal divieto di vendere alcolici dopo le ore 22, adesso vedono il loro giro d’affari ridursi drasticamente e non sono in pochi a gridare rabbia contro la decisione del governo. Oltretutto i nuovi tabaccai potranno vendere anche snack, gelati, birre e altri prodotti, portando via ancora più ricavi agli altri negozi. Una stretta inserita nell’ambito di un più ampio programma contro il fumo e in questo senso condivisibile, ma che presenta almeno due punti critici: primo quello sull’assegnazione delle licenze che sarebbe stata, a quanto pare, condizionata del tutto dalla vicinanza o meno alla Fidesz e dai contributi al partito; secondo la limitazione di libertà, la capacità di intervenire sulla vita delle persone e sulle possibilità dei negozianti. Si parla di 700 licenze finite in mano alla stessa famiglia, 700 su 5000 non sono certo poche!

Gli stranieri che non sanno niente della nuova legge guardano spaesati gli espositori di sigarette del tutto vuoti di uno dei tanti negozi di generi vari del centro di Pest. Chiedono dove sono le sigarette, la cassiera sbuffa, dice che può vendergli solo cartine e accendini, indica con occhio torvo il nuovo shop, pronto ma chiuso, dall’altro lato della strada: “tra qualche giorno potrete comprarle lì”.

Devo dirlo, questa è una modifica che fa impressione. Certo, al mio arrivo in Ungheria trovai eccessivo e anomalo che vendessero le sigarette persino al bar della mensa dell’università e che la gente fumasse in ogni dove senza ritegno, persino in treno. Indubbiamente è piacevole rientrare a casa con gli abiti che non puzzano di fumo come se fossi appena uscito da una ciminiera, quindi ben vengano le norme che vietano di fumare nei luoghi pubblici, nelle stazioni dei mezzi e davanti ai locali, ma pare che adesso le regole stiano diventando troppo stringenti. Senza contare i dettagli.

Per comprare di sigarette di notte bisogna munirsi di mappa: se ne trova una con tanto di indicazioni sugli orari di apertura sul sito dei negozi di tabacchi di stato, da cui è evidente la disomogeità delle insegne “T”. Se la persona che si ferma a comprare le sigarette ha con sè un minorenne, deve lasciarlo fuori dalla porta: non si possono vendere le sigarette davanti ai minori di anni 18. Quindi il figlio di due anni va lasciato da solo sul marciapiedi, per entrare a comprare un pacchetto di sigarette. Orbán, si sapeva già, se la prende con tutto ciò che non apprezza, se ne impadronisce in qualche modo e lo gestisce a suo piacimento. Nel caso del fumo c’è l’attenuante di provocare una riduzione di un vizio dannoso per la salute, ma i danni di questo provvedimento sono tangibili, “sulla pelle” di tanti negozianti che ora faticano più di prima a restare a galla.


Mentre in Repubblica Ceca tale divieto è in vigore dal 31 maggio 2017.

https://www.prague.eu/it/informazioni-pratiche-old/cosa-dovreste-sapere/2-12265

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Fumo
In Repubblica Ceca è in vigore la legge sulla limitazione del fumo. Il divieto di fumo vale negli spazi pubblici (marciapiedi dei mezzi di trasporto – fermate, stazioni, mezzi di trasporto, strutture culturali, strutture sanitarie). Il 31/5/2017 entrerà in vigore la legge che vieta il fumo in tutte le strutture di ristorazione.

In Italia, invece, la medesima legge entrò in vigore molti anni prima.

https://www.luinonotizie.it/anniversario/2020/01/16/17-anni-fa-varata-la-legge-anti-fumo-stop-alle-sigarette-negli-spazi-pubblici/159697#:~:text=In%20Italia%20la%20legge%2016,pu%C3%B2%20anche%20essere%20servito%20cibo.

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Il 16 gennaio 2003 il Parlamento italiano ha varato la storica legge anti-fumo, vietando di fumare negli spazi pubblici.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 02, 2020, 16:36:23 pm
https://www.eastjournal.net/archives/108664

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UNGHERIA: Viktor Orbán e il calcio come arma politica
Gezim Qadraku 1 giorno ago


Se c’è una cosa che abbiamo imparato dal Covid-19 è quanto sia importante avere un sistema sanitario all’altezza. Per raggiungere questo obiettivo è necessario che ogni Stato investa costantemente nella salute pubblica. Un pessimo sistema sanitario incide prima di tutto sulla vita delle persone e di conseguenza sulle istituzioni che detengono il potere. Verrebbe automatico pensare che un governo incapace di offrire gli adeguati servizi al proprio popolo non possa essere in grado di mantenere il potere.


Ci sono, però, paesi come l’Ungheria dove la sanità non viene considerata importante. Qui il potere si mantiene investendo nello sport, nel calcio in particolare. Eppure né la nazionale magiara, né tanto meno i club ungheresi stanno dimostrando alcun miglioramento degno di nota negli ultimi anni. Allora perché Viktor Orbán continua a far costruire stadi di calcio e investe cifre astronomiche nel mondo del pallone?


Make Hungarian football great again

C’era una volta la nazionale magiara, capace di demolire i leoni d’Inghilterra: 6 a 3 a Wembley e 7 a 1 in casa. Nell’anno successivo, il 1954, solo i tedeschi impedirono a Puskás e compagni di portare a Budapest la coppa del mondo. Questi furono i punti più alti mai toccati dal calcio ungherese.

Questo costante ricordo ha dato vita a una nostalgia, nel popolo ungherese, dei tempi che furono. Non c’è strumento migliore che un politico senza scrupoli possa trovarsi in mano. Il primo ministro ungherese Viktor Orbán è una delle figure politiche di questo periodo storico che fanno del richiamo al passato glorioso il fulcro della propria politica interna. La policy è quella del “football first” e l’obiettivo dichiarato è quello di riportare il livello del calcio magiaro a quello di una volta. Per questo servono soldi, potere e investimenti, dentro e fuori dai confini. Ma riportare l’Ungheria al successo sul quadrato verde è il vero fine o soltanto un diversivo?

Le mani sul pallone

Viktor Orbán ha un decente passato da calciatore, capace di militare tra la quarta e la quinta serie ungherese. La decisione di appendere le scarpe al chiodo arriva nel 2005, ma questo non gli impedisce di combinare il suo amore per il calcio con la politica. La sua prima visita all’estero da primo ministro è per la finale della coppa del mondo del 1998 a Parigi. A oggi il calcio magiaro è saturo della sua presenza. Undici club su dodici della massima serie sono di proprietà di alleati di Orbán. Secondo lui lo sport è il settore più importante per la salute, l’educazione dei bambini, la cura delle famiglie e della loro unità. Un esempio di tutto questo è lo spot realizzato per l’inaugurazione della Puskás arena, dove il pallone è il filo conduttore del paese.

Nuovi stadi per tutti

Dal 2010 ben nove club ungheresi hanno costruito nuovi stadi. L’impianto di spicco è la Puskás Arena. Capacità da 68mila spettatori, costata attorno ai 600 milioni di euro. Altre costruzioni degne di nota sono la Groupama Arena a Budapest costata 63 milioni, il nuovo stadio per il Ferencváros da 24mila posti a sedere. Poi c’è l’Hidegkuti Nándor Stadion, la casa della MTK e dell’Honvéd, malgradito dai tifosi. I casi più estremi sono la Pancho Arena, uno degli stadi più belli d’Europa e casa della Puskás Akadémia, e lo stadio dello Szeged, del tutto ingiustificato dato che la squadra milita in nella serie B ungherese.

Gli stadi non sono tutto. 70 milioni di euro sono stati investiti dal governo ungherese per dare vita ad accademie di calcio nelle città di paesi esteri come Romania, Slovacchia, Slovenia, Croazia, Serbia e Ucraina, dove vivono minoranze etniche ungheresi. In totale per il calcio ungherese, dal 2010, la cifra spesa si aggira intorno al miliardo di euro. Numeri astronomici, ma non è tutto.

Soldi e tasse

Il calcio per Orbán è uno strumento che gli permette di mantenere sia l’appoggio della popolazione, che quello del ristretto gruppo di oligarchi a lui vicini. Per guadagnarsi la loro fedeltà il primo ministro offre loro contratti gonfiati per i progetti di costruzioni statali che sono finanziati dall’UE, con i profitti che vengono successivamente condivisi tra il partito al potere e gli oligarchi.


Il tassello fondamentale di tutto questo è lo schema TAO, il quale consente alle società di deviare gli utili imponibili, con una divulgazione minima, verso le società sportive e le istituzioni culturali. Tra il 2011 e il 2014 i proprietari dei club ungheresi hanno ricevuto più di 250 milioni da questi contributi. Un sistema d’incentivi fiscali per le imprese che promuovono lo sport permette di attrarre grandi fondi d’investimento nello sport e soprattutto nel calcio.


Questi contributi non sono accessibili al pubblico perché classificati come segreti fiscali e secondo un report di Transparency International Hungary, questo strumento aumenta il rischio di corruzione. Secondo il New York Times, il programma ha permesso alle aziende di dirottare almeno 1,5 miliardi di dollari di tasse aziendali direttamente alle istituzioni sportive. Soldi che avrebbero fatto comodo alla sanità, per esempio.

Chi paga?

A pagare il prezzo di tutto ciò è la popolazione ungherese. Il 25% della quale è a rischio povertà. Soltanto dieci paesi dell’UE hanno un’aspettativa di vita minore rispetto agli ungheresi. Budapest spende meno del 3% del PIL in un settore fondamentale come la sanità, comparato al resto dell’UE, e i medici continuano a lasciare il paese per condizioni di lavoro e salari non convenienti. Ma non sono solo loro ad abbandonare l’Ungheria: dall’ingresso nell’Unione, ben 600mila ungheresi hanno lasciato la propria terra.

Il centro della campagna di Karácsony per diventare sindaco di Budapest è stata la polemica sugli stadi. Costruzioni che sono spesso oggetto anche degli attacchi da parte dell’opposizione. Nonostante l’effetto di queste proteste è limitato, il segnale positivo è che qualcuno si sia accorto di questa politica insensata. Stadi di calcio scintillanti e ospedali in decadenza. Il contrasto riflette le priorità di Orbán, diventato uno dei più potenti leader dell’estrema destra europea. Campione nazionalista degli ungheresi comuni e disgrazia per le élite europee. La salute e il futuro del proprio popolo non permettono di consolidare il potere, il calcio sì.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 02, 2020, 16:39:40 pm
https://www.eastjournal.net/archives/108707

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UCRAINA: La “Mecca europea” della maternità surrogata
Claudia Bettiol 20 ore ago

Da KIEV – Secondo quanto riportato di recente da un rappresentante del Medical and Reproductive Law Center di Kiev, nel 2019 in Ucraina sono venuti al mondo centinaia di bambini al mese attraverso la tecnica di procreazione assistita della maternità surrogata. Sebbene le statistiche non siano ufficiali, si stima che anche quest’anno l’industria della surrogazione non si fermi: nonostante l’Ucraina rientri nei paesi in cui è esplosa la pandemia di coronavirus e abbia attuato fin da marzo delle misure restrittive a riguardo, coppie provenienti da Francia, Australia, Cina, Spagna, Stati Uniti e Israele hanno cercato in tutti i modi di raggiungere il “paese degli uteri in affitto” negli ultimi mesi, rimanendo talvolta bloccati alla frontiera o nella capitale con i loro neonati, in balia degli eventi.

Surrogazione e prosperità

Da quando, nel 2015, i paesi asiatici hanno vietato la maternità surrogata commerciale, dando prova dello sfruttamento del sistema da parte di coppie straniere e degli abusi da parte delle agenzie intermediarie, l’industria ucraina della surrogazione ha prosperato. L’Ucraina ha ottenuto il titolo di “Mecca della maternità surrogata” e ha rapidamente iniziato a creare agenzie e cliniche per la riproduzione assistita in pompa magna – legali e illegali. Ma mentre la maggior parte dei paesi europei vieta la maternità surrogata a fini commerciali – sebbene le legislazioni differiscano da paese a paese – la pratica è legale e diffusa in Ucraina.

Oggi il paese è uno dei pochi posti rimasti dove la maternità surrogata può ancora essere organizzata in modo economico e nel rispetto della legge: l’Ucraina compete in questo mercato esclusivamente con la Georgia e il Kazakistan tra i paesi post-sovietici, ma non ha rivali con i paesi dell’area Schengen grazie alle agevolazioni in materia di visti. Pertanto, le coppie straniere – principalmente europee – che vogliono ricorrere a questa pratica arrivano a frotte in Ucraina, alimentando il cosiddetto “turismo dell’utero in affitto”.

La maternità surrogata commerciale in Ucraina è regolata dall’art 123 del Codice della Famiglia (comma 2). La legge consente solo alle coppie sposate ufficialmente (un uomo e una donna) di sottoporsi al processo di surrogazione gestazionale; i coniugi devono essere in grado di dimostrare la loro impossibilità di concepimento naturale e almeno uno dei due deve avere un legame genetico con il neonato. Le disposizioni di questo articolo indicano inoltre che la legislazione ucraina in materia di riproduzione assistita non protegge gli interessi della madre biologica/surrogata, ma pone in primo luogo i termini dell’accordo concluso tra la madre surrogata e il coniuge. La coppia che si affida alla pratica di surrogazione ottiene il certificato ucraino di nascita del bambino, del quale i due genitori risultano il padre e la madre effettivi: ai coniugi viene perciò riconosciuta la piena potestà genitoriale; la madre surrogata non ha, invece, diritti parentali sul bambino nato.

La pratica è molto popolare e molte donne ucraine trovano la soluzione ai loro problemi (finanziari) diventando madri surrogate. Ma a quale prezzo?

La scelta delle madri surrogate

In Ucraina, i servizi di maternità surrogata sono offerti da agenzie e cliniche private. Sono facilissime da trovare: basta un clic sul vostro motore di ricerca e ne compaiono a centinaia, con siti dedicati in ucraino, russo e inglese; alcune sfoggiano anche un personale medico altamente qualificato e un supporto multilingue.

Tuttavia, spesso e volentieri, l’illegalità è all’ordine del giorno e molte cliniche sfuggono alla già morbida legislazione in materia. Coppie straniere, cliniche (non registrate o sotto falso nome) e altrettante agenzie intermediarie o addirittura madri surrogate improvvisate preferiscono fare le cose sottobanco per non pagare le tasse, senza ovviamente curarsi delle eventuali conseguenze se qualcosa va storto.

“Il mercato della maternità surrogata in Ucraina è illegale per due terzi”, afferma Serhiy Antonov, giurista presso l’IRTSA Ukraine (Agenzia internazionale d’assistenza nelle tecnologie di riproduzione ausiliari), il quale sottolinea come sia facile trovare delle madri surrogate con una semplice ricerca sui social network, sui servizi di messaggistica istantanea (Viber, Telegram), sulle piattaforme di cerca/trova lavoro o, addirittura, tra gli spazi pubblicitari in metropolitana.

Quasi tutti gli esperti concordano: uno dei motivi principali che spinge le donne ucraine a  diventare madri surrogate, è la situazione economica. Le “madri in affitto” sono attratte da questo “lavoro” che garantisce loro uno stipendio pari al triplo del salario medio ucraino (che si aggira mediamente intorno ai 280€ mensili); tuttavia, il compenso medio che queste donne ricevono è piuttosto modesto per gli standard europei (dagli 11,5 ai 13 mila dollari). Chi ne trae realmente vantaggio, sono le coppie straniere, in quanto i costi del servizio sono nettamente inferiori rispetto ad altri paesi: il prezzo medio di questo “pacchetto all inclusive” varia dai 30mila ai 50mila dollari – un quinto del suo costo negli Stati Uniti e negli altri paesi in cui questa pratica è consentita.

“Per me è un lavoro. Sono una madre surrogata” – storia di Olya, una madre single che partecipa per la quarta volta al programma di maternità surrogata.

Ma quali sono i requisiti per dare in affitto il proprio utero? Innanzitutto, la candidata deve compilare un questionario con i propri dati personali e dare il consenso totale alla procedura. I prerequisiti di base possono variare leggermente, ma generalmente la donna non deve avere più di 35-37 anni, deve aver già partorito almeno un figlio e deve essere sana e senza vizi (quali consumo di alcol e fumo). Superata questa prima fase, entrano in gioco dapprima gli avvocati – che si occupano di tutte le questioni legali – e successivamente il personale medico. Solitamente, il contratto comprende la prassi di visite mediche standard, ma la coppia di futuri genitori può aggiungere dei servizi extra (ad esempio, l’alloggio per loro e per la madre surrogata nelle settimane che precedono e seguono  il parto o altri esami specifici). Come da contratto, il bambino viene passato ai genitori immediatamente dopo la nascita (salvo eccezioni): contrariamente alla legislazione di molti paesi, in Ucraina una madre surrogata non può rifiutare di dare il bambino alla coppia di coniugi (tale opzione è fornita, ad esempio, in Russia).

Maternità surrogata e pandemia

La pratica della surrogazione commerciale è vietata e illegale in moltissimi paesi in quanto considerata una violazione della dignità delle donne: l’utero di una donna fertile è, all’occhio di molti, un semplice oggetto in affitto (e a basso prezzo), paragonabile a una sorta di prostituzione o, più radicalmente, alla tratta commerciale di minori.

Lo scorso maggio, Mykola Kuleba, commissario presidenziale ucraino per i diritti dei bambini, ha paragonato la maternità surrogata proprio alla tratta di minori e ha apertamente chiesto il divieto di tali pratiche in Ucraina. A suo avviso, la fornitura di tali servizi a cittadini stranieri può portare a violazioni dei diritti dei minori, come è accaduto proprio in questi ultimi mesi: a causa della quarantena e delle misure restrittive dovute alla pandemia di Covid-19, i genitori stranieri non sono stati in grado di assistere alla nascita dei loro bambini presso una delle maggiori cliniche di medicina riproduttiva, BioTexCom – coinvolta in numerosi scandali, tra cui un’accusa per “traffico di migliaia di bambini ucraini all’estero”. Il ministero delle Politiche Sociali ha, quindi, espressamente dichiarato che ciò ha portato a una violazione del diritto di questi bambini alla cura dei genitori.

Tuttavia, la commissaria per i diritti umani, Lyudmila Denisova, è intervenuta in sostegno della legalità di questa pratica: “Se la maternità surrogata viene vietata in Ucraina, continuerà a esistere, ma illegalmente. E le persone più vulnerabili in questa situazione saranno le madri surrogate”.

La maternità surrogata è un grande stress e costituisce un profondo trauma sia per la madre surrogata e la sua famiglia, che per le coppie di genitori, senza dimenticare il bambino stesso. Una tale enfasi sulla fisicità riduce la donna a oggetto e ignora i rischi e i danni alla salute (inclusi quelli mentali e psicologici) che le vengono inflitti durante la gravidanza e dopo il parto. Danni che si ripercuotono nel bambino stesso se le cose non vanno lisce come l’olio: non è raro che molti neonati finiscano in orfanotrofio in quanto nati con malformazioni, malattie o disabilità di vario ordine e grado; in questi casi, se la coppia rifiuta il bambino, la madre surrogata – non avendo alcun diritto – anche volendo, non può fare nulla.

“Sono così felice di aver contribuito a dare a una coppia un bellissimo bambino, che è molto amato. Ma non farò mai più la madre surrogata. È stata un’esperienza terribile.” – Alina

Le opinioni, le esperienze e le motivazioni delle donne che prestano il loro utero in affitto sono diverse e molto personali, così come quelle delle coppie che si rivolgono a questi servizi pur di realizzare il proprio sogno di genitori.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 02, 2020, 16:41:48 pm
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BIELORUSSIA: Continua la mobilitazione sociale contro Lukashenko
redazione 4 ore ago

di Martina Urbinati e Leonardo Scanavino

Con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali del prossimo 9 agosto 2020 sembra che in Bielorussia qualcuno stia iniziando a dare sempre più voce al dissenso nei confronti dell’eterno presidente Aleksandr Lukashenko. La mobilitazione sociale è partita dal basso nelle scorse settimane ed alcune figure pubbliche come la premio Nobel Svetlana Aleksievič stanno dando visibilità e slancio alle richieste della popolazione.

La situazione politico-economica

Lukashenko governa la Bielorussia ininterrottamente da 26 anni: in questo lasso di tempo le libertà democratiche sono state ridotte all’osso e ogni forma di opposizione (incluse le proteste) è stata repressa tramite l’uso di strumenti di sovietica memoria.

In parallelo, la situazione economica ha vissuto parecchi alti e bassi, soprattutto per l’ancoraggio sostanziale alla Russia, che ha spesso bloccato le possibilità di partnership della Bielorussia con altri paesi. Mosca ha molto spesso utilizzato il suo potere economico per piegare Minsk alla propria volontà, talvolta causando prolungati periodi di crisi e difficoltà negli approvvigionamenti energetici e di materiali grezzi necessari per il funzionamento del comparto industriale del paese.

Se a questo quadro si aggiunge una gestione catastrofica della pandemia di covid-19, l’immagine che viene fuori fa risaltare i punti più critici della governance di Lukashenko. Il covid-19, come altrove nel mondo, non ha fatto altro che accentuare le tendenze che si potevano osservare negli ultimi anni. Le corpose proteste degli ultimi mesi, per esempio, avevano obiettivi simili a quelle degli anni precedenti, ma l’esasperazione della popolazione è risaltata ancora più chiaramente. La mancata imposizione di un lockdown o di misure restrittive della vita pubblica e degli eventi ha fatto schizzare i contagi, portando la Bielorussia ad essere uno dei paesi con il più alto tasso di contagi d’Europa.

Tensioni in vista delle presidenziali

Nelle scorse settimane la commissione elettorale centrale aveva stabilito che i due principali contendenti di Lukashenko non avessero presentato la loro candidatura in maniera idonea. È stato così che Viktor Babaryko, che si sarebbe reso responsabile di un’ingente evasione fiscale e al quale è stato contestato di far parte di un “gruppo criminale organizzato”, è stato escluso dalla corsa presidenziale ed è ancora detenuto presso la sede centrale dei servizi di sicurezza bielorussi a Minsk.

La stessa commissione ha anche rigettato la candidatura di Valerij Tsepkalo, un ex alleato di Lukashenko ed ex ambasciatore del paese negli Stati Uniti, sostenendo che non avesse raccolto firme a sufficienza. La decisione di escludere i due candidati ha scatenato violente proteste nella capitale e nelle maggiori città del paese. L’ennesima deriva autoritaria dell’attuale governo ha fatto maturare una nuova consapevolezza soprattutto da parte delle nuove generazioni cresciute senza conoscere un’alternativa politica. Proprio questo mancato senso di rappresentanza ha contribuito a generare un clima di ritrovata partecipazione politica, sfatando il mito che dipingeva quella bielorussa come una “società senza voce”.

A tal proposito, un’indagine condotta dal centro di ricerca ZOiS tra fine giugno e inizio luglio ha coinvolto 2000 bielorussi di età compresa tra i 18 e i 34 anni. Dalle risposte è emerso che oltre ad essere in netta minoranza (meno del 10% degli intervistati), i sostenitori di Lukashenko si contraddistinguono per un basso livello di interesse per la politica e, allo stesso tempo, sarebbero propensi a riconfermarlo per motivi legati ad una maggiore stabilità economica.

Verso la fine dell’autocrazia o prove generali?

Indubbiamente, gli avvenimenti degli scorsi mesi hanno evidenziato una crisi politica mai verificatasi prima d’ora in Bielorussia. Seppure il rating personale di Lukanshenko sia sceso ai minimi storici, la probabilità che i risultati elettorali possano subire falsificazioni resta un rischio di poco conto per la Commissione elettorale centrale. Proprio quest’ultima ha recentemente adottato una risoluzione che dimezza il numero degli osservatori indipendenti rispetto ai componenti della commissione elettorale in ogni seggio, compromettendo il rispetto degli standard elettorali sanciti da trattati internazionali.

In uno scenario in cui Lukashenko dovesse essere riconfermato alla guida del paese per il sesto mandato di fila, c’è la possibilità che si verifichino tensioni interne già osservate in Ucraina durante le proteste di piazza Maidan a Kiev. L’arresto di milizie private russe vicino a Minsk avvenuto pochi giorni fa desta preoccupazioni circa l’eventualità che si verifichino repressioni violente in caso di disordini. A poco più di una settimana dal voto, la situazione rimane tesa ed incerta, inserendosi in un contesto di generale instabilità in est Europa.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 02, 2020, 16:44:35 pm
https://www.eastjournal.net/archives/108693

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UCRAINA: Sulla scia russa, contro la cosiddetta propaganda LGBT
Claudia Bettiol 2 giorni ago

Da KIEV – Nei giorni scorsi, due deputati parlamentari del partito “Il servo del popolo”, Georgiy Mazurašu e Olena Lys, hanno registrato una proposta di legge anti-propaganda LGBT sul sito web della Verchovna Rada. L’idea viene da Mykola Hunko, cappellano della Chiesa cristiana avventista del settimo giorno della città dell’Ucraina occidentale di Černivtsi, il quale ha proposto al parlamento ucraino un disegno di legge che vieterebbe qualsiasi forma di propaganda e promozione di eventi o azioni a sostegno della comunità LGBT.

Da Černivtsi alla Verchovna Rada: no alla propaganda LGBT

Mykola Hunko è un giovane sacerdote a capo della parrocchia della Chiesa avventista di Černivtsi (movimento religioso cristiano che crede nell’imminente seconda venuta di Cristo) piuttosto conosciuto dalla stampa locale in quanto attivista e fondatore dell’associazione “Černivtsi per uno stile di vita sano”. Le sue petizioni a favore della comunità locale, nonostante non sempre raccolgano il numero di firme necessario, sono molto popolari nella regione e attribuiscono a Hunko la fama di “gran riformatore”. Un riformatore, naturalmente, di stampo conservatore: Hunko si batte, in particolare, per la desovietizzazione della sua città, sostenendo di pari passo un’idea di famiglia tradizionale.

Recentemente, il cappellano ha proposto un disegno di legge in difesa della famiglia tradizionale e contro la “propaganda dell’omosessualità e del transgenderismo”. Dal 2018 si sono tenuti vari eventi ricorrenti a sostegno della comunità LGBT in città – tra cui la Marcia dell’orgoglio – e Hunko ritiene necessario combattere questa “propaganda” che si sta diffondendo in tutto il paese: nel maggio del 2019 ha, perciò, chiesto al consiglio comunale di Černivtsi di vietare qualsiasi evento a sostegno dei diritti della comunità LGBT. La sua petizione ha raggiunto le 250 firme richieste ma, nell’ottobre scorso, nonostante i deputati del consiglio comunale abbiano appoggiato Hunko, il sindaco di Černivtsi Oleksiy Kaspruk ha posto il suo veto dichiarando la decisione incostituzionale.

Gli oppositori di Hunko e i sostenitori dei diritti umani e dei diritti della comunità LGBT hanno risposto con una serie di proteste nella città di Černivtsi: gli attivisti del partito Ascia democratica (Demokratična Sokyra) hanno organizzato una manifestazione chiamata 365, presentando al consiglio comunale un programma di eventi a tema LGBT per l’intero anno 2020. Ma Mykola Hunko e i suoi sostenitori non si sono arresi e si sono rivolti direttamente ai deputati parlamentari, i “servi del popolo” Georgiy Mazurašu e Olena Lys, i quali hanno deposto il disegno di legge in parlamento lo scorso 22 luglio, sottolineando come la “propaganda di omosessualità o transgenderismo possa influire negativamente sulla salute fisica o mentale, sulla condizione morale o spirituale e sullo sviluppo dell’uomo”.

Le idee anti-LGBT di Hunko

Secondo le idee di Hunko, la “propaganda LGBT” rende impossibile crescere i bambini in rispetto dell’articolo 51 della Costituzione dell’Ucraina, che al primo comma dichiara: “Il matrimonio si basa sul libero consenso di una donna e di un uomo”. Citando questo articolo, il cappellano reputa che, se un bambino assiste alla Marcia dell’orgoglio o vede una coppia dello stesso sesso per strada, sarà affetto da una “dissonanza cognitiva“. Egli considera, inoltre, tutte le azioni pubbliche di massa – quali il Pride o altri eventi a sostegno della comunità LGBT – come pura propaganda e promozione di una “famiglia non conforme”; è anche contrario a qualsiasi immagine o informazione su coppie dello stesso sesso nei libri di testo scolastici.

Hunko afferma di non avere nulla contro i membri della comunità LGBT, ma mette omosessuali, pedofili e funzionari corrotti sullo stesso piano e, oltre a negare i termini “omosessualità” e “transgender”, il sacerdote suggerisce di escludere anche il termine “uguaglianza di genere” dalla legislazione ucraina, proponendo di sostituirlo con “uguaglianza dei diritti delle donne e degli uomini”. Un chiaro rifiuto nel riconoscere la diversità.

Il disegno di legge di Hunko ricorda la legge russa del 2013 “Sulla promozione di relazioni sessuali non tradizionali tra minori”, che proibisce qualsiasi attività a sostegno della comunità LGBT, nonché manifestazioni pubbliche di relazioni tra persone dello stesso sesso e punisce questi reati con pene amministrative e penali. Hunko e i due “servi del popolo” sono a favore dell’introduzione di sanzioni amministrative di un importo che va dalle 17 alle 136mila hryvne (da 525 a 4200 euro).

L’indignazione della comunità LGBT

“Il disegno di legge proposto è una sorta di omofobia delle caverne che sta tornando alla riscossa. E, guarda caso, le iniziative del governo attuale coincidono con le narrazioni della Federazione Russa. Sappiamo tutti che si concluderanno con la limitazione dei diritti umani, come è accaduto in Russia”, – ha affermato Boris Chmilevskyjil, presidente dell’associazione per i diritti umani Alleanza Globale (Al’jans.Global).

L’associazione per la difesa dei diritti LGBT Naš Svit ha criticato l’iniziativa di Mazuras e Lys, affermando che i due deputati “hanno chiaramente dimostrato il loro sostegno alla politica russa e si sono prontamente schierati con il movimento a favore dei valori tradizionali“. Si teme, infatti, che l’eventuale adozione di una simile legge contro la “propaganda LGBT” in Ucraina metta immediatamente fine all’integrazione europea.

La Verchovna Rada ha già chiuso la sessione estiva, quindi i deputati potranno iniziare a esaminare questo disegno di legge non prima di settembre.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Agosto 02, 2020, 18:03:40 pm

Mah, guarda, io non son mai stato a San Pietroburgo (conosco però una russa di San Pietroburgo che mi chiavavo 13 anni fa e che vive a Perugia da 25 anni), ma so per certo che le realtà rurali son ben diverse.
Da quelle parti le differenze tra grandi città e campagna sono molto marcate e in certe zone della Russia la povertà è ancora tanta
Sì è così
Citazione
, sebbene l'arrivo di Putin e i suoi metodi ne abbiano ridotto la diffusione rispetto a 20 anni fa.
Avercelo uno come Putin, che ha risollevato il Paese resistendo per decenni mentre da noi passano tutti al nemico o sono dei fake.
Può essere che nei Paesi dell'Est lo Stato Profondo non sia forte come in Occidente, ma di certo Putin è riuscito a superare enormi difficoltà, è un politico con le palle come ce ne sono pochi.
Citazione
Perciò già il fatto di condurre una vita di merda toglie gioia e allegria.
Se comminano l'ergastolo a chi ascolta radio italiane c'è poco da stupirsi.
Citazione
Per quanto riguarda le ungheresi non me le ricordo molto diverse dalle italiane.
Ho frequentato (socialmente) un'ungherese per un paio d'anni, ne ho conosciute altre, tutte piuttosto vivaci e intelligenti.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Agosto 02, 2020, 18:05:36 pm
https://www.eastjournal.net/archives/108693
Bene, molto bene... Certe cose come il DDL Boldrini succedono solo* in Italia...

* Benevola provocazione. :lol: Ma è vero che all'Est di pride se ne vedono meno. Per esempio, quel deficiente del Berla ha mandato Luxuria in Russia con trucco e parrucco, l'hanno rimandato indietro a calci :censored:
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 02, 2020, 18:43:53 pm
Avercelo uno come Putin, che ha risollevato il Paese resistendo per decenni mentre da noi passano tutti al nemico o sono dei fake.

Sì, ma Putin si trova in Russia non in Italia o in qualche altro Paese dell' Europa dell' ovest, perciò intorno a lui ha un "terreno fertile" che gli permette di agire in un certo modo...
Nemmeno se si trovasse negli USA avrebbe il potere che ha ora in Russia.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 02, 2020, 20:13:52 pm
Un paese dell'est che visitai molti anni fa è la Serbia.
Ci andai insieme al figlio di un mio ex datore di lavoro, che era (è) un cacciatore e ricordo che di povertà ne vidi tanta.
(Vidi anche luoghi bellissimi)


@@

ps:
http://www.terrelibere.org/1763-serbia-boom-suicidi-falcidiata-generazione-di-mezzo/
Citazione
Serbia: boom suicidi, falcidiata generazione di mezzo
   
Alessandro Logroscino | 5 Dicembre 2005
I serbi stanno perdendo la voglia di vivere. É questo l`allarme che viene dalle ultime cifre sul dilagante aumento del tasso di suicidi in un Paese al quale – fra tante contraddizioni – non aveva finora fatto difetto, tradizionalmente, un robusto patrimonio di vitalità.


Prostrati da una lunga e incerta transizione, reduci dalle guerre e dalle sconfitte che hanno segnato la dissoluzione della Jugoslavia, centinaia di persone si tolgono oggi anno la vita.

Un fenomeno che ha falcidiato inizialmente i vecchi di sesso maschile, ma che negli ultimi tempi – stando a quanto emerso in un simposio di psichiatri svoltosi in questi giorni a Belgrado – comincia a trascinare nel gorgo anche le donne e in generale coinvolge soprattutto i cinquantenni: una sorta di generazione perduta, ritrovatasi ad affondare a metà del guado.

Le statistiche parlano da sole. Nei primi otto mesi del 2005 in Serbia (7 milioni di abitanti) sono stati registrati 636 suicidi. A settembre e ottobre si è poi toccato il picco: il triplo dei casi rispetto a una media già preoccupante, più o meno doppia – a titolo d`esempio – dell`Italia. E dal dato resta escluso il piccolo Montenegro, dove nella sola cittadina di Bijelo Polje, sprofondata coi suoi 50.000 figli in una singolare cappa di lutto, si sono uccisi dall`inizio dell`anno 16 persone: un record forse mondiale, in rapporto alla popolazione.

Gli studiosi riunitisi a consulto a Belgrado mettono in relazione la catastrofe con diversi fattori: la crisi economica e sociale, in prima battuta, ma anche la perdita di riferimenti e l`insicurezza generale seguite al tracollo della vecchia Jugoslavia. Allontanato, almeno per ora, lo spettro della guerra, non sembra tuttavia colmato l`abisso di isolamento, di frustrazione e di diffusa povertà in cui la Serbia è precipitata fin dagli anni `90.

La transizione, dicono gli esperti, continua intanto a essere avvertita come “un peso“ – e per decine di migliaia di profughi come un`autentica tragedia – mentre le embrionali speranze d`integrazione europea non cancellano “la mancanza di prospettive che molti avvertono“.

Fino a qualche anno fa i suicidi erano concentrati fra gli anziani, alle prese con un Paese disgregato che non riconoscevano come loro, con pensioni da fame e famiglie non in grado di sostenerli. Ora, però, la vera `decimazione` riguarda i cinquantenni e non risparmia neppure le donne.

L`impatto è impressionante fra la miriade di disoccupati e fra i circa 200.000 lavoratori serbi che si arrabattano senza ricevere uno straccio di stipendio: nei casi limite, come quello del grande zuccherificio di Cuprija, senza essere di fatto pagati da 10 anni.

La psichiatra Svetlana Markovic, dal canto suo, sottolinea con inquietudine l`incremento degli episodi di suicidio femminile. “Sono aumentati di quattro volte nel giro di un paio d`anni“, nota, specificando che anche in questo caso si tratta quasi sempre di persone di mezza eta`: “Donne licenziate che non possono riciclarsi nel mondo del lavoro, madri che non vedono sistemati figli già grandi. Insomma, vittime di crisi d`identità e di profonde sindromi di fallimento“.

Secondo lo psicoterapeuta Petar Opalic, la vera emergenza riguarda però i rifugiati. Nel cuore dell`Europa e a un`oretta di volo da Roma, la Serbia ne è piena. Racchiude oggi il numero più elevato al mondo di sfollati interni in rapporto alla popolazione (in massima parte fuggiti dal Kosovo), su un totale complessivo di 350.000 profughi: vittime collaterali, ormai semi-abbandonate, di un decennio di guerre scatenate e perse.

Pochi sono quelli che sperano ancora di tornare in una casa pur che sia. E non può sorprendere di ritrovare proprio in questo esercito di disperati la percentuale più alta di coloro che vedono l`ultima via di fuga in una corda, in una finestra o in una pistola.

(ANSA) LR – 01/12/2005
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 02, 2020, 20:21:41 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Est-Europa-emigrazioni-e-pensioni-199853

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Est Europa: emigrazioni e pensioni

I rapporti tra occupati e pensionati sono cambiati parecchio negli ultimi trenta anni. In Croazia per esempio da 4 a 1 si è passati a 1,25 occupato per 1 pensionato, con conseguenze drammatiche. A peggiorare il quadro contribuisce la massiccia emigrazione dai Balcani, soprattutto di giovani qualificati

04/03/2020 -  Anđelko Šubić
(Originariamente pubblicato da DWelle  il 20 febbraio 2020)

Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso il sistema pensionistico croato godeva di ottima salute: all’epoca in Croazia si contavano oltre 2 milioni di occupati e poco più di 500mila pensionati. Quindi, il rapporto tra occupati e pensionati era di 4 a 1, mentre oggi – lo confermano anche le statistiche ufficiali – questo rapporto è di 1,25 a 1. La Croazia è tra i fanalini di coda nell’UE per quanto riguarda le pensioni, ma in altri paesi della regione la situazione è ancora peggiore: in Montenegro ad esempio – secondo quanto riportato dai media locali – il rapporto tra occupati e pensionati è quasi di 1 a 1.

Non ha senso discutere su quale sia il rapporto ottimale tra lavoratori e pensionati, ma una cosa è certa: quanto più alto è il numero di pensionati per ogni occupato tanto più basse sono le pensioni. Inoltre, nei paesi dove lo stipendio medio è molto basso, le persone anziane sono maggiormente esposte al rischio di povertà.

La solidarietà intergenerazionale, un valore che sta scomparendo
Nel XIX secolo molti paesi europei decisero di instaurare un sistema pensionistico pubblico proprio nel tentativo di arginare la povertà tra gli anziani  . I sistemi previdenziali rivolti agli anziani e alle categorie più deboli esistevano anche prima, ma erano perlopiù limitati ad alcune corporazioni artigianali. Anche oggi in Germania alcune categorie professionali hanno i propri fondi di previdenza complementare, ma è un fenomeno sempre più raro.

Oggi la maggior parte dei sistemi pensionistici pubblici si basa sul principio di solidarietà intergenerazionale. Durante la Grande depressione degli anni Venti, in molti paesi, compresa la Germania, i soldi pubblici “messi da parte” per le pensioni andarono in fumo. Gli Stati Uniti, sotto la guida di Roosevelt, furono il primo paese a riformare il sistema pensionistico pubblico, prevedendo che le risorse derivanti dall’occupazione venissero destinate alle pensioni.

L’idea di base era semplice: se cresce l’economia, aumenta anche la popolazione, così le future generazioni potranno garantire le pensioni a quelli che oggi versano contributi al fondo pensione.

Anche la riforma del sistema pensionistico tedesco del 1957 si basava su questo principio, poggiando, al contempo, su un “secondo pilastro”: aiuti dello stato. Questo sistema ha funzionato molto bene per decenni, finché le nascite non hanno iniziato a diminuire. Oltre che dal calo demografico – che in molti paesi sta mettendo a repentaglio i sistemi previdenziali basati sul principio di solidarietà intergenerazionale – , i paesi più poveri sono afflitti anche da una massiccia emigrazione di forza lavoro.

DOSSIER

Dai Balcani sono in tanti, soprattutto giovani e qualificati, a emigrare verso altri paesi europei. In tutti i paesi della regione lo spopolamento aumenta a ritmi allarmanti. Il nostro dossier "Via dai Balcani"

La situazione in Bosnia Erzegovina
Il presidente della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS) Suma Chakrabarti ha recentemente dichiarato  che circa 6 milioni di cittadini dei paesi dei Balcani – quasi un terzo della popolazione totale – attualmente vivono all’estero. Per alcuni paesi molto poveri, come la Moldavia, le rimesse degli emigrati rappresentano una delle principali fonti di reddito. Un dato poco consolante, perché la massiccia emigrazione, come quella con cui oggi devono fare i conti la Bosnia Erzegovina, il Kosovo e la Serbia, rappresenta un duro colpo all’economia nazionale. Secondo i dati di Eurostat, nel 2018 dalla Bosnia Erzegovina sono emigrate circa 53.500 persone, dal Kosovo 34.500 e dalla Serbia 51.000.

In un'intervista  rilasciata al quotidiano Dnevni avaz, il direttore dell’Istituto per l’assicurazione pensionistica e di invalidità della Federazione Bosnia Erzegovina Zijad Krnjić ha dichiarato che il sistema pensionistico bosniaco è “completamente stabile” e che non può “in alcun modo” essere messo a repentaglio, pur ammettendo che l’emigrazione dei giovani “potrebbe avere conseguenze a lungo termine”. Krnjić ha inoltre annunciato che nel 2020 in Bosnia Erzegovina ci sarà un aumento delle pensioni.

Tuttavia, l’emigrazione dei giovani ha almeno due effetti negativi sull’economia che si manifestano a breve termine. Il primo riguarda le risorse investite dallo stato nell’istruzione delle persone che poi decidono di emigrare: uno studente laureato costa allo stato fino a 50mila euro, anche di più se si tratta di laureati in medicina. Un investimento di cui alla fine traggono vantaggio i paesi in cui i giovani scelgono di emigrare, tanto che alcuni paesi ricchi non vogliono investire sulla formazione dei medici, contando sull’arrivo di medici da altri paesi.

L’emigrazione ha poi un altro effetto ancora peggiore: ad emigrare sono soprattutto persone giovani, istruite e propense all’imprenditorialità. Solo stimolando l’imprenditorialità dei giovani un paese povero, come la Bosnia Erzegovina, può evitare di trasformarsi in un paese di camerieri e addetti alle pulizie mal pagati che lavorano al servizio dei turisti. Abbandonare il proprio paese non è mai una decisione facile; i giovani decidono di emigrare quando si rendono conto che nel proprio paese non hanno alcuna possibilità di condurre una vita decente.

Nemmeno il calo del tasso di disoccupazione, che si è ultimamente registrato in tutti i paesi dei Balcani, può contribuire molto a migliorare la situazione. Questo calo è in gran parte dovuto proprio all’emigrazione, che inevitabilmente avrà conseguenze negative sia sul sistema pensionistico sia su quello di assistenza sanitaria.

Tuttavia, la massiccia emigrazione dai paesi dei Balcani è solo un tassello di un problema più ampio. Per quanto riguarda la disoccupazione dei giovani, i dati ufficiali non rispecchiano in pieno la realtà dei fatti. I giovani spesso lavorano “in nero”, e anche molte aziende che pagano regolarmente i propri dipendenti spesso “dimenticano” di versare i contributi, nonostante le leggi prevedano sanzioni draconiane per il mancato versamento dei contributi.

L’evasione fiscale
L’evasione fiscale non è un fenomeno raro nemmeno nei paesi più ordinati. Ma nei paesi dei Balcani, dove molti cittadini sono profondamente convinti che “quelli ai vertici” non utilizzeranno mai le risorse ottenute dalla tassazione per il bene comune, il lavoro nero e l’evasione fiscale sono diventati quasi uno sport nazionale.

Allora come aumentare le pensioni? In Croazia la pensione media ammonta a 2500 kune (circa 335 euro), mentre più di 160mila pensionati sono costretti ad affrontare quella che sembra una missione impossibile: sopravvivere con una pensione inferiore a 1000 kune (circa 134 euro). In altri paesi della regione la situazione è ancora peggiore, ed è difficile dire come potrebbe essere migliorata. Il cosiddetto “terzo pilastro” previdenziale – che in realtà consiste nell’investire in fondi pensione e in gran parte dipende dai dividendi – solo raramente può garantire un introito rilevante, soprattutto tenendo conto del fatto che ormai da qualche anno il tasso di interesse della Banca centrale europea è fermo a zero. Investire nella previdenza complementare può anche rivelarsi rischioso: negli Stati Uniti questo tipo di investimento è diventato prassi comune, ma oggi anche la più grande azienda statunitense che gestisce le prestazioni pensionistiche, California Public Employees’ Retirement System (CalPERS), sta attraversando una grave crisi finanziaria.

Capita troppo spesso che lo stato si trovi costretto ad attingere alle casse pubbliche per fornire un aiuto a quelli che, pur avendo lavorato tutta la vita, faticano a sopravvivere con la sola pensione. Ma non bisogna contare troppo sugli aiuti di stato, che inevitabilmente provocano un deficit di bilancio, soprattutto se si tratta di uno stato che si è impegnato a rispettare le disposizioni in materia finanziaria legate all’introduzione dell’euro.

Durante la crisi economica in Grecia, le prime misure di austerità introdotte dal governo hanno colpito il sistema di welfare pubblico. Uno scenario simile si è verificato anche in Spagna e in Portogallo. I pensionati greci hanno reagito con numerose e veementi proteste, il che non stupisce perché in Grecia molte famiglie – anche con bambini piccoli e giovani disoccupati – vivono di pensioni.

Allora come i paesi con un basso Pil pro capite possono garantire una pensione dignitosa ai giovani di oggi, ma anche alle generazioni future? Ci troviamo di fronte a una situazione assurda: a causa del calo delle nascite sempre più spesso si assiste al fenomeno della cosiddetta “piramide rovesciata” – in molte famiglie ci sono più anziani che bambini, bambini che un domani, con quello che riceveranno in eredità dai loro genitori, probabilmente non potranno nemmeno pagare le bollette e fare la spesa. Si tratta di un problema che deve essere affrontato seriamente.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Agosto 02, 2020, 20:28:00 pm
Sì, ma Putin si trova in Russia non in Italia o in qualche altro Paese dell' Europa dell' ovest, perciò intorno a lui ha un "terreno fertile" che gli permette di agire in un certo modo...
Nemmeno se si trovasse negli USA avrebbe il potere che ha ora in Russia.
E' quel che dicevo, lo Stato Profondo in Russia non è così ostile a leader che perseguono l'interesse nazionale
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 31, 2020, 00:09:25 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Balcani-il-difficile-ritorno-a-scuola-204404

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Balcani: il difficile ritorno a scuola

Tutta l'Europa centrale e sudorientale si sta preparando al nuovo anno scolastico, ma i governi della regione sono ancora incerti su come riprendere l'insegnamento: in presenza, online o in entrambe le modalità

27/08/2020 -  Nedim Dervišbegović
(Pubblicato originariamente da Balkan Insight  il 7 agosto 2020)

I paesi dell'Europa centrale e sudorientale si stanno preparando per il nuovo anno scolastico mentre sono alle prese con un picco di infezioni da coronavirus, e se alcuni dicono di essere (quasi) pronti, altri non hanno ancora deciso quale modalità di insegnamento impiegare e aspettano il parere degli epidemiologi.

Le opzioni comprendono lezioni più brevi, classi meno numerose, alternanza di lezioni in presenza e online o combinazioni di queste e altre soluzioni.

Balcani occidentali ancora indecisi
La Serbia non ha ancora deciso la modalità di insegnamento per il prossimo anno scolastico: il governo e il suo staff di crisi stanno valutando diversi modelli proposti dal ministero dell'Istruzione, ha dichiarato in conferenza stampa il primo ministro Ana Brnabić.

Brnabić ha detto che tutte le scuole opereranno allo stesso modo. "Vogliamo fornire criteri chiari in base ai quali le scuole decideranno come lavorare. Non le lasceremo decidere da sole", ha dichiarato.

Una proposta è quella di rimandare in classe gli alunni dalla prima alla quarta elementare in gruppi non più grandi di 15, con lezioni dai 30 ai 35 minuti e pause di 20 minuti per la disinfezione.

Il ministro dell'Istruzione Mladen Šarčević ha dichiarato al quotidiano Blic all'inizio di luglio che il ministero stava pensando ad un "modello combinato", ovvero "gli studenti farebbero lezione online, ma andranno anche a scuola ogni due settimane, per fare esercizi".

In Bosnia Erzegovina, le due entità (Republika Srpska e Federazione BiH) e i 10 cantoni presenteranno un piano dopo le consultazioni con epidemiologi, insegnanti, sindacati e genitori, visto l'aumento del numero di casi nelle ultime sei settimane.

Le tre opzioni sono ritorno a scuola, lezioni online e la combinazione delle due modalità.

"L'anno scolastico passato non si può assolutamente ripetere e lo sappiamo da molto tempo. Ora inizierà: in che modo e in che ambito lo definiremo”, ha dichiarato il direttore dell'Istituto di salute pubblica della RS Branislav Zeljković.

Merima Bećarevic, capo del consiglio dei genitori del cantone di Sarajevo, ha affermato che una proposta potrebbe essere quella di consentire ai genitori dei bambini dalla prima alla quarta elementare di rimanere a casa e aiutarli durante le settimane di lezione online. "Vedremo quanto ciò sia realistico, dato che i genitori sono impegnati a lavorare, sia nelle istituzioni private che in quelle pubbliche", ha detto.

Il ministero dell'Istruzione del Montenegro si è dichiarato pronto per il nuovo anno scolastico, ma previa consultazione con l'Istituto per la sanità pubblica. Nel frattempo, sta preparando lezioni in video nel caso in cui le scuole rimangano chiuse a causa dell'epidemia.

Il Kosovo sta valutando tre diversi scenari per il nuovo anno scolastico; riapertura parziale delle scuole a settembre, non riaprire affatto o posticipare la riapertura, ha spiegato il ministro dell'Istruzione Rame Lahaj. Il ministero ha "elaborato programmi per tutti i livelli di istruzione" e per tutti e tre gli scenari, compresi approcci diversi per comuni diversi in base al livello della pandemia.

Il ministero realizzerà video lezioni per la scuola dell'obbligo per l'intero anno. Le piattaforme di notizie locali Kallxo, BIRN Kosovo e Internews Kosovo sono state nuovamente invitate a far parte del progetto, come durante il lockdown.

In Albania, secondo le ultime informazioni le scuole riapriranno a settembre, ma questa decisione sarebbe stata presa all'inizio di giugno, quando il numero di contagi era sceso ad una cifra. Nel frattempo i numeri sono aumentati, con un record di 139 casi il 5 agosto e una media di 5 decessi correlati a COVID-19 al giorno nelle ultime settimane.

L'istruzione pubblica albanese era già stata colpita dal terremoto di novembre 2019 e attualmente circa 96 scuole sono chiuse o solo in parte operative a causa dei danni causati dal sisma, che secondo il ministero della Pubblica Istruzione ha colpito circa 40.000 alunni.

Ciò ha causato il trasferimento di circa 20.000 alunni nelle aree densamente popolate dell'Albania centrale nelle cosiddette "scuole ospitanti", già sovraffollate a causa dell'enorme spostamento della popolazione verso le aree urbane negli ultimi tre decenni.

La Macedonia del Nord non ha ancora deciso se aprire scuole e asili a settembre, ma il ministro della Sanità Venko Filipce ha dichiarato che "molto probabilmente" scuole e asili dovranno allineare tutti i protocolli prima della decisione finale.

Filipce ha dichiarato alla TV locale Kanal 5 che "fra le misure principali ci sono gruppi più piccoli, più turni e lezioni più brevi", aggiungendo che lo scopo è che i bambini rimangano in spazi chiusi il meno possibile e tutti con la mascherina.

Il ministero croato della Scienza e dell'Istruzione ha dichiarato a BIRN che "dal 7 settembre gli studenti frequenteranno le lezioni in aula nel rispetto di tutte le misure epidemiologiche", mentre le lezioni online saranno fornite in casi eccezionali agli studenti che non possono frequentare le aule per motivi di salute.

Zone semaforiche in Romania
In Romania, il presidente Klaus Iohannis ha annunciato che l'anno scolastico inizierà il 14 settembre e in presenza per la maggior parte dei bambini, ma saranno i comuni a decidere in base al numero di casi di COVID-19 individuati negli ultimi 14 giorni nella zona.

Le zone con meno di una infezione ogni mille residenti saranno considerate “verdi” e le scuole funzioneranno normalmente. I comuni fino a tre casi per mille saranno classificati “gialli” e i bambini frequenteranno le scuole solo per alcuni corsi. Nelle zone “rosse” con più di tre casi ogni mille abitanti tutte le lezioni si terranno online.

Secondo il presidente circa 50 comuni in Romania sarebbero probabilmente "zone rosse", centinaia di città sarebbero considerate gialle e la maggior parte dei comuni, compresa la capitale, sarebbe nella categoria verde.

La Moldavia aprirà le scuole il primo settembre con l'obbligo di mascherina per gli insegnanti, ma non per gli studenti, ha dichiarato il ministro dell'Istruzione Igor Sharov, aggiungendo che il piano è basato sulle proposte ricevute da parte di insegnanti, genitori, studenti e funzionari scolastici in diversi distretti.

Circa il 65% degli istituti scolastici si dichiara pronto a riprendere gli studi rispettando le norme di sicurezza, che comportano un solo bambino per banco e uno spazio di 1,5 metri tra i banchi.

In Turchia, il ministro dell'Istruzione Ziya Selçuk ha dichiarato che le scuole riapriranno come previsto il 31 agosto, nonostante le richieste di rinvio legate all'aumento dei casi di coronavirus.

"Tutti dovrebbero sentire sulle spalle il peso di 18 milioni di studenti", ha affermato Selçuk, invitando i cittadini ad essere più cauti e seguire tutte le misure di sicurezza del governo.

Tuttavia, la decisione del governo ha lasciato perplessi molti insegnanti. "Non sappiamo come procedere in questo ambiente rischioso. Il numero di nuovi casi aumenta ogni giorno e avere [gli alunni] che si riuniscono nelle scuole e nelle aule non sarà positivo in termini di diffusione del virus", ha fatto notare a BIRN un insegnante di Istanbul, chiedendo di non essere nominato.

L'Europa centrale spera nel ritorno alla "normalità"
La Polonia intende riaprire completamente le scuole dal primo settembre, ha detto il ministro dell'Istruzione Dariusz Piontkowski, nonostante una recrudescenza delle infezioni da coronavirus, che ha visto recentemente il paese registrare 680 nuovi casi in un giorno: il numero più alto dall'inizio della pandemia.

Il governo, osservano gli esperti, rischia di ripetere l'errore di allentare troppo presto le misure, che ha portato ai recenti picchi nei casi e alla diffusa negligenza.

La nazione di 38 milioni di persone ha registrato un totale di 48.789 casi e 1.756 decessi, il che è stato considerato un risultato positivo.

Piontkowski ha affermato che il ministero dell'Istruzione imporrà rigide norme di igiene e sicurezza per le scuole, ma non le mascherine, nonché criteri in base ai quali alcune scuole potrebbero passare all'istruzione online o ad un mix se le infezioni dovessero aumentare. I presidi avranno la facoltà di decidere per le proprie scuole.

Il governo intende obbligare i genitori a rimandare i figli a scuola anche se preoccupati, perché "un genitore non è un epidemiologo".

Anche in Ungheria il governo sta pianificando di avviare un normale anno scolastico, ma preparandosi a eventuali modifiche, ha dichiarato alla TV pubblica M1 Zoltán Maruzsa, Segretario di Stato all'Istruzione, aggiungendo che "l'anno scolastico inizierà in un modo tradizionale, aprirà a settembre, ma ove necessario verranno prese misure locali”.

Ciò è in linea con i suggerimenti degli esperti di istruzione e salute, che sostengono che dovrebbe essere evitata una chiusura universale delle scuole, poiché pone un enorme fardello sui genitori e contribuisce al ritardo degli studenti svantaggiati.

Se la pandemia dovesse ripresentarsi in autunno (attualmente l'Ungheria segnala un leggero aumento dei casi, ma ha ancora un basso numero di contagi), le scuole dove ricompare il virus dovrebbero essere chiuse, ma senza coinvolgere l'intero paese.

ELTE, la più grande università ungherese, sta optando per un "formato ibrido", in base al quale alcuni corsi minori avverranno in presenza, ma la maggior parte delle lezioni più frequentate verrà trasmessa in streaming. Le mascherine saranno obbligatorie negli edifici universitari.

Nella Repubblica Ceca, il 28 luglio il ministro dell'Istruzione Robert Plaga ha dichiarato che le scuole apriranno normalmente dal primo settembre, anche se nelle aule dovranno essere osservate norme sanitarie più severe.

Secondo il ministro, le scuole devono prestare maggiore attenzione alla disinfezione delle mani e, ad esempio, ad una migliore e più frequente ventilazione in classe. Se durante l'autunno il governo fosse costretto a imporre di nuovo le mascherine in tutta la società, le scuole non farebbero eccezione. In caso di contagio in una scuola, le autorità sanitarie regionali decideranno se chiudere la scuola, a seconda delle circostanze.

Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 31, 2020, 00:12:21 am
https://www.eastjournal.net/archives/109266

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BIELORUSSIA: Il 66° compleanno del presidente, tra arresti e violenza
Claudia Bettiol 9 secondi ago

Grandi manifestazioni per contro Lukashenko

Fiori e regali fai-da-te per festeggiare il 66° compleanno del presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko: ecco l’idea originale e provocatoria della folla in protesta che oggi, 30 agosto, sfila nuovamente per le strade di Minsk e di tutta la Bielorussia in una marcia di protesta per la pace e l’indipendenza. “Vi suggeriamo di portare dei fiori e/o dei regali creativi fatti a mano per Lukashenko. Che l’usurpatore possa così vedere cosa gli regaleranno i bielorussi per il suo compleanno”, si legge nell’annuncio della marcia.

Autobus con poliziotti antisommossa (OMON) e carri armati erano già allineati sin dal mattino lungo le strade principali della capitale, dove stanno sfilando decine di migliaia di manifestanti. Nonostante la marcia sia appena iniziata, le forze di sicurezza hanno già arrestato diverse dozzine di persone.

Putin riconosce valide le elezioni bielorusse

Nel frattempo, la notte scorsa, il presidente russo Vladimir Putin – che si è detto pronto a intervenire militarmente in aiuto del governo di Minsk se la situazione dovesse peggiorare – ha ufficialmente riconosciuto come valide le elezioni presidenziali in Bielorussia tenutesi lo scorso 9 agosto. Putin è stato uno degli unici a congratularsi con Lukashenko per la sua vittoria, sottolineando che le relazioni tra i due paesi non potranno che rafforzarsi.

I paesi occidentali, tra cui Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna e la maggior parte dei paesi dell’Unione europea  (Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia incluse) rifiutano, invece, di considerare queste elezioni come valide: l’11 agosto, l’Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, a nome dell’Unione europea, ha dichiarato che le elezioni in Bielorussia “non sono state né libere né eque” e che le autorità ne hanno approfittato per usare la violenza contro i manifestanti.

Secondo il presidente ucraino Volodymyr Zelensky – che ha chiuso proprio in questi giorni le frontiere con la Bielorussia -, se Lukashenko avesse avuto fiducia in se stesso e fosse stato sicuro della sua vittoria, avrebbe tenuto nuove e democratiche elezioni, in presenza degli osservatori internazionali (che, ricordiamo, non sono stati i benvenuti).

I giornalisti stranieri (e non solo) non sono i benvenuti

In seguito ai controlli di documenti e accrediti avvenuti venerdì scorso, le autorità bielorusse hanno revocato l’accreditamento stampa ai giornalisti che hanno seguito le proteste post-elettorali per i media stranieri. Lo stesso vale per una ventina di giornalisti locali che lavoravano per BBC, Reuters, Radio Svaboda, AFP, New York Times, Wall Street Journal, Deutsche Welle e altri. L’annuncio è arrivato pochi giorni dopo che diversi giornalisti erano stati arrestati prima di una protesta pacifica a Minsk. Il ministero degli Esteri bielorusso non commenta la situazione.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Settembre 14, 2020, 00:35:00 am
"Solo in Italia succedono queste cose!"
Ah no, cazzo!, siamo in Serbia...

https://www.balcanicaucaso.org/Media/Multimedia/Serbia-sommersi-dai-rifiuti

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Serbia: sommersi dai rifiuti
31/08/2020

In Serbia ogni cittadino produce mediamente un chilo di rifiuti al giorno. La maggior parte finisce in discariche abusive o fuori norma, con una produzione incontrollata di metano in atmosfera. Tutti devono, e possono, fare la loro parte. Un videoreportage

Questo video è tratto dal webdoc “Voices from the East  ”, realizzato da Marco Carlone, Francesco Rasero ed Eleonora Anello nell’ambito del progetto europeo “Frame, Voice, Report!  ”. Nei Balcani le tematiche legate ambientali sono rimaste in fondo alle agende pubbliche per lungo tempo, nonostante secondo l’IPCC l’Europa centro-orientale sia il primo grande “banco di prova” di fronte agli effetti della crisi climatica nel Vecchio Continente. Voices from the East vuole raccontare le cause e gli effetti dei cambiamenti climatici nei Balcani, nonché alcune strategie di contrasto e adattamento partite dal basso come i piccoli festival indipendenti di cinema ambientale di quest’area: veri e propri presidi eco-culturali nella sensibilizzazione locale di queste tematiche.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Settembre 23, 2020, 19:45:13 pm
https://www.eastjournal.net/archives/109880

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ROMANIA: Gli studi di genere sotto accusa
Maria Savigni 6 giorni ago

Dopo la messa al bando in Ungheria nel 2018, lo scorso 16 giugno anche la Romania ha approvato una proposta di legge che proibisce l’insegnamento dei gender studies nelle proprie istituzioni scolastiche e universitarie.

Gli studi di genere tra “ideologia” e libertà accademica

Nato nel contesto anglosassone degli anni Sessanta, gli studi di genere sono un ramo accademico multidisciplinare che analizza la costruzione sociale della sessualità e identità di genere. Suddivisi in vari filoni tra cui women studies e LGBTQ+ studies, gli studi di genere si pongono l’obiettivo di esaminare altri campi del sapere come la storia o la critica letteraria attraverso la prospettiva e l’esperienza femminile o di genere.

Alla base dell’intervento legislativo in questione vi è l’accusa, nei confronti di tali studi, di essere uno strumento di propaganda politica: “Il mio emendamento cerca di fermare un’ideologia marxista tossica per lo sviluppo dei bambini. Secondo questa ideologia, il sesso biologico non può definire un bambino come uomo o donna, e quindi il bambino è costretto a decidere tra i 114 generi inventati dai sostenitori di questa teoria”, ha affermato il parlamentare romeno Vasile Cristian Lungu, promotore dell’iniziativa. Legato ad ambienti evangelical e neoconservatori americani, Lungu è un esponente del Partito Popolare (PMP) attualmente all’opposizione. La proposta, del tutto analoga a quella di Viktor Orbán che ha costretto la Central European University a spostare la propria sede a Vienna, è comunque riuscita ad ottenere il consenso della maggioranza.

Le Università di Bucarest e Cluj Napoca, che offrono master e corsi di specializzazione in studi di genere, saranno costrette a chiudere tali corsi ed eliminare qualsiasi riferimento al concetto di “genere” dai propri curricula universitari. Di fronte a tale prospettiva, la reazione del mondo accademico è stata netta: l’assemblea dei rettori si è espressa contro la legge, considerata un’ingerenza nell’autonomia dell’insegnamento lesiva della libertà d’espressione. Studenti e docenti universitari hanno lanciato una petizione per chiedere al presidente della repubblica, Klaus Iohannis, di porre il veto sulla legge.

Una legge incostituzionale?

La libertà accademica, ad ogni modo, non è l’unica ad essere minacciata. La nuova normativa elimina di fatto l’educazione sessuale dalle scuole di qualsiasi ordine e grado, dal momento che il testo proibisce in modo esplicito qualsiasi riferimento a sesso o genere dentro le istituzioni scolastiche. Affrontare questioni come l’omosessualità e il transgenderismo in ambito educativo diventerà, quindi, semplicemente un tabù.

La Romania ha depenalizzato l’omosessualità nel 2001, ma non prevede alcuna forma di riconoscimento nei confronti delle coppie dello stesso sesso ed è stata classificata da ILGA Europe tra gli ultimi posti in Europa sotto il profilo della tutela dei diritti LGBT. Oltre a rappresentare un pericolo per la libertà di ricerca, l’iniziativa finisce per costruire un velo di invisibilità e marginalizzazione sulla comunità transgender in Romania, che conta circa 120mila persone.

Le associazioni LGBT che si sono mobilitate contro la legge hanno sottolineato il passaggio sotto silenzio di questa proposta di legge, presentata già lo scorso autunno e approvata in piena crisi epidemiologica da Covid-19.

Non si tratta, del resto, dell’unica iniziativa contro la comunità LGBT in questi ultimi anni: nel 2018 il partito social-democratico (PSD) aveva proposto una riforma costituzionale per vietare il matrimonio omosessuale inserendo nella Carta costituzionale la nozione di matrimonio come legame tra un uomo e una donna, tentativo di riforma bocciato in sede di referendum.

La nuova iniziativa sposta il terreno di scontro sul piano accademico, con pesanti conseguenze per la libertà d’espressione in Romania. Gli appelli del mondo universitario e dell’associazionismo LGBT, però, non sono rimasti senza risposta. Il 10 luglio il Presidente Iohannis, di orientamento moderato sul tema dei diritti civili, ha presentato una questione di costituzionalità alla Corte Costituzionale, che dovrebbe pronunciarsi a breve sulla legittimità o meno della legge “anti-gender”.

Se una censura di incostituzionalità appare più probabile, rimane ormai il secondo caso in tre anni in cui uno Stato membro dell’Unione Europea tenta di mettere all’indice un corpus di teorie e studi accademici.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Settembre 23, 2020, 19:47:14 pm
https://www.eastjournal.net/archives/110069

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POLONIA: Gli slogan anti-LGBT conquistano i cartelloni pubblicitari
redazione 1 giorno ago

di Alessandro Ajres, docente di lingua polacca dell’università di Torino e presidente del circolo culturale Polski kot

“La donna non indosserà abiti da uomo, né l’uomo indosserà abiti da donna, perché chiunque fa tali cose è in abominio all’Eterno, il tuo Dio” (Deuteronomio, 22:5). Questo è soltanto uno degli enormi tabelloni ispirati alla Bibbia comparso la scorsa settimana a Varsavia e finanziato dall’associazione Roty Marszu Niepodległości (Truppe per la Marcia dall’Indipendenza) che hanno animato gli ultimi mesi di scontro intorno al movimento LGBT in Polonia. A propria volta, Roty è soltanto una delle organizzazioni – il cui obiettivo è “mobilitare i polacchi a prendersi cura degli interessi nazionali, della sovranità statale e promuovere il patriottismo” – che abbia optato per questo tipo di comunicazione. È da tempo, infatti, che le associazioni schierate sui due fronti utilizzano gli spazi normalmente riservati ai messaggi pubblicitari per sostenere le proprie idee.

Andando a ritroso, risalgono a più di due anni fa ormai le prime camionette messe in circolazione dall’associazione Pro – Prawo do życia (Pro – Diritto alla vita), su cui facevano mostra di sé alcuni slogan anti-abortisti. Da quel momento in poi, via via le strade della Polonia sono state sempre più attraversate dai furgoni e popolate dai tabelloni di organizzazioni contrapposte.

In particolare, i tragitti percorsi dalle camionette degli attivisti pro-life hanno scatenato con frequenza crescente la proteste della società civile e portato talvolta all’aggressione degli autisti e al tentativo di distruzione dei mezzi (l’arresto della nota attivista Margot Szutowicz è formalmente dovuto proprio a uno di questi episodi). Le ultime “sortite” dei furgoni organizzati dai pro-life (a Cracovia ce n’è stata una il 29 agosto con la scritta: “Stop pedofilia. La lobby LGBT in Polonia vuole insegnare ai bimbi di 4 anni la masturbazione e a quelli di 6 ad acconsentire al sesso”) sono state costantemente scortate dalla polizia e rigidamente perimetrate. La reazione talvolta rabbiosa della controparte nasce dalla frustrazione di dover continuamente subire l’esposizione di messaggi omotransfobici e fuorvianti, come la correlazione insistita tra omosessualità e pedofilia, che pure vengono autorizzati dalle amministrazioni delle varie città.

Anche le associazioni a difesa dei diritti civili hanno provato a veicolare i loro messaggi con gli stessi mezzi. Tuttavia, il tentativo non si è rivelato altrettanto efficace. Teatro di uno scontro di questo tipo è la città di Białystok, sede nel luglio 2019 di un Pride connotato da violenze contro i manifestanti. Proprio in ricordo di quei fatti, alla metà di luglio di quest’anno l’organizzazione Tęczowy Białystok (Białystok Arcobaleno) ha affittato una serie di grandi tabelloni affiggendo slogan di tolleranza e uguaglianza: “Dopo la tempesta arriva sempre l’arcobaleno” con sfondo proprio sui colori dell’arcobaleno. L’iniziativa ha causato la reazione di un altro gruppo informale, ovvero Milcząca Większość (Maggioranza Silenziosa), che ha risposto con altrettanti tabelloni contenenti slogan di segno opposto: “Bene contro odio” (una scritta bianca in campo nero, dove però la parola “odio” è caratterizzata invece dai colori arcobaleno), oppure ancora “La verità non la occulti con la menzogna” (in questo caso, è la parola menzogna a contenere i colori arcobaleno).

lgbt polonia
Milcząca Większość, i cui tabelloni sono stati fatti oggetto di attacchi, racconta difendendosi: “Il tentativo di distruggere i nostri cartelloni è solo un’altra prova di quanto aggressivi e intolleranti verso le opinioni altrui siano gli attivisti di sinistra. La distruzione dei cartelloni pubblicitari non è avvenuta da parte di un movimento congiunto di residenti, ma ha rappresentato solo l’azione di alcuni singoli individui che non hanno affatto il sostegno generale della città”. Il gruppo anti-LGBT si dice convinto della giustezza delle proprie azioni, spiegando anzi che i cartelloni infondono “fiducia” nelle persone e questo, a loro avviso, “è particolarmente necessario in tempi in cui la sinistra cerca in ogni modo di limitare la libertà di parola”.

“Gazeta Wyborcza”, principale quotidiano polacco, ha paragonato Milcząca Większość al Ku Klux Klan, accusando i suoi membri di trincerarsi dietro all’anonimato, dato che rifiutano di lasciare i riferimenti di qualsiasi rappresentante. Loro, invece, giudicano l’azione di Tęczowy Białystok come una provocazione tanto più offensiva perché avallata dalle autorità locali: “Una maggioranza consistente degli abitanti aveva già mostrato nel 2019 [con le violenze contro il Pride] che nella nostra città non ci può essere sostegno per tali eventi”.

Su tutto questo si posano le recenti dichiarazioni di Ursula von der Leyen, che ha promesso che nell’Unione Europea, e tanto meno in Polonia, non ci sarà più posto per zone dichiarate LGBT-free. È auspicabile e doveroso, anche se da queste parti il percorso sembra ancora piuttosto lungo.

Foto: “Non lasceremo che le famiglie vengano distrutte” – Milcząca Większość / Fakty.interia
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Settembre 23, 2020, 19:48:44 pm
https://www.eastjournal.net/archives/109124

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Pillole di filosofia russa/1: Le origini del pensiero russo
Arianna Marchetti 30 minuti ago

Con il presente articolo East Journal lancia una nuova rubrica, curata da Arianna Marchetti, dedicata alla filosofia russa, dalle origini ai tempi moderni.

Ci sono diversi fattori che hanno determinato nel tempo il destino e il carattere della Russia: in primo luogo, la sua posizione e conformazione geografica; più storicamente, l’adozione del cristianesimo nella sua forma ortodosso-bizantina e l’invasione tataro-mongola. Anche alla luce di questi elementi è possibile comprendere l’origine e lo sviluppo di una specifica atmosfera quasi psicologica entro cui si è enucleato il pensiero russo. È anche questa atmosfera ad aver fatto sì che alcuni temi filosofici di origine europea occidentale si sviluppassero qui in maniera originale, “alla russa”.

La filosofia è stata, in Russia come altrove, uno strumento di autocoscienza nazionale: il pensiero si è arrovellato nei secoli sui cosiddetti valori fondamentali, sulle prospettive di sviluppo nazionale e sul posto della nazione nella storia e civiltà mondiale. Per questo motivo, è particolarmente interessante rivolgere l’attenzione ai maggiori prodotti della filosofia russa al fine di comprendere appieno le particolarità che caratterizzano questo paese, la sua storia e la sua realtà politico-culturale attuale.

La filosofia russa (o meglio, slava orientale), intesa come fenomeno intellettuale storico, ha assunto una sua forma delineata nel lungo periodo che va dal IX al XVII secolo. La Rus’ di Kiev del X secolo importò da Bisanzio, assieme alla religione, anche diversi concetti di filosofia classica, incorporandoli attraverso il filtro del cristianesimo. Contrariamente alla scolastica occidentale, la cui lingua era il latino (nella sua variante medievale), la filosofia della Rus’ si orientò nella direzione segnata dai monaci missionari Cirillo e Metodio, che nobilitarono nel IX secolo la “lingua degli slavi” dandole dignità liturgica, sacra (non solo i due fratelli monaci crearono un alfabeto adatto ai suoni slavi, ma favorirono anche la traduzione della Bibbia). Pertanto, il pensiero di questi secoli si contraddistingue, in primo luogo, per l’utilizzo della lingua slava ecclesiastica e, in secondo luogo, come ragionamento eminentemente religioso, il cui fine ultimo era avvicinarsi a Dio. La filosofia non era concepita come una costruzione logico-concettuale, bensì come una pratica meditativa volta al raggiungimento di un’unità con il divino tramite il raccoglimento interiore.

Il pensiero medievale slavo orientale è particolarmente affascinante e ha prodotto diversi importanti testi, opere che hanno influenzato nel tempo la cultura. Tra questi, spiccano il Sermone sulla Legge e la Grazia (Slovo o zakone i blagodati, XI secolo) attribuito a Ilarion di Kiev e il Sermone sulla Saggezza (Slovo o premudrosti, XII secolo) attribuito al vescovo Cirillo di Turov.

La ricerca morale di Dostoevskij, come la filosofia della storia di Tolstoj, sono tra gli esempi più noti dell’influenza della tradizione medievale, che fu ripresa più volte come ispirazione proprio per il suo carattere “puro”, privo di influenze razionali associate alla tradizione classica e occidentale. Il rifiuto di ogni speculazione razionale su Dio precluse al patrimonio filosofico latino medievale di mettere radici nel suolo russo: pur noto, questo corpus di testi non influenzò gli sviluppi stilistici nella Rus’. Anche la dominazione tataro-mongola — che si protrasse nell’area dal XIII al XV secolo — contribuì a rendere più difficile lo scambio di idee e testi tra i territori slavi e quelli europeo-occidentali. Fino alla ritirata dei tatari e l’ascesa di Ivan III nel 1478, la scolastica medievale rimase pressoché sconosciuta ai monasteri di Kiev e delle altre città dell’area: il pensiero slavo orientale rimase fortemente ancorato alla patristica greca e alla tradizione bizantina.

Nel Settecento, grazie alle riforme di Pietro il Grande, imperatore russo che promosse un’europeizzazione forzata nel paese proseguendo e approfondendo l’orientamento dei suoi predecessori, la religione, che fino a quel momento aveva permeato tutti gli strati della sfera intellettuale, iniziò a perdere il suo primato, aprendo il campo alla scienza. Questo fu un periodo di forte europeizzazione delle élite russe, caratterizzato dalla ricerca della modernizzazione in tutti i campi, dalla scienza alle discipline umane. Nel 1725 fu istituita un’Accademia delle Scienze e delle Arti, alla quale furono invitati a insegnare professori dall’Europa occidentale; l’illuminismo tedesco, ma non solo, si diffuse allora in maniera estesa.

Tre intellettuali della “dotta compagnia” di Pietro il Grande contribuirono in maniera particolare allo sviluppo della filosofia russa del tempo: Feofan Prokopovič, Vasilij Tatiščev e Antioch Kantemir, ferventi sostenitori dell’assolutismo illuminato e delle riforme pietrine. Ebbero quindi un ruolo centrale nel far progredire la filosofia verso nuove frontiere e nel promuovere l’idea della modernizzazione come forza del progresso storico.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Settembre 23, 2020, 23:09:55 pm
Frank per curiosità: hai qualche esperienza di donne polacche, o di italiani che si sono sposati polacche nel loro Paese? Pura curiosità, ormai ho tirato i remi in barca sulla questione.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Novembre 15, 2020, 19:54:09 pm
Frank per curiosità: hai qualche esperienza di donne polacche, o di italiani che si sono sposati polacche nel loro Paese? Pura curiosità, ormai ho tirato i remi in barca sulla questione.

Leggo solo ora la tua domanda.
No, non ho alcuna esperienza con donne polacche, né conosco italiani che si sono sposati delle polacche nel loro Paese.
Conosco di vista un uomo ultra cinquantenne che convive con una polacca 37enne, e tramite un elettricista di mia conoscenza conosco la storia di un suo zio, ormai deceduto da anni, che si era "accollato" una badante polacca più giovane di lui di almeno 20 anni, che ogni tanto lo picchiava... anche perché lui non reagiva (era pure anziano).
So anche che lo "salassò", da "brava" femmina (parassita) dell' est quale era.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Novembre 15, 2020, 19:57:46 pm
https://www.eastjournal.net/archives/112321

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BALCANI: Un bosniaco nello staff del presidente Biden
redazione 2 giorni ago

di Dino Huseljić e Marco Siragusa

Questo lavoro è frutto di una collaborazione tra East Journal e Nena News.

Elvir Klempić è un nome che ha iniziato a circolare fra i media bosniaci, croati e sloveni pochi minuti dopo che Joe Biden ha vinto le elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Klempić ha partecipato attivamente alla campagna elettorale in favore del candidato democratico, gestendo i rapporti con le diverse comunità etniche presenti nel paese. Il suo operato ha contribuito a spostare un importante numero di elettori di origine bosniaca e polacca dalla parte di Biden, che, come lui stesso ha dichiarato, potrebbero essere stati decisivi in Wisconsin e Pennsylvania.

Da Srebrenica alla Casa Bianca

Nel 1995 Klempić aveva quattro anni e si trovava a Srebrenica, dove poco dopo sarebbero iniziate le operazioni di pulizia etnica dell’esercito serbo-bosniaco culminate nel genocidio della popolazione di etnia bosgnacca, cui la sua famiglia appartiene. Insieme alla mamma e alla nonna, Elvir è uscito dalla città su un camion diretto nella zona sicura di Tuzla, dove qualche giorno dopo avrebbe incontrato il padre, fuggito attraverso i boschi in una lunga e pericolosa marcia per sfuggire ai militari.

Dopo sei anni da profugo nella cittadina di Banovići, Klempić è arrivato negli Stati Uniti nel 2001, costruendo la propria vita nell’Iowa, dove si è laureato in Relazioni Internazionali e Scienze Politiche e da dove Biden ha iniziato la campagna che lo ha portato alla Casa Bianca.

Grazie a un importante lavoro di dialogo con le varie comunità etniche del paese e all’intercettazione dei loro interessi, Klempić ha contribuito ad attrarre nell’orbita democratica interi gruppi nazionali che in passato non erano stati molto coinvolti nella vita politica statunitense. Per la prima volta la comunità bosniaca ha partecipato in massa alle elezioni, garantendo importanti voti a Biden in Georgia e Pennsylvania, e altrettanto hanno fatto gli 11 milioni di cittadini di origine polacca che Klempić ha coinvolto nel progetto democratico, allontanandoli da Donald Trump che nel 2016 aveva ottenuto la maggioranza dei voti della comunità.

Klempić ha annunciato un cambio di direzione nella politica statunitense nei Balcani, più attiva e diretta da persone con un’ampia conoscenza della regione, ma anche una continuità nel sostenere l’adesione della Bosnia Erzegovina alla NATO, che sembra però ancora lontana. Il giovane bosniaco ha anche definito Biden un “amico” di Bosnia-Erzegovina, Croazia, Serbia, Montenegro e Macedonia del Nord, non includendo nella lista Slovenia e Kosovo.

Una dichiarazione che forse svela qualche fastidio della parte democratica nei confronti dei governi di Janez Janša, il premier sloveno che ha supportato Trump nei mesi passati e che si è detto favorevole alla sua iniziativa giudiziaria per denunciare presunti brogli elettorali, e di Avdullah Hoti, capo del governo kosovaro che si è probabilmente compromesso fin troppo con il presidente uscente.

L’elezione di Biden è stata invece salutata con entusiasmo a Sarajevo, dove la Vijećnica, la storica biblioteca cittadina, è stata illuminata con la bandiera americana e la figura del nuovo presidente. La parte bosgnacca non ha dimenticato l’impegno dell’allora senatore Biden che, nel 1994, sostenne fortemente le istanze della Bosnia-Erzegovina al Congresso, instaurando legami con il primo presidente del Paese, Alija Izetbegović, e il primo ministro degli anni di guerra, Haris Silajdzić.

La presenza di Klempić nell’entourage di Biden ha soltanto rafforzato questo entusiasmo, espresso soprattutto dall’ala del centro-destra bosgnacco, quella più vicina al presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Una convergenza che trova un punto interessante nel passato dello stesso Klempić.

I legami con la Turchia

Prima di assumere il ruolo di responsabile per le minoranze etniche nello staff di Biden, Klempić è stato infatti Direttore Esecutivo della Turkish Heritage Organization (THO). Formalmente registrata negli Stati Uniti nel 2014 come organizzazione non-profit e non politica con il compito di promuovere le relazioni bilaterali tra USA e Turchia. Nel 2016, prima dell’arrivo di Klempić, la THO è stata al centro di un’indagine dell’FBI per i suoi legami con il regime di Erdoğan. Secondo quanto trapelato da alcune mail pubblicate da WikiLeaks, la THO sarebbe stata creata grazie al coinvolgimento diretto di Berat Albayrak, genero di Erdoğan e ora dimissionario ministro delle Finanze.

Al centro dell’inchiesta, cui Klempić risulta del tutto estraneo, l’attività di lobbying condotta segretamente dagli esponenti della THO, in violazione delle norme che regolano le organizzazioni non politiche. L’allora presidente, Halil Danişmaz, aveva rassegnato le dimissioni dopo esser stato interrogato dall’FBI con l’accusa di lavorare come agente segreto per il governo turco e per il mancato rispetto delle regole sulla registrazione degli agenti stranieri in territorio americano. Il sito della THO riporta tra i principali finanziatori la Turkish Airlines e la Turkish Emlak Bank Investment Company, notoriamente vicine ad Erdoğan e al suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP).

Tra i partner con cui la THO ha collaborato in questi anni risulta il Syrian American Council, un gruppo nato nel 2005 e apertamente sostenuto dagli Stati Uniti contro il presidente siriano Bashar al-Assad. Proprio riguardo alla guerra in Siria, in un’intervista rilasciata all’emittente turca TRT World nel gennaio 2019 Klempić parlava della Turchia come di un “attore chiave per il raggiungimento della pace”, sostenendo un approccio più cooperativo con Washington.

Sebbene Klempić in passato abbia lavorato per avvicinare le due potenze, recentemente è stato costretto a prendere le distanze dalla THO per le posizioni espresse dall’organizzazione contro il riconoscimento del genocidio armeno. In una breve dichiarazione ripresa da The Armenian Mirror-Spectator, Klempić ha affermato di essere totalmente in linea con le dichiarazioni del presidente Biden, favorevole a riconoscere il genocidio, e non con quelle dei suoi precedenti datori di lavoro.

Nonostante i suoi passati legami con la fitta rete internazionale creata da Erdoğan, è difficile ipotizzare che Klempić possa agire come agente del presidente turco. Molto più probabile invece che possa contribuire ad alleggerire le tensioni tra i due presidenti. Biden non ha mai nascosto la sua ostilità nei confronti di Erdoğan, molto vicino al presidente Trump e al suo genero e collaboratore Jared Kushner. Klempić, qualora dovesse esser confermato nello staff presidenziale, potrebbe giocare un importante ruolo di mediazione, per quanto non decisivo nelle scelte di politica estera del futuro presidente.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Novembre 15, 2020, 22:12:45 pm
Già la Turchia, una bella gatta da pelare per gli USA e anche l'Europa.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Novembre 22, 2020, 23:58:15 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Macedonia-del-Nord/Macedonia-del-nord-amministrazione-gonfiata-ed-equilibrio-etnico-206649

Citazione
Macedonia del nord, amministrazione gonfiata ed equilibrio etnico
aree  Macedonia del Nordita eng

In Macedonia del nord, le istituzioni garantiscono quote etniche nella pubblica amministrazione: un principio che però ha avuto anche ricadute negative e gonfiato il numero degli impiegati nel settore pubblico, che spesso non si recano neanche al lavoro

20/11/2020 -  Aleksandar Samardjiev Tetovo
Con una popolazione di circa 2 milioni di abitanti, la Macedonia del nord conta attualmente oltre 130.000 persone impiegate nell'amministrazione statale: non c'è da stupirsi che l'opinione pubblica e i media sollevino costantemente la questione della reale necessità ed efficienza dei dipendenti pubblici. Da decenni, sebbene i partiti al potere parlino costantemente di riforme, il numero dei dipendenti è in costante crescita: secondo i dati ufficiali del ministero dell'Informazione, Società e Amministrazione di marzo 2020, nel 2019 l'amministrazione statale contava 132.900 dipendenti.

Lavoro e rappresentanza etnica
Tra i motivi del numero esorbitante di dipendenti nell'amministrazione statale c'è la pratica, risultante dall'accordo quadro di Ohrid  , di impiegare diverse migliaia di persone: cosa che i partiti al governo spiegano con la necessità di raggiungere la cosiddetta “equa rappresentanza” delle comunità etniche secondo la percentuale della popolazione del paese.

Questa politica è in vigore da quasi vent'anni: una delle conseguenze più controverse di questi cosiddetti "lavori quadro" è che molte delle persone assunte non vanno a lavorare, ma ricevono comunque lo stipendio.

Secondo una ricerca condotta dall'Istituto per gli studi sulla comunicazione attraverso la piattaforma online Samoprashaj.mk  , in Macedonia del nord dal 2008 al 2020 questi dipendenti erano registrati nell'ex Segretariato per l'accordo quadro, che un anno e mezzo fa è stato trasformato nel ministero del Sistema politico. Vi erano impiegate esattamente 3.525 persone. Oggi l'istituto ha 1.410 dipendenti, il che significa che molti sono già stati trasferiti in altri ministeri, ma la maggior parte di loro riceve ancora uno stipendio senza lavorare. Alcuni invece lavorano effettivamente nell'amministrazione dei ministeri, delle imprese pubbliche e di altri tipi di istituzioni statali.

Secondo un sondaggio della piattaforma, su 1.410 dipendenti del ministero del Sistema politico, la grande maggioranza proviene dalla comunità etnica albanese (1.231) e 179 appartengono ad altre comunità etniche: turchi (82), rom (61), bosniaci (22) ecc.

Dato che alcuni luoghi di lavoro devono avere quote etniche nello staff, molte persone dichiarano un'affiliazione nazionale diversa da quella segnalata dal proprio nome e cognome. Ad esempio, i macedoni si dichiarano albanesi o rom per ottenere un lavoro per il quale hanno la qualifica professionale e non ci sono altri candidati che soddisfino i criteri etnici.

L'ex ministro delle Finanze Dzevdet Hajredini ha detto ai media locali che, sebbene nell'accordo quadro di Ohrid ci sia una disposizione per un'equa rappresentanza delle comunità, da nessuna parte viene affermato che qualcuno debba ricevere uno stipendio senza lavorare. “Penso che ci sia un pagamento illegale di stipendi dal bilancio dello Stato a chi non va a lavorare: i più responsabili di questa situazione, e quindi i più colpevoli, sono l'ex premier Nikola Gruevski e l'attuale Zoran Zaev".

Ridimensionare l'amministrazione, una necessità
La riduzione dell'amministrazione rimane una delle sfide per il nuovo governo formato ad agosto 2020, che nel suo programma elettorale ha promesso di occuparsi dell'amministrazione sovradimensionata e ridurre il numero dei dipendenti del 20%. La necessità di riforme in questo settore viene discussa da diversi anni e fa parte dei capitoli negoziali per l'adesione all'Unione europea.

Borce Davitkovski, professore della facoltà di Giurisprudenza di Skopje, sostiene che, sebbene l'esistenza di un ministero del Sistema politico non sia problematica da un punto di vista puramente formale, si dovrebbe collocare nel contesto più ampio degli sforzi del governo per un'amministrazione più razionale ed efficiente. Il professore ritiene che la soluzione migliore sarebbe quella di abolire il ministero stesso, o almeno di accorpare molti dei suoi uffici con organi con competenze uguali o simili, al fine di razionalizzare l'amministrazione statale.

"Secondo me, se il ministero [del Sistema politico] dovesse continuare ad esistere, allora quello della Società, dell'Amministrazione dell'Informazione dovrebbe essere abolito, trasferendo la parte amministrativa a questo ministero", afferma Davitkovski.

Le riforme della pubblica amministrazione  sono incluse nel primo nucleo del quadro negoziale sviluppato secondo la nuova metodologia dell'UE. Questo nucleo copre diversi capitoli chiamati "basi", compresa l'amministrazione, ed è considerato il più importante. Copre i capitoli sulla giustizia e i diritti fondamentali, la libertà e la sicurezza, il funzionamento delle istituzioni democratiche, la riforma della pubblica amministrazione, i criteri economici della pubblica amministrazione e degli appalti pubblici, nonché il controllo finanziario, e dura per tutto il processo di negoziazione.

Il professor Temelko Risteski della facoltà di Scienze Sociali è sicuro che la Macedonia del nord sarà sottoposta a pressioni da Bruxelles per riformare l'amministrazione prima di aderire all'UE e poter spendere soldi europei. “L'Europa non permetterà che il proprio denaro vada a un'amministrazione inefficiente e improduttiva. Il sistema europeo non tollera sottosistemi costosi, incompetenti e inefficienti, e la nostra amministrazione infatti diventerà un sottosistema di quello europeo. Penso che l'UE ci costringerà a riformarla prima della fine dell'intero processo negoziale”, ha dichiarato Risteski ai media locali.

Incentivare il passaggio dal pubblico al privato
Una delle misure proposte dal vecchio-nuovo governo, con Damjan Manchevski ministro dell'Informazione, Società e Amministrazione, è il trasferimento dei dipendenti in eccesso dal settore pubblico a quello privato, offrendo alcuni vantaggi alle aziende che vogliono assumere. Sono stati anche annunciati incentivi in vista delle elezioni, in modo che i dipendenti pubblici che firmano un contratto con un'azienda privata ricevano un TFR, mentre il nuovo datore di lavoro riceverà dei sussidi.

Nei citati 132.900 dipendenti dell'amministrazione statale non rientrano le persone assunte tramite agenzie di lavoro interinale, perché non hanno lo status di dipendenti pubblici (3.222 secondo il ministro), né gli 8.800 dipendenti delle società per azioni interamente statali. Sono quindi 144.922 in totale le persone stipendiate dallo Stato.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 09, 2020, 21:54:29 pm
Dice l'italiano medio:
"Solo in Italia succedono certe cose!"
Ah no, cazzo!, siamo in Serbia...

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-malati-di-reality-206694

Citazione
Serbia, malati di reality

Insulti, risse, minacce di morte, pornografia, turpiloquio e simili. I reality in Serbia sembrano sfuggiti di mano. C’è chi li guarda ma c’è anche chi ne chiede la regolamentazione, quanto meno che li si sposti in fasce orarie protette ai minori

09/12/2020 -  Nicola Dotto Belgrado
Il reality show come format televisivo è un esperimento sociale ben noto nella maggior parte dei paesi del mondo, anche in quelli più sviluppati e a tradizione democratica più avanzata che tutelano i diritti fondamentali e le libertà. Ciò che si vede in Serbia è tuttavia lontano dalla sua definizione primaria che punta all’osservazione del comportamento quotidiano di persone conosciute o sconosciute in situazioni reali e non sceneggiate.

Qui infatti, sotto la firma di accordi spesso incostituzionali o discriminatori e false promesse di lauti guadagni, vengono consentiti, anzi incoraggiati, comportamenti di ogni genere a partecipanti perlopiù con un passato o un presente “discutibile”, se non addirittura criminoso. Non solo, ma la messa in onda di tali show su canali a frequenza nazionale a tutte le ore del giorno e senza nessun tipo di censura scuote e divide sempre più le coscienze: tra chi vorrebbe vietarne completamente la messa in onda o almeno limitarne l’orario nelle fasce notturne, e chi non riesce a dire no a un pruriginoso bisogno di osservare le vite degli altri.

In realtà, i motivi per mettere completamente al bando i due reality show serbi più popolari, “Zadruga” e “Parovi”, sarebbero molti: violazioni dei diritti umani, scene di violenza gratuita, favoreggiamento della prostituzione, incitamento all’uso di droghe, turpiloquio… La decisione, anche a metà del guado e più blanda per non scontentare nessuno, come la limitazione nella programmazione alle fasce d’orario notturne perché più protette, spetterebbe al Consiglio dell’Organo Regolare dei Media Elettronici (REM  ), che però al momento decisivo ha sempre fatto spallucce.

“Zadruga” e “Parovi”
“Zadruga” (Cooperativa), sicuramente il più seguito e costoso reality show della storia serba, va in onda dal settembre 2017 sul canale “Pink” di proprietà del discusso magnate serbo Željko Mitrović. Lo spettacolo, grandioso, e per la cui preparazione sono stati coinvolti specialisti da Hollywood, viene trasmesso da Šimanovci, un sobborgo di Belgrado; qui su oltre due ettari di terreno, i partecipanti o soci della cooperativa, vengono rinchiusi e isolati dal resto del mondo per nove o dieci mesi ingolositi da un premio finale di 50.000 euro; della scenografia, imponente e che impegna ogni giorno decine di maestranze, fanno parte un lago artificiale, una sorta di enorme ”Casa Bianca”, casinò, bar, cinema, teatro, ristoranti e saloni di bellezza. Naturalmente, come in tutti i reality che si rispettino, ogni settimana il pubblico da casa ha la facoltà di decidere le nomination o le eliminazioni dei partecipanti.

Fin qui niente di strano, ma se scorriamo il curriculum del format di questi anni c’è da rabbrividire: un partecipante arrestato perché sospettato di aver ucciso la moglie, una minorenne coinvolta nel giro della prostituzione prima di entrare nella casa, un altro concorrente squalificato perché reo di aver attaccato fisicamente dei partecipanti e condannato a un anno di domiciliari. Infine, proprio pochi giorni fa, l’entrata nel gioco di un uomo finito in carcere per risse e problemi di droga. Come se non bastasse in questi mesi lo show non si è fermato nemmeno durante la pandemia da Covid-19 scoppiata a marzo, sebbene vari concorrenti eliminati dal gioco e gli stessi addetti ai lavori avessero prima negato e poi ammesso di essere stati contagiati dal virus durante la loro permanenza.

“Parovi” (Coppie) è l’altro reality show che va in onda (24 ore al giorno), con successo dal dicembre 2010, sul canale “Happy”. Le dinamiche sono più o meno le stesse. I concorrenti vivono insieme, sotto costante sorveglianza, in una grande villa che si trova nella municipalità di Zemun; hanno a disposizione una grande camera da letto da 24 posti, una cucina attrezzata, un ampio soggiorno, una stanza segreta, tre stanze di isolamento, una grande piscina e un ampio cortile. Per le prime due stagioni il reality ha visto la partecipazione di coppie vere, ma dalla terza stagione il format è cambiato a causa delle difficoltà nel trovare delle coppie nella realtà. “Parovi” non ha purtroppo un curriculum migliore: molestie, intimidazioni, violenza, discorsi osceni, razzismo, violazione dell'integrità fisica e mentale sono solo alcune delle accuse rivolte alla TV che ne possiede i diritti, la quale ha ricevuto ammonimenti, diffide e una volta anche un divieto di andare in onda.

I tentennamenti dell’Organo regolatore dei media (REM)
L’unico Organo che potrebbe fermare o almeno limitare questa rappresentazione umiliante, mistificatoria e pericolosa della società serba è il REM (Organo Regolare dei Media Elettronici), il cui Consiglio più volte è stato chiamato a una decisione sull’opportunità della messa in onda di questi spettacoli nelle tv a frequenza nazionale durante le ore del giorno. Vida Petrović Škero, ex presidente dell’alto tribunale serbo, sostiene che “le leggi e i regolamenti esistono già. Molti problemi sarebbero stati risolti finora se gli atti normativi, che abbiamo, fossero stati applicati in modo coerente e se ci fosse una reale volontà da parte dell’Organo di applicarli”.

La procedura prevede che il Consiglio in riunione decida prima sulla bozza da adottare, la quale viene poi mandata al ministero della Cultura e dell'Informazione per una valutazione di legalità e passa a un dibattito pubblico della durata di 15 giorni dopodiché lo stesso Consiglio deve decidere. L’ultima sessione, in ordine di tempo, era prevista verso la fine di ottobre, e dopo l’ennesimo rifiuto di maggio, sembrava certa una decisione per lo spostamento della programmazione dei reality alle ore notturne, cioè dalle 23 alle 6 di mattina.

Tuttavia, il 2 novembre arriva il colpo a sorpresa e il documento finale non viene approvato dalla maggioranza del Consiglio dell'Organo: sono infatti quattro i voti a favore e quattro quelli contro tra cui quello di Aleksandra Janković, la quale ritiene che l’atto “risulterebbe illegale e porterebbe a una sorta di censura della tv”. Le colleghe Višnja Aranđelović e Judita Popović, di parere opposto, invece ribattono che “non si può reagire a risse, insulti e violenze dicendo solo ai cittadini di cambiare canale” e che “nessuno parla di cancellare un programma, ma di spostare i reality show alla fascia notturna. Secondo la legge sui media elettronici, è un obbligo dell’Organo regolatore proteggere i minori in tutti i modi possibili”.

Un altro membro votante, Zoran Simjanović, afferma che “i reality show dovrebbero essere limitati ad alcune fasce orarie perché hanno un effetto negativo sui minori”, e Aleksandar Vitković, pur d’accordo con lui, vota però contro a “un documento che non è legalmente valido". Aleksandra Janković e Radoje Kujović alla fine della sessione propongono quindi un ulteriore monitoraggio dettagliato dei reality show per prendere eventuali nuove decisioni dopo averne esaminato i risultati, dimenticando forse che l’Organo li monitora già da otto anni.

I minorenni quelli più a rischio
Dal 2015 esiste nel paese un regolamento sulla protezione dei minori e dei diritti umani nei media, il che significa che avvertimenti, divieti temporanei di trasmissione e persino revoche della licenza all'emittente, dovrebbero poter essere applicabili uniformemente a tutti. Tuttavia, il “REM” è accusato da molti di debolezza  per non aver utilizzato negli anni scorsi le possibilità legali atte a punire le varie emittenti e avviare procedimenti dinanzi alla magistratura.

Maja Divac, esperta di regolamenti dei media, ritiene che anche l’ultima non-decisione danneggi i cittadini e violi i regolamenti a favore delle emittenti televisive: “La decisione purtroppo era attesa, conoscendo la pratica vergognosa di lunga data di questo Organo di non lavorare nell'interesse dei cittadini ma di potenti gruppi che difendono i loro ristretti interessi economici e politici attraverso il REM. È ovvio che nel Consiglio dell'Organismo di vigilanza ci sono forze dispiegate secondo la volontà politica dell'attuale regime”.

Goran Petrović, che ne è il vicedirettore, è accusato di aver cambiato idea all’ultimo; lo stesso, pur ammettendo che i programmi di reality sono quelli in cui vengono mostrati più spesso contenuti che possono danneggiare lo sviluppo dei minori, pensa che “un simile atto verrebbe annullato dopo la valutazione di costituzionalità e legalità ed è inoltre contrario alla direttiva europea”.

Secondo Zoran Gavrilović, rappresentante dell'Ufficio per la ricerca sociale (BIRODI - Biro za društvena istraživanja  ), la decisione di non spostare la programmazione di questi reality nelle ore notturne consentirà alle televisioni di trasmettere a tutte le ore del giorno immagini che potrebbero portare a lungo tempo a disturbi sui comportamenti, sugli atteggiamenti, sui valori della popolazione, soprattutto tra i minorenni e pone una domanda importante: “Oltre al monitoraggio che il REM dovrebbe assolutamente fare, sarebbe importante avere un’analisi dell'impatto che hanno i programmi di reality sul comportamento delle persone; la questione cruciale è se diventiamo più aggressivi guardando dei programmi che promuovono violenza, sesso, insulti, turpiloquio e simili”.

Una lettera a Maja Gojković
L’ultima iniziativa civica in ordine di tempo è stata lanciata pochi mesi fa sul sito “Kreni-promeni” (Agisci-cambia) e chiede al parlamento, tramite una petizione  , di adempiere all'obbligo costituzionale di deliberare su un disegno di legge sostenuto da 30.000 cittadini e decidere consapevolmente e responsabilmente sulla questione dei reality; la lettera è indirizzata alla (ex ormai) presidente del parlamento serbo, Maja Gojković, e conclude così: “Ogni giorno di attesa è un giorno in più verso la distruzione di generazioni di giovani. Violenza, attacchi e insulti alle donne, privazione della libertà; non sono questi i valori che dovrebbero far parte della nostra società. Lei ha la possibilità di scegliere, di contribuire alla restrizione dei reality show o di schierarsi dalla parte della violenza e della distruzione della società. La scelta ora è sua”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Dicembre 09, 2020, 22:53:01 pm
Che sia in Italia o in Serbia, i galeotti femmine comprese fanno parte del palinsesto.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 16, 2020, 22:01:54 pm
https://www.eastjournal.net/archives/113666

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ALBANIA: La polizia uccide un ragazzo, proteste e scontri a Tirana
Marco Siragusa 5 giorni ago

Un nuovo problema travolge il governo albanese guidato da Edi Rama, leader del Partito Socialista (PS), già alle prese con la complicata gestione della pandemia, la ricostruzione post terremoto e l’avvio dei negoziati d’adesione con l’Unione europea. L’uccisione di un ragazzo da parte della polizia ha provocato dure proteste e rischia di alimentare le già tante tensioni nel paese. E il prossimo 25 aprile sono in programma le elezioni parlamentari.

I fatti

Era da poco passata la mezzanotte di martedì 8 dicembre quando Klodian Rasha, 25 anni, stava tornando a casa sua nel quartiere di Lapraka, a circa 4 km dal centro della capitale Tirana. Da due ore era scattato il coprifuoco imposto dal governo, tra le 22:00 e le 5:00, per limitare la diffusione del coronavirus. Non si sa ancora perché Klodian si trovasse in strada in quel momento, quello che è certo è che nel suo percorso verso casa ha incontrato una pattuglia della polizia che gli ha intimato di fermarsi. Klodian ha provato a scappare e, secondo le prime ricostruzioni, è stato raggiunto alle spalle da due proiettili, che lo hanno ucciso.

Secondo il padre, Qazim Rasha, il figlio era uscito per comprare le sigarette e non aveva con sé la mascherina. Il padre ha inoltre parlato di “testimoni che hanno visto la polizia picchiare Klodian”. Per la polizia, il ragazzo era invece armato e pericoloso. La magistratura ha già aperto le indagini contro l’agente coinvolto.

Proteste e scontri

La vicenda ha scatenato immediatamente le proteste dei cittadini che, sin dal mattino di mercoledì, sono scesi in strada. La giornata è proseguita tranquilla almeno fino alla prima serata, quando centinaia di persone, dopo un passaparola sui social, si sono ritrovate davanti al ministero degli Interni per chiedere verità e giustizia. Nei cartelli si leggevano frasi come “Giustizia per Klodian”, “Dimissioni” rivolto al ministro degli Interni Sandër Lleshaj, ma anche messaggi più duri come “E’ un buon giorno per una rivoluzione”.

La situazione è presto degenerata e sono scoppiati violenti scontri tra polizia e manifestanti che hanno prima incendiato l’albero di Natale posto in Piazza Skanderbeg, poi hanno travolto gli agenti con pietre e fumogeni. La protesta si è quindi spostata davanti al palazzo del primo ministro Edi Rama, in visita a Washington per incontrare i vertici della multinazionale farmaceutica Pfizer e ottenere le dosi del vaccino contro il virus. La polizia, cui si sono aggiunti uomini dei reparti speciali, ha risposto con idranti e lacrimogeni.

Le proteste sono continuate in maniera ancora più violenta nella serata di giovedì, con i manifestanti che hanno dato fuoco a cassonetti, tentato l’assalto al ministero delle Finanze e rotto i vetri di entrata della sede del Partito Socialista a Tirana. Le manifestazioni hanno coinvolto anche Durazzo, Valona, Scutari e altri piccoli centri del paese. Decine le persone arrestate dalla polizia, che ha già fatto sapere che altri partecipanti agli scontri verranno ricercati e fermati per non aver rispettato il coprifuoco e per aver provocato disordini.

Le reazioni politiche

Non sono mancate le immediate reazioni politiche. In Albania, difatti, lo scontro tra maggioranza e opposizione è già da tempo piuttosto acceso. Giovedì sera il ministro degli Interni Sandër Lleshaj ha rassegnato le dimissioni ammettendo che il ragazzo è stato “ucciso ingiustamente” ma anche accusando gli oppositori di “lanciare un nuovo attacco al Paese”. Il primo ministro Rama, tornato dagli USA, si è ufficialmente scusato con la famiglia e ha chiesto l’avvio di un’indagine completa per un “evento senza precedenti”.

Le opposizioni stanno cercando di utilizzare l’accaduto per attaccare il governo in quella che sembra una prova generale della prossima campagna elettorale. L’ex primo ministro Sali Berisha, già leader del Partito Democratico albanese (PD) di centrodestra, ha parlato di “omicidio di stato premeditato” legato a un regolamento di conti tra narcotrafficanti vicini al governo. Il Presidente della Repubblica Ilir Meta, del Movimento Socialista per l’Integrazione e da tempo forte oppositore di Rama, ha posto l’accento sull’eccessiva violenza utilizzata negli ultimi anni dalla polizia accusando direttamente “alti funzionari e dirigenti della polizia di Stato, nonché del ministero degli Interni”.

Altrettanto dura la presa di posizione della sezione albanese del partito kosovaro di sinistra Vetëvendosje! che unendosi alle richieste di dimissioni del ministro e del capo della polizia Ardi Veliu ha denunciato lo “stato di polizia”, descrivendo la rabbia della piazza come una “chiara espressione della rivolta dovuta a una profonda ingiustizia”. L’Ambasciata statunitense a Tirana ha rilasciato una nota dove mette in guardia i propri cittadini presenti in Albania dalla possibilità che le violenze si estendano in altre aree del paese.

Anche se le elezioni del 25 aprile sono ancora lontane, il rischio è che il paese scivoli in una spirale di contrapposizioni e in un clima di tensione crescente. Proprio mentre l’Albania si appresta ad avviare i negoziati con l’Unione europea. Non proprio un buon biglietto da visita.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 16, 2020, 22:06:46 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Venticinque-anni-dopo-Dayton-c-e-ben-poco-da-gioire-207284

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Venticinque anni dopo Dayton, c’è ben poco da gioire

Ad un quarto di secolo dalla fine della guerra in Bosnia Erzegovina, il paese è ancora ostaggio di élite politiche nazionaliste. Ora spetta ai cittadini ridiventare protagonisti. Il commento della Commissaria per i diritti umani del Consiglio d'Europa

16/12/2020 -  Dunja Mijatović
(Originariamente pubblicato dalla Deutsche Welle  , il 14 dicembre 2020)

Quando, venticinque anni fa, fu firmato l’Accordo di Dayton, in Bosnia Erzegovina si avvertì un grande sollievo. L’accordo di pace mise fine a uno dei capitoli più sanguinosi e bui della storia dell’Europa contemporanea. Grazie a quell’accordo, un’intera generazione è cresciuta senza dover nascondersi nei rifugi o temere di essere uccisi aspettando in fila per prendere l’acqua. Ma a parte questo, c’è ben poco di cui gioire.

Ancora oggi, a venticinque anni di distanza, la Bosnia Erzegovina è impantanata in seri problemi strutturali e funzionali. La Costituzione della Bosnia Erzegovina prevede un sistema politico e amministrativo complesso e costoso, il cui funzionamento è ostacolato da un’eccessiva tutela degli interessi etnici e da vari meccanismi che hanno permesso ai politici nazionalisti di porre il veto su alcune decisioni importanti che avrebbero potuto spingere il paese verso il progresso.

Tuttavia, la tendenza a scaricare tutte le colpe sull’Accordo di Dayton è solo una foglia di fico per nascondere problemi molto più gravi.

È vero che l’Accordo di Dayton ha creato un sistema complesso che deve essere riformato, ma la Bosnia Erzegovina non è l’unico paese ad avere una struttura istituzionale complessa. Il problema è che varie agende politiche tendono ad abusare del vero spirito della democrazia consociativa – caratterizzata da una condivisione del potere basata sulla collaborazione – introdotta dall’Accordo di Dayton, per trarne vantaggi politici.

Combattere la discriminazione
L’Accordo di Dayton ha fornito alcuni elementi chiave per costruire una società fondata sul rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto, compresa la diretta applicabilità della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la sua prevalenza su tutte le leggi [nazionali], la tutela costituzionale dei diritti umani e la nascita delle istituzioni per i diritti umani che hanno adottato alcune decisioni cruciali in materia di tutela dei diritti dei ritornanti e delle minoranze.

A impedire al paese di progredire è stata una visione politica profondamente radicata che continua a capitalizzare le persistenti tensioni etniche allo scopo di mantenere il potere e lo status quo discriminatorio.

Un esempio emblematico è quello del sistema elettorale. Con la sentenza Sejdić-Finci del 2009, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che il sistema elettorale della Bosnia Erzegovina è discriminatorio perché prevede che chi non appartiene a uno dei popoli costituenti, ovvero non soddisfa certi requisiti relativi all’appartenenza etnica e al luogo di residenza, non possa essere eletto alla Presidenza [tripartita della Bosnia Erzegovina] e alla Camera dei popoli. Undici anni dopo, quella sentenza, così come altre sentenze della Corte di Strasburgo sulla stessa questione, rimane lettera morta, principalmente a causa della mancanza di volontà politica.

Confrontarsi col passato
Ed è sempre la mancanza di volontà politica ad ostacolare il processo di confronto con il passato e di guarigione delle ferite ancora fresche. Persiste l’impunità per i crimini di guerra, migliaia di persone scomparse durante la guerra non sono ancora state ritrovate e i progressi nel garantire riparazione alla vittime civili della guerra sono ancora lenti.

L’attuale discorso politico è caratterizzato dal revisionismo, dalla negazione del genocidio e dalla glorificazione dei criminali di guerra, nonché dai tentativi di minare la legittimità del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. Persistono anche le divisioni etniche nell’istruzione, con un sistema scolastico basato sulla segregazione dove i ragazzi frequentano le cosiddette due scuole sotto lo stesso tetto o le scuole monoetniche.

Questi problemi allarmanti richiedono una svolta radicale nel modo di fare politica in Bosnia Erzegovina. Invece di usare le loro funzioni istituzionali per consolidare gli interessi privati, i politici dovrebbero affrontare la sfida di costruire una società più coesa e prospera. La risposta del sistema giudiziario al dilagare della corruzione è debole, portando all’aumento della sfiducia dei cittadini nella magistratura e rendendo loro incapaci di abituarsi all’idea di una società basata sullo stato di diritto, sul principio del giusto processo e sull’uguaglianza davanti alla legge. Inoltre, i cittadini sono preoccupati per la grave situazione economica, caratterizzata da un livello di qualità della vita e dei servizi pubblici estremamente basso.

I cittadini bosniaco-erzegovesi dovrebbero ispirarsi ai giovani. Gli studenti di Jajce lottano contro la segregazione nell’istruzione, mentre altri giovani stanno conseguendo risultati impressionanti nello sport, nella scienza e nell’ambito dell’impegno umanitario. Diverse organizzazioni non governative e singoli cittadini continuano a costruire ponti tra le comunità e a impegnarsi per superare le divisioni e l’odio che la guerra ha lasciato dietro di sé.

Queste iniziative devono essere sostenute. La comunità internazionale, in particolare l’Unione europea e il Consiglio d’Europa, devono sostenere pienamente le riforme istituzionali ed economiche in Bosnia Erzegovina. Devono sostenere le aziende e le iniziative dal basso che promuovono l’inclusione e appoggiare i difensori dei diritti umani nella loro tenace ricerca della giustizia e delle riparazioni.

Tuttavia, i principali protagonisti del futuro della Bosnia Erzegovina sono i cittadini e le istituzioni bosniaco-erzegovesi. Sono loro a dover impegnarsi con maggiore tenacia per contrastare le recrudescenze nazionaliste, per rafforzare le relazioni interetniche e la cooperazione, e per combattere la corruzione e il nepotismo.

L’Accordo di Dayton ha fornito la chiave per un futuro più luminoso. Ora spetta ai cittadini bosniaco-erzegovesi prendere il timone e portare avanti il paese.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Dicembre 17, 2020, 01:59:42 am
Tutte cose che la gente dell'Est si guarda bene dal dirci. Anzi, persino quando dicono "vado a Natale in Romania" usano un un tono, come se fosse il posto migliore del mondo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Duca - Dicembre 17, 2020, 07:50:25 am
Tutte cose che la gente dell'Est si guarda bene dal dirci. Anzi, persino quando dicono "vado a Natale in Romania" usano un un tono, come se fosse il posto migliore del mondo.
:lol:
Peggio ancora gli albanesi, che da quel che dicono sembra che la civiltà planetaria sia sorta tra Durazzo e Tirana.
Ora io non dico di denigrare la patria come fanno i sinistrati nostrani, però insomma c'è un limite a tutto...
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 17, 2020, 23:06:44 pm
Beh, non a caso in quasi sette anni di partecipazione in questo forum ho scritto spesso roba come questa.

https://www.questionemaschile.org/forum/index.php/topic,12074.15.html

Citazione
December 16, 2016, 20:39:07 PM »

 
Citazione
from: Sardus_Pater on December 16, 2016, 11:05:38 AM
Ora cosa diranno i soliti italodisfattisti :lol: ?

Gli italiani popolo esterofilo erano, popolo esterofilo sono e popolo esterofilo resteranno. :sleep:
In tal senso c'è ben poco da fare.
Una esterofilia, unita ad una abissale ignoranza - per quanto riguarda la realtà di altri paesi di questo disgraziato pianeta -, che li porta ad autoflagellarsi continuamente e a considerarsi, sostanzialmente, il peggior popolo del mondo.
Ad esempio: nella vita di tutti i giorni, quante volte ti capita di incontrare qualcuno che, spontaneamente, ti parla delle magagne e dei difetti di altri paesi?
Sbaglio se affermo che non ti capita mai ? *

Con questo non sto certamente asserendo che in Italia funziona tutto a meraviglia e che gli italiani son degli autentici campioni di lealtà, onestà, affidabilità, etc (magari fosse così).
No, affatto, poiché conoscono bene i miei connazionali e i loro inestirpabili difetti.
Ma da qui a credere che il resto del mondo, sia una sorta di eden, ce ne passa.

@@

* Io conosco personalmente solo due uomini che ragionano come me.
Per il resto, buio assoluto.

@@

Per inciso: nonostante provengano da paesi che in quanto a corruzione non hanno proprio nulla da invidiare all'Italia (anzi), stai pur sicuro che non sentirai mai un albanese, un romeno o un bulgaro, fare dei discorsi disfattisti ed esterofili nei confronti della propria patria e dei propri connazionali.
Di certo non li ascolterai mai in pubblico,
e in particolar modo se si tratta di albanesi.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Dicembre 18, 2020, 00:24:34 am
:lol:
Peggio ancora gli albanesi, che da quel che dicono sembra che la civiltà planetaria sia sorta tra Durazzo e Tirana.
Ora io non dico di denigrare la patria come fanno i sinistrati nostrani, però insomma c'è un limite a tutto...
Meno male che non ne ho mai conosciuti
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 26, 2020, 13:35:37 pm
https://www.eastjournal.net/archives/113869

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Orban alla conquista dei media in Slovenia e Macedonia del Nord
Andrea Zambelli 2 giorni ago

Lo scorso ottobre, investitori ungheresi hanno ottenuto il controllo del canale sloveno Planet TV per quasi 5 milioni di euro. Si è trattato dell’ultimo episodio in una serie di acquisizioni mediatiche in Slovenia e Macedonia del Nord da parte di uomini d’affari vicini a Viktor Orbán, come nota un’inchiesta di BIRN.

Gli uomini di Orbán acquistano media di destra in Slovenia e Macedonia del Nord

L’espansione ungherese nei media dei Balcani ha preso il via nel 2017 con l’acquisto della slovena Nova24TV, di co-proprietà di membri del Partito democratico sloveno (SDS) dell’attuale premier Janez Jansa. Vi ha fatto seguito il controllo di Nova obzorja, editore di Demokracija, settimanale politico di proprietà SDS.

Ugualmente, in Macedonia del Nord, gli investimenti ungheresi si sono concentrati sui media vicini all’ex premier Nikola Gruevski, un altro alleato politico di Orbán, prendendo il controllo dei siti web kurir.mk, denesen.mk e vistina.mk; di republika.mk e netpress.com.mk; e del canale AlfaTV. Una rete mediatica transnazionale che è stata accusata di favorire la diffusione di disinformazione e fake news contro il governo macedone di Zoran Zaev.

Le reazioni in Europa

Le mosse di questi investitori ungheresi vicini al partito Fidesz, che è ostile ai media indipendenti e ha già messo sotto controllo la stampa critica in patria, ha inevitabilmente causato preoccupazione.

Quattro eurodeputati – Kati Piri, Tanja Fajon, Tonino Picula e Andreas Schieder – hanno presentato varie domande alla Commissione europea, chiedendo se tali investimenti ungheresi nei media rappresentino un’interferenza nel processo democratico nei Balcani. Il 25 novembre il tema è stato discusso al Parlamento europeo, e la Commissaria europea alla giustizia Vera Jourova ha confermato che “è necessaria una maggiore trasparenza sulla proprietà dei media e una possibile concentrazione illegale dei media”.

Secondo Kati Piri, eurodeputata liberale olandese di origini ungheresi, “sappiamo tutti molto bene che gli oltraggiosi sforzi di propaganda di Orbán nella Macedonia del Nord e in Slovenia sono solo la punta dell’iceberg. Che sia a Bruxelles, Lubiana o Skopje, Orbán ha un solo obiettivo: minare l’Unione europea per il proprio guadagno personale”. Sempre secondo Kati Piri, Orbán “Ha cercato di rovesciare il governo del primo ministro Zoran Zaev, ha concesso asilo a Gruevski, sta cercando di impedire l’integrazione della Macedonia del Nord nell’UE”.

“Se è vero che aziende ungheresi vicine alla cerchia ristretta del premier Viktor Orbán in almeno un’operazione – parliamo di almeno 4 milioni di euro – hanno finanziato acquisti di media in Macedonia del Nord in vista delle elezioni per aiutare l’ex premier macedone Nikola Gruevski, si tratta di una grave interferenza nel processo democratico”, ha detto l’eurodeputata socialdemocratica slovena Tanja Fajon.

L’europarlamentare liberale slovena Irena Joveva ha sottolineato che il governo sloveno, senza sostegno pubblico, cerca di trasformare la Slovenia in una società illiberale, mette in pericolo i media e forma strutture parallele finanziate da Orbán per minare i valori fondamentali dell’UE.

D’altra parte Balazs Hidveghi, eurodeputato ungherese del partito Fidesz, ha affermato che tali società abbiano investito capitali nei media di altri stati membri esclusivamente a scopo di lucro, in linea con il principio di libera circolazione dei capitali, e che “non hanno nulla a che fare con la politica”.

Una situazione finanziaria stabile – ma cosa ci sta dietro?

I dati raccolti da BIRN confermano che i media di proprietà ungherese se la passano meglio dei concorrenti, a livello finanziario: il loro fatturato nel 2018 è stato di oltre 10 milioni di euro. I ricavi di AlfaTV in Slovenia sono esplosi da 27.400 euro nel 2017 a 640.000 euro nel 2019 (quelli del canale Sitel, il più seguito nel paese, sono scesi da 770.000 a 460.000 nello stesso periodo). Anche i ricavi del gruppo macedone sono triplicati.

Ma da dove arrivino i fondi che tengono a galla questi media non è chiaro. In Macedonia del Nord, i principali inserzionisti pubblicitari dei media orbaniani sono piccole aziende ungheresi che non esportano nemmeno nel paese balcanico. L’investitore ungherese Peter Schatz è finito sotto inchiesta per evasione fiscale in Macedonia del Nord per l’acquisto di AlfaTV. In Slovenia, la polizia ha confermato di avere aperto un’indagine.

Il precedente governo sloveno aveva nominato una commissione parlamentare d’inchiesta sul  sospetto finanziamento estero illegale della campagna elettorale dell’SDS nel 2018. Ma il nuovo governo sloveno in carica da Marzo 2020, guidato proprio dall’SDS di Janez Jansa, ne ha sostituito il presidente; i lavori da allora si sono arenati.

Un’impatto ancora limitato sulle società di Slovenia e Nord Macedonia

Dall’altra parte, tali investimenti non stanno ancora avendo un grande impatto. Secondo un’analisi della società Bakamo, commissionata da BIRN, i media di proprietà ungherese generano meno coinvolgimento rispetto alle loro controparti locali su argomenti come l’UE, la Russia, la Cina e lo stesso Orbán. Gli unici due argomenti in cui il pubblico si è coinvolto di più con i media collegati all’Ungheria riguardavano storie relative alla migrazione e alle comunità LGBT.

I media orbaniani tentano di farsi spazio nella sfera pubblica con una produzione di contenuti molto spinta, al limite dello spam, nel tentativo di aumentare la propria visibilità. E, almeno in Slovenia, sono riusciti a generare conversazioni più accese, con contenuti emotivamente più carichi, sempre secondo Bakamo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 26, 2020, 13:36:59 pm
https://www.eastjournal.net/archives/114147

Citazione
Natale 1979: Quando la Russia invase l’Afghanistan
Gianmarco Riva 2 giorni ago

La vigilia di Natale a Kabul è un evento speciale. Ogni inverno, da 41 anni a questa parte, la giornata viene ricordata come l’incipit di uno dei capitoli più bui della storia afghana. Fu infatti in quell’occasione che l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche ordinò al suo esercito di invadere il paese asiatico, dove sarebbe rimasto per quasi un decennio. Contrariamente alle aspettative, tale atto di veemenza si rivelò ben presto essere un’inane tragedia (raccontata anche dalla scrittrice premio Nobel Svetlana Aleksievič nel suo Ragazzi di zinco), uno sventurato “Vietnam russo”, a suo modo preludio della definitiva caduta dell’URSS.

L’antefatto

Prima che l’armata rossa fece incursione, la stabilità della vita politica afghana era garantita da un’armoniosa convivenza tra società civile e religione. Tuttavia, dal 1964 al 1978, tale equilibro fu rotto da una seria di colpi di stato che destrutturarono profondamente il tessuto sociale del paese. Il terzo di questi, noto con il nome di Rivoluzione di Saur, vide l’assassinio dell’allora presidente in carica Mohammed Daoud Khan e l’ascesa al potere del Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA), d’ispirazione sovietica. Con esso nacque la Repubblica Democratica d’Afghanistan: una nuova forma di governo socialista presieduta da Nur Mohammad Taraki, un uomo la cui politica di stampo marxista fu poco gradita alle autorità religiose.

Presi i poteri, il nuovo PDPA avviò un’importante campagna di secolarizzazione della società, mettendo fin da subito in atto un programma di riforme socialiste. All’interno di questo erano previste una politica agraria e significative innovazioni di matrice laica, tra le quali il riconoscimento del diritto di voto alle donne e il divieto dell’uso del burqa afgano. Tutto ciò si tradusse in un sentimento di generale malcontento da parte delle gerarchie ecclesiastiche, le quali non esitarono a organizzare un’opposizione armata contro il regime di Taraki. Il nuovo anno si aprì con ripetuti conflitti tra l’esercito e la resistenza dei mujaheddin – i cosiddetti “combattenti per la fede” – organizzata dagli islamisti afghani e supportata da Islamabad e Teheran.

Taraki venne destituito nel settembre dell’anno seguente con un golpe ordito dal suo rivale e primo ministro, Hafizullah Amin, il quale diede inizio a uno dei regimi più sanguinari nella storia del paese. Durante i primi mesi della sua presidenza, furono infatti eliminati quasi 10 mila oppositori politici, tra i quali numerosi esponenti di spicco della classe media borghese.

Mosca, l’invasone della vigilia di Natale

Le vicende interne afgane, così come i rapidi cambiamenti in corso nella regione – da un lato l’Iran, che in seguito a sconvolgimenti sociopolitici interni, si era da poco trasformato da monarchia a repubblica islamica sciita; dall’altro lato il Pakistan di Zia ul-Haq, filoamericano e intento ad abbracciare un processo di crescente islamizzazione – erano guardate con molta apprensione da Mosca. L’allora presidente del Comitato per la Sicurezza dello Stato (KGB) e i vertici militari iniziarono così a comprendere che un regime sanguinario come quello di Amin non poteva beneficiare del supporto sovietico.

A questo si aggiunsero i tentativi di modernizzare il paese adottati dal PDPA, i quali non fecero altro che approfondire le disuguaglianze fra la capitale e le aree rurali circostanti, alimentando ulteriormente i duri conflitti intestini in corso. Con l’approssimarsi della fine dell’anno la situazione degenerò e per non perdere il controllo del paese, la sera del 24 dicembre 1979, il Cremlino decise di intervenire direttamente nel conflitto. Ebbe così avvio l’Operazione Štorm 333, la quale segnerà l’inizio di una guerra decennale. Amin venne ucciso e giustiziato insieme alla sua famiglia e ai suoi ufficiali.

Conquistata Kabul, i sovietici posero Babrak Karmal a capo dello stato. Successivamente, nel 1986, egli verrà sostituto da Mohammad Najbullah, più vicino alle posizioni russe. L’azione di Mosca venne ampiamente criticata da molti paesi arabi ed europei, Stati Uniti in primis, i quali decisero infine di boicottare le olimpiadi russe del 1980 come gesto simbolico. Allo stesso tempo, tuttavia, essi erano consapevoli che da quel momento in poi l’opposizione islamica avrebbe avuto piede libero nel paese.

La sconfitta e il ritiro

Con l’intervento sovietico in Afghanistan iniziò una nuova fase del conflitto civile. Da un lato, il Cremlino auspicava che il regime mettesse sotto scacco i ribelli islamisti, i quali, a loro volta, erano sostenuti dagli Stati Uniti e dai paesi arabi del Golfo. Fu proprio per merito dell’aiuto delle forze internazionali che i gruppi di mujaheddin riuscirono di fatto a contrastare ogni tipo di offensiva da parte di Mosca. Alle difficoltà sul campo, quest’ultima dovette inoltre fare i conti con l’instabilità domestica di quel periodo: la fine dell’era Breznev, unitamente all’avvento del riformismo rampante di Michail Gorbačëv, furono infatti tra le principali cause del crollo dell’Urss.

Per quest’ultima, che contò circa 15 mila caduti, giungeva così al termine l’ultima prova di forza della sua storia. Per l’Afghanistan, invece, il cui bilancio ammontò a quasi due milioni di morti e a oltre 5 milioni di profughi, iniziava un periodo di profonda instabilità politica e di nuovi drammi. La decisione di Mosca di disimpiegarsi dal conflitto a partire dal 1987 non lasciò infatti alcuna prospettiva di crescita per il paese asiatico, creando le premesse per l’ascesa dei talebani nel 1996, i quali colmarono il vuoto politico che le truppe sovietiche avevano creato. A distanza di tre decenni, l’Afghanistan reca ancora su di sé i segni di una tragedia fra le più crudeli della seconda metà del XX Secolo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 26, 2020, 13:42:49 pm
https://www.balcanicaucaso.org/Media/Multimedia/Kosovo-governo-illegittimo-nuove-elezioni-anticipate

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Kosovo: governo illegittimo, nuove elezioni anticipate

Il Kosovo andrà alle ennesime elezioni anticipate dopo una sentenza della Corte costituzionale, che ha dichiarato decaduto l'attuale governo. Una decisione che conferma il clima di forte confusione politica nel paese. Francesco Martino (OBCT) per il GR di Radio Capodistria [24 dicembre 2020]

L'attuale governo kosovaro è illegittimo, ed entro quaranta giorni il paese deve andare a nuove elezioni anticipate. Con questa decisione, resa pubblica lunedì scorso, la Corte costituzionale di Pristina ha messo fine al travagliato esecutivo di Avdullah Hoti, in carica dallo scorso giugno.

L'attuale governo era nato col voltafaccia della Lega democratica del Kosovo, partito del premier, che aveva abbandonato l'alleanza col movimento Vetëvendosje per creare una nuova maggioranza, più incline ad approvare un accordo con la Serbiafortemente sponsorizzato dall'amministrazione Trump e firmato poi a Washington a settembre.

La fiducia al governo Hoti, dopo roventi polemiche, era infine passata in parlamento per un solo voto. Dopo un ricorso di Vetëvendosje, però, la Corte ha stabilito che uno dei parlamentari ad appoggiare la nuova maggioranza, Etem Arifi, non aveva diritto al voto, essendo stato condannato in via definitiva per truffa a quindici mesi di reclusione.

Con la caduta del governo la situazione politica in Kosovo si fa ancora più ingarbugliata, dopo che a inizio novembre il presidente Hashim Thaçi ha rassegnato le proprie dimissioni, dopo essere stato accusato di crimini di guerra dalla Corte Speciale sui crimini dell'UÇK.

La parola viene quindi data ancora una volta agli elettori, che si erano recati alle urne appena diciotto mesi fa. Allora la vittoria era andata a Vetëvendosje, che aveva promesso lotta alla corruzione e riforme. Oggi, dopo le complesse e controverse manovre politiche degli ultimi mesi, è però davvero difficile fare qualsiasi previsione su strategie e parole d'ordine della prossima campagna elettorale.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 26, 2020, 13:46:23 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Europarlamentari-in-difesa-delle-foreste-rumene-207367

Dice il solito italiano medio:
"Solo in Italia succedono certe cose!"
Ah no, cazzo!, siamo in Romania...

Citazione
Europarlamentari in difesa delle foreste rumene

Su iniziativa della tedesca Viola von Cramon, 83 membri dell'Europarlamento chiedono alla Commissione europea di agire perché si metta un freno al disboscamento illegale in Romania

21/12/2020 -  Paola Rosà
A qualche mese dall'avvio della procedura di infrazione del 12 febbraio scorso, nulla pare cambiato: il disboscamento illegale continua a deforestare vaste aree della Romania, anche zone protette dalla rete Natura 2000 e patrimonio UNESCO, mentre gli attivisti vengono intimiditi, denigrati e intimiditi. A denunciare la situazione, insieme a Greenpeace e a una ventina di associazioni raggruppate nella Federația Coaliţia Natura 2000 România, sono 83 europarlamentari che su iniziativa di Viola von Cramon hanno inviato una lettera ai commissari ad agricoltura, e ambiente, oceani e pesca.

Una lettera la cui pubblicazione sul sito dell'eurodeputata ha sollecitato una piccata replica dell'associazione dei taglialegna rumeni  , che scrivendo anche a tutti i firmatari accusano la von Cramon di aver manipolato un'ottantina di colleghi e di essere lei stessa vittima di una campagna di disinformazione orchestrata da un oligarca rumeno a capo di un'associazione ambientalista.

Ma gli interessi in gioco sono altri.

“Secondo stime di esperti, non meno di due terzi delle foreste primarie d'Europa sono in Romania. Ampie zone intatte nei Carpazi e sui monti Făgăraș sono sopravvissute finora, un patrimonio europeo, se non globale, di valore ambientale inestimabile”, scrivono gli europarlamentari, tra cui solo 4 sono i rumeni. Tra i firmatari, 17 sono i conterranei di Viola von Cramon, tutti del partito dei Verdi, così come dei Verdi sono i 3 italiani Ignazio Corrao, Rosa D’Amato ed Eleonora Evi, ma non mancano iscritti ad altri gruppi, dai popolari ai socialisti, di quasi tutti i paesi membri, dalla Polonia alla Francia, dall'Ungheria a Slovenia e Finlandia.

“Un'avidità senza scrupoli e una corruzione su larga scala hanno seriamente compromesso questi tesori europei ed abbiamo ormai poco tempo per adottare misure di tutela – prosegue la lettera – se non si agisce subito, le foreste sopravvissute saranno perdute per sempre. Dall'avvio della procedura di infrazione  il 12 febbraio 2020 sono stati devastati migliaia di altri ettari, che si aggiungono alle decine di migliaia di ettari già disboscati illegalmente negli anni precedenti. Si stima che almeno 80 milioni di metri cubi di legname siano andati perduti”.

Gli eurodeputati condividono la preoccupazione delle associazioni ambientaliste rumene che in un documento ricordano come in Romania il settore del taglio del legname non sia incluso nelle attività potenzialmente impattanti per l'ambiente, “per cui non servono permessi, tranne poche eccezioni nelle aree protette”. Aree protette dalla cui gestione, nel 2018, sono state escluse le organizzazioni ambientaliste. “Ci sono forti pressioni, e si delegittimano quelli che si oppongono”, riferisce anche Greenpeace.

Dal 2014, come si ricorda anche nella lettera inviata ai commissari europei, sono state uccise 6 guardie forestali e sono stati denunciati centinaia di casi di violenza ai danni anche di associazioni, ambientalisti e civili. La Romania è l'unico paese della UE dove vengono uccisi i difensori dell'ambiente.

“Mi preoccupano molto anche i sempre più numerosi attacchi alla società civile e a organizzazioni attive nella tutela delle foreste – riferisce Viola von Cramon in un comunicato – campagne di disinformazione e denigrazione, intimidazioni e minacce sono purtroppo pane quotidiano per gli attivisti in Romania. Questo deve finire”.

Molte delle aree in cui continuano le attività di disboscamento illegali si trovano in zone protette dalla rete Natura 2000 o sono patrimonio UNESCO, per cui a febbraio la Commissione aveva avviato una procedura di infrazione contro la Romania; ma la lampante inerzia del governo di Bucarest in questi mesi fa tornare la questione urgente.

“Il sistematico disboscamento illegale in Romania delle ultime foreste originarie sta causando enormi danni a questi ecosistemi, particolarmente importanti per la lotta al riscaldamento climatico. Incombe la minaccia di una distruzione irreversibile di un patrimonio naturale particolarmente prezioso, con un danno enorme alla biodiversità”, continua l'eurodeputata.

I paradossi in Romania non mancano: il budget dell'agenzia statale che si occupa della gestione delle foreste, la Regia Nationala a Padurilor, ad esempio, dipende dalla produzione di legname, il che costituisce un disincentivo a tutelare la biodiversità mentre si è portati a massimizzare la produzione di legname per finanziare l'apparato burocratico. Ma la devastazione e gli intrecci con la criminalità organizzata sono assodati, come emergeva da un video dello scorso aprile  in cui EuroNatur, Agent Green e ClientEarth fornivano alla Commissione elementi concreti di denuncia dell'inerzia – se non complicità – del governo di Bucarest. Governo che già a febbraio era stato chiamato a rapporto dalla Commissione Europea tramite la procedura di infrazione.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Dicembre 26, 2020, 13:49:21 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Azerbaijan/Azerbaijan-le-foreste-depredate-195540

E qui siamo in Azerbaijan.

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Azerbaijan: le foreste depredate

Ne avevamo scritto alcune settimana fa per la Croazia, ma accade anche in Azerbaijan. Le istituzioni non sempre sono in grado o vogliono difendere il proprio patrimonio boschivo. Con gravi conseguenze sul futuro del paese

25/07/2019 -  Aygun Rashidova,  Esmira Javadova
(Pubblicato originariamente da Chai Khana  il 25 giugno 2019)

La strada ci porta nel profondo della verdeggiante ed erbosa foresta che attornia la strada tra Gadik e Zargova, nel distretto azerbaijano nordorientale di Guba. La foresta sembra estendersi all'infinito, coprendo tutto attorno a noi. Ma anche qui, a distanza di chilometri dal villaggio più vicino, i segni del disboscamento illegale sono chiaramente visibili. La foresta è disseminata di tronchi di alberi e delle loro chiome tranciate. I ceppi morti sembrano corpi senza testa sparsi nella foresta.

Gadik, un villaggio nel distretto di Guba, dista 168 chilometri da Baku, capitale dell'Azerbaijan. Circa 150 famiglie vivono in questo villaggio pedemontano. Gli abitanti dipendono dalla foresta per il loro sostentamento. L'antico bosco protegge le riserve d'acqua, nutre i loro alberi da frutto e l'erba su cui il loro bestiame pascola. Oggi temono però per i loro boschi, e per la sopravvivenza e sicurezza della loro comunità.


Segni del passaggio di mezzi pesanti (Chai Khana)

Durante il periodo dell'Unione sovietica, foreste come quella di Gadik, erano protette dalle guardie forestali. Pattugliavano l'area e tenevano il disboscamento illegale a bada. Ora il sistema di controllo forestale è collassato e le comunità locali hanno iniziato a pattugliare loro stesse i boschi nel tentativo di proteggerli.

Rasul Mehraliyev, 54 anni, dal suo giardino vede bene il bosco. È tra chi effettua i controlli e conosce il paesaggio degli alberi e dei prati come casa sua. Ogni giorno percorre i sentieri del bosco cercando segni di disboscamento. Quando vede nuovi ceppi o tracce di pneumatico allerta le autorità. Mehraliyev ha notato negli ultimi tempi qualche miglioramento: prima c'era più deforestazione illegale per la costruzione di porte e mobili. "È diminuita un po' recentemente, forse perché i giornalisti ne hanno scritto molto. Inoltre dopo che abbiamo installato videocamere di sorveglianza la portata della deforestazione è calata", racconta.

Ma vi sono ancora parecchi segnali che portano a credere che il disboscamento persiste. Nel profondo della foresta, Merhaliyev fa notare - su un sentiero davanti a noi - i segni di ruote di grandi veicoli. "Guarda attentamente, queste tracce sono di automezzi pesanti. Guarda, questi rami sono stati tolti così che questi mezzi possano muoversi liberamente", dice.

Il governo ammette che il territorio coperto da foreste stia diminuendo. In particolare, il ministero dell'Ecologia ha evidenziato un peggioramento della situazione nei boschi dei distretti di Oghuz, Lerik e Guba. Secondo globalforestwatch.org  , organizzazione che utilizza le immagini satellitari per raccogliere i propri dati, l'Azerbaijan dal 2000 ad oggi ha perso 7000 ettari di alberi.

Tuttavia, gli ambientalisti segnalano che anche le immagini satellitari non illustrano pienamente il problema, in parte perché i sensori dei satelliti possono essere elusi da colori verde scuro, come paludi e laghi. "Le immagini satellitari inoltre segnano come foresta tutta la vegetazione più alta di cinque metri, ma potrebbero essere frutteti o parchi, non solo boschi", nota l'ambientalista Javid Gara.

Javid Gara, laureato in Politiche ambientali e gestione all'Università di Bristol, da quattro anni studia la situazione nelle foreste dell'Azerbaijan. A suo avviso le statistiche ufficiali non tengono conto della deforestazione illegale, quindi le cifre riguardo i boschi esistenti e la superficie boschiva sono artificialmente alte. In realtà, dice Javid Gara, i nostri boschi sono in uno stato decisamente peggiore. "Senza boschi vasti e sani, l'Azerbaijan soffre, e soffrirà molto di più, per alluvioni, desertificazione, siccità...", sottolinea Javid Gara. "Ho esplorato i boschi e le aree rurali per gli ultimi 4 anni e ho anche lavorato per dieci mesi nel Dipartimento per lo Sviluppo forestale come senior advisor sulla protezione ... La deforestazione è molto più grave di ogni analisi satellitare o cifra ufficiale".

Secondo Gara, i boschi dell'Azerbaijan si trovano ad affrontare tre sfide: il taglio raso, il taglio selettivo e gli incendi boschivi. "Il disboscamento è la più grande minaccia per le nostre foreste. [I taglialegna] scelgono gli alberi più in disparte e più grandi e questo è in realtà il tipo di disboscamento più facile da fermare. Se c'è la volontà politica, può essere fermato in pochi giorni", dice Gara.

Altre minacce, come il taglio selettivo per il legno da ardere e la produzione di carbone, sono risolvibili se il governo ha il volere di fare passi decisivi, dice. Per esempio, i villaggi dell'Azerbaijan come Gadik non hanno accesso al gas naturale quindi dipendono dal legno per scaldare le loro case in inverno. "Il taglio degli alberi per riscaldarsi è il più difficile da evitare, a meno che tutti questi villaggi e alcuni edifici statali come gli asili, le scuole, le caserme, etc. non vengano fornite di alternative possibili", dice Javid Gara.


Segni di disboscamento illegale (Chai Khana)

"Tuttavia esiste la possibilità di ridurre il suo impatto con una migliore gestione delle foreste e incentivando stufe a legna più efficienti. Idealmente, rendere l'elettricità e/o il gas molto economici nelle aree rurali, specialmente nei villaggi attorno e nelle foreste, diminuirebbe il consumo di legna combustibile".

Gli alberi vengono tagliati anche per fare spazio ai campi agricoli. "Per esempio, un compaesano ha dissodato alcuni ettari della foresta di Gadik per piantare patate. Sono rimasti i ceppi di alberi vecchi di 40-50 anni. Tutto perché qualcuno voleva fare dei soldi dal business delle patate", sospira Rasul Mehraliyev, un abitante del luogo.

Abbattendo parti della foresta, si stanno mettendo intere comunità a rischio, sottolinea l'ecologista Nizami Shafiyev. Gli alberi del bosco - spiega - in particolare i carpini, sono vitali per l'approvvigionamento di acqua delle comunità locali. I cittadini di Gadik si sono già lamentati dei problemi di approvvigionamento idrico e gli ambientalisti segnalano che la salute dei boschi e le riserve di acqua sono strettamente collegate.

Azad Guliyev, a capo Dipartimento dello Sviluppo forestale del ministero dell'Ecologia e delle Risorse naturali, dice che il ministero sta muovendo passi avanti per ridurre il disboscamento, incluse multe a persone colte ad abbattere illegalmente gli alberi. "Lo scorso anno il ministero ha firmato un memorandum col ministero degli Interni per effettuare dei blitz congiunti nelle foreste, rafforzando il controllo sul trasporto di legname con posti di blocco. L'obiettivo era di prevenire il trasporto illegale di materiali dalle foreste. Anche gli agenti di pattuglia del ministero degli Interni sono stati coinvolti", dice Guliyev.

Aggiungendo poi che videocamere di sorveglianza sono state installate nei boschi di numerosi distretti settentrionali nella catena del Caucaso: Zagatala, Sheki, Gakh, Oghuz e Gabala. Le videocamere tuttavia - secondo gli abitanti di Gadik - rappresentano una soluzione solo parziale. I singoli cittadini possono infatti essere dissuasi dalle multe, ma chi gestisce il business del taglio di legname illegale su ampia scala non lo è, nota l'ambientalista Shafiyev.

Se gli alberi tagliati vengono usati come legna da ardere, la multa ammonta a 5 manat [circa 2.6 euro] per metro cubo. Se l'albero è tagliato per ottenere del legno per ragioni commerciali, la penale può variare tra i 50 e i 150 manat [rispettivamente 26 e 79 euro circa] per metro cubo, in base al tipo di albero. L'ecologista Shafiyev aggiunge che queste multe non sono un deterrente per le grandi aziende. "Quelli che fanno queste cose hanno molti soldi e potere", dice.

Alla fine, sono le povere comunità locali che dipendono dalle foreste per il loro riscaldamento e per produrre il carbone che soffrono, sia per l'impatto ecologico del disboscamento illegale che per la debole risposta del governo per fermarlo, sottolinea Javid Gara. "Le persone povere lavorano in condizioni pericolose e malsane per guadagnarsi il pane e i ricchi uomini d'affari e gli agenti corrotti diventano sempre più ricchi. Il disboscamento illegale più intensivo ha luogo nelle regioni di Oghuz e Lerik, dove vi sono meno opportunità economiche che nelle regioni circostanti. In queste regioni, le foreste restano una fonte primaria di reddito per gli abitanti del luogo", chiosa.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 19, 2021, 00:47:00 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-i-giovani-vittime-dimenticate-della-pandemia-211195

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Romania: i giovani, vittime dimenticate della pandemia

Cătălina e Vladi appartengono alla generazione che non ha finito la scuola superiore seguendo il modus operandi classico, e poi ha dovuto affrontare questo “anno strano”, come dice Vladi. “L’anno universitario non ha avuto una vera fine e, allo stesso tempo, non ha mai avuto un vero inizio”

18/06/2021 -  Nicoleta Coșoreanu
(Pubblicato originariamente da Voxeurop  il 10 giugno, traduzione di Anna Bissanti)

Nel gennaio di quest’anno, quasi quattro mesi dopo aver iniziato a studiare Comunicazione e relazioni pubbliche all’università “Babeș Bolyai” di Cluj-Napoca, Vladimir Ciobanu ha finalmente potuto conoscere i suoi compagni di corso. È accaduto dopo che la sua amica, Cătălina Perju è andata a casa sua per tingergli i capelli di biondo – un cambiamento d’immagine radicale – e ha postato alcune foto su una story di Instagram. Vladi ha continuato a conversare con chi aveva commentato il suo post ed ha scoperto che una ragazza del suo corso viveva non lontano dal suo quartiere.

Vladi e Cătălina si conoscono dalle superiori: erano compagni di classe a Bucarest, sono diventati grandi amici e l’anno scorso hanno deciso di iscriversi insieme all’università di Cluj-Napoca. Cătălina studia giornalismo a “Babeș”. Solo due settimane prima che avessero inizio i corsi, però, i due hanno scoperto che la didattica del primo semestre sarebbe stata online a causa della pandemia, così come poi per il secondo semestre. Vladi aveva già preso in affitto un appartamento a Cluj-Napoca e ha deciso di rimanere, mentre Cătălina – che in un primo tempo aveva pianificato di sistemarsi nel campus – è tornata a Bucarest. “Avevamo previsto di essere insieme a Cluj sin dall’inizio e ci sembrava strano essere separati”, dice.

In Romania ogni università è stata libera di decidere se tenere lezioni in presenza o a distanza. La maggior parte ha scelto la seconda opzione. Se non altro, c’è stata una certa continuità rispetto alla scuole che non hanno fatto altro che alternare la didattica in presenza a quella online a seconda dell’instabile andamento epidemiologico. Quello che è certo, invece, sono i problemi di fondo del sistema universitario, messi in luce dalla situazione. Un problema particolare è stato quello della disponibilità di camere nei campus studenteschi. Ogni anno sono quasi 100mila gli studenti  che scelgono questa soluzione, perché si tratta di un’alternativa più economica rispetto all’affitto di appartamenti e, allo stesso tempo, offre maggiori possibilità di socializzazione.

A causa del Covid-19, la disponibilità di camere è stata fortemente ridotta per rispettare le norme sul distanziamento. Al “Babeș Bolyai”, per esempio, soltanto 1.800 camere su 6.700  erano ancora disponibili, la maggior parte delle quali era destinata agli studenti stranieri o chi frequenta i master e i dottorati di ricerca.

Gli studenti che avevano preso in affitto un alloggio prima della decisione degli atenei di tenere le lezioni online hanno perso i due mesi di caparra versati in anticipo. E molti hanno scelto di tornare a casa dai genitori.

Cătălina è riuscita a trovare una camera al campus soltanto nel febbraio di quest’anno. Dapprima non aveva voglia di decorarla, appendendo poster o spostando i mobili: le sembrava più un luogo di passaggio, un posto dove pernottare prima di tornare a Bucarest, nella casa dei genitori, dopo un tragitto di 6 ore in macchina oppure, peggio, un viaggio in treno di 12 ore. “Non ero del tutto presente o assente”, dice Cătălina. Sola e spaesata non sentiva suo quello spazio. È dagli studenti più grandi che ha sentito raccontare la “vera vita studentesca”.

“Tutti ti raccontano che è il periodo più bello della vita, quello più pieno di avventure. Quando poi non si vive nulla del genere, si resta delusi, soprattutto perché non dipende da noi”, dice ancora Cătălina. Per Vladi, il primo anno di università ha voluto dire solitudine e uno schermo da fissare. “Mi è sembrato quasi di aver comprato un paio di corsi online e di averli lasciati andare in sottofondo, oppure di ascoltare un podcast. Per me il primo anno di università è stato questo”.

Da una parte, alcuni insegnanti non hanno adeguato i loro metodi alla didattica online. Vladi continua a sentir raccontare dagli studenti di come sia brava una professoressa che ha l’abitudine di portare dei dolcetti e di divertirli con lezioni interattive, ma tutto ciò che ha potuto vedere, per ora, sono delle slide lette a voce alta su Zoom. Il seminario, dice, dura appena venti minuti. Cătălina sperava di poter scrivere articoli veri, invece ha dovuto adeguarsi a scrivere pezzi basati sui video di YouTube o i tg. “L’unica cosa che potevo fare era intervistare la gente nel centro commerciale e scrivere pezzi sulle nostre camere che venivano allagate dopo i temporali”, dice. 

Uno studio  fatto all'inizio della pandemia racconta che il 59 per cento degli studenti considerava i corsi online “peggiori” o “molto peggiori” di quelli in presenza. Tra le cause c’era la mancata interazione con i compagni e il fatto che gli studenti non potevano accedere alle biblioteche e dovevano svolgere più compiti da soli. Il 49 per cento ha avuto difficoltà a contattare il personale universitario per questioni amministrative e il 46 per cento ha detto che è stato più difficile comunicare con i professori.

Gli abusi dei docenti
Le lezioni online, però, hanno anche portato alla luce gli abusi dei docenti, accendendo un dibattito pubblico sulle loro responsabilità in campo educativo in Romania. Una professoressa dell’Università di Bucarest è stata licenziata dopo che sono circolati filmati nei quali insultava, umiliava e vessava i suoi studenti. Alla Facoltà di Medicina e farmacia di Bucarest è stata avviata un’inchiesta in seguito al caso di un professore che strillava e umiliava online i suoi allievi. Gli ex studenti di entrambi i professori hanno iniziato a raccontare di abusi che andavano avanti da anni.

È stato così possibile parlare, e documentare, il fatto che in Romania gli studenti hanno poca voce in capitolo, sia all’università sia nelle scuole di grado inferiore. Un altro studio condotto dal ministero dello Sport e della Gioventù dal 2018 al 2020 ha evidenziato un calo della fiducia da parte dei giovani nelle istituzioni dello stato, ma anche verso il prossimo. “La metà degli studenti più giovani pensa che sia meglio non fidarsi di nessuno e crede che nessuno si preoccupi della gente che ha intorno”, si legge nello studio. Questo circolo vizioso implica che le persone hanno minori probabilità di impegnarsi a livello sociale o per cercare di provocare un cambiamento.

Cătălina racconta una grande frustrazione per tante cose su cui non ha il controllo e, anche, il fatto che non le è stato chiesto niente in merito dall’anno scorso. All’epoca, stava terminando il liceo, ma non ha potuto esprimersi in merito alle modalità di attuazione degli esami nazionali. Lei e Vladi appartengono alla generazione che non ha finito la scuola seguendo il modus operandi classico, e poi ha dovuto affrontare questo “anno strano”, come dice Vladi. “L’anno scolastico non ha avuto una vera fine e, allo stesso tempo, non abbiamo avuto un vero inizio”, dice.

Questa generazione ha sperimentato un senso di perdita come nessun’altra. “Prima di tutto, questa sensazione ti cambia la realtà e poi perdura, ricordandoti quello che ti sei perso”, dice la psicologa Diana Lupu. Per la generazione di Vladi e Cătălina, non c’è stata una transizione alla vita universitaria. “Dove sono i momenti di congedo formale che ti permettono di iniziare un capitolo nuovo della vita?”.

Vladi sperava di poter entrare davvero in aula, per ascoltare un antipatico professore alle otto di mattina, una delle molte cose di cui si lamentavano le generazioni prima della sua della sua. “Ci eravamo immaginati feste, di conoscere tante persone. Nulla di tutto questo si è avverato. Quest’anno è stato per noi una sorta di anno incompleto”.

 Testo realizzato in collaborazione con la Fondazione Heinrich Böll – Parigi
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Giugno 19, 2021, 01:31:25 am
L'abbiamo capito tutti che gli mancano le feste. Anche se parla del prof., solo per dire che è "antipatico".
Che belli gli studi all'estero, vacanze-premio a base di festicciole per i futuri quadri inetti del sistema. Ricordo una di queste seratine insulse. Una coppia di dottorande spagnole, di sinistra ovviamente, esibivano un selfie in cui giocavano con pistole ad acqua.
Due fesserie "europee" imparate a pappagallo e op! inutile posto in ONG femminista o multinazionale assicurato. L'importante è tenere occupate le donne con qualcosa, fino ai 40.

Quasi non ce ne rendiamo conto, ma siamo una specie divenuta rara. Forse un giorno ci chiuderanno in qualche riserva, chissà.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Luglio 24, 2021, 12:48:12 pm
Dice il solito italiano medio:
"Ancora una volta abbiamo fatto scuola! Certe cose succedono SOLO in Italia!"
Ah no, cazzo, siamo in Moldavia...

https://video.corriere.it/esteri/moldavia-rissa-diretta-tv-un-dibattito-politico/e82a6d9c-ebbe-11eb-8dfd-2426b1e21c4f

Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 06, 2023, 21:04:04 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Grecia/Giornalismo-in-Grecia-la-sconcertante-eredita-di-George-Tragkas-223252

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Giornalismo in Grecia: la sconcertante eredità di George Tragkas
George Tragkas era un giornalista di spicco, scomparso nel dicembre 2021. La scoperta post mortem della rilevanza economica della sua eredità ha però scatenato forti polemiche sul ruolo e il potere dei giornalisti nel paese

02/02/2023 -  Mary Drosopoulos Salonicco
Rumoroso, euro-scettico, con opinioni ultra-patriottiche, George Tragkas era considerato una delle voci populiste più influenti in Grecia. L'esperto giornalista inveiva regolarmente contro potenti e istituzioni, che spesso accusava di cospirazioni volte a minare il futuro del paese e della sua gente.

Durante la famigerata "era dei memorandum sul prestito" e la crisi finanziaria che ha sconvolto la Grecia, Tragkas ha sostenuto fortemente il ritorno alla dracma. I suoi attacchi verbali all'allora cancelliera Angela Merkel sulle politiche finanziarie dell'Europa gli erano valsi una multa di 25mila euro, comminata dal Consiglio nazionale per la radio e la televisione della Grecia, ma anche una copertina sulla rivista tedesca Bild come il volto del "clima anti-tedesco in Grecia".

Durante la pandemia era poi diventato un convinto no-vax, sostenendo che il virus non esisteva. Tragkas è morto a dicembre 2021 a causa di complicazioni legate al Covid-19.

Un’eredità scomoda
Pochi mesi dopo la sua morte, i media locali hanno riferito dell'avventuroso recupero di un testamento manoscritto di quindici pagine che rivela beni strabilianti: depositi in varie banche per milioni di euro, lingotti d'oro e immobili del valore di molti milioni in Grecia, Europa e Stati uniti.

Le immagini delle lussuose proprietà di Tragkas a Monte Carlo, Nizza e Manhattan smentiscono la sua immagine pubblica di "Robin Hood" del giornalismo greco. L'annuncio del sequestro del patrimonio da parte delle autorità greche è stato il colpo di grazia.

Come emerso successivamente, tre mesi prima della morte di Tragkas era stata avviata un'indagine - in seguito ad una denuncia anonima - ma anche alla constatazione di una serie di operazioni incompatibili con i redditi dichiarati dal giornalista. Un rapporto di sessanta pagine pubblicato dall'Autorità Antiriciclaggio ha concluso che i beni del giornalista potrebbero essere il prodotto di attività illecite.

Alla luce di questi sviluppi, alcuni giornalisti locali hanno iniziato a ritrarre il giornalista - un tempo rispettato - come un ricattatore, temuto da molti a causa delle informazioni a cui aveva accesso.

Tra luci ed ombre
Sebbene avesse iniziato la sua carriera come editorialista sportivo ad Atene, Tragkas aveva acquisito notorietà nel 1988 seguendo le condizioni di salute dell'ex primo ministro Andreas Papandreou, ricoverato in ospedale a Londra.

I commenti sarcastici di Tragkas sulla nuova e molto giovane compagna di Papandreou, l'hostess Dimitra Liani, lo avevano portato ad essere attaccato e citato in giudizio da persone dell'entourage del premier. Negli anni successivi a questo episodio, Tragkas si era coltivato un'immagine di schietto eroe popolare, pronto a denunciare gli scandali e la corruzione di altre persone.

Tragkas aveva gradualmente acquisito un potere e un'influenza immensi. Dall'essere caporedattore di vari giornali era passato alla creazione di una propria stazione radio e sito Internet, pubblicando la propria rivista personale e persino fondando il partito politico di destra Popolo Libero.

Nel 2008, la pubblicazione di un elenco contenente gli importi di denaro spesi dal governo per scopi pubblicitari su diversi media ha mostrato che il giornale di Tragkas era stato il maggior destinatario di fondi pubblici, nonostante la modesta tiratura e scarso impatto. A questo segno di favoritismo erano seguiti altri episodi simili.

Il nome di Tragkas compariva nella famigerata lista Lagarde diffusa dal giornalista Kostas Vaxevanis nella sua rivista investigativa Hot Doc. L'elenco conteneva i nomi di oltre duemila potenziali trasgressori fiscali provenienti dalla Grecia con conti non dichiarati presso la filiale di Ginevra della banca svizzera HSBC.

Elenchi simili, presumibilmente forniti dall'ex ministro delle Finanze francese Christine Lagarde ad altri paesi europei per aiutarli a contrastare l'evasione fiscale, avevano innescato ovunque immediate indagini con risultati tangibili.

Non in Grecia: l'elenco era stato trattato come un dato rubato e tenuto segreto per due anni; l'ex ministro delle Finanze George Papakonstantinou era stato persino accusato di deliberata inazione. A pagare era stato invece Vaxevanis, in quello che è diventato uno dei casi più iconici di censura della stampa in Grecia.

Giornalismo e stereotipi
L'indagine in corso dovrà far luce non solo sull'ovvia questione di come il giornalista fosse arrivato a possedere milioni di euro, ma anche sulle circostanze che gli hanno conferito un potere così immenso, consentendogli di ricattare persone, manipolare le istituzioni e ingannare l'opinione pubblica.

Il caso di Tragkas incarna molti degli stereotipi negativi che la società greca associa ai giornalisti e ne consolida ulteriormente la sfiducia nei media. Un'indagine post mortem per corruzione significa che, indipendentemente dall'esito, rimarrà impunito.

Nonostante tutto, è indispensabile andare a fondo della questione se si vuole ricostruire la fiducia nell'istituzione e nella pratica del giornalismo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 06, 2023, 21:09:19 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Montenegro/Montenegro-nessun-progresso-nella-lotta-alla-corruzione-223316

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Montenegro, nessun progresso nella lotta alla corruzione

Nell’ultimo indice annuale di percezione della corruzione (CPI), pubblicato da Transparency International lo scorso 31 gennaio, il Montenegro ha perso una posizione rispetto al 2021, passando dal 64° al 65° posto. Nessuno stupore da parte della società civile locale, che incolpa l'attuale governo di non varare riforme

06/02/2023 -  Tina Popović
(Originariamente pubblicato sul quotidiano Vijesti  , 1 febbraio 2023)

Oggi in Montenegro la lotta alla corruzione è finalizzata alla promozione personale del premier ad interim Dritan Abazović, anziché alla realizzazione delle riforme a lungo termine che possano sopravvivere all’attuale legislatura.


Così Vanja Ćalović Marković, direttrice dell’ong MANS (Rete per l’affermazione del settore non governativo), ha commentato il fatto che nell’ultimo indice annuale di percezione della corruzione (CPI), pubblicato da Transparency International lo scorso 31 gennaio, il Montenegro ha perso una posizione rispetto al 2021, passando dal 64° al 65° posto su 180 paesi presi in considerazione.

Tra i paesi della regione, a segnare un aumento del livello di corruzione percepita sono anche la Serbia e la Bosnia Erzegovina, mentre in Croazia, Albania e Kosovo la situazione è leggermente migliorata.

“Questa situazione è conseguenza delle grandi aspettative riguardo alla possibilità che il cambio di potere [avvenuto in Montenegro a seguito delle elezioni politiche del 30 agosto 2020] potesse portare a risultati concreti e alla prontezza nel fare chiarezza sui casi di corruzione accaduti in passato. Ora è arrivata la conferma che non è stato raggiunto alcun risultato, o quanto meno alcun risultato concreto. Questo vale soprattutto per la nomina dei vertici delle istituzioni giudiziarie”, ha spiegato Ćalović Marković commentando il mancato progresso del Montenegro nella lotta alla corruzione.

Critiche simili sono state espresse anche nel rapporto di Transparency International che, nella sezione dedicata al Montenegro  , sottolinea il fatto che il paese non è riuscito a soddisfare le aspettative di un miglioramento del quadro istituzionale e giuridico relativo alla lotta alla corruzione, proseguendo nella tendenza a nascondere le informazioni al pubblico.

“Alcuni arresti per sospetto abuso d’ufficio e coinvolgimento in attività di criminalità organizzata, come quello dell’ex presidente della Corte suprema, fanno sperare che i peggiori criminali e i loro collaboratori non restino più impuniti. Tuttavia, la lotta per il potere politico, che ha paralizzato la Corte suprema, dimostra che la leadership al potere continua a compromettere l’indipendenza della magistratura, esercitando su di essa un controllo politico, e a minare gli sforzi compiuti nella lotta alla corruzione”, si legge nel rapporto di Transparency International.

Riforme in stallo
Vanja Ćalović Marković mette in guardia sul fatto che in Montenegro “la lotta alla corruzione, invece di mirare a realizzare riforme sostanziali, capaci di sottrarre le istituzioni [giudiziarie] all’ingerenza del potere politico, si sta trasformando in una tendenza populista, finalizzata alla promozione dei politici”.

“Credo che il punteggio [assegnato al Montenegro] nell’ultimo indice di Transparency International sia conseguenza anche delle prassi corruttive della nuova leadership al potere. Penso innanzitutto alla tendenza, ormai diventata molto diffusa, ad assumere persone sulla base della loro appartenenza a determinati partiti politici. Quello che l’opinione pubblica magari percepisce come un passo in avanti [nella lotta alla corruzione] nella maggior parte dei casi è funzionale al populismo e alla promozione politica dell’attuale premier ad interim. Anche quegli arresti non sono che la punta dell’iceberg. Si è limitati a scalfire la superficie, senza indagare a fondo sulle attività criminali compiute negli ultimi tre decenni”, sottolinea Ćalović Marković.

La direttrice di MANS è convinta che la maggior parte dei cittadini montenegrini aveva molto più alte rispetto a quanto fatto negli ultimi due anni. “Il primo rimedio a cui dovremmo ricorrere sono le nuove elezioni, in modo da poter avere un governo abbastanza stabile che dimostri la volontà politica di proporre vere riforme. Ovviamente, non bisogna dare per scontato che le nuove elezioni portino alla formazione di un governo stabile e disposto a compiere riforme. Quel che è certo però è che oggi un tale governo non c'è”, conclude Vanja Ćalović Marković.

Una classe politica irresponsabile
Mira Popović Trstenjak, coordinatrice del programma “Democratizzazione ed europeizzazione” presso il Centro per l’educazione civica di Podgorica, trova preoccupante il fatto che il Montenegro sia nuovamente sceso nella classifica della corruzione percepita, dopo che l’anno scorso aveva segnato un lieve miglioramento.

“Ovviamente, questo risultato non ci ha colti di sorpresa, perché da tempo ormai mettiamo in guardia su vari aspetti dell’arretramento [nella lotta alla corruzione], dalla tendenza [delle autorità] a limitare l’effettivo accesso alle informazioni – una tendenza con cui dobbiamo fare i conti nel nostro tentativo di vigilare sull’operato e sul processo decisionale dell’élite al potere – all’onnipresente propensione dei partiti politici a compiere manipolazioni nella gestione delle risorse pubbliche, soprattutto per quanto riguarda le assunzioni, passando per la mancanza di qualsiasi forma di controllo istituzionale dei rischi di corruzione e i tentativi di cancellare il principio della separazione dei potere, sottoponendo alcuni segmenti della magistratura a ingerenze politiche”, spiega Popović Trstenjak.

Stando alle sue parole, si ha l’impressione che l’attuale leadership al potere, all’epoca in cui era all’opposizione, abbia criticato la tendenza del DPS e dei suoi partner politici ad abusare delle istituzioni e delle risorse pubbliche non perché vi vedeva una cattiva pratica da cui distanziarsi, bensì per motivi legati ai propri interessi politici.

“Per questo la fiducia riposta nel nuovo governo – le cui promesse ad un certo punto hanno portato ad un miglioramento della posizione [del Montenegro] in questo indice di corruzione – ben presto si è esaurita. È infatti emerso che le promesse riguardanti il contrasto alla corruzione erano mera retorica. Nel nostro paese continuano a vigere doppi standard, siamo ben lontani da una società guidata da decisori politici responsabili. La ricerca condotta da Transparency International è importante anche perché avvalora gli sforzi delle organizzazioni non governative che, proprio perché criticano il potere, continuano ad essere denigrate, subendo pressioni e attacchi”, sottolinea Mira Popović Trstenjak.

L’ascesa dell’autoritarismo
Nemanja Nenadić, direttore di Transparency Serbia, spiega che ogni anno alcuni paesi salgono, altri scendono nell’indice di percezione della corruzione.

“In generale, siamo ancora molto indietro rispetto al resto del continente. La situazione, ovviamente, non è omogenea, ma il problema è che tutti i paesi della regione, compresi quelli che poi nel frattempo sono entrati a far parte dell’Unione europea, erano partiti da una posizione di grande svantaggio. Inoltre, non si è mai completamente sviluppata la consapevolezza della necessità di creare un sistema capace di produrre effetti a lungo termine nella lotta alla corruzione. Anzi, nella nostra regione, e purtroppo anche altrove, si assiste ad un'ascesa del potere autoritario, e questo di certo non è un ambiente favorevole ad una lotta alla corruzione che possa dare risultati destinati a durare nel tempo”, spiega Nenadić.

Per quanto riguarda la posizione della Serbia nell'indice di percezione della corruzione, Nenadić parla di “un decennio di stallo”.

“La posizione della Serbia è cambiata lentamente di anno in anno, poi quest’anno il paese è sceso di due punti. Se osserviamo un periodo più lungo, è evidente che non c’è stato solo uno stallo, ma addirittura una regressione. Ad esempio, nell’ultimo indice la Serbia ha perso sei punti rispetto al 2013. Quindi, è chiaro che assistiamo ad una tendenza negativa, che peraltro emerge da quasi tutte le ricerche sulla base delle quali viene elaborato l’indice di percezione della corruzione. Sarebbe molto difficile sostenere l’ipotesi secondo cui si tratterebbe solo di percezione e opinioni personali. Credo sia del tutto chiaro che abbiamo un problema non solo per quanto riguarda la corruzione percepita, ma anche relativamente allo stato dell’arte della lotta alla corruzione in Serbia e al funzionamento delle istituzioni che dovrebbero dare un contributo rilevante a questa lotta”, conclude Nemanja Nenadić.

In cima all’indice di percezione della corruzione stilato da Transparency International ci sono Danimarca, Finlandia, Nuova Zelanda, Norvegia, Singapore, Svezia, Svizzera, Paesi Bassi, Germania e Irlanda. Di questi paesi solo la Danimarca e l’Irlanda hanno migliorato la propria posizione rispetto al 2021. In fondo alla classifica invece troviamo Burundi, Corea del Nord, Haiti, Libia, Yemen, Venezuela e Somalia.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 18, 2023, 16:56:05 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/Il-ghetto-del-Kosovo-223536

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Il ghetto del Kosovo

Il regime dei visti UE ha portato i kosovari ad un insopportabile isolamento. A quindici anni dalla dichiarazione di indipendenza sono costretti a code interminabili, procedure umilianti e costi notevoli per ottenere un visto per i paesi UE. E non sempre ci riescono

17/02/2023 -  Aulonë Kadriu,  Vjosa Musliu
(Pubblicato originariamente da Kosovo 2.0  )

"Perché non usa un megafono?", chiede una donna di 73 anni in attesa insieme a una cinquantina di altre persone davanti agli uffici di Pristina di TLScontact, un centro internazionale per la richiesta di visti. Dal fondo della fila riesce a malapena a sentire l’addetto alla sicurezza che legge dei nomi da un foglio di carta. Quindi la donna tiene gli occhi sulla sua bocca, come molti altri che aspettano nervosamente in fila, tentando di leggere il labiale.

Viene chiamato un altro nome. "Sono io", dice un uomo, interrompendo il rumore silenzioso dei candidati che sfogliano i loro documenti e le loro cartelle. Tutti fanno spazio mentre lui si sposta in testa alla fila.

Gli altri aspettano. Si fanno domande a vicenda. "È la prima volta?" "Dove andare?" Alcuni chiedono consigli a chi è già stato qui.

Nonostante la stanchezza, c'è un senso di solidarietà. Le persone si danno consigli a vicenda e offrono posti di attesa più comodi agli anziani. "Buona fortuna", si augurano, convinti come sono che tutto dipenda dalla fortuna.

L’addetto alla sicurezza grida un altro nome, ma nessuno risponde. Alza la voce e ci riprova. L'urgenza della sua voce inquieta la folla.

Le persone escono periodicamente dall'edificio portando con sé buste che contengono il loro destino. La loro domanda di visto è stata approvata o respinta? Potranno visitare la loro famiglia? Andare in vacanza? Ricevere cure mediche all'estero? Alcuni fanno finta di niente e se ne vanno con la busta sigillata in mano. Altri la aprono con ansia non appena escono. Alcuni festeggiano e chiamano immediatamente i loro cari con la buona notizia. Altri hanno un'aria sconsolata e se ne vanno arrabbiati o storditi.

Tutti, tranne il Kosovo
"Il popolo di un Kosovo multietnico e democratico avrà il suo posto in Europa", si legge in una dichiarazione dell'Unione europea (UE) di pochi giorni prima del vertice di Salonicco del 2003. "I Balcani saranno parte integrante di un'Europa unificata".

L'UE ha parzialmente mantenuto questa seconda promessa nel 2010, quando i cittadini di tutti i paesi balcanici sono stati liberati dall'obbligo di visto, costoso e burocratico, per entrare nei paesi Schengen per un breve periodo. Tutti tranne il Kosovo. 

Solo in quell’anno l'UE ha fornito al Kosovo una tabella di marcia per i visti, ovvero i requisiti che il paese avrebbe dovuto soddisfare per ottenere l'esenzione dall'obbligo del visto nell'area Schengen. I paesi limitrofi avevano ricevuto i passi da compiere nel 2008 con 40 requisiti ciascuno, quella del Kosovo ne aveva invece 93.

Nel 2016 il Kosovo aveva spuntato tutte le caselle della tabella di marcia. Poi l'UE ha introdotto due nuovi requisiti: la ratifica di un accordo di demarcazione dei confini con il Montenegro e il miglioramento della lotta alla corruzione.

Nel marzo 2018, contro una forte opposizione, il parlamento del Kosovo ha ratificato l'accordo per la demarcazione dei confini e pochi mesi dopo la Commissione europea ha confermato che il Kosovo aveva soddisfatto tutti i parametri di riferimento. Ora spetterebbe al Consiglio europeo e al Parlamento UE adottare la proposta di abolizione del regime dei visti per il Kosovo, un passo che è stato continuamente bloccato, in particolare da Francia e Paesi Bassi.

Cos'è il codice dei visti?
Il Codice dei visti dell'UE  è stato istituito nel 2009 come insieme di regolamenti che dettano le procedure e le condizioni per i visti a breve termine per gli Stati membri. Nell'applicare il Codice dei visti, gli Stati sono tenuti a rispettare tutte le leggi dell'UE, compresa la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.

Al codice sono collegati due documenti allegati, i manuali sui visti I e II. Il Manuale Visti I riguarda il trattamento delle domande di visto e la modifica dei visti rilasciati. Il Manuale sui visti II riguarda la gestione amministrativa del trattamento dei visti e la cooperazione locale Schengen.

Sebbene i manuali non siano obblighi giuridicamente vincolanti, i contenuti si basano e fanno riferimento ad atti giuridici che "producono effetti giuridicamente vincolanti e possono essere invocati davanti a una giurisdizione nazionale". 

Mentre i kosovari devono superare infiniti ostacoli per recarsi negli stati dell'UE, il Kosovo ha simbolicamente accolto l'UE con tutto il cuore. Quando il Kosovo ha dichiarato l'indipendenza nel 2008, l'inno nazionale de facto era l’"Inno alla gioia", l'inno dell'UE e del Consiglio dell'UE. L'attuale inno del Kosovo è una canzone senza testo intitolata "Europa" e la bandiera nazionale è stata progettata per assomigliare alla bandiera dell'UE, un segno della volontà di integrazione europea del paese.

Sebbene l'UE incoraggi questa identificazione simbolica con l'Europa e ripeta il mantra che "il futuro del Kosovo appartiene all'UE", il suo regime di visti suggerisce il contrario. Alla fine del 2022, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno annunciato che il Kosovo avrebbe ottenuto la liberalizzazione dei visti entro il 2024. Ma la risposta del Kosovo è stata tiepida, visti gli anni di promesse non mantenute da parte dell'UE. Per oltre un decennio, i kosovari sono stati tra gli ultimi europei a dover affrontare procedure di richiesta del visto costose, lunghe e a volte arbitrarie per poter viaggiare in Europa. Con la recente esternalizzazione della concessione dei visti a breve termine a società private, vi sono ulteriori preoccupazioni riguardo alla privacy dei dati, ai costi aggiuntivi e alle violazioni del Codice dei visti dell'UE.

L'Ambasciata croata in Kosovo ha dichiarato a K2.0 di aver esternalizzato le richieste di visto a VFS perché "ha consentito un'elaborazione più rapida delle richieste di visto [e] ha migliorato gli standard di servizio per i richiedenti il visto".

Dal settembre 2022, i servizi per i visti della Germania sono stati esternalizzati alla società VisaMetric, registrata in Kosovo nel 2021. Secondo il loro sito web, gestiscono più di 100 centri per la presentazione delle domande di visto in 11 paesi.

Sebbene l'esternalizzazione sia stata fatta in nome dell'efficienza, molti kosovari trovano che l'attuale processo sia quanto mai confuso e scoraggiante. "Negli ultimi anni l'attesa si è prolungata. Negli ultimi due anni è stata una catastrofe", sottolinea Fitore Gashi, uno sviluppatore web che attualmente vive in Germania.

Una delle principali difficoltà è ottenere un appuntamento per il visto. Sebbene il Codice dei visti preveda che gli appuntamenti per il visto siano disponibili entro due settimane, i kosovari devono spesso aspettare almeno un mese, a volte anche cinque.

Nell'agosto 2022, K2.0 ha contattato TLScontact per chiedere un appuntamento. Nessuno spazio sino ad ottobre.

In una dichiarazione rilasciata a K2.0, l'ambasciata tedesca ha affermato che, dopo aver esternalizzato l'elaborazione dei visti a VisaMetric, i tempi di attesa per gli appuntamenti sono stati ridotti da sei mesi a due, un tempo comunque quattro volte superiore a quello previsto dal Codice dei visti.

L 'attivista LGBTQ+ Blert Morina ha avuto problemi a causa di questi ritardi lo scorso autunno, quando doveva partecipare a un incontro di difensori dei diritti umani in Svezia. Ha raccontato che, sebbene gli organizzatori dell'evento avessero scritto all'ambasciata svedese un mese prima della data di partenza, l'unico appuntamento disponibile era cinque giorni prima dell'inizio dell'incontro, lasciando poco tempo per ricevere una risposta e pianificare il viaggio di conseguenza.   

Il Codice dei visti prevede che i richiedenti ricevano una decisione sulla loro domanda entro 15 giorni, anche se a volte ci vuole più tempo.

Alla fine Morina ha ricevuto il visto, ma gli è stato comunicato con circa due ore di anticipo che avrebbe dovuto recarsi immediatamente da Pristina a Skopje, per ritirarlo presso l'ambasciata svedese nella Macedonia del Nord.

L'ambasciata svedese incolpa la pandemia da Covid per i ritardi nella concessione dei visti e afferma che "la maggior parte dei richiedenti riceve un appuntamento al VFS entro poche settimane". VFS non ha risposto alle domande di K2.0.

Eroll Bilibani, produttore e responsabile di DokuLab, il programma educativo del festival cinematografico Dokufest, ha dovuto affrontare numerose difficoltà per aiutare i suoi studenti ad accedere a eventi artistici e culturali nell'UE, proprio a causa dei ritardi nell'ottenimento del visto. Gli studenti di DokuLab, "non possono prendere decisioni spontanee per andare da qualche parte, per vedere qualcosa. Devono pianificare la partecipazione a una mostra con tre o cinque mesi di anticipo. Questa è davvero una grande discriminazione".

Ottenere un appuntamento per il visto è più facile per chi può permettersi di pagare per i servizi premium. VFS dichiara che, pagando un supplemento di 30 euro, i richiedenti possono presentare la domanda nel giorno di loro scelta, ricevere l'assistenza di un membro del team dedicato e presentare tutti i documenti mancanti nello stesso giorno. Un costo aggiuntivo di 12 euro consente ai richiedenti di presentare la domanda al di fuori del normale orario di lavoro. TLScontact e VisaMetric offrono servizi simili denominati "valore aggiunto" e "VIP".

Liri Hashani, 23 anni, ha scoperto a novembre che alcune di queste opzioni a valore aggiunto sono in realtà obbligatorie. Quando alla fine dell'anno scorso ha richiesto un visto tedesco a VisaMetric, è rimasta sorpresa dal fatto che, oltre ai normali 30 euro di costo del servizio, le è stato richiesto di pagare un ulteriore "servizio VIP" di 30 euro per farsi consegnare il passaporto a casa tramite corriere, nonostante volesse ritirarlo personalmente in ufficio.

Il Codice dei visti stabilisce che la tassa di servizio pagata a chi gestisce la domanda di visto non deve superare i 40 euro. Non è chiaro se l'obbligo di pagare 60 euro per il servizio e il corriere sia in contrasto con il Codice dei visti o meno. In ogni caso, i kosovari sono irritati dalla tassa aggiuntiva.

In uno scambio di battute su Twitter a proposito della struttura tariffaria di VisaMetric, Kaltrina Hoxha ha osservato sarcasticamente: "Vivo nello stesso edificio di VisaMetric, posso andarci in pantofole. Sempre 30 euro" [per il servizio di corriere].

In una dichiarazione rilasciata a K2.0, l'ambasciata tedesca ha affermato di aver approvato la decisione di VisaMetric di rendere obbligatoria la tassa per il corriere "al fine di massimizzare il numero di domande accettate ed elaborate evitando il sovraffollamento dei locali del centro visti".

Inoltre, il sito web di VisaMetric afferma che: "Per le domande di famiglia (coniuge e figli), la tassa di 30 euro deve essere pagata una sola volta. Quando si prenota un appuntamento, la tassa di 30 euro a persona sarà rimborsata per i restanti membri della famiglia il giorno della domanda". Un dipendente di VisaMetric ha parlato con K2.0 e ha detto che l'azienda incoraggia i dipendenti a non onorare questa promessa e a trattenere il rimborso.

K2.0 ha inviato a VisaMetric un elenco dettagliato di domande sulla questione, ma non ha ricevuto risposta.

600.000 domande di visto, 99 milioni di euro
Ottenere un appuntamento è solo il primo passo per richiedere un visto, un processo che comporta lunghe file e viaggi in diversi uffici per raccogliere i documenti richiesti.

Una volta arrivati al centro di richiesta, molti si lamentano di dover aspettare a lungo dopo l'appuntamento fissato per presentare i documenti. Morina e altri descrivono anche il personale del centro per la richiesta del visto come aggressivo e scortese. Per alcuni, le code interminabili e la generale mancanza di rispetto sottolineano la sensazione che l'UE voglia tenere fuori i kosovari.

TLScontact ha risposto alle nostre sollecitazioni dichiarando che cercano di accogliere i richiedenti in condizioni piacevoli e che le lunghe code sono dovute al fatto che i richiedenti "arrivano troppo presto agli appuntamenti". Secondo un dipendente di VisaMetric, i richiedenti sono spesso obbligati ad aspettare tre ore oltre gli appuntamenti previsti.

Richiedere un visto non costa solo tempo, ma anche denaro. Il costo stimato per una domanda è di 165 euro. Secondo gli ultimi dati dell'Agenzia statistica del Kosovo, il reddito medio mensile del settore pubblico in Kosovo è di 542 euro. Lo stipendio medio del settore privato è di 376 euro.

Tra il 2014 e il 2021, i kosovari hanno presentato circa 600.000 domande di visto Schengen. Al costo di 165 euro per domanda, in questi otto anni i kosovari avranno speso quasi 99 milioni di euro per richiedere visti a breve termine. In questo periodo di tempo, circa il 20% di queste domande è stato respinto.

I costi possono essere molto più elevati in casi come quello di Enduena Klajiqi. Sommando le spese per il visto per la Bulgaria, le spese di viaggio per Sofia e le spese per il visto per il Belgio, è arrivata a più di 500 euro.

Sebbene il Codice dei visti preveda l'esenzione dalle tasse per un'ampia gamma di visite culturali ed educative (in particolare per i minori di 25 anni), molti kosovari che ne hanno diritto finiscono per pagare comunque.

Esenzioni
Il Codice dei visti prevede l'esenzione dal pagamento dei visti per: bambini di età inferiore ai sei anni; studenti; studenti post-laurea e insegnanti accompagnatori che effettuano soggiorni per motivi di studio o di formazione; ricercatori che viaggiano per svolgere ricerche scientifiche o partecipare a seminari o conferenze scientifiche; rappresentanti di organizzazioni no-profit di età non superiore ai 25 anni che partecipano a seminari, conferenze, eventi sportivi, culturali o educativi organizzati da organizzazioni no-profit.

L'ambasciata svizzera ha dichiarato a K2.0 che TLScontact è responsabile della verifica dell'ammissibilità all'esenzione dai diritti di visto. L'azienda però sul proprio sito web non ha alcuna informazione sull'esenzione dai diritti di visto. L'ambasciata svizzera ha fatto notare che il Codice dei visti è disponibile al pubblico, nonostante non sia disponibile in albanese.

TLScontact ha dichiarato di non includere informazioni sull'esenzione dalle tasse sul proprio sito web perché si tratta di "decisioni prese dal nostro cliente governativo, non da TLScontact. Informazioni sono disponibili sul sito web del governo".

L'ambasciata svedese, per la quale è l’azienda VFS a elaborare i visti, ha dichiarato che "l'ambasciata si assicura che vengano pagate le tasse previste e che vengano applicate le esenzioni dalle tasse. L'ambasciata assiste il VFS in caso di richieste specifiche e si assicura che le tasse vengano rimborsate in caso di errore".   

Il sito web di VisaMetric contiene informazioni solo sull'esenzione dalle tasse per età.

Ciononostante, K2.0 ha parlato con diverse persone che avevano diritto all'esenzione dalla tassa, ma che hanno finito per pagarla. Dafina Fondaj, farmacista, ha pagato la tassa per il suo visto per recarsi all'Università di Lublino, in Polonia, per condurre una ricerca per la sua tesi di master, ricerca scientifica che il Kosovo non ha le strutture per sostenere. All'epoca aveva anche meno di 25 anni.

Flaka Rrustemi, che si è recata in Italia a 22 anni per partecipare a un festival attraverso una ONG, ha dovuto pagare il visto, insieme ad altri colleghi di età inferiore ai 25 anni. “Purtroppo, il nostro accesso alle informazioni è piuttosto limitato e gli impiegati dell'ambasciata non ci informano su queste cose", ha detto, riferendosi al fatto che il gruppo non sapeva di avere diritto all'esenzione dalle tasse.

Eroll Bilibani ha anche fatto notare che Dokufest invia kosovari di età compresa tra i 17 e i 20 anni in viaggi d'istruzione e scambi culturali nell'UE e ha dovuto pagare i visti per gli studenti coinvolti.

Visti di quattro giorni
Anche quando i kosovari ottengono un visto, a volte ne vengono rilasciati di durata inferiore a quella prevista dal Codice dei visti.

Il Codice dei visti stabilisce che "il periodo di validità di un visto per un ingresso comprende un 'periodo di grazia' di 15 giorni di calendario" e riporta un esempio di calcolo del periodo di grazia: "data di arrivo + durata del soggiorno + 15 giorni di 'periodo di grazia'".

K2.0 ha visionato visti concessi a kosovari da stati membri dell'UE con periodi di validità di sette giorni e durate di soggiorno fino a quattro giorni. Validità e durata del soggiorno troppo brevi possono essere fonte di ansia perché un volo cancellato o ritardato, o un altro evento imprevisto, può far sì che il titolare del visto superi il periodo di validità del visto Schengen, impedendogli di ricevere un visto in futuro.

Dardan Konjufca, un giovane del Kosovo, si è trovato di fronte a una situazione del genere quando il suo volo per Pristina dalla Germania è stato cancellato solo 10 minuti prima dell'apertura del gate. Konjufca non era preoccupato per i normali grattacapi associati ai voli cancellati, ma piuttosto per il fatto che il suo visto sarebbe scaduto il giorno successivo e che la compagnia aerea gli aveva offerto un volo alternativo solo due giorni dopo.

Mentre altri si preparavano a rimanere in Germania un po' più a lungo del previsto, Konjufca ha dovuto trovare un altro volo che partisse lo stesso giorno per non violare il suo visto, soprattutto dopo che un funzionario della dogana tedesca gli aveva ingiunto di lasciare immediatamente la Germania. Nonostante Konjufca abbia chiesto alla compagnia aerea di metterlo su un volo per lo stesso giorno, racconta che gli hanno risposto che non potevano farci nulla. È stato costretto a pagare un altro volo in partenza quel giorno. La compagnia aerea iniziale si è rifiutata di rimborsargli il volo cancellato perché gli aveva offerto un volo alternativo.

Blert Morina ha vissuto un'esperienza simile con un volo in ritardo. "Eravamo a un workshop di quattro giorni e la durata di permanenza nel visto era di quattro giorni. Il volo era in ritardo ed è stato molto stressante non sapere se saremmo riusciti a partire in tempo o meno", ha raccontato.

Altri subiscono la frustrazione di ottenere visti a breve termine, nonostante abbiano chiesto quelli a lungo termine. Donika Qerimi ha richiesto un visto nel 2018 per recarsi in Belgio per difendere il suo dottorato di ricerca. La difesa si svolgeva a dicembre e a gennaio, quindi ha richiesto un visto di più settimane che avrebbe coperto l'intero periodo. Ha ricevuto invece un visto per quattro giorni. Ha dovuto presentare un reclamo per ricevere un visto che coprisse l'intero viaggio.

Il sistema a cascata, che regola la durata dei visti, dovrebbe evitare che accadano cose del genere.

Quando i viaggiatori con un visto di breve durata hanno già dimostrato, in passato, di rispettare i termini dei precedenti visti Schengen, dovrebbero aver diritto a ricevere soggiorni con visti multi-ingresso sempre più lunghi.

Un visto per più ingressi, valido fino a cinque anni, può essere rilasciato ai richiedenti che dimostrino la necessità di viaggiare frequentemente o regolarmente, a condizione che dimostrino l'uso legittimo dei visti precedenti, la loro situazione economica nel paese d'origine e la loro reale intenzione di lasciare l'area Schengen prima della scadenza del visto.

K2.0 ha visto diversi passaporti kosovari con visti che non seguono il sistema a cascata. Ad esempio, sebbene Selmani, Bilibani, Qerimi e Morina abbiano dichiarato di recarsi regolarmente nell'UE da oltre un decennio, nessuno ha mai ricevuto un visto di cinque anni e ad alcuni sono stati concessi visti di breve durata, a volte anche di pochi giorni, dopo essere stati precedentemente in possesso di visti plurimi di lunga durata. 

Il sistema a cascata
Secondo “il sistema a cascata”, se un richiedente ha ottenuto e utilizzato legalmente tre visti nei due anni precedenti, ha diritto a un visto con un periodo di validità di un anno.

I richiedenti che negli ultimi due anni sono stati in possesso di un visto a ingresso multiplo con validità di un anno hanno diritto a un visto di due anni. Dopo aver utilizzato un visto a ingresso multiplo di due anni, i richiedenti hanno diritto a un visto di cinque anni.   

Bilibani ha dichiarato che, nonostante non abbia mai violato le regole sui visti e viaggiato spesso, gli è stato recentemente concesso solo un visto di sei mesi dopo averne posseduto uno di tre anni, un'apparente violazione del sistema a cascata.

Le ambasciate di Svizzera, Germania, Svezia e Croazia hanno dichiarato di applicare rigorosamente il sistema.

Anche ricevere un visto di breve durata viene vissuto come una vittoria, perché è comune che le domande vengano respinte su una base che sembra arbitraria.   

Morina è stato respinto cinque volte e dubita che riproverà a fare domanda.

Anche Bilibani è stato respinto una volta. Nel 2018 è stato invitato a parlare al Festival internazionale del cinema di Berlino - Berlinale, ma l'ambasciata tedesca gli ha negato il visto con la motivazione che mancava un documento.

I documenti mancanti sono una particolare piaga per i richiedenti il visto, perché l'obbligo di fornire "documenti relativi all'alloggio o la prova di mezzi sufficienti per coprire l'alloggio" può essere interpretato in modo soggettivo.

Il Codice dei visti stabilisce che quando gli esaminatori della domanda stabiliscono che non sono stati forniti documenti sufficienti, la domanda è irricevibile e l'organo di controllo deve immediatamente "restituire il modulo di domanda e tutti i documenti presentati dal richiedente, distruggere i dati biometrici raccolti, rimborsare i diritti per il visto e non esaminare la domanda".

Bilibani ha affermato che nel suo caso la procedura sopra descritta non è stata applicata e che il suo visto è stato esaminato e poi respinto.

Alcune persone hanno raccontato a K2.0 di esperienze in cui gli addetti al trattamento dei visti li hanno informati che alle loro domande mancavano di documenti, compresi documenti che non erano elencati da nessuna parte come documenti necessari per la domanda. È stata quindi offerta loro la possibilità di presentare il documento mancante pagando un costo aggiuntivo.

TLSContact e l’ambasciata svizzera negano che vi sia una tassa obbligatoria per presentare un documento mancante. VFS e VisaMetric non hanno risposto alle domande sulla questione.

I richiedenti la cui domanda viene respinta hanno il diritto di fare ricorso. Può essere un processo oneroso o costoso e ogni paese ha le proprie procedure. Mentre il ricorso contro il rifiuto di un visto da parte dell'ambasciata svizzera costa circa 200 euro, più del costo della domanda di visto, un ricorso in Svezia o Norvegia non richiede alcuna tassa. Un ricorso all'ambasciata croata costa 43 euro.

Protezione dei dati, trasparenza e privacy
Nel 2018 l'UE ha emanato il Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR), che offre ai cittadini e ai residenti dell'UE un maggiore controllo sulle modalità di raccolta, utilizzo e protezione dei loro dati. Regole rigorose richiedono ora alle organizzazioni di proteggere i dati personali che raccolgono attraverso misure di salvaguardia. Il GDPR dà inoltre ai cittadini e ai residenti dell'UE il diritto di recuperare i propri dati personali dalle istituzioni pubbliche e private.

K2.0 ha parlato con studiosi e attivisti specializzati nella governance pubblica e nelle questioni relative al GDPR, che hanno sollevato domande e preoccupazioni sull'accumulo e l'elaborazione dei dati di cittadini extracomunitari da parte di TLScontact. Chi possiede i dati medici, legali e finanziari delle decine di migliaia di kosovari che ogni anno fanno domanda di visto per l'UE attraverso TLScontact?

Prima dell'esternalizzazione dei servizi per i visti, i consolati o le ambasciate gestivano ogni parte del processo di rilascio dei visti. Ora sono aziende private ad avere il compito di gestire e proteggere i documenti e le informazioni sensibili necessarie per ottenere un visto, che, a seconda del paese, possono includere dettagli sullo stato di salute, risparmi bancari e numeri di conto, condizioni di salute mentale, orientamento sessuale e altro ancora.   

La Svizzera, che gestisce le domande per molti paesi dell'area Schengen, non è membro dell'UE e non è tenuta a rispettare il GDPR. Tuttavia, TLScontact, che gestisce l'elaborazione dei visti in Svizzera è una società dell'UE ed è quindi tenuta a rispettarle anche quando tratta con cittadini non UE come i kosovari. L'ambasciata svizzera ha dichiarato a K2.0 di rispettare il GDPR in tutte le fasi del processo di richiesta del visto e TLScontact ha affermato che tutti i dati raccolti dai richiedenti il visto "sono completamente criptati e inviati a server governativi sicuri, prima di essere eliminati dai nostri sistemi".

Una componente chiave delle salvaguardie del GDPR è che i cittadini e i residenti dell'UE devono essere pienamente informati su come verranno utilizzati i loro dati. K2.0 ha posto delle domande alle ambasciate degli stati membri dell'UE in Kosovo che sono rappresentate da TLScontact, VFS o VisaMetric su come utilizzano esattamente i dati dei richiedenti. I pochi che hanno risposto hanno dichiarato in generale di prendere sul serio la sicurezza dei dati e di aderire al GDPR durante l'intero processo di richiesta del visto.

Tuttavia, un dipendente degli uffici di VisaMetric a Pristina ha dichiarato a K2.0 che c'è poca attenzione alla protezione dei documenti fisici e dei dati dei richiedenti nel processo di trasporto delle domande da e verso l'ambasciata tedesca e poi ai richiedenti attraverso il servizio di corriere. Secondo questo dipendente, le procedure poco rigorose hanno portato alla perdita di documenti o passaporti dei richiedenti. VisaMetric non ha risposto a una richiesta di commento.

Le preoccupazioni sulla privacy e sulla protezione dei dati sono state al centro delle proteste di alcuni politici e attivisti in Germania quando il paese ha annunciato nel 2017 l'intenzione di iniziare a trasferire l'elaborazione delle domande di visto a società private.

K2.0 ha parlato con Thomas Tombal, un ricercatore dell'Università di Tilburg nei Paesi Bassi che si occupa di questioni relative alla protezione e alla governance dei dati, delle informazioni fornite a K2.0 da TLScontact. Ha espresso preoccupazione per il fatto che non indicano che tipo di dati utilizzano i governi dell'UE o per quale scopo.

"In queste risposte [di TLScontact], molte cose si perdono nella traduzione: non si capisce quali siano le responsabilità del garante pubblico - dell'ambasciata - dell'azienda privata, e la legislazione in vigore dove si opera", ha detto Tombal.

Sebbene TLScontact abbia dichiarato a K2.0 di "non vendere i dati personali raccolti dai richiedenti il visto", sul suo sito web si legge che trasferisce "alcuni dati personali a paesi, territori o organizzazioni che si trovano al di fuori dello Spazio economico europeo". Non è chiaro di chi siano i dati trasferiti, su quale base legale e a chi.   

Le preoccupazioni per la privacy vanno oltre le leggi arcinote sulla protezione dei dati, ma i tentativi di opporsi possono influire negativamente sulle possibilità dei richiedenti di ottenere un visto. Quando Eroll Bilibani si è visto rifiutare il visto per partecipare alla Berlinale nel 2017, il suo visto è stato respinto perché si è rifiutato di consegnare gli estratti conto bancari, mostrando invece i rendiconti finanziari dell'organizzazione culturale che copriva il suo viaggio. "Ho presentato gli estratti conto della nostra organizzazione perché le nostre spese sono coperte dall'organizzazione", ha detto, "quindi non c'è motivo per cui l'ambasciata dovrebbe voler sbirciare i miei risparmi personali. È una violazione della privacy ed è degradante".

Alcuni kosovari si lamentano anche delle violazioni della privacy nella parte personale del processo di candidatura. Quando Fitore Gashi ha fatto domanda per un visto di ricongiungimento familiare per andare in Germania, ha dovuto presentare la prova dell'impiego e dello stipendio del marito come parte della documentazione. L'impiegato che stava esaminando la sua pratica ha detto: "Wow, che bello stipendio ha tuo marito. Dove lavora?".

"È una domanda che non avrebbero mai dovuto farmi. Non sono affari loro", sottolinea Gashi, che nonostante si sentisse offesa per la violazione della sua privacy, era consapevole di non essere libera di non consegnare questi documenti sensibili né di contraddire l'addetto ai visti.

Dopo aver richiesto un visto per la Grecia, anche Driton Selmani ha vissuto un'esperienza strana che ha sollevato questioni di privacy. Come tutti i richiedenti, ha dovuto fornire la prova dell'alloggio, in questo caso prenotando un hotel per il suo soggiorno. Ma a un certo punto, poiché il suo visto aveva un periodo di validità di tre mesi, ha scelto di posticipare il suo viaggio di una settimana e di prenotare nuovamente un altro hotel. Poco dopo, ha ricevuto una telefonata scioccante dall'Ufficio di collegamento della Grecia a Pristina che gli chiedeva perché avesse cancellato la prenotazione dell'albergo. "È stato come se qualcuno fosse entrato nel mio letto proprio tra me e mia moglie", ha raccontato.

K2.0 ha contattato l'Ufficio di collegamento greco a Pristina in merito all'incidente, ma non ha ricevuto alcuna risposta.

"La privacy è un diritto umano, sancito da importanti leggi europee e internazionali. Se alcuni governi dell'UE negano questo diritto ai cittadini extracomunitari, stanno dicendo che i cittadini extracomunitari non sono esseri umani e quindi non meritano questo diritto", ha dichiarato Aral Balkan, un attivista informatico che vive in Irlanda.

Guardando al futuro
Il 14 dicembre 2022, lo stesso giorno in cui i leader del Kosovo hanno firmato la domanda di adesione all'UE, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno raggiunto un accordo per "concedere al Kosovo la libertà di visto a breve termine". L'accordo prevede che l'esenzione dal visto venga applicata al più tardi entro il 2024, dopo l'implementazione del Sistema europeo di informazione e autorizzazione ai viaggi (ETIAS), un sistema di controllo delle frontiere dell'UE.

Dopo anni di disinteresse e di eterni ritardi nella tabella di marcia per la liberalizzazione dei visti, dopo anni di rifiuti arbitrari delle domande di visto, di violazioni del Codice dei visti e di decine di milioni spesi in tasse, i kosovari sono per lo più esausti del processo. A parte l'attesa di uno o due anni, ora sembra che ben poco si opponga all'accesso all'esenzione dal visto per i viaggi nell'UE e nella zona Schengen. Ma le speranze dei kosovari sono già state deluse in passato, e l'accoglienza alla notizia recente è stata tenue. In molti ritengono che si sia effettivamente ormai vicini, ma per loro è troppo tardi.

Nel frattempo, i kosovari continueranno a sforzarsi di capire cosa dice l’addetto alla sicurezza fuori dai centri privati di gestione dei visti a Pristina. Almeno per il resto di quest'anno, continueranno a organizzare cene di festeggiamento quando riceveranno visti a breve termine e le cartomanti specializzate in questioni di visti - che lanciano incantesimi di buona fortuna sui passaporti - continueranno a fare affari.

"Dov'è il tuo invito? Dove andrete? Quanto tempo vi fermerete? Quanto denaro ha con sé?". Blert Morina ricorda che gli agenti di polizia gli pongono queste domande ogni volta che entra nell'UE. Ha deciso che se dovrà recarsi nell'UE a breve, lo farà solo se un'organizzazione che lo ha invitato si occuperà della procedura di richiesta: è troppo frustrato per affrontare di nuovo questa procedura da solo, per poi essere trattato come un criminale alla frontiera.

Fino al giorno in cui il regime dei visti non sarà abolito, persone come Eroll Bilibani rimarranno stordite dai loro viaggi. Durante il suo ultimo viaggio in Germania, all'arrivo in aeroporto è stato fermato da un agente di polizia e gli è stato detto di tirare fuori i contanti per dimostrare che poteva coprire le spese. Questo è accaduto nonostante avesse un visto e fosse stato invitato da un'organizzazione che copriva la maggior parte delle sue spese. "Devi avere un bagaglio di documenti per convincerli che sei abbastanza bravo per loro", ha detto. Anche se la liberalizzazione dei visti sembra essere in arrivo, l'UE ha abbandonato i kosovari a vivere in, come ha detto Bilibani, "un ghetto, un vero ghetto".
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 18, 2023, 17:06:09 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Ucraina/Ucraina-la-lotta-femminista-non-si-ferma-con-la-guerra-219387

Citazione
Ucraina, la lotta femminista non si ferma con la guerra

Come sta cambiando il quadro delle rivendicazioni sociali e politiche femministe, ma anche il ruolo delle donne nella società dell'Ucraina in guerra? Ne abbiamo parlato con l'attivista Viktoriia Pihul del collettivo anticapitalista "Sotsialnyi Rukh"

19/07/2022 -  Francesco Brusa,  Piero Maestri,  Elisabetta Michielin
Se la guerra in Ucraina inizia a prendere sempre meno spazio sulle pagine dei giornali e nei servizi televisivi, non per questo le condizioni di chi si trova “sul campo” migliorano. Anzi, mano a mano che il conflitto militare si configura sempre di più come una guerra d’attrito sulla linea del Donbass, per la popolazione (non solo ucraina) si aggiungono nuove e pressanti crisi da affrontare: la scarsità di cibo e medicinali, nuove tensioni sociali, battaglie per i diritti dei lavoratori, l’assistenza alle numerose persone dislocate e ferite, ecc.

Oltre a contrastare l’invasione, insomma, c’è un grosso “lavoro di cura” che deve essere portato avanti e che vede una forte mobilitazione civile all’interno del paese, in particolare da parte di gruppi e collettivi femministi. Ce lo spiega Viktoriia Pihul, attivista femminista che in questo momento si trova a Kyiv, membro del collettivo anticapitalista Sotsialnyi Rukh (“Movimento sociale”) e impegnata nella difesa dei diritti delle donne e sindacali. È fra le redattrici del manifesto “The Right to Resist”, di recente pubblicazione. Le abbiamo chiesto di raccontarci la “stratificazione” del conflitto nel contesto ucraino e di provare a immaginare quali prospettive possano darsi per il futuro.

Cosa significa vivere in guerra ed essere femminista e donna? In che modo la guerra e la cultura militarista e patriarcale agiscono sulla condizione femminile?

Da più di quattro mesi sto vivendo l'esperienza della guerra su me stessa, osservando i miei parenti, i miei conoscenti e anche quelli che non conosco. Definirei la nostra vita in questo periodo come un processo di lotta per la vita stessa. Veniamo infatti derubati di un bisogno umano fondamentale: la sicurezza. Ogni giorno andiamo a dormire senza sapere se domani noi e i nostri cari avremo una casa, del cibo, un tetto sopra la testa e, soprattutto, una vita. E poi riprendiamo a fare le solite cose al suono delle sirene antiaeree, dei razzi che volano sopra le nostre teste e delle bombe che esplodono. Anche una delle canzoni più popolari nelle classifiche musicali ucraine di YouTube si chiama "У мене немає дому", che significa "Non ho casa".

Ma la guerra non è solamente il conflitto manifesto. La guerra è l'aggravarsi di tutti i problemi aperti presenti anche in precedenza nella vita pubblica, politica e sociale. È dentro un tale processo che vorrei parlare del ruolo delle donne, perché anch'esso ha assunto nuove forme. I ruoli di genere stanno cambiando in Ucraina. Con la disoccupazione di molte persone e l'arruolamento soprattutto degli uomini nelle Forze armate ucraine, le donne riferiscono di aver assunto nuovi ruoli e molteplici lavori per compensare la perdita di reddito familiare.

Allo stesso tempo le donne trascorrono sempre più tempo con i loro figli perché questi si dedicano all'apprendimento a distanza. Decidono anche di rimanere nei territori occupati per prendersi cura dei genitori anziani o di altri. Oppure hanno paura di perdere le loro fonti di reddito. Così, sono sempre più a rischio di violenza, sia da parte dei russi che nei contesti domestici, di abusi psicologici. Ci sono infatti già notizie (non statistiche, purtroppo, perché è quasi impossibile fare ricerca sociologica durante la guerra) di un aumento del livello di violenza domestica. Quando le donne si rivolgono alla polizia per sporgere denuncia, gli agenti alzano le mani e dicono che "non è il momento" di occuparsene.

Probabilmente la ratifica della Convenzione di Istanbul  potrebbe influenzare la soluzione di questo problema. Ma è importante ricordare che l'Ucraina l'ha adottata con emendamenti e restrizioni per garantire il consenso con i conservatori e la Chiesa. In altre parole l'Ucraina si è riservata il diritto di non modificare la Costituzione, il Codice di famiglia e altre leggi adottate in precedenza. Pertanto, tutto dipenderà dall'effettiva applicazione della Convenzione nella realtà.

Quali altri settori sociali stanno subendo le conseguenze del conflitto?

Il governo ucraino ha approvato leggi che limitano i diritti di lavoratrici e lavoratori: in primo luogo prevede la possibilità di rifiutare gli accordi collettivi con i sindacati (e questo viene già messo in pratica nelle imprese); in secondo luogo i datori di lavoro possono costringere a lavorare di più senza un accordo sindacale; ancora, viene previsto un sistema di licenziamento semplificato. Gli scioperi e le manifestazioni sono vietati. Dato che le donne sono ora costrette a lavorare di più, questa legge le riguarda direttamente. Questa legge era stata preparata prima della guerra ma ora è un momento molto opportuno per approvarla, mentre l'attenzione dell'opinione pubblica è completamente spostata sul conflitto.

In generale c'è un'opinione diffusa per cui questo non è il momento di criticare le politiche interne del governo, di affrontare le questioni di genere, comprese le quote di genere in politica, di affrontare il problema della violenza domestica, della disuguaglianza nel pagamento dei salari. Ma sappiamo che è impossibile rimandare tali questioni. Altrimenti questo nodo si stringerà ancora di più.

Il ruolo delle femministe rimane importante, come lo era prima della guerra. Ma io penso che il nostro compito sia quello di lavorare con le donne, ascoltando e prestando attenzione ai loro pensieri e alle loro esigenze. Nella società ucraina c'è un certo stereotipo secondo cui le femministe sono “giovani ragazze pazze” che non hanno sviluppato una vita personale e odiano gli uomini. Questa è una debolezza, ma ci si può lavorare. Per me il nostro ruolo di femministe è quello di stare con le donne, aiutarle a superare i momenti più difficili, capire le loro esigenze, aiutare e dimostrare che ci battiamo davvero per i nostri diritti.

È importante aiutarle a comprendere l'enorme contributo che le donne hanno dato alla sopravvivenza dell'Ucraina: il loro lavoro sul fronte domestico, la fornitura di aiuti umanitari, il volontariato, la cura dei bambini e degli anziani, la fornitura di servizi medici e di altro tipo. Fanno tutto questo e spesso lo danno per scontato. La visibilità delle donne è molto importante ma sono le donne stesse che devono rendersene conto per prime.

Com'è cambiato il vostro impegno e cosa nelle vostre pratiche? Quali conquiste o livelli di dibattito rischiano di retrocedere e quali spazi potenziali si possono aprire?

Prima della guerra le femministe e coloro che hanno lottato con noi per i diritti e la visibilità delle donne hanno in gran parte svolto un lavoro di sensibilizzazione: corsi, programmi ed eventi educativi; organizzazione di azioni, marce, ecc. Ora questo lavoro si sta trasformando e gli aiuti si concentrano principalmente sulla sopravvivenza e sul sostegno umanitario: cibo, vestiti, alloggi, medicine.

Questo porta a una sorta di contraddizione: da un lato, il movimento femminista si sta avvicinando alle donne, ascoltando le loro voci. L'aspetto positivo per i diritti è che le donne sono in prima fila e più impegnate negli sforzi umanitari della comunità, offrendo agli attori umanitari l'opportunità di cercare la partecipazione e la guida al  femminile. Credo sia molto importante concentrarsi su questo aspetto: le donne sono coinvolte in processi molto importanti che permettono agli ucraini di vivere e sopravvivere nelle retrovie.

D'altra parte molti problemi vengono considerati, come ho già detto, come posti nel “momento sbagliato” e questo rende possibile perdere le conquiste del passato. E ciò che le donne stanno facendo ora per vincere può essere trascurato nel discorso pubblico, anche perché in questo momento tutta l'attenzione è concentrata sulle operazioni militari e sul ruolo degli uomini. In questo senso, anche il contributo femminile al fronte sarà meno evidente. In altre parole la disuguaglianza nella rappresentazione dei ruoli femminili e maschili non scompare durante la guerra, ma anzi aumenta.

A ogni modo, vedo uno spazio potenziale per il lavoro femminista attraverso l'attivismo di base e il lavoro con le donne per costruire coesione, consapevolezza della nostra visibilità e ulteriore lotta per la partecipazione politica. Per esempio le quote di genere, la promozione e l'attuazione della Convenzione di Istanbul, che è stata ratificata il mese scorso in Ucraina, il lavoro sul problema della violenza domestica, la creazione di case di accoglienza per le donne con il sostegno diretto di psicoterapeuti.

Tutto questo potrà essere realizzato quando le donne porteranno avanti i loro interessi e supereranno lo stereotipo secondo cui tutto viene fatto da alcuni grandi personaggi della politica e loro non decidono nulla.

Quali forme e relazioni di resistenza state portando avanti dopo quattro mesi di guerra? Come pensate che sarà il dopoguerra e come vi state preparando, anche rispetto ai rischi di crisi sociale interna (pericolo di crescita dei nazionalismi, indebitamento)?

Sono volontaria presso l'organizzazione sociale "Sotsialny Rukh  ". Fin dal primo giorno di guerra abbiamo iniziato a lavorare per i diritti sociali in modo molto capillare. Siamo consapevoli che la ricostruzione postbellica dell'Ucraina sarà un percorso molto lungo e complesso. Solo ora le perdite ammontano a diversi miliardi di dollari, la guerra è ancora in fase attiva e la distruzione continua ogni giorno. Attualmente il debito estero dell'Ucraina ammonta a 125 miliardi di dollari, la spesa per il servizio del debito per il 2022 dovrebbe essere di circa 6,2 miliardi di dollari. Si tratta di circa il 12% di tutte le spese del bilancio statale. La componente del FMI di questa somma è di 2,7 miliardi di dollari. Ciò equivale a 16,5 milioni di pagamenti medi di pensioni in Ucraina.

Una delle nostre campagne principali è quella per la cancellazione del debito estero dell'Ucraina per ridurre l'onere sul sistema finanziario. Oltretutto questo debito è ingiusto: l'indebitamento caotico e la condizionalità antisociale del debito sono stati il risultato di una completa oligarchizzazione, per cui non volendo combattere i ricchi, i governanti dello Stato hanno continuato a indebitarsi sempre di più. I prestiti sono stati emessi con la condizione del taglio alla spesa sociale e il loro rimborso ha costretto i governi a risparmiare sulle necessità vitali e ad applicare l'austerità ai settori economici fondamentali. Per saperne di più sul debito estero, sul perché è importante cancellarlo e per firmare la petizione, è possibile visitare il sito web  creato dai nostri attivisti.

Ci battiamo anche per i diritti di lavoratrici e lavoratori. In questo momento siamo attiv* con il progetto chiamato "Трудоборона  "/"Difesa del lavoro". Tutt* possono raccontare il proprio caso di violazione dei diritti, come licenziamenti (ci sono casi in cui si viene licenziati anche via messenger) e altro. Il nostro avvocato consiglia e aiuta, attraverso gli aspetti legali, a tutelare i diritti di lavoratrici e lavoratori. Ci sono anche casi di cause vinte in tribunale. Tra questi racconti ci sono le storie di donne che sono state licenziate illegalmente e che hanno lottato fino all'ultimo in quanto hanno la responsabilità di provvedere ai loro figli ed essere disoccupate è una tragedia in condizioni di guerra.

Abbiamo lanciato una campagna per impedire la liberalizzazione del diritto del lavoro prevista nel disegno di legge 5371, che distrugge essenzialmente i diritti di lavoratrici e lavoratori delle piccole e medie imprese (che sono il 73% delle imprese private). La legge contrasta con le norme dell'UE e dell'OIL ed era stata stata rinviata grazie alla protesta dell'opinione pubblica, almeno fino allo scoppio della guerra. Stiamo anche lottando per le dimissioni di Galina Tretiakova - capo del Comitato della Verkhovna Rada dell'Ucraina per la politica sociale e la protezione dei diritti dei veterani - che ha promosso questa legge prima della guerra e ora ha approfittato della legge marziale e del cambiamento di orientamento per approvare questa stessa legge. Gran parte del lavoro consiste anche nella collaborazione con i sindacati, tra cui il sindacato "Будь як Ніна"/"Difesa del lavoro", che tutela i diritti delle lavoratrici del settore sanitario perché le infermiere stanno perdendo il posto di lavoro, i loro stipendi sono stati tagliati e così via.

Per noi è importante che la guerra non diventi una scusa per imporre restrizioni sociali alle persone, perché saranno loro a ricostruire l'Ucraina.

Quali rapporti avete con altre associazioni? Quali risposte hanno dato le donne e le minoranze alla difesa armata e/o civile e quali differenze intercorrono tra le due?

Tutte le rappresentanze delle organizzazioni femminili e delle minoranze sono favorevoli alla difesa armata, perché il pacifismo astratto non funziona di fronte all'invasione russa. Inoltre sono attivamente coinvolte nella lotta: trovano aiuti umanitari, medicine (anche per le persone trans), creano rifugi e aiutano le donne con bambini a trovare o lavorare come babysitter. In più, donne e minoranze fanno parte delle forze armate e combattono in prima linea.

Vorrei anche ricordare che la Russia e la sua propaganda ritengono che tutti i movimenti sociali, compresi quelli delle donne, siano una sorta di "agenti dell'Occidente". Per questo motivo noi (attiviste) non abbiamo motivo o intenzione di rinunciare alla lotta. Non possiamo semplicemente deporre le armi, perché questo porterebbe a una catastrofe su scala globale. Il punto è che abbiamo il diritto di difenderci e lottiamo per la nostra libertà.

Avete rapporti con altre femministe nei Paesi dell'Europa orientale o occidentale? Cosa pensi della posizione di chi nel contesto della situazione ucraina si pronuncia a favore della “diserzione di tutte le guerre”?

Sono attiva nell'ENSU  (European Network of Solidarity with Ukraine) che ha costituito un gruppo di lavoro di femministe provenienti da diversi Paesi europei. Siamo anche in contatto con le femministe di Defensorías de género in Argentina e lavoriamo attivamente anche con il partito polacco Razem. Per esempio, nel nostro gruppo di lavoro abbiamo creato insieme una petizione per chiedere la legalizzazione dell'aborto in Polonia  , perché molte donne ucraine che hanno subito violenza dall'esercito russo e sono rimaste incinte sono fuggite dalla guerra in Polonia e in quel paese non hanno il permesso legale di abortire. Per questo motivo è un tema importante non solo per l'Ucraina, ma anche per l'agenda femminista globale.

Abbiamo letto e ascoltato molte dichiarazioni pacifiste delle femministe occidentali, compreso il loro manifesto. Di fronte alla guerra e alla morte quotidiana delle nostre donne e dei nostri bambini, siamo critiche nei confronti di questa posizione. In questo contesto faccio parte di un gruppo di lavoro di femministe ucraine che ha scritto il Manifesto delle femministe ucraine. Chiediamo di sostenere le donne ucraine, compreso il nostro diritto alla resistenza armata. Questa guerra ci mette di fronte alla consapevolezza che il femminismo è un movimento che deve rispondere alle situazioni che cambiano, essere flessibile e sviluppare i principi in base alle nuove condizioni.

Cosa chiedete alla sinistra europea antiliberista e antiautoritaria, ai movimenti sociali, alle femministe? Cosa possiamo fare per sostenere i vostri sforzi e il vostro impegno nella resistenza civile?

Il nostro obiettivo principale ora è vincere questa guerra. Dobbiamo essere consapevoli che potrebbe essere un processo lungo e non rapido come speriamo. In questo senso sosteniamo la politica estera in termini di fornitura di armi, sanzioni e confisca dei beni russi. Ciò che è fondamentale per la vittoria è non lasciare che la guerra e tutti i terribili eventi in Ucraina scompaiano dall'agenda mondiale. Se al contrario tutti si abituano - sarà più difficile per noi sopravvivere e il problema diventerà solo nostro. E questo è un rischio anche per il mondo.

In questo momento il nostro lavoro è legato alle campagne che ho descritto sopra. Abbiamo molto bisogno di sostegno per promuovere la campagna per l'annullamento del debito estero perché questo per anni ha avvantaggiato sia le organizzazioni finanziarie internazionali sia le élite ucraine, ma non il popolo ucraino, ed è servito come mezzo per limitare lo sviluppo dell'Ucraina, un modo per confinarla alla periferia dell'Europa. Questo processo deve cambiare perché l'Ucraina sta ora combattendo per la sicurezza di tutta l'Europa e sta dimostrando il suo diritto di essere parte di questa unione. Perciò abbiamo bisogno di dare visibilità a livello europeo alla questione della liberalizzazione della legislazione sul lavoro perché l'Ucraina ha intrapreso un percorso di integrazione europea e la violazione di lavoratrici e lavoratori è inaccettabile anche da questo punto di vista.

Noi vogliamo l'integrazione europea, ma quella con i sindacati europei, i movimenti dei lavoratori e le iniziative di base. Dobbiamo dimostrare che la disuguaglianza e i conflitti di classe irrisolti sono pericolosi per la sicurezza mondiale quanto la tirannia. Non si tratta di una questione interna ai singoli Paesi. La disuguaglianza e le relative violazioni dei diritti sociali delle persone dovrebbero essere causa di vari tipi di restrizioni internazionali tanto quanto la tirannia e le violazioni dei diritti umani.

Sappiamo che hai partecipato da poco a una conferenza femminista. Di cosa si trattava e quali sono le tue considerazioni e aspettative? Siamo molto interessat* a sapere come si è svolto il dibattito e se ci sono campagne o azioni comuni…

Sì, di recente ho partecipato al Forum femminista di Lviv, organizzato dal Fondo ucraino per le donne. Tra le mie aspettative c'era lo sviluppo di iniziative comuni e, forse, accordi per collaborare a diverse iniziative femministe. In effetti al forum erano presenti rappresentanti di diverse posizioni. È stato interessante conoscere il pensiero di altre donne riguardo la direzione che sta prendendo il nostro lavoro, quali sono i problemi che vedono e le loro soluzioni.

Ad esempio, insieme abbiamo identificato le principali tendenze che vivono le donne: l'influenza della religione sull'identificazione dei movimenti femministi, lo sviluppo del movimento solo a livello di base, l'insufficiente influenza sul processo decisionale, il lavoro non ben consolidato con i governi locali, la mancanza di uguaglianza nelle forze armate ucraine, la violenza di genere e la violenza domestica che rimangono elevate (compreso il fatto che le donne sono economicamente dipendenti e non sanno o hanno paura di cercare aiuto nelle iniziative femministe a causa degli stereotipi).

In generale le partecipanti hanno condiviso le loro esperienze e osservazioni sul fatto che il femminismo come movimento in Ucraina si trova chiaramente in una posizione migliore oggi rispetto a 10 anni fa. Ad esempio la ratifica della Convenzione di Istanbul è un grande passo in avanti e rappresenta il risultato della lotta delle donne negli ultimi 10 anni, anche se quando la questione è stata sollevata nessuno nel governo ha detto che si trattava di una decisione dovuta alla lotta delle donne e che semplicemente era piuttosto di un passo verso le richieste informali delle istituzioni europee per ottenere lo status di candidato all'UE.

Penso dunque che dobbiamo continuare a lavorare per passare dall'attivismo di base all’essere un vero e proprio movimento politico. Tuttavia per me questa due giorni è stata più che altro una riunione teorica, che è anche importante, ma non sono sicura che possiamo trasformare le basi comuni in un'azione coordinata in mezzo alla guerra. In ogni caso ognuna ha preso per sé alcuni pensieri e idee che può sviluppare nella propria organizzazione di riferimento o iniziativa di base in cui è attiva.


Citazione
Lorenzo Casesa
6 mesi fa
Se non ci fossero gli uomini Ukraini che muoiono ogni giorno come mosche per proteggere e difendere le loro donne e la lorò terra, voi donne femministe sareste già state uccise e stuprate dal nemico.
Rispettate i vs uomini che vi difendono e smettete di spargete misandria. Fate pena. Ma perché non andate voi a combattere invece di mandare sempre e solo gli uomini?
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Massimo - Febbraio 18, 2023, 18:58:45 pm
Da notare, caro Frank: sono per la resistenza al nemico, ai russi ma si guardano bene dal rivendicare il diritto per le donne di imbracciare le armi e andare a combattere. Vogliono fare i lavori di cura nei quali la pelle non si rischia. Gli stessi lavori di cura che criticano quando c'è la pace appunto perchè nei lavori di cura non si guadagnano stipendi e non si fa carriera (a meno che una non vada a lavorare in qualità di infermiera negli ospedalo o nelle case di cura per anziani). Allora bisogna protestare e protestano quando c'è la pace e le donne sono confinate a quei ruoli. Ma se c'è  la guerra, dove si rischia di morire al fronte o di essere feriti in modo grave e tale da diventare per sempre disabili,  i lavori di cura invece vanno benissimo. Già!
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 24, 2023, 01:16:53 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Margo-Rejmer-Bucarest-polvere-e-sangue-223506

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Margo Rejmer: Bucarest, polvere e sangue

Un libro sul passato e presente di Bucarest, dove si intrecciano destini e vissuti dolorosi di una società che ancora non è riuscita a fare i conti con il trascorso comunista. Un’intervista

23/02/2023 -  Gentiola Madhi
“Bucarest, polvere e sangue” della scrittrice polacca Margo Rejmer – edito da Keller Editore  - è un viaggio nella capitale delle contraddizioni, dove si vaga costantemente tra il caos urbano, l’anarchia delle auto in movimento e l’incontrollabile energia di chi la abita. Le cronache che compongono questo lungo reportage offrono al lettore una città in continua transizione, passando attraverso luoghi fisici, ideologia politica e destini incrociati. La fluida narrazione di Rejmer permette di comprendere le circostanze storiche, le conseguenze dei dettati assurdi del regime di Ceaușescu, i traumi inflitti sulla popolazione e la lenta lacerazione del tessuto sociale.

Cosa rappresenta Bucarest agli occhi di una scrittrice polacca?


Ho l'impressione che le persone che vivono a Varsavia, una città che è stata spazzata via durante la seconda guerra mondiale, idealizzino l'immagine della città perduta, la città che le è stata sottratta. Questa nuova, ricostruita Varsavia è una ragazza poco attraente, ordinata, con un grembiule pulito, che si sforza molto: lucida le poche risorse che ha, pensa in modo pragmatico solo per avere una vita decente senza grandi aspirazioni. Bucarest è per certi versi l'opposto di Varsavia: è anziana ma al tempo bellissima, amara ma ancora piena di fantasia. Varsavia mi sembra a volte noiosa e razionale, Bucarest è sgargiante e imprevedibile. Un brio e un coraggio architettonico, un eccesso di stili: Bisanzio e Gaudì orientale, postmodernismo totalitario e Oriente. A prima vista, nulla vi si adatta, e la bellezza è nascosta dietro le pareti. Rispetto a quella polacca, l'architettura comunista romena è ridimensionata, sproporzionata, travolgente nelle sue aspirazioni, persino brutale. Ma per capire Bucarest, bisogna vedere tutti i suoi strati. A "Bucarest" la complicata storia della Romania si riflette nella straordinaria diversità architettonica della città.

Il libro è ricco di cronache di vita sotto l'era di Ceaușescu, lei ha dato voce ad esperienze che non avevano voce. È stato difficile ottenere la fiducia dei suoi interlocutori e raccoglierne i ricordi?

La ricerca in Romania è stata molto più facile rispetto al mio successivo lavoro in Albania. Nonostante i romeni abbiano una storia traumatica e la frase "per favore non citi il mio nome" era il ritornello di molte conversazioni, ho avuto l'impressione che mi abbiano accolto con benevolenza. Come se fossero pronti a raccontare le loro storie e aspettassero solo che qualcuno li ascoltasse. Ho trovato facilmente personaggi interessanti e ho creato nuove cerchie di amici. Quando sono arrivata in Romania, mi è sembrato di capire la realtà in modo intuitivo. Nel caso dell'Albania, il primo anno ho girato a vuoto, rimbalzando su muri. Nessuno voleva parlarmi del passato. Dovevo imparare a pensare come gli albanesi per capire la portata della loro sfiducia nella società.

Rompere il legame tra i cittadini istigando dubbi e paure era una pratica ricorrente durante il comunismo nei paesi dell'Europa orientale. Quali conseguenze hanno lasciato queste cicatrici sull'evoluzione della società romena di oggi?

La Romania non ha mai fatto i conti con il proprio passato. Dal 1989, le istituzioni  sono state controllate da gruppi eredi dei comunisti o associati al sistema precedente, quindi non c'è alcuna pressione da parte delle élite per fare i conti con il passato. La Securitate, la polizia segreta, aveva una grande influenza sulla vita delle persone, eppure non è mai stata chiamata a rispondere delle sue attività. La mancanza di conoscenze storiche e di discussioni istituzionali sul passato favoriscono la mitizzazione del comunismo e la profonda disillusione nei confronti dei politici porta all'inaspettata popolarità del mito di Nicolae Ceaușescu. Oggi, più del 60 percento dei romeni ritiene che Ceaușescu sia stato il miglior presidente della storia della Romania. "Avrà anche commesso degli errori, ma almeno dava lavoro e dignità alla gente. E adesso? Anche se siamo parte dell'Unione Europea cinque milioni di persone hanno lasciato il paese: è questa la vita migliore?". Il 52 percento dei romeni concorda con l'affermazione che la Romania ha bisogno di un uomo forte che non guardi al parlamento quando governa il paese.

Nel libro c'è un passaggio in cui si dice che “la libertà è come l'aria: quando ce l'hai non senti di averne bisogno, ma quando ti manca cominci a soffocare”. Cosa significa la libertà per le nuove generazioni di romeni?

Oggi la libertà ha aspetti pragmatici, è associata ad un senso di autorealizzazione, al diritto di decidere per sé stessi e all'influenza della società civile sulla vita politica. Fino a che punto una persona comune è in grado di fermare o limitare le patologie del potere scendendo in piazza? Dal 2013, enormi proteste di piazza, con centinaia di migliaia di persone, hanno attraversato la Romania, contro la corruzione, la degenerazione dei politici e contro chi depredava il paese. La società civile è riuscita a salvare la regione di Rosia Montana dallo sfruttamento e dalla distruzione e, dopo l'incendio del club Colectiv, le proteste di massa hanno dato il via a una grande discussione sulla corruzione e sulle patologie del servizio sanitario. Ma ora l'opinione pubblica è profondamente stanca. I nuovi politici entrati nel governo sull'onda delle proteste sociali non si sono rivelati efficaci come ci si aspettava, e anche intorno a loro ci sono state accuse di corruzione. I romeni non si fidano né del presidente, né del parlamento, né del governo. Per molti, libertà significa il diritto di lasciare il proprio paese per trovare un posto migliore in cui vivere.

Quali sono i suoi prossimi progetti per i lettori italiani? Qualche nuova pubblicazione a breve?

Keller Editore è prossimo a pubblicare il mio libro di saggistica sull'Albania comunista, “Fango più dolce del miele”. Al momento sto lavorando a una raccolta di brevi racconti sui Balcani e, una volta terminata, tornerò a scrivere un altro reportage sull'Albania contemporanea, “Ditë të bukura na presin” (Belle giornate ci aspettando, n.d.)
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 24, 2023, 01:22:48 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Aladin-Hodzic-ritornare-a-camminare-222567

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Aladin Hodžić, ritornare a camminare

Aladin Hodžić, oggi 32enne, nel 1994 venne colpito da una granata e subì l’amputazione di una gamba. Grazie a un video-reportage realizzato nel 1995 da un giornalista italiano, si mosse una rete solidale: venne accolto in Italia per essere curato e qui rimase a vivere. Lo abbiamo incontrato

22/02/2023 -  Nicole Corritore
Nell'agosto del 2022 il fotoreporter Robert Belošević, dopo averci già provato per anni attraverso una testata croata ricominciò a cercare informazioni su un bimbo che aveva fotografato in Bosnia Erzegovina durante la guerra. Aladin, quel bambino, oggi adulto, grazie ai social ha visto l'articolo. I due si sono incontrati tre mesi dopo, proprio nel luogo dove è stata scattata la foto [qui il video-reportage dell'incontro  , realizzato da 24Sata, ndr]. Ma è grazie al reportage di un altro giornalista, italiano, che nel 1995 Aladin Hodžić venne accolto e curato in Italia.

L'estate scorsa il fotoreporter Robert Belošević ha cercato informazioni sul bimbo senza una gamba che aveva fotografato durante la guerra, per incontrarlo e conoscerlo. Quel bambino sei tu. Dove ti trovavi, quando ti ha fotografato?


Screenshot video 24Sata  , settembre 2022

Era l’agosto del 1995 e lui era un fotografo croato che stava seguendo gli avvenimenti di guerra legati all’Operazione Tempesta nella confinante Croazia ma che hanno interessato anche il territorio bosniaco. Bihać è la mia città, dove sono nato nel novembre del 1990 e ho vissuto, eccetto un breve periodo nel ‘94 in cui i miei genitori mi avevano mandato a stare da parenti, per sicurezza.

È proprio lì che ho perso la gamba nel luglio 1994, mentre ero a Ostrožac, un villaggio a nord di Bihać nel territorio del comune di Cazin. Mio padre aveva deciso di portarmi, assieme a mia madre, a stare dai miei nonni materni dove la situazione era più tranquilla, perché si prospettava un periodo bellico abbastanza caotico nella città di Bihać.

Siamo rimasti lì alcune settimane, finché non sono stato ferito. Tutto è accaduto nel giardino, mentre giocavo con una decina di bambini del posto. Dalle postazioni circostanti ci hanno visto e hanno lanciato una granata che è caduta un po’ lontano da noi, ma una scheggia mi ha colpito alla gamba destra, mentre gli altri bambini sono rimasti illesi.

Mi hanno portato immediatamente all’ambulatorio di Ostrožac per le prime cure d’emergenza e poi mi hanno subito portato in ambulanza all’ospedale di Cazin, ma essendo grave sono stato trasferito a Bihać dove mi hanno amputato la gamba. E poi, sono rimasto in questa città fino alla partenza per l’Italia.

È grazie a un reportage di un giornalista italiano che sei arrivato in Italia... Cosa ricordi?

Sì, sono arrivato in Italia il 5 settembre del 1995. Avevo 4 anni e mezzo e non ho molti ricordi, ma sicuramente la persona che è stata più presente e che ci ha aiutato fin dall’inizio è stato Marco Beci che durante la guerra in Bosnia lavorava per cooperazione italiana, morto purtroppo nel 2003 in Iraq  nell’attentato avvenuto a Nassirya [a Marco Beci è dedicato il libro “Morire a Nassirya  ”, uscito nel 2014, ndr].

Mi ricordo solo qualche immagine del viaggio in auto fino all’Italia, da Bihać a Zagabria e poi da lì a Budrio, in provincia di Bologna.

Sono venuto a sapere i dettagli, solo una volta cresciuto. Oltre a quella foto, la mia storia è stata conosciuta pubblicamente grazie a riprese realizzate da un giornalista italiano, Luciano Masi della Rai  che aveva seguito tutta la guerra in Bosnia Erzegovina. Marco Beci, che lavorava per la cooperazione governativa italiana, ha visto quelle immagini in televisione e un giorno si è presentato a casa nostra a Bihać per dirci che senza di me non sarebbe tornato in Italia. E così è stato!

Sono partito accompagnato da mio padre, con Sanja, un’altra bambina di 7 anni figlia di conoscenti di mio papà, che aveva anche lei subito un’amputazione – alla gamba sinistra – a causa della scheggia di una granata.

Siamo stati ospitati in una prima fase nel Comune di Budrio, dove ci hanno fatto i primi controlli e analisi mediche, e definire il percorso per la realizzazione della protesi. Io e Sanja abbiamo fatto lo stesso percorso, stessi medici, stesso ospedale e seguente periodo di riabilitazione. Il Centro protesi di Budrio ha proseguito poi a monitorare la situazione, anche per “aggiornare” le protesi che cambiano man mano durante la crescita in altezza e poi anche con l’aumento di peso.

Il resto della tua famiglia era in Bosnia? Sei poi rimasto a vivere a Budrio?

Mia madre, con mia sorellina che aveva pochi mesi, ci ha raggiunto dopo poco una volta ottenuti i documenti assieme ai genitori di Sanja. Appena io e Sanja ci siamo stabilizzati, mio padre ha deciso che non voleva più vivere di aiuti umanitari. E quindi la questione era trovarsi un lavoro, per rimanere a vivere in Italia, oppure tornare in Bosnia.

A quel punto dal Comune di Bondeno (provincia di Ferrara), gemellato dal 1982 con Bihać  , è arrivata l’offerta di un lavoro e di un alloggio e così ci siamo trasferiti lì. Oggi vivo vicino a Bondeno, con mia moglie e mia figlia e il resto della mia famiglia. Mentre Sanja si è poi trasferita con la famiglia in Germania.

Come ti sei trovato in Italia? Com’è oggi la tua vita?


Sul sentiero in Bosnia Erzegovina
© foto Aladin Hodžić

Essere arrivato in Italia da piccolo ha reso ovviamente più facile l’inizio di questa nuova vita, dall’imparare la lingua fino al fare nuove amicizie. I bambini imparano subito, mi basta guardare mia figlia che è ancora alla materna e parla già italiano, bosniaco e inglese!

Certo, non è stata una passeggiata per i miei genitori, che hanno dovuto lasciare casa e parenti in Bosnia e ripartire da zero, sebbene non me lo abbiano mai fatto pesare. Ovvio che sul piano affettivo sarebbe stato più facile per tutti rimanere in Bosnia, dove avevamo parenti e amici. Ma per il mio futuro, e considerata la situazione nel paese ancora oggi, è stata una vera fortuna essere stati accolti in Italia.

Oggi ho un lavoro, una casa e vivo sereno. Faccio sport, da ragazzino mi piaceva molto il calcio mentre ora mi piace fare escursioni in montagna e sono attirato da sport “estremi” come il paracadutismo e il bungee jumping (salto con corda o fune elastica).

Andate a trovare parenti e amici in Bosnia? Come vedi il tuo paese, da cittadino bosniaco e italiano?

Certo, appena riusciamo ci torniamo volentieri. Vivo la Bosnia da italiano e bosniaco, cioè sento forti entrambe le appartenenze. Quindi la vedo con gli occhi di bosniaco, che si sente parte integrante del paese e della sua città, ne conosce la lingua e tradizioni, ma anche con gli occhi di cittadino italiano, diciamo “straniero”.

Per cui, mi piace molto tornarci, ma allo stesso tempo provo amarezza, rabbia e tristezza nel vedere la situazione. Una piccola fetta della popolazione vive benissimo e si è arricchita, mentre molte altre persone vivono ai margini. Quindi differenze sociali molto elevate. E mi colpisce soprattutto come vengano lasciate senza l’assistenza di cui avrebbero diritto persone come me, vittime della guerra.

Mettendo a confronto l’aiuto che ho avuto io e che mi ha reso possibile costruirmi la vita che ho oggi, e la loro in cui non hanno ricevuto il dovuto sostegno materiale e psicologico, mi prende l’angoscia. Con tutto quello che è accaduto durante la guerra, le migliaia di vittime civili dovrebbero essere al primo posto tra le priorità del paese. Invece rimangono ancora, per livello di assistenza, ultime in Europa.

E poi, vorrei aggiungere, quando sono in Bosnia provo molto dolore nel vedere quanto ancora oggi ci siano persone che istigano all’odio. Capisco che per chi ha subito duramente quella guerra sia difficile dimenticare o perdonare, ma si dovrebbe almeno salvaguardare le nuove generazioni da quello che abbiamo vissuto noi e farle vivere in pace.

Se poi contiamo la crisi economica, l’assistenza sanitaria che non funziona, la corruzione e la mancanza di lavoro che spinge tantissimi ad andarsene, mi viene da dire con tristezza che non sembra nemmeno un paese che fa parte del cuore d’Europa.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 24, 2023, 01:28:39 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Montenegro/Balcani-il-trionfo-dell-abusivismo-edilizio-223430

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Balcani: il trionfo dell’abusivismo edilizio

Costruzioni abusive proliferano in tutti i paesi balcanici. Le autorità locali si oppongono, ma con scarso successo o con scarsa volontà. Una panoramica su Bosnia Erzegovina, Croazia, Montenegro e Serbia

16/02/2023 -  Marija Mirjačić,  Edin Barimac,  Juraj Filipović,  Gojko Vlaović
(Pubblicato originariamente da Vijesti  , selezionato e tradotto da LcB  e OBCT)

Legislazione carente, mancanza di volontà politica, burocrazia obsoleta, avidità individuale, tangenti, mancanza di alloggi... Il fenomeno dell'abusivismo edilizio nei Balcani ha molte cause, talvolta inestricabili, ed è sostenuto da pratiche sociali radicate da decenni, che ne complicano la risoluzione. A scapito dell'ambiente, dello sviluppo sostenibile e dei cittadini.

Croazia senza un piano di sviluppo turistico sostenibile
Il problema dell'abusivismo edilizio in Croazia è stato oggetto di dibattito pubblico fin dall'inizio della crescita del turismo negli anni Settanta. Sebbene proprietà illegali esistano in tutto il paese, il problema si concentra sulla costa dalmata. Dall'indipendenza, la Croazia non è stata in grado di trovare un modo efficace per ridurre questo fenomeno, che accelera la drammatica cementificazione della costa.

Un problema che si riscontra anche altrove, in Grecia, Italia, Portogallo, Spagna e in alcune regioni della Francia. È il risultato di un turismo di massa "festaiolo" senza una strategia a lungo termine.

La costa croata è stata svenduta e devastata perché l'apparato istituzionale e il quadro legislativo sono inefficaci. Lo stato croato non cerca di incoraggiare i proprietari di immobili a partecipare all'economia locale, al turismo, all'agricoltura o alla creazione di valore aggiunto, ma si limita a facilitare le vendite degli immobili - il che non sarebbe un male di per sé se gli acquirenti stranieri rispettassero la legge. Ma, come i croati, approfittano delle scappatoie legali, delle anomalie sociali e dell'avidità di alcuni. In questo, non c'è alcuna differenza antropologica tra un tedesco e un croato.

L'abusivismo edilizio continua quindi a diffondersi senza troppa resistenza da parte delle autorità. Nella maggior parte dei casi, l'Ispettorato di Stato ha solo il potere di sospendere il cantiere e di imporre una multa che l'investitore dovrà pagare prima di continuare a costruire indisturbato e prima di legalizzare la sua costruzione.

Le principali vittime sono la natura, il patrimonio culturale e la demografia locale. Gli abitanti stanno abbandonando le isole e le piccole città della Dalmazia e dell'Istria, minacciando la Croazia di uno scenario pericoloso in cui gran parte della costa si trasformerà in una meta di turisti festaioli, in proprietà immobiliari di cemento, proprietà di stranieri che assumono lavoratori stranieri.

Bosnia Erzegovina, insediamenti informali privi di adeguate infrastrutture pubbliche
In Bosnia Erzegovina l'edilizia incontrollata non è un problema solo sulla costa, come nell’area costiera di Neum: da anni lo è anche a Sarajevo. Interi quartieri vengono costruiti senza permessi e senza infrastrutture pubbliche adeguate. Nei condomini, ogni proprietario costruisce piani aggiuntivi con l'approvazione del "capo del quartiere".

"Sono state apportate più di 1.000 modifiche al piano urbanistico della città di Sarajevo. Oggi cammini per strada e sai cosa è stato progettato per quel determinato posto, ma domani passi e vedi che stanno costruendo qualcos'altro", spiega Hasan Ćemalović, un importante architetto bosniaco.

A Mostar è quasi impossibile conoscere il numero esatto di costruzioni illegali, ma sono molte, dagli edifici commerciali a quelli che spuntano nei cortili di altre case. Ma è a Banja Luka che troviamo uno degli esempi più eloquenti di edilizia illegale. Si tratta del famoso Palazzo Bianco, in costruzione a pochi metri dal municipio della capitale dell'entità della Republika Srpska. L'ispettorato comunale ha stabilito che l'investitore non aveva i permessi necessari per costruire, ordinando la demolizione, ma a tutt'oggi l'edificio è ancora lì.

100 milioni di euro di mancate entrate per i comuni del Montenegro
Nel 2022 sono state presentate ai comuni montenegrini decine di migliaia di domande di sanatoria di edifici costruiti illegalmente. Secondo il ministero dell'Ecologia, della Pianificazione e dello Sviluppo urbano, ci sono state più di 56.000 domande di sanatoria ma solo 2.722 sono state evase. Se tutte queste domande fossero state prese in carico le amministrazioni comunali avrebbero potuto guadagnare circa 100 milioni di euro.

Una sanatoria per gli abusi edilizi è stata approvata nel 2018, ma la procedura non è ancora conclusa. Il motivo principale è di natura burocratica, se non di mancanza di volontà politica: non è ancora stato approvato il Piano Regolatore Generale (PRG), che avrebbe dovuto essere ultimato nell'ottobre 2022. Anticipando questo ritardo, nel luglio 2022 il Parlamento ha emendato la Legge sulla pianificazione territoriale e l'edilizia, posticipando il termine per la legalizzazione delle costruzioni illegali al 2023. Questa nuova scadenza sarà rispettata?

Nulla è certo. Migliaia di domande sono in attesa di essere esaminate, mentre i comuni non hanno dipendenti qualificati per questo compito. Nel frattempo continuano ad arrivare nuove domande, soprattutto da parte di cittadini stranieri (da Russia, Ucraina, Israele, Emirati Arabi Uniti...). Inoltre, molti proprietari di edifici abusivi non hanno mai risolto il problema legale della proprietà del terreno su cui è stato costruito l'edificio, complicando ulteriormente le pratiche per un’amministrazione catastale già sovraccarica di lavoro.

Gli edifici abusivi possono ancora generare reddito per i comuni sotto forma di una tassa annuale per l'uso dello spazio da parte di un edificio abusivo. La tassa varia dallo 0,5 al 2% del prezzo medio di costruzione per metro quadro di un edificio residenziale di nuova costruzione in Montenegro. Tuttavia, le città costiere di Budva, Bar e Tivat non hanno ancora definito l'importo di questa tassa. Il ministero dell'Ecologia, della Pianificazione Territoriale e dello Sviluppo Urbano dichiara di non sapere quanto ogni comune abbia raccolto sulla base di questa tassa.

In Serbia, cosa fare con i due milioni di edifici residenziali illegali?
In Serbia ci sono circa due milioni di edifici residenziali abusivi, a dimostrazione del fallimento dei passati tentativi di sanatoria e della necessità di una nuova strategia per sradicare il problema.

Secondo le autorità, circa il 90% di questi due milioni di edifici in attesa di legalizzazione appartengono a persone che li hanno costruiti illegalmente per risolvere il problema degli alloggi, non per trarre un rapido profitto violando la legge.

Per motivare i cittadini a legalizzare le case che hanno costruito abusivamente, alcuni emendamenti alla legge sulla legalizzazione, entrati in vigore nel 2018, stabiliscono che gli edifici non legalizzati entro il 6 novembre 2023 dovranno essere demoliti. Tuttavia, il 3 novembre 2022, la Corte costituzionale li ha dichiarati incostituzionali.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 03, 2023, 17:32:01 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Giovani-e-lavoro-i-paradossi-della-Romania-223725

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Giovani e lavoro: i paradossi della Romania

Nel panorama europeo la Romania ha tra i più bassi tassi di disoccupazione generale e tra i più alti di quella giovanile. Ed è una tendenza che non migliora

03/03/2023 -  Mihaela Iordache
La Romania non è un paese per i giovani. Lo dicono le statistiche secondo le quali centinaia di migliaia di giovani (tra 15 e 24 anni) non hanno un lavoro. L’indice della disoccupazione giovanile è infatti tra i più alti dell’UE, attestandosi al 22,9%. Paradossalmente, come segnala l’Istituto Nazionale di Statistica, il tasso di disoccupazione generale è stato del 5,4% a novembre, uno dei più bassi a livello europeo.

Tra le cause della disoccupazione giovanile gli stipendi bassi. Secondo un sondaggio (realizzato a gennaio) dalla più grande piattaforma di reclutamento online, eJobs, i giovani tra 18 e 25 anni considerano che lo stipendio corretto per loro dovrebbe essere tra i 3000 e i 7000 lei (600-1400 euro). Per la stragrande maggioranza dei partecipanti al sondaggio (86,2%) il più importante criterio per accettare un posto di lavoro riguarda infatti proprio lo stipendio.

Rispetto ad altre categorie di età, la generazione “Z” è poi interessata a svolgere il lavoro da casa (34,6%) mentre il 51,8% vorrebbe lavorare in modalità ibrida con la possibilità di decidere su quanti giorni presentarsi in ufficio. “I giovani non risultano, invece, molto legati al profilo delle aziende e non danno molta importanza se il datore di lavoro è una start up oppure è una multinazionale”, spiega alla la stampa di Bucarest Raluca Dumitra, a capo del marketing di eJobs.

Nell’Ue sono alcuni paesi dell’est a raggiungere la più elevata integrazione dei giovani nel mercato del lavoro. I più bassi indici di disoccupazione giovanile si registrano infatti in tre regioni della Repubblica Ceca e in tre dell’Ungheria (sotto il 4%). Le dinamiche in Romania sono molto diverse: ad eccezione del suo nord-ovest, con circa il 7% di disoccupazione giovanile, la situazione dei giovani rispetto al lavoro resta preoccupante. Inoltre lo sviluppo economico disomogeneo implica che la disoccupazione giovanile vari notevolmente da una regione ad altra. La situazione più preoccupante si verifica nella regione dell’Oltenia, sud-ovest del paese, dove l’indice medio di disoccupazione giovanile è del 21,6%, il più alto a livello nazionale.

Tra i primi posti nell’UE per abbandono scolastico
Secondo Eurostat in Romania l’abbandono scolastico è aumentato nel 2021 di tre punti percentuali rispetto all’anno precedente.

Dal 2011, quando la Romania ha varato l’attuale legge sull’educazione, si stima che circa 450.000 bambini abbiano abbandonato lo studio prima di finire la scuola media. Le autorità romene non sono mai riuscite ad abbassare la soglia del 10% dell’abbandono scolastico  (nonostante si fossero impegnate a farlo entro il 2020).

Più del 15% dei giovani della Romania di età tra i 18 e 24 anni non ha completato la terza media. In altre parole, su una classe di 25 bambini, 4 di loro hanno abbandonato molto precocemente la scuola.

È in questo contesto da inserire il dato anche sui Neet, i giovani tra i 15 e 19 anni che non studiano e non lavorano. Secondo i più recenti dati Eurostat la media UE dei giovani che non studiano e non lavorano è del 6,8% tra i 15 e i 19 anni: in Italia è del 13,2% - la peggiore a livello europeo - segue a stretto giro proprio la Romania con il 12,1% e al terzo posto vi è Malta con il 10,0%.

L'abbandono scolastico ha implicazioni significative sulla vita dei giovani e sul futuro del paese e si traduce in una ridotta capacità di trovare lavoro e salari più bassi. Inoltre i giovani che abbandonano la scuola spesso hanno una maggiore probabilità di vivere in povertà, di avere problemi di salute mentale e di avere una minore partecipazione civica. La Romania si trova tra i primi tre paesi dell’UE che perdono popolazione in età attiva: tra le cause vi sono il basso indice di natalità, l’invecchiamento della popolazione e non per l’ultima la migrazione all’estero dove il lavoro viene meglio pagato.

Le politiche europee
Nella nuova programmazione per le politiche di coesione UE 2021-2027 ben €7.3 miliardi di euro dell’European Social Fund Plus  (ESF+) saranno dedicati a progetti che migliorino l’accesso al lavoro, in particolare per i giovani, l’educazione di qualità ed inclusiva, e la formazione professionale. Risorse ingenti che fanno seguito ad iniziative anche degli anni precedenti come ad esempio, tra le molte, la Youth Employment Initiative, lanciata per fornire sostegno ai giovani che vivono nelle regioni in cui il tasso di disoccupazione era superiore al 25%.

A fronte di risorse europee ingenti la Romania - come del resto molti altri paesi europei - è stata in grado di utilizzare una parte ridotta. Nel 2019 il paese occupava l’ultimo posto per l’utilizzo dei fondi europei destinati a ridurre la disoccupazione giovanile, secondo quanto sottolineato anche di recente dall’ex europarlamentare romena, nonché ex commissaria europea Corina Crețu.

Inoltre in Romania vi è grande eterogeneità regionale per quanto riguarda la capacità di spendere i fondi messi a disposizione. Alcune regioni sono riuscite a investire almeno la metà dei fondi a disposizione, altre non sono riuscite a spendere nemmeno il 10% del totale.

Riduzione della disoccupazione
Secondo un’analisi del sito www.cursdeguvernare.ro  nell’ultimo decennio la Romania è riuscita a ridurre la disoccupazione giovanile di 2,3 punti percentuali, tra le peggiori performance nell'UE. Hanno fatto “peggio” Paesi Bassi (-2 punti percentuali), Germania (-1,4 punti percentuali) e Lussemburgo (-1 punti percentuali) ma partendo da una disoccupazione giovanile molto inferiore: di fatto sono dati che dimostrano politiche più efficaci.

Due paesi hanno registrato aumenti: Svezia (+0,1 punti percentuali) e Austria (+0,8 punti percentuali). A livello europeo, il tasso di disoccupazione giovanile è diminuito di 6 punti percentuali nell'ultimo decennio. Un'altra particolarità del mercato del lavoro in Romania è l'altissimo rapporto tra il tasso di disoccupazione giovanile e il tasso di disoccupazione generale, pari a 2,3, il secondo livello più alto dell'UE, dopo quello del Portogallo, pari a 2,4.

Crescita economica, ma non per tutti
La Romania è tra i paesi europei con la più alta crescita economica dell’UE. La Commissione europea stima una crescita intorno al 3% per l’anno in corso e anche per il prossimo, il che significa posizionarsi al terzo posto nella classifica dei 27 membri UE. Ma la crescita economica della Romania - in questa situazione - rischia di incidere poco sulle prospettive dei giovani romeni: un quarto di loro rischia anche nei prossimi anni di rimanere disoccupato.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Marzo 04, 2023, 02:51:41 am
Per forza crescono, con i salari bassi... ma anche in Italia i giovani sono disoccupati
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 05, 2023, 16:24:08 pm
Lo so bene.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 19, 2023, 23:45:05 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Ilya-stanco-di-guerra-223765

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Ilya, stanco di guerra

Ilya, studente all’Università federale di Kazan (Russia), dopo aver manifestato più volte contro la guerra in Ucraina per non essere di nuovo arrestato fugge e arriva in Serbia, dove ha proseguito a manifestare contro la guerra. La testimonianza, raccolta a Belgrado da Chicco Elia

Proteste a Belgrado dell'Associazione dei Russi, ucraini, bielorussi e serbi contro la guerra (O.Hoffman/Shutterstock)

17/03/2023 -  Ilya Zernov
(Originariamente pubblicato da Q Code Magazine   il 24 febbraio 2023)

Il 24 febbraio 2022 il mio compagno di stanza all’Università federale di Kazan, in Russia, dove studiavo, mi ha svegliato con le parole: “La guerra è iniziata”. Allora avevo 18 anni.

Ero sopraffatto dalle emozioni: orrore, rabbia, collera. Naturalmente ho iniziato a pensare a come affrontare la guerra e Putin. Sono corso al negozio più vicino e ho comprato carta e colori. Tornato al dormitorio studentesco, ho disegnato tre manifesti contro la guerra e li ho affissi sui balconi dell’edificio, in modo che le persone che arrivavano dalla strada potessero vederli.

Ho scritto della mia azione sui blog degli studenti, poi sono andato nel centro di Kazan, con il manifesto “No alla guerra”. Mentre me ne stavo lì a congelare per strada, il mio compagno di stanza mi ha chiamato e mi ha detto che la polizia e l’amministrazione universitaria mi avevano individuato con le loro telecamere.

È successo tutto in fretta, a quanto pare l’amministrazione non ha gradito il fatto che io abbia realizzato la mia azione contro la guerra nel dormitorio studentesco e ne abbia anche scritto. In quel momento non mi preoccupavo molto dei problemi futuri, nella consapevolezza che la guerra, molto reale, era iniziata. La sera dello stesso giorno c'è stata una manifestazione contro l’invasione dell’Ucraina. Un gran numero di poliziotti ha respinto i manifestanti. Il mio amico è stato arrestato. La manifestazione è stata spontanea, l’ho scoperta per caso, pur partecipando alla vita politica del mio paese. A causa della cattiva organizzazione, dello choc e della paura, non c’erano molti manifestanti in strada, solo poche centinaia.

Sono tornato al dormitorio a notte fonda. I miei vicini erano depressi, alcuni esprimevano apertamente il loro sostegno alla mia azione contro la guerra. Sono passati due giorni di interminabile visione di filmati di guerra. Ricordo molto vagamente di aver frequentato l’università in quei giorni, la mia testa era altrove.

Il 27 febbraio ho partecipato nuovamente ad azioni contro la guerra. In primo luogo ho partecipato a un evento in memoria di Boris Nemtsov, il politico russo dell’opposizione assassinato che aveva organizzato manifestazioni contro la guerra con l’Ucraina nel 2014. A questo evento ho deposto dei fiori presso il monumento alla repressione politica di Kazan. Sono stato fermato dalla polizia, ma dopo aver preso nota dei dati del mio passaporto, mi hanno lasciato andare.

Sono andato alla manifestazione contro la guerra. Quando sono arrivato nella piazza dove avrebbe dovuto svolgersi la manifestazione, la polizia ha fermato gli ultimi partecipanti che erano rimasti. Sono uscito con una bandiera e un cartello davanti alla folla di poliziotti. Sono stato immediatamente arrestato e portato in un furgone della polizia.

Mi sono sentito a mio agio nel furgone: c’era un’atmosfera amichevole tra i manifestanti, tutti cercavano di sostenersi a vicenda.

Siamo stati portati alla stazione di polizia. Ho aspettato nel furgone per 6 ore, finché non mi hanno portato in una cella. Mi hanno preso le impronte digitali e mi hanno fotografato a tutto tondo e di profilo: mi sono sentito come un gangster di un telefilm.

Sono stato interrogato da un poliziotto, ma non mi hanno fatto del male.

Dopo l’interrogatorio mi hanno riportato in cella, ma non mi hanno lasciato solo a lungo. Mi hanno fatto uscire dalla cella, mi hanno ammanettato e mi hanno portato in un’altra stazione di polizia in un furgone con le luci lampeggianti. Nella stazione di polizia iniziale non c’era posto per dormire.

Non c’era abbastanza spazio per tutti, così ho passato la notte nella cella per i detenuti amministrativi su una stretta panca di legno senza lenzuola. Non ho dormito molto: i poliziotti erano sempre in giro, sentivo le notizie dalla televisione.

La mattina dopo mi hanno portato in tribunale. Mi hanno ammanettato di nuovo, come gli altri detenuti. Il tribunale era pieno di gente – tutti i manifestanti sono stati processati nello stesso momento e per questo ho aspettato 8 ore per avere l’ordine del tribunale. Mi è stata inflitta una multa di 5.000 rubli e sono stato rilasciato.

Mi hanno restituito il telefono, lo zaino e i lacci delle scarpe – tolgono i lacci ai prigionieri per evitare che si impicchino.

Con i miei compagni di classe si discuteva animatamente della mia detenzione, della guerra e di Putin: sembrava che tutti mi sostenessero e fossero solidali. Nei giorni successivi ho distribuito volantini contro la guerra, invitando a manifestare contro la guerra.

Il 6 marzo, al mattino, hanno bussato alla porta della mia stanza. Un vicino ha aperto la porta. La polizia ha fatto irruzione e sono venuti a cercarmi. Hanno iniziato a insultarmi, a un certo punto mi hanno preso per i capelli e hanno minacciato di picchiarmi. Mi hanno sequestrato tutte le mie cose. Mi hanno detto di fare le valigie per andare in prigione. Quando ho provato a chiamare un’organizzazione per i diritti umani, un poliziotto mi ha strappato il telefono dalle mani e ha iniziato a guardare tra le applicazioni, le chat, i messaggi.

Mi hanno portato via il telefono, il computer portatile, le carte bancarie, i manifesti e i volantini. Mi hanno portato alla stazione di polizia e mi hanno detto di scrivere una spiegazione sui miei interventi contro la guerra. Anche alla stazione di polizia sono stato minacciato, ma in modo gentile. Mi hanno detto di non parlare contro la guerra, altrimenti sarebbero venuti dai miei genitori e mi avrebbero espulso dall’università e sarei finito in prigione. Poi mi hanno lasciato andare, naturalmente senza i miei effetti personali.

C’era ancora il rischio di essere arrestato, così ho deciso di lasciare la Russia. Sono arrivato in Serbia. Qui ho lavorato in nero in una fabbrica e come lavapiatti. Ho partecipato a riunioni e raduni contro la guerra. Ora sto cercando di ottenere un visto per la Germania, ma finora non ho avuto molto successo. Quello che so, con certezza, è che non tornerò mai in un paese che ha scelto la guerra e l’isolamento: voglio vivere, studiare, lavorare, viaggiare, farmi una famiglia. Esattamente come i miei coetanei ucraini e qui a Belgrado ne ho conosciuti molti. Non è molto, ma è quello che so.

Se parliamo di ciò che volevo veramente era vivere fino al punto in cui le guerre sarebbero diventate inaccettabili e si sarebbero annullate, vorrei vivere in una Russia pacifica e libera.

Se parliamo di desideri più concreti, voglio continuare i miei studi all’università, cosa che ora sembra molto difficile – non posso farlo in Russia. Ora sto cercando di ottenere un visto umanitario per la Germania (Visum nach 22.2 AufengenthG); è da agosto che cerco di ottenere questo visto, ma il processo sembra fermo. E non so cosa fare.

Perché la Russia cambi in meglio, prima di tutto deve cambiare il presidente. Ora, oltre al fatto che un vero criminale che ha iniziato la guerra è salito al potere, ha anche un’enorme quantità di potere nelle sue mani, decide quasi tutto – non dovrebbe essere così. Una sola persona non può decidere per tutti gli abitanti del paese come vivere. In secondo luogo, dobbiamo smettere di mentire a noi stessi e iniziare a chiamare le cose con il loro nome, dobbiamo indagare sui crimini di guerra in Ucraina e consegnare i responsabili alla giustizia, dobbiamo indagare sui numerosi crimini di abuso di potere, sull’ingiusta persecuzione dei cittadini, liberare tutti i prigionieri politici.

E naturalmente, non ci può essere alcun miglioramento in Russia senza fermare la guerra e restituire i territori dell’Ucraina.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Marzo 19, 2023, 23:48:51 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Georgia/Georgia-non-e-una-rivoluzione-colorata-224134

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Georgia, non è una rivoluzione colorata

Tbilisi, Georgia. Durante le proteste di marzo 2023

La Georgia ha già vissuto la sua rivoluzione "colorata" e fu venti anni fa. Fu chiamata "rivoluzione delle Rose" quella che portò al potere Mikhail "Misha" Saakashvili. Un commento

17/03/2023 -  Paolo Bergamaschi
Sgombriamo il campo da equivoci: quello che sta avvenendo in Georgia in questi giorni non è la ripetizione di un altro Majdan, cioè della rivoluzione pacifica che nel novembre del 2013 ha occupato la piazza centrale della capitale ucraina.

Non può esserlo per il semplice fatto che la prima delle rivoluzioni "colorate", come vengono definite in gergo le mobilitazioni di massa che hanno portato a cambi di regime nei paesi dello spazio post-sovietico, si è verificata proprio in Georgia alla fine del 2003. Allora a cadere fu il regime di Eduard Shevardnadze, l'ultimo ministro degli Esteri dell'Unione sovietica salito ai vertici dello stato dopo la guerra civile che aveva insanguinato il paese all'indomani dall'indipendenza da Mosca.

Fu chiamata "rivoluzione delle Rose" quella che portò al potere Mikhail "Misha" Saakashvili come presidente e Zurab Zhvania come primo ministro, un caro amico prematuramente scomparso in circostanze ancora da chiarire.

Mi trovavo anch'io tra la folla che assediava il parlamento in quei giorni lungo il corso Rustaveli, l'arteria principale di Tbilisi. La gente reclamava democrazia e trasparenza ma soprattutto la fine di un regime corrotto che stava trascinando la Georgia nel baratro. Dopo settimane di manifestazioni di massa il vecchio Shevardnadze, per certi versi incolpevole e inconsapevole di quello che stava accadendo, fu detronizzato e si inaugurò una stagione di rinnovamento che guardava all'Europa per uscire dall'orbita russa.

I georgiani non hanno mai amato i russi. È il classico stato d'animo di chi vive a ridosso di un vicino ingombrante che nutre ambizioni coloniali. Davanti al parlamento di Tbilisi risalta il monumento che ricorda la strage del 9 aprile 1989 quando i manifestanti pro-indipendenza vennero attaccati dai militari sovietici. Il venti per cento del territorio georgiano è di fatto occupato dalla Russia che controlla le due provincie di Abkhazia e Ossezia meridionale.

Proprio in Ossezia si è consumata l'ultima tragedia della Georgia con la guerra che nell'agosto del 2008 ha visto l'esercito russo avanzare fino alle porte di Tbilisi per ritirarsi, poi, grazie alla mediazione europea.

La guerra di Ossezia è ancora una ferita aperta nella società georgiana, specialmente in quella parte che si riconosce nell'ex presidente Saakashvili attualmente in carcere, in gravi condizioni di salute per i ripetuti scioperi della fame, dove è accusato di abuso d'ufficio e malversazione.

La voglia di rivincita non si è mai sopita anche se al potere oggi c'è una forza politica, il Sogno Georgiano, che ha cercato di trovare un modus vivendi con la Russia pur mantenendo saldo l'orientamento occidentale del paese.

Il 3 marzo dello scorso anno la Georgia ha presentato domanda di adesione all'Ue che a giugno ha risposto garantendo una prospettiva europea subordinata al rispetto di dodici priorità che riguardano anche la giustizia e lo stato di diritto.

Il progetto di legge sugli agenti stranieri votato in prima lettura e poi rigettato dal parlamento di Tbilisi dopo le imponenti manifestazioni di piazza complica il cammino della Georgia verso l'Unione. Polonia e Repubbliche Baltiche, inoltre, lamentano un atteggiamento troppo morbido di Tbilisi verso Mosca dopo l'aggressione all'Ucraina. C'è chi si spinge fino ad auspicare l'apertura di un fronte meridionale per circondare ed indebolire l'azione russa nel Donbass.

In questi mesi di guerra quasi 60.000 russi in dissenso con il Cremlino hanno trovato rifugio in Georgia trasferendo anche le attività di impresa e i conti correnti che hanno generato un piccolo boom economico.

I paesi europei che hanno adottato le sanzioni nei confronti di Mosca accusano, dietro le quinte, la Georgia, che non l'ha fatto, di arricchirsi sulla pelle degli ucraini. C'è una pratica costante nelle giovani democrazie dove chi vince le elezioni pensa di avere il diritto di occupare in toto le istituzioni dello stato appropriandosi anche dei suoi beni. Era accaduto nel 2004 con l'ascesa al potere di Saakashvili e succede oggi con il Sogno Georgiano al governo.

Democrazia, però, non vuol dire dittatura della maggioranza. La società georgiana, sia politica che civile, è spaccata, vittima di una polarizzazione lacerante che rischia di pregiudicare il percorso verso l'Ue. C'è bisogno di una mediazione esterna che solo l'Europa può offrire. Attendiamo le prossime mosse.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 13, 2023, 17:36:27 pm
Dice l'italiano medio, notoriamente affetto e afflitto da esterofilia cronica:
"Certe cose succedono SOLO in Italia!"
Ah no, cazzo, siamo in Kosovo...

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/Kosovo-caos-politico-dopo-l-arresto-del-direttore-dell-Azienda-energetica-225026

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Kosovo, caos politico dopo l'arresto del direttore dell’Azienda energetica

L'arresto del direttore dell'Azienda energetica del Kosovo (KEK) ha scatenato uno scontro tra partiti di opposizione e di governo - mentre una centrale elettrica a carbone è rimasta fuori uso e i dipendenti della KEK aspettano aumenti salariali

12/05/2023 -  Xhorxhina Bami ,  Egzon Dahsyla
(Originariamente pubblicato da Balkan Insight   il 1 maggio 2023)

Venerdì 28 aprile i dipendenti della Azienda energetica de Kosovo (KEK) hanno protestato chiedendo un aumento del salario e dei contributi per i pasti, sostenendo che la dirigenza sta ignorando i lavoratori che rischiano la vita quasi ogni giorno per fornire elettricità in tutto il paese.

Selatin Sadiku, dell'Unione dei Sindacati Indipendenti del Kosovo, ha dichiarato che solo quest'anno sono morti 12 dipendenti della KEK. Riferendosi all'arresto del direttore della KEK Nagip Krasniqi con l'accusa di corruzione, Sadiku ha affermato ironicamente che Krasniqi è riuscito a "unire tutti i dipendenti del sindacato", aggiungendo che i dipendenti della KEK sono "non solo stati ingannati ma anche derubati".

Dopo aver affermato che KEK da sola ha un budget più alto dell'intero Kosovo, Sadiku ha definito vergognoso che "i nostri soldi rimangano nei registri di cassa mentre la dirigenza viene indagata e imprigionata".

L'arresto di Krasniqi il 19 aprile ha causato agitazione all’interno della politica del Kosovo. I partiti di opposizione lo hanno definito come la prova dell'abuso del governo nel settore dell'energia mentre i membri del governo lo hanno definito un atto di "vendetta". Krasniqi è stato arrestato con l'accusa di abuso della propria posizione e conflitto di interessi.

"Siamo qui oggi perché abbiamo richiesto un aumento salariale un anno fa", ha affermato il capo del sindacato dei lavoratori della KEK, Nexhat Llumnica, sostenendo che Krasniqi stesso nel settembre 2022 aveva promesso un aumento dei contributi per i pasti giornalieri, attualmente fissato solo a 1,75 euro.

Il 22 dicembre Krasniqi aveva affermato: "Ora non possiamo [pagare l’aumento] perché potrebbe esserci un ritardo nei salari, perciò pagheremo a gennaio". Su questo Llumnica ha dichiarato: “Ancora una volta abbiamo avuto fiducia in lui, ma non è successo nulla. I dipendenti della KEK hanno un lavoro pesante ma un pasto leggero"

Llumnica definisce l’aumento salariale “meritato” perché i lavoratori sono riusciti a produrre così tanta energia da lasciare che solo il 10% dell'elettricità del Kosovo venisse importata. "Siamo riusciti a portare la luce in Kosovo; i dipendenti hanno raggiunto questo obiettivo, ma la direzione li sta ignorando", ha aggiunto.

L'arresto del direttore, Krasniqi, ha ulteriormente compromesso la situazione attuale della KEK. Venerdì 28 aprile i manifestanti hanno urlato "Fuori i ladri!". Nel frattempo, Krasniqi, che è stato sospeso come direttore dal consiglio di amministrazione della KEK il 25 aprile, rimane in custodia.

Amici che ottengono gli appalti
Krasniqi è stato arrestato con l'accusa di abuso d'ufficio o di autorità, esercizio di influenza e conflitto di interessi, principalmente riguardante degli appalti dal valore di circa 70 milioni di euro.

Uno dei capi di imputazione è legato ai contratti per la riparazione della caldaia del blocco A5 della centrale termoelettrica a carbone Kosovo A.

Il 13 giugno 2022, KEK aveva aperto un'asta per la riparazione della turbina e della caldaia del blocco A5 per 6 milioni di euro.

Durante il programma televisivo Kallxo Pernime di BIRN Krasniqi aveva dichiarato di aver chiesto che l'intera riparazione fosse parte di un'unica asta al fine di evitare problemi; infatti nel 2021 la caldaia era stata riparata in tre mesi, ma la riparazione della turbina era stata ritardata.

"Una società ha fatto il suo lavoro, ma l'altra no", aveva affermato Krasniqi, sostenendo che prolungare i lavori di riparazione si sarebbe rivelato costoso. Tuttavia, l'asta di giugno 2022 si era conclusa con un insuccesso. È stata chiusa l'11 luglio 2022 a causa della mancanza di offerte.

Successivamente è stata aperta un'altra asta, nella quale KEK aveva invitato 19 società a presentare offerte, divisa in due parti: una per la riparazione della turbina, la seconda per la riparazione della caldaia del blocco A5.

Il 21 novembre 2022 è stata cancellata la seconda parte dell'asta. KEK ha dichiarato che la società aveva affermato di non essere in grado di eseguire il contratto entro il periodo specificato, perciò solo la prima parte - la riparazione della turbina - era stata offerta ad una società con sede in Macedonia del Nord, Monting Energetike Doo. Il contratto per 5,136 milioni di euro è stato firmato il 5 dicembre 2022.

A gennaio 2023, KEK ha aperto una terza asta, questa volta solo per la riparazione della caldaia del blocco A5, per 3,6 milioni di euro. Le procedure si sono chiuse senza la pubblicazione di un contratto. Il lavoro quindi è stato affidato al consorzio Litwin SA per 3,4 milioni di euro per la "riparazione straordinaria d’emergenza della caldaia del blocco A5". Ora quel contratto fa parte del fascicolo dell'accusa contro Krasniqi.

Parte del consorzio Litwin SA appartiene alla società kosovara Limi-Plast, di proprietà di Bujar Shala, fratello di Naser Shala, ex direttore della Kosovo Property Comparison and Verification Agency,(KPCVA) conosciuto anche come Comandante "Ftyra" .

Bujar Shala ha dichiarato a BIRN che questo era il primo tipo di contratto che la sua azienda aveva con un'istituzione pubblica, spiegando che essa era diventata parte del consorzio "per adempiere agli obblighi legali". Shala ha anche aggiunto che "non importa di chi sia fratello".

Secondo la dichiarazione dei beni di Naser Shala del 2021, egli è stato co-proprietario di Limi-Plast con suo fratello fino al 2006. Shala si è dimesso dalla direzione del KPCVA nel febbraio 2022, a causa della mancata approvazione del suo rapporto di lavoro 2022 da parte del Parlamento del Kosovo

Il Comandante "Ftyra", era ritornato alla ribalta nel 2019 quando il parlamento del Kosovo lo aveva eletto direttore del KPCVA, nonostante gli osservatori dell'ambasciata britannica avessero valutato che non fosse adatto per la posizione.

A seguito della sua nomina, BIRN aveva riportato che nel gennaio del 2022 diverse famiglie del Kosovo temevano di perdere la propria casa dopo che l'agenzia aveva inviato loro avvisi di sfratto, sostenendo che non avevano acquistato le loro proprietà dal legittimo proprietario.

Oltre all’assegnazione di un appalto a una società di proprietà del fratello di una figura influente in Kosovo, un altro appalto, per cui Krasniqi è sotto indagine, è stato assegnato alla società legale Rexhepi Zeqiri Zejna. L'avvocato Isuf Zejna, uno dei tre azionisti di questa società, è stato l'avvocato personale di Krasniqi.

Zejna ha dichiarato a BIRN di aver "accompagnato Krasniqi alla polizia in due occasioni, relative ad una sua intervista come testimone" aggiungendo che la sua compagnia ha offerto consulenza legale pro bono a Krasniqi e alla direzione della KEK per oltre un anno.

"Bisogna sottolineare che abbiamo offerto tali servizi pro bono a diverse istituzioni pubbliche, a individui e a ONG in passato" ha aggiunto Zejna.

I partiti si dividono sull’arresto del capo della KEK
Meno di una settimana dopo che il tribunale di primo grado di Pristina ha ordinato la custodia di Krasniqi per 30 giorni, il 26 aprile il parlamento ha tenuto una sessione straordinaria.

Il deputato e presidente del partito di opposizione Partito Democratico del Kosovo,(PDK) Memli Krasniqi, ha accusato il primo ministro Albin Kurti e il partito Vetëvendosje al potere di proteggere "il suo [di Kurti] amico e compagno di partito, l’ora famoso Nagip Krasniqi, il quale di conseguenza sta iniziando ad attaccare e ricattare l'intero sistema di giustizia".

Il deputato Krasniqi si riferiva al fatto che Nagip Krasniqi era il precedente capo del Comitato per l'Energia nel Movimento Vetëvendosje.

In più Nagip Krasniqi era stato eletto direttore della KEK nell'ottobre 2021 da un consiglio temporaneo, nominato dal governo guidato da Kurti all'epoca, senza una gara pubblica. Nonostante avesse ricevuto il punteggio più alto dagli osservatori dell’ambasciata britannica. 

Kurti non ha partecipato alla sessione parlamentare, ma ha mostrato il suo sostegno a Krasniqi, il 20 aprile, un giorno dopo il suo arresto.

"Ci sono stati molti capi nella KEK in passato, ci sono state abusi sconcertanti, ma non sono mai stati affrontati dal sistema di giustizia, ovvero dall'Ufficio del Procuratore", ha dichiarato a riguardo Kurti.

Ha aggiunto che "la nuova dirigenza della KEK ha depositato decine di fatti e prove materiali per gli abusi che ha trovato lì, ma la volontà della procura di occuparsi del deposito di fatti e prove per gli abusi precedenti è stata zero". In più Kurti ha affermato che Krasniqi e la KEK hanno fatto entrare 107 milioni di euro in più.

Nel frattempo il 20 aprile il Consiglio Procedurale del Kosovo ha accusato "alcuni alti funzionari dello Stato" di "tentare di influenzare sistematicamente gli affari del sistema procedurale e di trasmettere messaggi politici tendenziosi, utilizzando un linguaggio denigratorio contro il candidato per il Procuratore Capo dello Stato, Blerim Isufaj, contrariamente a tutte le norme etiche, legali e costituzionali".

Kurti e i deputati del partito al potere Vetevendosje sostengono che l'arresto del capo della KEK sia stata una vendetta dell'attuale Procuratore Capo dello Stato Blerim Isufaj, che non ha il sostegno di Kurti e dei suoi alleati politici, la Presidente Vjosa Osmani e il Presidente del Parlamento Glauk Konjufca, per diventare Procuratore Capo dello Stato. Isufaj è stato votato come Procuratore Capo nell'aprile 2022, ma il suo fascicolo è ancora in attesa del decreto del Presidente.

Il capo del gruppo parlamentare di Vetëvendosje, Mimoza Kusari-Lila, ha detto alla sessione parlamentare del 26 aprile che "l'opposizione sta cercando di utilizzare un meccanismo in cui ha ancora influenza, quello della procura, per trasformare l'aula dell'Assemblea in un tribunale".

Il PDK ha detto che invierà 30 contratti della KEK all'Ufficio del Procuratore per l'indagine, sostenendo che sono stati usati in modo illegittimo più di 70 milioni di euro .

Un deputato e presidente di un altro partito di opposizione, l'Alleanza per il Futuro del Kosovo, AAK, Ramush Haradinaj, ha accusato il partito al potere Vetevendosje e il suo leader, Kurti, di corruzione.

"Kurti è il capo dei corrotti, il creatore del ‘modello amico'. Crede che solo i suoi amici siano incorruttibili, e se il procuratore non è un amico, è corrotto", ha detto al parlamento.

Al centro dei tumulti, il blocco A5 della centrale a carbone di Kosovo A  rimane ancora non funzionante.

Nel frattempo, è stata avviata una procedura di controllo nel sistema giudiziario da parte del governo. Nonostante all’inizio di marzo 2023, questa sia stata inviata alla Corte Costituzionale per commenti dal Presidente del Parlamento Konjufca.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Maggio 13, 2023, 22:37:39 pm
Penso che nessuno vorrebbe vivere in Kosovo. Il paragone è sempre con paesi avanzati, di cui l'Italia dovrebbe fare in qualche modo parte
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 14, 2023, 01:09:11 am
Affermare che "certe cose succedono SOLO in Italia", come è solito fare l'italiano medio, specie se di sesso maschile, significa includere implicitamente anche paesi come il Kosovo.
Voglio dire: "solo" ha un significato ben preciso, che non può essere oggetto di fraintendimenti.
Per esempio: in vita mia ho conosciuto una caterva di albanesi e rumeni, cioè uomini e donne provenienti da paesi che in un recente passato, quando l'Italia era la quinta potenza economica del pianeta (per un breve periodo fu anche la quarta potenza), erano nella merda più totale, ma ne ricordassi uno che abbia mai detto "certe cose succedono SOLO in Romania", oppure "certe cose succedono SOLO in Albania".
Niente di niente.
Darsi le martellate sui genitali è una specialità tipica di tantissimi italiani, convinti che al di fuori dei confini nazionali sia tutta una meraviglia e che anche luoghi di M. come il Burkina Faso o la Somalia siano migliori dell'Italia.
Non per niente li invito sempre a fare le valigie e a trasferirsi altrove, visto e considerato che nessuno obbliga nessuno a vivere nel bel paese.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Duca - Maggio 21, 2023, 10:14:15 am
Darsi le martellate sui genitali è una specialità tipica di tantissimi italiani, convinti che al di fuori dei confini nazionali sia tutta una meraviglia e che anche luoghi di M. come il Burkina Faso o la Somalia siano migliori dell'Italia.ì
Questo è un dato di fatto.
Secondo me la causa è soprattutto da addebitarsi alla marcata propaganda antinazionale sui media di regime.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Maggio 21, 2023, 14:21:47 pm
Inculcare l'odio di sé è cruciale per far implodere una nazione
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 22, 2023, 01:37:20 am
Questo è un dato di fatto.
Secondo me la causa è soprattutto da addebitarsi alla marcata propaganda antinazionale sui media di regime.


A mio parere c'è più di un motivo per cui accade questo.
Le origini sono da ricercare nel passato, ma non c'è dubbio che i media c'entrino molto.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 28, 2023, 15:34:00 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Le-proteste-di-Belgrado-e-la-violenza-nei-reality-show-225382

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Le proteste di Belgrado e la violenza nei reality show

Dopo le stragi che hanno segnato la Serbia nelle settimane scorse, manifestazioni di piazza contestano il governo, puntando il dito soprattutto sulla situazione dei media nel paese, che secondo i critici hanno creato e fomentato negli anni un clima di intolleranza e di violenza

26/05/2023 -  Massimo Moratti Belgrado
Continuano le proteste a Belgrado. Dopo le manifestazioni del 8, 12 e 19 maggio, ci si prepara per un fine settimana ad alta tensione con la manifestazione del governo organizzata per il 26 maggio e un’altra manifestazione organizzata dall’opposizione per il giorno successivo.

Le manifestazioni sono riuscite a portare in piazza decine di migliaia di persone e bloccare le arterie principali della capitale serba. Se inizialmente prevaleva la compostezza e il dolore per le vittime delle stragi che hanno segnato il paese nelle ultime settimane, le proteste hanno pian piano articolato delle richieste precise al governo, sulle quali l'esecutivo fino ad ora si è però rifiutato di pronunciarsi.

Alcune riguardano la situazione dei media in Serbia e la passività delle istituzioni nel contrastare la violenza presente sullo spazio mediatico. Le richieste rivolte al governo chiedono la messa al bando di media e tabloid che promuovono violenza ed odio, e di porre termine ai programmi - come alcuni reality show - che promuovono comportamenti aggressivi, violenti ed immorali e infine si chiedono le dimissioni dell’intero Ente regolatore dei media (REM).

Il nesso tra le stragi e le richieste delle proteste a Belgrado
Mentre al momento appare difficile trovare un nesso causale diretto tra le stragi di massa e le richieste delle persone che protestano, le accuse rivolte al governo sono quelle di aver creato un sistema mediatico che non solo tollera, ma addirittura promuove la violenza.

Questo nesso emerge chiaramente nel caso della seconda strage. L’autore della strage di Mladenovac aveva come proprio idolo un certo Aleksandar “Kristijan” Golubović, noto protagonista di alcuni reality show, tra i quali “Zadruga”, trasmesso dalla televisione Pink.

Il “curriculum” di Golubović la dice lunga: pluripregiudicato per droga e rapine a mano armata, lottatore di MMA, si vantava, a torto o ragione, di amicizie con personaggi come Arkan, famigerato leader paramilitare durante i conflitti degli anni '90 e Ulemek “Legija”, il responsabile dell’uccisione del premier Zoran Đinđić.

Negli ultimi anni Golubović, è diventato una star dei reality show che facevano a gara per contenderselo. Nel corso delle sue partecipazioni ai reality, Golubović si è reso protagonista di numerosi episodi di violenza  , insulti, risse. In uno di questi episodi Golubović strangola la sua partner, fino a farle perdere i sensi. Quello di Golubović non è un caso isolato, episodi analoghi   sono presenti in abbondanza nei reality e sulla televisione serba. Non solo i delinquenti comuni sono ospiti dei reality tv, anche criminali di guerra vengono regolarmente ospitati in talk shows  come esperti di geopolitica o questioni militari in quella che è una vera e propria glorificazione della violenza.

Il ruolo delle TV private
Le televisioni private RTV Pink e Happy TV sono quelle maggiormente indiziate per la trasmissione dei reality show e per la programmazione violenta. Ciò nonostante, queste due televisioni, lo scorso luglio si sono viste assegnare per la seconda volta consecutiva una frequenza nazionale che consente loro di trasmettere sull’intero territorio della Serbia.

L’assegnazione di tali frequenze è stata criticata dalla società civile e dalle associazioni di categoria: il fatto che a suo tempo vi fossero state numerose denunce per incitamento all’odio e alla violenza  di alcune trasmissioni non era stato tenuto in conto dal REM che aveva per l’appunto assegnato di nuovo le frequenze a RTV Pink, a Happy TV oltre che a B92 e Prva TV, due altre TV private, sempre vicine al governo ma i cui contenuti non hanno attirato le stesse critiche di RTV Happy e Pink.

Tale decisione è stata criticata anche nel progress report  sull’adesione della Serbia all'UE e dal rapporto ODIHR sulle elezioni del 2022, che avevano sottolineato come il REM avesse tollerato le violazioni delle regole sulla campagna elettorale da parte delle quattro televisioni a frequenza nazionale.

In questi anni, le televisioni Happy e Pink sono state spesso al centro di polemiche e scandali ma non sono mai state soggette a sanzioni significative. La ragione per questo, molto probabilmente, è che queste emittenti hanno un legame molto stretto con la politica e sono considerate sostanzialmente degli strumenti personali  del potere politico in Serbia ed in particolare del presidente Vučić che è un ospite regolare di tali trasmissioni: una delle prime apparizioni  in TV di Vučić dopo le stragi è stata proprio sugli schermi di Happy TV.

In quest’ottica, come sottolineato dai docenti della Facoltà di Scienze politiche Jelena Đorđević e Rade Veljanovski in un’intervista per Radio Slobodna Evropa  , la violenza nei toni e contenuti delle televisioni non è nient’altro che il riflesso del discorso della politica e allo stesso tempo, queste televisioni sono i pilastri su cui si appoggia il regime di Vučić, in un modo analogo a quanto accadeva negli anni '90 con la televisione di stato.

I commenti del REM e delle televisioni in questione
Viste le richieste delle proteste, il REM si è arroccato su posizioni difensive. In una dichiarazione rilasciata l’11 maggio, la presidente Olivera Zekić ha detto  che mentre si dovrebbe discutere delle loro dimissioni in Parlamento, bisognerebbe anche discutere di come una parte della società e dei media vogliano presentare il REM come il colpevole di queste terribili tragedie in Serbia.

Zekić  ha poi ribadito che gli attacchi ripetuti contro il REM non solo sono vergognosi, ma addirittura potrebbero produrre ulteriore violenza. Alle dichiarazioni della presidente hanno fatto seguito dichiarazioni simili da parte del vicepresidente del REM, Milorad Vukašinović  alcuni giorni dopo: “Temo che gli ispiratori degli attacchi contro l’integrità del REM […] si trovino nei quartieri generali di qualche media”. Incalzato in seguito sul ruolo di Kristijan Golubović in televisione, la risposta di Vukašinović  è stata che gli enti regolatori dei media non possono limitare i diritti dei cittadini che hanno già scontato delle condanne, a meno che ciò non sia previsto da tali condanne.

Più critica è stata però un’altra componente del REM, Judita Popović, che ha ammesso che da anni i media hanno favorito incitamento all’odio, violenza e discriminazioni e che nessuno ha reagito, ma che anzi certi media sono stati premiati dall’assegnazione di frequenze nazionali. Le dimissioni non sono sufficienti  ha detto la Popović, i membri del REM dovrebbero esser responsabili per certe situazioni.

Alle parole dei componenti del REM ha fatto eco anche il ministro dell'Informazione, Mihailo Jovanović  che ha respinto come inaccettabili le richieste della piazza di chiudere sia RTV Pink che Happy TV, dato che tali richieste sarebbero contrarie alla libertà di espressione, pilastro fondamentale di ogni società democratica.

Un accenno di autocritica arriva da Željko Mitrović il proprietario di Pink che è entrato nella casa in cui si tiene il reality “Zadruga” e ha annunciato  che questa è l’ultima stagione del reality show, che dal prossimo anno si cambierà. Successivamente lo stesso Mitrović ha annunciato  che “Zadruga” cesserà di essere trasmessa entro dieci giorni al massimo e che questa è stata una richiesta fatta dallo stesso Vučić. Si vedrà se alle parole faranno seguito i fatti.

Conclusioni
Le proteste stanno creando parecchio nervosismo in seno al governo serbo e sembrano aver puntato l’indice contro la passività del REM e dell’approccio sensazionalistico delle televisioni private a frequenza nazionale, che sono spesso e volentieri il palcoscenico preferito dello SNS, il partito del presidente Vučić.

Il REM e il ministro dell’Informazione si sono trincerati dietro un approccio formale di difesa delle istituzioni e di libertà del diritto d’espressione, senza però sottolineare come lo stesso diritto d’espressione debba essere regolamentato all’interno della società serba. In questo senso è illuminante un articolo  del Centro per il giornalismo investigativo in Serbia (CINS) che spiega che i problemi non sorgono dal fatto che le normative non siano adeguate ma dal fatto che non vengano applicate.

Per fare un esempio, solo a gennaio di quest’anno, all’interno del famoso reality “Zadruga”, vi sono stati più di dieci episodi controversi come documentato in una denuncia presentata dall'Istituto per i media e la diversità (MDI). A tale denuncia non è stato dato seguito: negli ultimi 5 anni il REM non ha disposto alcuna misura contro RTV Pink per i suoi contenuti problematici e ciò succede perché la legge non viene applicata adeguatamente e le trasmissioni con alti indici d’ascolto come i reality sono considerate intoccabili. Come dimostrato dal CINS, il REM ha mantenuto il silenzio in questi casi. Ed è proprio contro tale silenzio che i cittadini ora protestano.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Maggio 28, 2023, 15:45:00 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/La-lenta-scomparsa-della-Bosnia-Erzegovina-225201

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La lenta scomparsa della Bosnia Erzegovina

La Bosnia Erzegovina potrebbe perdere la metà dei propri abitanti entro i prossimi 50 anni. È ciò che emerge dai report statistici. Uno Stato che si svuota lentamente, soprattutto dei giovani, fino a rischiare di diventare un agglomerato di città fantasma

25/05/2023 -  Sara Varcounig Balbi
Il  “World Population Prospect” stilato dalle Nazioni Unite nel 2022 parla chiaro. Nonostante si assista ad un calo demografico all’interno di tutta l’area balcanica, in Bosnia Erzegovina la situazione è fra le più allarmanti. Secondo i dati  diffusi dal rapporto ONU, ogni anno lo stato perde circa l’1,5% dei propri abitanti. Osservando solo i dati relativi all’emigrazione, si profila una vera emergenza demografica. Negli ultimi 10 anni infatti si è assistito ad un forte incremento di coloro che lasciano la BIH: solo dal 2013 sono partite quasi mezzo milione di persone. Per fare un confronto, questa cifra equivale a più di tutta la popolazione del cantone di Sarajevo (413.593 abitanti secondo il censimento 2013  ).

Oltre ad una forte emigrazione, il paese ha anche uno dei tassi di natalità più bassi al mondo, rendendo difficile il rinnovamento naturale della popolazione. Difatti, il report segnala il progressivo invecchiamento della società. Osservando il grafico che pone a confronto lo sviluppo demografico delle diverse fasce d’età della popolazione, si può notare un netto incremento della curva dei cittadini di età superiore ai 65 anni e un forte calo di quelle riguardanti le fasce 0-15 e 15-24. Dati confermati anche dall’Agenzia di statistica della Bosnia Erzegovina (BHAS), che prevede  nel 2070 una maggioranza relativa nella popolazione da parte dei cittadini più anziani (circa il 40% degli abitanti).

Si prospetta quindi un quadro tetro: da una parte una popolazione sempre più anziana, dall’altra una società gravata da un esodo di massa.

La fuga dei giovani
Kerim è uno studente di Sarajevo di 23 anni ed è un attivista per i diritti umani. Ha deciso di andare a studiare a Berlino perché il sistema educativo bosniaco non gli offre gli strumenti necessari per ciò che vorrebbe fare, come riporta ISPI: “La più grande ragione per cui me ne vado è acquisire le conoscenze e le capacità per imparare a lottare per i diritti della nostra gente qui”. Kerim è tra coloro che sono costretti ad andarsene, ma vorrebbero invece poter restare.

Secondo l’Istituto per lo sviluppo giovanile  (KULT) di Sarajevo, la condizione di Kerim è condivisa da molti giovani. Dal rapporto del 2021 emerge che circa il 50% dei giovani bosniaci ha intenzione di andarsene in maniera temporanea o permanente. Dato condiviso anche dall’Agenzia dell’Onu per la salute sessuale e riproduttiva (UNFPA) che nel 2021 riporta  come ogni anno siano circa 23 mila i giovani tra i 18-29 anni che migrano dalla Bosnia Erzegovina, per lo più studenti universitari o lavoratori altamente qualificati.

La causa è legata alla mancanza di prospettive future nel paese. In entrambi i report emerge che i giovani lamentano la situazione interna, caratterizzata da un alto livello di corruzione e criminalità endemica, e da una situazione economica precaria. Gli intervistati hanno dichiarato che la BIH non è un ambiente adatto per costruire una famiglia o crescere professionalmente. Lasciare il proprio paese non è facile, ma diventa necessario quando non si vedono speranze per il proprio futuro.

Le conseguenze di questa “fuga di cervelli” potrebbero ripercuotersi negativamente sulla società per anni. Da una parte viene perso l’investimento delle risorse impiegate nell’istruzione di coloro che poi decidono di emigrare e che sfruttano altrove le conoscenze acquisite. Dall’altra, il paese viene abbandonato per lo più da giovani laureati e/o professionalmente qualificati, perdendo così la parte della popolazione che stimola la crescita e l’imprenditorialità necessarie per lo sviluppo socio-economico.

Future città fantasma
Gli effetti più gravi si rilevano nei comuni dell'entroterra bosniaco, dove il calo di popolazione è più incisivo e mette a rischio la sopravvivenza delle città stesse. Ad esempio il caso di Glamoč  , comune situato nella parte più occidentale della Federazione BiH. Ex centro turistico e regione industriale jugoslava, negli ultimi anni la cittadina ha perso il 75% degli abitanti e i locali temono che in futuro si svuoterà completamente.

Glamoč è già oggi una città vuota, con edifici abbandonati, serrande chiuse e attività che continuano a chiudere i battenti. L’età media dei residenti è di 60 anni e i pochi giovani rimasti scappano verso le città più grandi dopo aver finito le scuole. Blagoja Soldat, a capo di “Pučka kuhinja” (Mensa dei poveri), definisce la città come un “microcosmo di tutti i problemi che attanagliano la BIH”: mancanza di opportunità di lavoro, inquinamento, servizi pubblici carenti. Spera che i suoi figli una volta cresciuti se ne vadano altrove, ha raccontato  a Balkan Insight.

Le cause di questo svuotamento progressivo sono multifattoriali, tra le quali una chiara responsabilità politica. Secondo Draško Marinković, professore di demografia presso l’Università di Banja Luka, un elemento del crollo demografico potrebbe essere legato all’impotenza politica creatasi con gli Accordi di Dayton del 1995. I principi di decentralizzazione e di bilanciamento tra i tre popoli costituenti avrebbero creato un sistema congelato, in cui risulta difficile creare una strategia comune e condivisa su questioni riguardanti lo sviluppo demografico.

Rispetto alle responsabilità politiche Željko Trkanjec, corrispondente di Euractiv per la Bosnia Erzegovina e la Croazia, è ancora più critico. Secondo Trkanjec  i diversi governi non hanno mai spinto per il cambiamento, perché il loro interesse principale è restare ancorati al potere: “Le persone istruite se ne vanno e diventa quindi più facile per loro governare. E nei cittadini con livelli inferiori di istruzione, riescono a mantenere vive le retoriche nazionaliste”.

Per ora la situazione resta drammatica e l’instabilità politica bosniaca non sembra far sperare in una risoluzione nel breve periodo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Maggio 28, 2023, 17:35:52 pm
E' lo specchio dell'Italia
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 24, 2023, 12:30:12 pm
E' lo specchio dell'Italia

Peggio dell'Italia.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 24, 2023, 12:32:17 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Inguscezia/La-fuga-delle-ragazze-del-Caucaso-del-Nord

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La fuga delle ragazze del Caucaso del Nord
23 giugno 2023

La BBC, nel suo canale Youtube russo, ha recentemente pubblicato un documentario dal titolo "Когда я сбежала" (Quando sono fuggita)" che racconta le storie di ragazze provenienti dalla Cecenia, dall'Inguscezia e dal Daghestan fuggite dalle proprie famiglie a causa di violenza domestica, matrimoni forzati e minacce di morte.

Queste giovani donne non solo si allontanano definitivamente dalle loro famiglie, ma vivono costantemente nell'angoscia per la propria sicurezza. Molte famiglie sono disposte a fare qualsiasi cosa pur di rintracciare e ricondurre con la forza le fuggitive a casa, mettendo così le ragazze a rischio di subire un "delitto d'onore". Nel documentario viene narrata anche la storia di Marem Alieva, una giovane madre inguscia che è fuggita a Mosca con i suoi bambini grazie all'aiuto di un'organizzazione umanitaria. Successivamente, si è trasferita a Minsk, ma è stata raggiunta dal marito e riportata in Inguscezia. Poco tempo dopo il suo ritorno in patria, si sono perse le tracce di Marem ed è stata aperta un'indagine sul suo presunto omicidio.

Aminat Gazimagomedova che con le sue sorelle è fuggita dall’Ossezia del Nord verso la Georgia, ha dichiarato: "Non sarai mai abbastanza per loro, perché non esistono regole uniformi, e se sei una ragazza, sei sempre sbagliata. Devi adattarti completamente e, se ti distingui in qualche modo o hai una tua opinione, scoppierà un conflitto e ti impediranno di parlare e ti costringeranno a essere ciò che vogliono".

Secondo le associazioni di difensori dei diritti umani, per le vittime di violenza domestica, la fuga rappresenta spesso l'unico modo per salvare la propria vita.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 24, 2023, 12:34:53 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Italia/Il-tram-14-e-le-lingue-monche-225202

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Un racconto sull’impatto che la migrazione ha sulla lingua e le lingue parlate, maturato durante una corsa su un tram romano

23/06/2023 -  Sielke Kelner
Un paio di anni fa ho letto Tongue Stuck  , un bellissimo racconto autobiografico di Irina Dumitrescu sulla sua difficoltà, lei figlia della diaspora romena in Canada, di esprimersi nella sua lingua madre.

Come Irina, e come tanti altri figli di immigrati, sono nata in un paese, e cresciuta altrove, condizione che pose ai miei genitori il dilemma della scelta del proprio lessico familiare. Optarono per l’italiano come lingua della quotidianità. Giunti in Italia nei primi anni Novanta, mia madre e mio padre subirono l’illusione della superiorità culturale, e quindi linguistica del paese ospitante. Nell’autunno del 1991, lasciammo una Romania che si era appena affacciata alla transizione democratica, impegnata a contrastare tensioni interetniche e gli strascichi della miseria che ci aveva imposto Nicolae Ceaușescu nel corso del decennio precedente. Eravamo andati via da Stoina, un minuscolo comune semi-industrializzato del sud della Romania, il cui paesaggio alternava ad un piccolo conglomerato di blocuri, celebre architettura abitativa comunista fatta di parallelepipedi di cemento, una pianura coltivata a girasoli, casupole ed una distesa di sonde petrolifere. Parte del distretto di Gorj, Stoina faceva parte di un’ampia area ricca di giacimenti petroliferi, sottoposti ad un'intensa attività di estrazione a partire dal secondo dopoguerra. Del resto, l’industria petrolchimica romena era stata uno dei vanti di Ceaușescu.

Le colline dell’Italia centrale che alternavano ordinati campi coltivati, ad uliveti e a benestanti cittadine umbre, non potevano che essere espressione manifesta del primato di questa cultura su quella del luogo da cui eravamo espatriati. Eppure, il mio primo ricordo dell’Italia non è legato alla grazia tardo medievale di Orvieto, ma ad un autogrill sull’Autostrada del Sole, ai miei occhi dimostrazione dell’opulenza occidentale: Tobleroni, confezioni colorate di dolci a me sconosciuti, refrigeratori colmi di salami, e videocassette delle Tartarughe Ninja. Difficile non lasciarsi convincere da tanta abbondanza.

Mi dicono sia stato per permettere a mia madre di imparare la lingua che abbiamo abbandonato l’uso del romeno e dell’ungherese in casa. Fino a quel momento, entrambi i miei genitori si erano rivolti a me nella rispettiva madrelingua. Oggi con più coscienza temo sia stata una resa ad un’assimilazione linguistica cui felicemente si sono abbandonati misto ad un desiderio di voler recidere i ponti con la propria vita precedente. E poi, come dar loro torto, in quegli anni nessun altro intorno a noi parlava le nostre lingue. L’abbandono della propria lingua è una dinamica talmente comune  tra le comunità migranti che gli è stata attribuita una definizione linguistica: bilinguismo sottrattivo. Una perdita che Graziella Favaro, pedagogista, definisce  come “generata anche da un vissuto di vergogna nei confronti del proprio idioma considerato non prestigioso, un tratto della propria storia da rimuovere”.

Che poi, che cos’è la lingua madre?

La lingua dei propri avi? La lingua della propria infanzia? La lingua che meglio si padroneggia?

Per ogni lingua che parliamo esprimiamo un bagaglio culturale interamente differente, con le proprie ironie, i propri sottintesi; per ogni lingua che padroneggiamo siamo uno, due, tre persone diverse, mi spiegò una volta intuitivamente Sándor, un prozio perfettamente bilingue, senza sapere di essere affatto pirandelliano.

Alla mia nascita, sono stata circondata da affetti che si rivolgevano a me in ungherese, nella sua articolazione seclera. Nessun suono m’è più dolce dell’idioma ungherese parlato dai secleri. È la lingua di mia mamma, mia zia e mia nonna, di tutte le donne e gli uomini che mi circondavano di attenzioni. Per i miei primi sei anni di vita, è stata la lingua di fiabe, filastrocche, e preghiere insegnatemi dalla mia mama, la nonna. Góg és Magóg fia vagyok én  . Sono il figlio di Gog e Magog, leggeva mia madre recitando uno dei suoi poeti preferiti, Ady Endre, ungherese di Transilvania, il quale intesseva versi che raccontavano di personaggi biblici che diventavano miti ungheresi. L’ungherese è l’idioma delle emozioni forti che, per mancanza di vocaboli, non posso esprimere; ma anche la lingua del conforto e delle cose semplici.

Quando intendo l’ungherese seclero, mi par di regredire ad uno stato infantile. Ne riconosco la cadenza tonda e dolce, mi cullano quelle parole che facevano inorridire la mia insegnante dell’accademia di Ungheria a Roma, la quale giudicava lemmi dialettali come csupor, tazza, o pityókák, patate, troppo grossolani per l’orecchio di una cittadina di Budapest. Vocaboli quali tazza e patate esprimono perfettamente la mia età linguistica in ungherese, ferma all’espressione dei miei bisogni primari, e corrispondente ai miei sei anni, età in cui ho smesso di praticarlo nella mia quotidianità.

Molto meglio il livello dell’altra mia madrelingua, il romeno, che ho potuto tenere in esercizio grazie alla presenza della grande diaspora romena che ha trovato casa in Italia a partire dagli anni 2000. Il mio romeno è una contaminazione di dialetti combinato ad un’inflessione che quando torno in Romania nessuno riesce ad attribuire, eppure etichettato come senz’altro straniero.

Non posso che amare la cadenza del romeno di Transilvania, inflessione che mi fa sentire sempre a casa. Servus, saluto transilvano di derivazione latina e tutti quegli intercalari, jaj, presi in prestito dall’ungherese, e che assumono di volta in volta un significato differente. Ho un debole per le declinazioni ed il dialetto dell’Oltenia, regione storica del sud della Romania, terra di mio padre. È lì che resiste l’uso del passato remoto nella lingua parlata (perfectul simplu), caduto in disuso nel resto del paese. Si dice infatti fusei, văzui, făcui, per indicare fui, vidi, feci. Mi piace molto il suono di lemmi quali platajele, pomodori, che in romeno standard hanno l’evocativo nome di roșii; e lubeniță, il cocomero, in altre regioni noto piuttosto come pepene verde. Del romeno standard, amo quella che a tratti può sembrare una formalità cerimoniosa, che impone ci si rivolga a chiunque non si conosca con il Dumneavoastră, voi.

Del romeno mi piace l’unicità di una lingua latina liberatasi dai vincoli romantici della cadenza poetica, tipica delle altre lingue romanze, per adottare, come si conviene a popoli dalle storie travagliate, una certa durezza del suono, raffigurata dalla voce roca, intonata e forte di Maria Tănase, che negli anni Quaranta cantava i versi di una ballata tradizionale di Romania  che la sua voce ha reso iconica. Lume, Lume, mondo, ma anche gente.

L’italiano è una lingua acquisita, eppure m’è materno. In italiano ho preso coscienza di me. A Dorotea, la mia insegnante di letteratura italiana del liceo, devo il lessico dell’adulta che sono e la comprensione del mondo attraverso il prisma della nostra letteratura. È Dorotea che mi ha fatto scoprire una lingua che varca i confini del quotidiano, immaginifica, arcaica, aulica, per fare il giro e tornare di nuovo quotidiana.

Tutte le mie lingue, più o meno materne, sono monche, recise. Mutilazioni dettate da interruzioni, spostamenti tra spazi geografici e linguistici. Eppure, ciò che manca ad una, lo ritrovo in un’altra, imperfezioni che si completano reciprocamente. Rosa Piro, linguista, afferma che dalla consapevolezza dei limiti della traduzione di concetti culturospecifici, e dalla contaminazione delle diverse realtà linguistiche, scaturiscono “feste delle lingue  ” che contraddistinguono le scritture migranti. Un pastiche di idiomi ed immaginazioni che ritroviamo nella letteratura di scrittrici come Elvira Mujčić  ed Igiaba Scego  . Che la loro scrittura rappresenti le sfumature di una lingua arricchita che è l’italiano del presente e del futuro, ed il superamento del monolitismo linguistico, lo dimostra l’umanità linguistica della linea di trasporto pubblico romano 14. È sufficiente un tour su questo popoloso tram il cui percorso parte da Viale Palmiro Togliatti ed arriva alla stazione Termini per intendere mille e più voci che parlano un italiano vivo, espressione delle numerose diaspore residenti nella capitale e dei tanti giovani italiani che in una stessa conversazione attraversano liberamente confini linguistici e culturali passando dal cinese, o dall’urdu, o dal romeno, all’italiano, con intromissioni necessarie del romanesco. Sul 14, in questo plurilinguismo fatto di tante madrilingue, mi sento a casa.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Giugno 24, 2023, 12:36:37 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Armenia/Armenia-una-storia-di-gestazione-per-altri-225887

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Ogni anno in Armenia nascono dozzine di bambini con l'aiuto di una madre surrogata. Sebbene non esistano statistiche chiare, gli esperti affermano che la cifra aumenta di anno in anno. Abbiamo raccolto la storia di Lilit, trentenne armena che ha aiutato una coppia a diventare genitori

22/06/2023 -  Armine Avetisyan Yerevan
Secondo i dati dell'Organizzazione mondiale della sanità, oltre il 16% delle coppie in Armenia è sterile. Le tecnologie di riproduzione assistita, compresa la gestazione per altri, aiutano queste famiglie ad avere un figlio. Ogni anno in Armenia nascono dozzine di bambini con l'aiuto di una madre surrogata. Sebbene non esistano statistiche chiare, gli esperti affermano che la cifra aumenta di anno in anno.

Lilit (il nome è stato cambiato), 33 anni, ha aiutato una coppia di sconosciuti a diventare genitori un anno fa. Dice che ci ha pensato per molto tempo.

“Tre anni fa stavo bevendo un caffè con la mia vicina, e le ho confidato che avevamo problemi economici in famiglia. Le ho detto che stavo cercando un lavoro per poter aiutare mio marito, avevamo dei debiti”, racconta la donna, aggiungendo che in quel momento ne aveva parlato solo perché era turbata e voleva alleviare le preoccupazioni parlandone, senza nemmeno immaginare che la vicina avrebbe provato a trovarle un lavoro.

“Nemmeno una settimana e la mia vicina ha chiamato e ha detto che aveva un'offerta vantaggiosa. Ci siamo incontrate, mi ha proposto di diventare madre surrogata. All'inizio non capivo cosa fosse, poi mi ha spiegato tutto”, ricorda.

La gestazione per altri è una tecnologia di riproduzione assistita che coinvolge tre persone: i genitori biologici e la donna che porta avanti la gravidanza. In Armenia, le madri surrogate devono sottoporsi ad un esame medico-genetico per escludere controindicazioni.

La madre surrogata non può essere contemporaneamente donatrice, quindi non ha il diritto di non consegnare il bambino ai genitori biologici.

Qualsiasi informazione relativa all'uso delle tecnologie di riproduzione assistita è riservata e può essere fornita solo su richiesta del tribunale, dell'ufficio del Pubblico ministero o di altri organi competenti, in conformità con la procedura stabilita dalla legge.

Una madre surrogata può essere una donna di età compresa tra 20 e 35 anni che ha almeno un figlio proprio. Se la donna è sposata, è necessario anche il consenso scritto del marito.

“Mi è stato offerto un compenso piuttosto alto, circa 30.000 dollari. Avrebbe coperto interamente i nostri debiti e sarebbero rimasti ancora molti soldi per dopo”, dice Lilit, aggiungendo che, oltre ai soldi, era interessata anche all'idea di aiutare una famiglia senza figli.

"Ho un bambino. Conosco benissimo la gioia di essere genitore. La famiglia che avrei dovuto aiutare non riusciva ad avere un figlio da circa 20 anni. Avevano provato molti trattamenti, i farmaci avevano quasi distrutto la loro salute senza risultato. A dire il vero, all'inizio li ho conosciuti di nascosto da mio marito, erano una coppia molto gentile, ho capito a prima vista che volevo aiutarli. Con mio marito è stato difficile, all'inizio non voleva, ma poi abbiamo trovato un accordo”.

Quando Lilit ha ricevuto il consenso del marito, la famiglia ha seguito tutti i passaggi legali e medici. Quando la gravidanza è stata registrata, si è trasferita in una casa separata.

“Io vivo in una regione, la famiglia invece è a Yerevan. Dovevamo essere sempre in contatto. Mio figlio è piccolo, gli abbiamo detto che sarei andata a lavorare all'estero e sarei tornata presto con dei regali. I mesi sono passati molto facilmente. Hanno avuto un bambino sano. Sono felice di averli aiutati. Quando ho visto la loro felicità, mi sono sentita la persona più felice del mondo”, racconta Lilit, aggiungendo di non aver avuto problemi psicologici.

“Ho fatto quel passo consapevolmente, capivo benissimo che non era mio figlio e stavo solo aiutando”.

Secondo la normativa vigente, la madre surrogata non deve assentarsi dal luogo di residenza noto alla coppia, e in generale dal territorio dell'Armenia, durante l'intero periodo della gravidanza. Questo può avvenire solo in caso di accordo con la coppia.

Secondo lo psicologo Martin Vardanyan, l'istituzione della maternità surrogata è un processo molto delicato, al quale la società armena ha appena iniziato ad adattarsi.

Secondo lo psicologo, solo di recente la società ha iniziato ad assumere un atteggiamento relativamente positivo, e l'approccio critico è dovuto solo alla mancanza di informazione.

“Le persone non hanno ancora una comprensione completa di questo fenomeno, non capiscono che cosa sia, questo è il motivo per cui c'è molta negatività. Anche la nostra mentalità nazionale gioca un ruolo importante”, afferma lo psicologo.

Eduard Hambardzumyan, fondatore e direttore del Fertility Centre, afferma che le madri surrogate si trovano principalmente attraverso la pubblicità.

“Prestiamo molta attenzione allo stile di vita e alla famiglia della donna. Ci sono molte storie. Abbiamo avuto un caso in cui la donna non voleva conoscere la madre surrogata: la clinica e gli avvocati si sono occupati dell'intero processo. Ci sono anche molti casi in cui le due donne hanno stabilito un rapporto stretto”, dice lo specialista.

Il costo di questo servizio va generalmente dai 15.000 ai 30.000 dollari. A seconda dell'accordo, sono coperte anche le spese correnti della madre surrogata durante la gravidanza e il cibo necessario.

“Non vedo il bambino dalla nascita, ma sono diventata amica di sua madre, parliamo spesso. Mi manda le foto del bambino. Sono orgogliosa del lavoro che ho svolto”, afferma Lilit.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Giugno 24, 2023, 12:45:29 pm
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La fuga delle ragazze del Caucaso del Nord
Meglio tacere, potrei essere frainteso.
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un bellissimo racconto autobiografico di Irina Dumitrescu sulla sua difficoltà, lei figlia della diaspora romena in Canada, di esprimersi nella sua lingua madre
Ma cosa rompe, se vuole parlare rumeno perché non torna in Romania tra i suoi amati cubi di cemento e le sonde petrolifere?
Citazione
Giunti in Italia nei primi anni Novanta, mia madre e mio padre subirono l’illusione della superiorità culturale, e quindi linguistica del paese ospitante.
Sicura che sia un'illusione? L'unica cosa che mi dispiace davvero è che tra pochi decenni non ci saranno più italiani. Colpa della congiuntura, delle leggi di tante cose ma alla fine a decretare l'estinzione di questo Paese sono state le donne
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Ogni anno in Armenia nascono dozzine di bambini con l'aiuto di una madre surrogata.
Stiamo facendo di tutto per imitarli
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 14, 2023, 19:21:10 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Vittime-contro-vittime-25-anni-dopo-a-Prijedor-226626

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Vittime contro vittime, 25 anni dopo a Prijedor

Vittime contro vittime, dolore contro dolore. Una prassi consolidata nelle guerre di dissoluzione della Jugoslavia, riproposta di recente con la commemorazione a Prijedor delle vittime serbe dell’operazione Oluja. Commento

10/08/2023 -  Massimo Moratti
Era il gennaio del 1998. A quel tempo i villaggi bosgnacchi attorno a Prijedor, la cittadina della Republika Srpska dove lavoravo per l’OSCE, erano dei luoghi fantasma. Cumuli e cumuli di macerie che spesso occupavano anche le poche strade ancora agibili, dove non era infrequente trovare dei resti umani appena si iniziava a rimuove le macerie.

Eppure, in quei posti sostanzialmente abbandonati, la mia collega ed io avevamo notato che alcune case, parzialmente distrutte, erano state riparate alla bell’e meglio. Porte e finestre erano state inserite al posto degli infissi originali che erano stati rubati. Lo spazio in eccesso tra finestra e muro era stato chiuso con pile di mattoni probabilmente recuperati dalle macerie.

Nella zona di Prijedor il ritorno dei quasi 50.000 bosgnacchi cacciati durante il conflitto non era ancora iniziato. Era chiaro quindi che gli abitanti di queste case non erano i proprietari originali, ma persone che in qualche modo vi avevano trovato rifugio. Quello che ci colpì a suo tempo era che non si trattava di casi isolati, ma decine e decine di case, erano state riparate in questo modo approssimativo. Non sembravano degli sforzi isolati, ma piuttosto un improvvisato tentativo di ricostruire case distrutte. Il loro numero colpì la mia attenzione. Queste case si trovavano soprattutto nella zona di Kozarac e Trnopolje, lungo la strada che da Prijedor porta a Banja Luka.

Chiesi informazioni in giro, cercando di capire chi avesse ricostruito le case e chi ci abitava.

La risposta era concorde: “Ah, è la gente di Martić!”. Milan Martić era uno degli ideatori dell’insurrezione dei serbi in Croazia e la longa manus di Milošević in Krajina. Al momento dell’operazione “Tempesta” (“Oluja”), l’operazione militare con cui la Croazia smantellò la repubblica secessionista serba e di fatto mise in fuga i serbi di Krajina, Martić ne era il presidente. Successivamente indiziato per crimini di guerra, fu condannato nel 2007 a 35 anni di carcere per aver organizzato la pulizia etnica dei croati e di altre popolazioni non serbe dalla Krajina. Al momento sta scontando la pena in Estonia.

I “curdi d’Europa”
Alla fine riuscimmo ad avvicinare gli abitanti di quelle case. Ci fecero entrare e potemmo vedere dall’interno le misere condizioni delle abitazioni. La casa era riscaldata a malapena da una stufa recuperata chissà dove, le finestre e gli infissi riuscivano a stento a tener fuori il freddo. Chiacchierammo un po’ con i nostri ospiti, capimmo che erano scappati dalla Krajina nel 1995 ed allora si erano sparpagliati in vari gruppi. Il gruppo che era arrivato a Prijedor era stato evidentemente sistemato nelle case parzialmente distrutte dei bosgnacchi di Kozarac e Trnopolje, per occuparle e far sì che questi non vi facessero ritorno, secondo la prassi tipica delle guerre di dissoluzione della Jugoslavia di usare le vittime di un gruppo etnico contro le vittime di un altro gruppo etnico.

Chiedemmo loro chi era stato a fornire il materiale di costruzione, ci imbattemmo in un muro di omertà. “Qualcuno” fu la risposta e i nostri interlocutori non vollero dare ulteriori spiegazioni. Erano però preoccupati per il loro futuro, capivano che i legittimi proprietari delle case vi avrebbero fatto ritorno prima o poi, ma non sapevano che cosa sarebbe accaduto a loro e dove sarebbero andati. Non sapevano di quale stato fossero cittadini, i serbi di Krajina si sentivano “i curdi d’Europa” per riprendere un’espressione usata a suo tempo. I loro capi, Martić in primis, si erano dati alla latitanza e non si sapeva dove fossero.

Pochi mesi dopo, iniziò la ricostruzione dei villaggi attorno a Prijedor in attesa del ritorno dei legittimi proprietari. A poco a poco, osservammo che i serbi della Krajina se ne stavano andando e in breve scomparvero senza lasciare traccia.

Il gruppo di rifugiati serbi a Prijedor probabilmente non fu il più sfortunato. Molti dei rifugiati serbi dalla Krajina, una volta arrivati a Belgrado furono immediatamente mobilitati dal governo serbo e sottoposti ad addestramento forzato  nel campo gestito dal famigerato leader paramilitare Arkan nell’attuale Erdut per poi esser rispediti al fronte a combattere in Slavonia orientale. Arkan e le sue truppe paramilitari accusavano i serbi di Krajina di esser ubriaconi e traditori per esser fuggiti dalle proprie terre. Altri serbi di Krajina invece furono spediti in Kosovo, a ripopolare la regione meridionale della Serbia dove da alcuni anni Milošević stava esercitando il pugno di ferro nei confronti della popolazione albanese kosovara. I rifugiati dalla Krajina rappresentavano una presenza imbarazzante per il governo di Slobodan Milošević.

Lo scenario si ripete
Un quarto di secolo dopo, pochi giorni fa, lo stesso scenario si è ripetuto a Prijedor. Da alcuni anni in Serbia, la ricorrenza di Oluja, assieme a quella dei bombardamenti NATO sul Kosovo, è divenuta uno dei momenti salienti del nazionalismo serbo, quando si svolgono importanti manifestazioni per commemorare le vittime serbe in un modo del tutto avulso dal contesto che ha causato queste vittime. Quest’anno, a sorpresa di molti, la scelta su dove tenere la commemorazione è caduta su Prijedor. Ancora una volta a tutti è parsa chiara l’intenzione di schierare le vittime degli uni contro le vittime degli altri. Dolore contro dolore.

La decisione è stata presa dal presidente serbo Aleksandar Vucić, dal presidente della Republika Srpska Milorad Dodik e dal Patriarca della Chiesa serba ortodossa Porfirije. Una delle ragioni, o dei pretesti, è stata probabilmente la vicinanza di Prijedor al luogo in cui la colonna di rifugiati serbi  in fuga dalla Krajina è stata bombardata dall’aviazione croata, caso per il quale c’è un procedimento per crimini di guerra  in corso a Belgrado.

La scelta di Prijedor ha suscitato sarcasmo e critiche  : Edin Ramulić, dell’iniziativa “Jer me se tiće”, che a Prijedor organizza ogni anno la commemorazione delle vittime bosgnacche, ha detto che non vi sarebbero stati problemi se la manifestazione fosse stata organizzata dai rappresentati delle vittime serbe di Krajina, ma il fatto che ad organizzarla fossero le autorità della Serbia e della Republika Srpska, assieme alla Chiesa ortodossa, rappresentava certamente una provocazione dato che si commemorava la cacciata dei serbi dalla Krajina nella città da cui furono cacciati bosgnacchi e croati.

La propaganda fa autogol
Il caso ha voluto che le parole di Ramulić trovassero conferma in un imbarazzante incidente mediatico avvenuto durante la commemorazione. La foto simbolo dell’evento, che campeggiava dietro il podio da cui parlavano gli oratori, ritraeva una madre con in braccio una neonata di pochi mesi mentre fuggiva da quella che doveva esser la Krajina attaccata dall’esercito croato.

Poche ore dopo però si è scoperta la verità. La foto non ritraeva degli sfollati serbi, ma bensì degli sfollati bosgnacchi  in fuga dall’esercito serbo nell’enclave di Žepa, vicino a Srebrenica. Anziché essere una testimonianza dei crimini contro le vittime serbe, la foto era una testimonianza dei crimini commessi dall’esercito della Republika Srpska contro i bosgnacchi. Un clamoroso autogol mediatico dell’apparato del governo della Republika Srpska che si era affidato ad un’agenzia di Belgrado per l’organizzazione dell’evento. A poco sono servite le scuse dell’agenzia di Belgrado  quando l’episodio è diventato virale sui social media.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 14, 2023, 19:23:35 pm
Stiamo facendo di tutto per imitarli

Stanno facendo di tutto per imitarli.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Agosto 14, 2023, 21:36:20 pm
"Noi" come popolo, io no di certo
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 16, 2023, 19:40:26 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Transizione-verde-Gli-investimenti-dell-Ue-per-i-Balcani-occidentali-226134

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Transizione verde? Gli investimenti dell'Ue per i Balcani occidentali

Gli investimenti dell'Unione europea mirano a sostenere la transizione verde nei paesi dei Balcani occidentali, ma rimangono diverse criticità rispetto al tipo di progetti sostenuti e alla loro effettiva realizzazione

16/08/2023 -  Marilen Martin
Ora che l'allargamento dell'Unione europea ai Balcani occidentali è finalmente tornato in agenda, adeguare la legislazione nazionale a quella comunitaria è diventato una necessità urgente per i paesi candidati della regione. Questo include allinearsi con la legge dell'UE sul clima, che impegna gli stati membri a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050.

Ridurre significativamente le emissioni nocive rimane una sfida formidabile per i Balcani occidentali. L'approvazione dell'Agenda Verde per i Balcani occidentali nel 2020 ha però sollevato alcune speranze; si tratta di un piano sostenuto dall'Ue, che riflette l'ambizioso Green Deal promosso dalla stessa Unione europea.

I fondi previsti
Mentre 8 dei 9 miliardi di euro previsti dall'Agenda Verde sono concessi a fondo perduto, 1 miliardo è costituito da garanzie concesse attraverso il Fondo di garanzia per i Balcani occidentali. Una garanzia significa che l'Ue non presta direttamente denaro, ma garantisce che il debito verrà rimborsato (almeno in parte) nel caso in cui il paese destinatario dovesse andare in default. Attraverso i suoi investimenti e finanziamenti, l'Ue prevede di mobilitare complessivamente 20 miliardi di euro nella regione nel corso del prossimo decennio.

Inserito all'interno di questa visione c'è il Piano economico e di investimento (Economic and Investment Plan, EIP), un insieme di misure strategiche che prevedono fino a 9 miliardi di euro di investimenti dell'Ue nella regione tra il 2021 e il 2027. Questi fondi dovrebbero svolgere un ruolo cruciale nell'agevolare la transizione ecologica della regione e nel favorire una sua maggiore integrazione con gli attuali stati membri dell'Ue.

I primi passi sono stati compiuti
Dopo l'adozione del'EIP nell'ottobre 2020, l'Ue ha finora approvato 1,8 miliardi di euro di investimenti nei Balcani occidentali, ovvero un quinto dei fondi promessi complessivamente; si prevede che questi investimenti mobiliteranno a loro volta 5,6 miliardi di euro. "I Balcani occidentali dovrebbero raggiungere la neutralità climatica in contemporanea al resto dell'Ue, ma purtroppo il punto di partenza è molto diverso", afferma Selma Ahatović-Lihić, responsabile della comunicazione del Consiglio per la cooperazione regionale.

Gli investimenti dell'Ue si concentrano su 40 progetti selezionati, per la maggior parte mirati a promuovere trasporti sostenibili ed energia pulita. I progetti spaziano dalla costruzione di nuove strade a progetti solari e al ripristino di una centrale idroelettrica. Benché siano distribuiti in modo piuttosto equilibrato in tutta la regione, si possono notare alcune differenze: ad esempio, gli investimenti previsti in Bosnia Erzegovina riguardano solo progetti per la mobilità sostenibile.

La distribuzione dei finanziamenti indica che l'attenzione si concentra soprattutto sui trasporti. La quota maggiore dell'EIP è destinata a progetti legati alla mobilità; la quota investita nel miglioramento del sistema stradale è simile a quella destinata al trasporto ferroviario. La disparità tra i diversi investimenti è notevole: per esempio, i finanziamenti destinati alle strade sono più che doppi rispetto a quelli destinati a progetti per l'energia pulita.

Strade invece di ferrovie
Sebbene il Piano Economico e di Investimento includa vari progetti volti a sostenere la mobilità sostenibile, le energie rinnovabili, la digitalizzazione e la crescita del settore privato, non è scontato che tutti questi investimenti vadano davvero a sostenere gli obiettivi di fondo dell'Agenda Verde.

Per esempio, l’accento posto sulla costruzione di strade è problematico e non sembra troppo in linea con l'obiettivo di promuovere forme sostenibili di mobilità. Samir Lemeš, attivista dell'ong bosniaca Eko Forum, critica il fatto che "vengono investiti miliardi di euro nelle autostrade, mentre gli investimenti nelle ferrovie sono quasi nulli". Le ferrovie e le vie navigabili sarebbero forme di trasporto più sostenibili, mentre un aumento del traffico stradale aumenterà le emissioni nocive. Anche se le nuove strade potrebbero migliorare le connessioni all'interno della regione, lo stesso obiettivo avrebbe potuto essere perseguito attraverso le ferrovie, che emettono meno gas serra. Costruire nuove strade comunque non risolve il principale ostacolo alla connettività nei Balcani occidentali: i controlli alle frontiere e i loro tempi lunghi, come evidenzia uno studio del Parlamento europeo  .

Abbandonare il carbone, ma come?
Una porzione considerevole degli investimenti dell'Ue punta anche ad aumentare l'efficienza energetica nei Balcani occidentali. Si tratta di una buona occasione per ridurre le emissioni nocive e l'inquinamento atmosferico, dato che gli edifici contribuiscono in modo significativo a generarli, in particolare in caso di sistemi di riscaldamento poco efficienti.

Per ridurre in modo significativo le emissioni, per il riscaldamento dovrebbero essere usate delle alternative rinnovabili al carbone e al legno. Sebbene alcuni progetti dell'EIP si concentrino effettivamente sulla promozione delle energie rinnovabili, un rapporto dell'OCSE  evidenzia il potenziale ancora non sfruttato dell'energia solare ed eolica nei Balcani occidentali. Il piano di investimenti previsti dall'Ue non incoraggia un pieno sfruttamento di queste risorse, optando invece per controversi progetti idroelettrici che hanno impatti ambientali negativi. Stanislav Vučković, attivista dell'ong serba Eko Straža, riconosce che "l'energia idroelettrica è una delle soluzioni per la transizione energetica", ma allo stesso tempo avverte che "bisogna fare attenzione a ridurre al minimo i danni agli ecosistemi e all'ambiente".

È costoso e complesso riuscire a fare abbandonare il carbone a interi sistemi economici. I costi elevati – incluso l'impatto socio-economico della transizione – suggeriscono che i governi possano esitare a procedere davvero in tale direzione. Selma Ahatović-Lihić è preoccupata perché "il cambiamento climatico sta diventando sempre più costoso e appesantisce ulteriormente le economie già deboli dei Balcani occidentali, dove la povertà energetica è un problema significativo". Gli investimenti dell'Ue in questa regione diventano cruciali per incoraggiare e sostenere la transizione energetica – ma i finanziamenti stanziati finora sono assai limitati.

Più in generale, l'allocazione dei fondi attualmente prevista non affronta in modo organico il problema del cambiamento climatico e dei danni ambientali. Per esempio, alcuni progetti si concentrano sulla gestione dei rifiuti e delle acque reflue ma trascurano altre importanti questioni ambientali. Settori come quello dell'agricoltura sostenibile – nonostante il suo impatto significativo sulle esportazioni e sull'occupazione nella regione – rimangono attualmente esclusi dal piano di investimento dell'Ue.

La necessità di una buona governance
I progetti dell'EIP sono ancora nella loro fase iniziale, e dunque non è possibile valutarne in modo preciso l'impatto. Appare però già evidente che il loro successo dipenderà dal contesto politico e dal rafforzamento della capacità di agire delle autorità. La debolezza delle istituzioni e i privilegi conferiti alle imprese statali pongono sfide notevoli per l'efficacia degli investimenti in questo ambito. Inoltre, le carenze nel sistema di istruzione e lo spopolamento devono essere affrontati se si vuole far emergere una forza lavoro qualificata e in grado di guidare lo sviluppo economico. "Ci mancano non solo i fondi, ma anche l'infrastruttura necessaria per garantire l'attuazione dei progetti", afferma Stanislav Vučković. "Abbiamo bisogno di opportunità per acquisire esperienza diretta e scambiarci conoscenze con i paesi dell'Ue". Secondo l'attivista, "il principale ostacolo a una vera transizione verde della Serbia è il regime politico serbo sostenuto dall'Ue".

I comuni dei Balcani occidentali hanno bisogno di sviluppare le competenze necessarie. Essere in grado di svolgere analisi d'impatto ambientale esaustive è cruciale per garantire che i progetti contribuiscano davvero alla transizione verde. Ma la loro efficacia dipende in ultima analisi dalla fase di attuazione: buone pratiche di governance sono indispensabili a questo scopo.

Le ong consultate sollevano anche preoccupazioni per la mancanza di dialogo con la società civile durante la fase di pianificazione dei progetti dell'EIP, evidenziando la necessità di maggiore coinvolgimento e trasparenza. Secondo Samir Lemeš "il processo non è trasparente, non ci sono abbastanza informazioni disponibili pubblicamente, e la maggior parte dei fondi finisce a consulenti dell'Ue".

Mettere i numeri in prospettiva
L'ammontare complessivo dei finanziamenti dell'Ue diretti ai Balcani occidentali attraverso l'EIP è relativamente modesto se confrontato con i fondi dell'Ue che fluiscono negli stati membri confinanti coi Balcani occidentali, come Romania, Bulgaria, Croazia, Ungheria e Grecia. È naturale che i paesi dell'Ue beneficino di molti più programmi e opportunità di finanziamento – è anche per questo che i paesi candidati sono tanto interessati a poter finalmente accedere all'Ue. Secondo Selma Ahatović-Lihić, "il divario tra i Balcani occidentali e l'Ue rimane ancora enorme".

Il sostegno finanziario fornito dall'Ue attraverso l'EIP rientra nel programma di pre-adesione IPA III, che è specificamente destinato ad aiutare i paesi nel loro percorso verso l'adesione all'Ue. Di conseguenza questi investimenti sono soggetti a condizionalità – vale a dire che l'importo dei finanziamenti ricevuti dipende dalle prestazioni di ciascun paese.

Tuttavia affinché l'impegno dell'Ue verso i Balcani occidentali rimanga credibile, è necessario che la prospettiva sia chiara. "La data dell'adesione della Serbia all'Ue è stata posticipata a tempo indefinito, di certo per decenni", sostiene Vučković. "Di conseguenza, qualsiasi sostegno finanziario da parte delle istituzioni dell'Ue viene guardato – per usare un eufemismo – con una certa cautela".
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 16, 2023, 19:42:28 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Russia/La-Russia-di-Putin-e-diventata-una-dittatura-della-paura-226539

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La Russia di Putin è diventata una “dittatura della paura”

Incontro col politologo Daniel Treisman, autore di un libro sulla dittatura della paura, sul cambio di paradigma del regime di Putin e sul futuro della Russia

09/08/2023 -  Margarita Liutova
(Originariamente pubblicato da Meduza  il 24 luglio 2023, traduzione dal russo di Sasha Slobodov, con licenza CC BY 4.0 e pubblicato da Valigia Blu  )

Nell'aprile del 2022, l'economista Sergei Guriev e il politologo dell'Università della California Daniel Treisman hanno pubblicato un libro  intitolato Spin dictators. The changing face of tyranny in the 21st century  , incentrato sulle moderne autocrazie  e su quelle che chiamano "spin dictatorships" (dittature elettorali), che basano la loro autorità sulla manipolazione e sulla propaganda. Il libro è stato presentato per la pubblicazione prima dell'invasione su larga scala dell'Ucraina da parte della Russia. Mentre Guriev e Treisman hanno a lungo classificato Vladimir Putin tra questi, in questo libro avvertono che il presidente russo si è affidato sempre più alla forza, trasformandosi in un "dittatore della paura". L'inviata speciale di Meduza Margarita Liutova ha parlato con il professor Treisman per saperne di più su come è cambiato il regime di Putin negli ultimi anni e su cosa potrebbe riservare il futuro alla Russia.

Dittatura della paura
Nel corso dei suoi anni di mandato, lo stile autoritario di Vladimir Putin è cambiato radicalmente, spiega Daniel Treisman a Meduza. Durante i primi due mandati della presidenza Putin e soprattutto durante il mandato di Dmitry Medvedev, l'attenzione era rivolta a mantenere un'immagine di "modernità, raffinatezza e rispettabilità internazionale". Questo è in netto contrasto con la realtà politica della Russia di oggi, in cui il Cremlino cerca di spaventare tutti i potenziali oppositori e di perseguire chiunque accenni anche solo a sentimenti contrari alla guerra.

"Penso che sia ragionevole classificare questa situazione come una dittatura fondata sulla paura, anche se ci sono ancora alcuni elementi di tentativo di manipolazione [come avviene nelle dittature elettorali]", afferma Treisman.

Queste due tipologie di dittatura, tuttavia, non si escludono a vicenda. Anche se Putin non potrà tornare al regime di prima, continuerà a impiegare tattiche caratteristiche di entrambe, mescolando controllo dell’informazione, consenso elettorale e paura.

La gente vuole credere di vivere in una democrazia
Se Putin è impegnato in una "dittatura della paura", allora perché ha annunciato  che le elezioni presidenziali russe del 2024 saranno conformi "a tutti gli standard democratici"? In questo modo, spiega Treisman, il presidente può fare appello a un vasto pubblico, rivolgendosi a coloro che nel paese hanno ancora valori democratici ma che attualmente sono disposti ad accettare il regime militarista. A giudicare dai sondaggi disponibili  , la maggioranza dei russi crede ancora che il leader del Paese debba candidarsi a elezioni regolari, e Putin vuole conformarsi almeno formalmente a questi ideali.

La gente vuole ancora credere di vivere in un paese democratico, sostiene Treisman: "È difficile riconoscere che stanno accadendo cose terribili. Penso che ci sia una grande tendenza psicologica innata ad aggrapparsi alle illusioni, se sono più comode. E credo che il regime sfrutti questo aspetto. Quindi, in larga misura, la sua propaganda funziona quando c'è un destinatario disposto a fare la propria parte per assicurarsi che il messaggio rassicurante abbia successo."

La trasformazione in dittatura della paura
Quando Putin ha assunto la carica nel 2000, sembrava davvero propenso a collaborare con l'Occidente e ad accettare i vincoli democratici, pur accentrando il potere. Molti hanno sottovalutato quanto Putin fosse disposto a scendere in profondità, dice Treisman, spiegando che è facile che una "dittatura elettorale" si trasformi in una "dittatura della paura". Questo accade di solito quando un leader comincia a dubitare che le tattiche di manipolazione caratteristiche della prima siano ancora efficaci. "Credo che Putin sia arrivato a credere che le tecniche sofisticate che aveva usato all'inizio del suo mandato non fossero più efficaci", spiega Treisman. Invece di affidarsi a consiglieri politici ed economisti liberali, ha spostato l'attenzione sulla comunità dei servizi segreti. Dopo tutto, loro sanno esattamente come intimidire ed esercitare il controllo".

Per quanto riguarda la decisione di lanciare l'invasione su larga scala dell'Ucraina, Treisman ritiene che Putin si sia convinto che la Russia, "con le sue ambizioni di grande potenza", fosse messa in discussione dalla comunità internazionale. La sua frustrazione per il ruolo della Russia nel mondo, così come la sua stessa posizione, sono state fondamentali per la sua decisione di invadere. "Putin ha escluso dalla sua camera d'eco tutte le persone che avrebbero potuto convincerlo a fare qualcosa di diverso", afferma Treisman. Tutti quelli che sono rimasti intorno a Putin condividono la sua versione preferita della realtà.

Il nazionalismo nella società russa
La società russa sembrava essersi rapidamente modernizzata e aperta ai valori liberali, ma ora appare sempre più imperialista e sciovinista. Non è che la società russa sia improvvisamente cambiata, spiega Treisman. Piuttosto, molti hanno sottovalutato che questa "azione palesemente aggressiva ed estrema avrebbe comunque evocato una reazione altrettanto estrema, di natura patriottica e lealista".

Tuttavia, l'opinione pubblica russa ha registrato tendenze contraddittorie. Ad esempio, dopo l'annessione della Crimea nel 2014, per un periodo di quattro anni c'è stata un'incredibile euforia  che alla fine è svanita. I sondaggi  del Levada Center mostrano che dopo l'annessione sono aumentati gli atteggiamenti negativi nei confronti degli Stati Uniti. Nel 2021, questo numero è sceso ai livelli precedenti al 2014, prima di aumentare nuovamente dopo l'inizio dell'invasione su larga scala.

È difficile dire con certezza quanto durerà questo "boom nazionalista", dice Treisman: "Non sappiamo quanto sia profondo [il sentimento nazionalista] perché, naturalmente, in questo clima di intimidazione c'è molto conformismo. C'è molta lealtà superficiale e c'è molta confusione, [...] e un conflitto nella psiche russa: da un lato, l'impulso a essere leali, a stare dalla parte del proprio popolo, e dall'altro, l'allarme e un senso di orrore per la direzione in cui la Russia sembra andare."

Il ruolo dell'opposizione russa
Sebbene vi siano stati conflitti interni all'opposizione russa, dal 2017 l'insoddisfazione nei confronti del regime di Putin si è diffusa ben oltre le sole Mosca e San Pietroburgo. Manifestazioni a sostegno di Navalny, ad esempio, hanno avuto luogo in tutto il paese. Ma l'opposizione russa si scontra con una "macchina oppressiva molto ben attrezzata, esperta e organizzata", afferma Treisman. In fin dei conti, l'opposizione non era pronta a rovesciare lo "Stato dell'FSB".

"Credo che nessuno prevedesse che avremmo assistito a una rivoluzione in Russia in cui i sostenitori di Navalny e di altri gruppi anti-Putin si sarebbero sollevati e avrebbero conquistato il Cremlino in tempi brevi", ricorda Treisman. C'è stato un progresso nella volontà della società russa di uscire e protestare, anche se questo è stato ampiamente messo da parte dall'invasione su larga scala.

La lotta di Putin per mantenere il potere
Putin è diventato sempre più dipendente dai servizi segreti e dalle forze armate, anche se è diventato sempre più difficile per lui tenerli sotto il suo controllo, come dimostra l'ammutinamento di Prigozhin. Il presidente russo ha ricevuto numerosi avvertimenti che il fondatore del Gruppo Wagner sarebbe diventato un problema. Con la ribellione, è diventato chiaro che Putin non era in grado di difendersi. Ora Putin sta cercando di capire chi, all'interno dei servizi di sicurezza, gli sia effettivamente fedele.

Secondo Treisman, è improbabile che ci sia un colpo di Stato in Russia. È più probabile una "graduale erosione del potere del Cremlino". Con la ribellione di Prigozhin, "abbiamo assistito a un'enorme incapacità di reagire e di prevenire, e forse sta diventando troppo per una sola persona al Cremlino gestire tutte le questioni legate alla guerra, così come preoccuparsi della lealtà nei diversi rami dello Stato di sicurezza, seguire e gestire l'opinione pubblica interna e tutte le questioni e i problemi che sorgono negli 11 fusi orari". E aggiunge: "Forse stiamo assistendo all'inizio di una sorta di crollo graduale".

È possibile anche un futuro in cui Putin si faccia da parte, riducendo o trasferendo i suoi poteri. Ciò avverrebbe probabilmente se iniziasse a permettere ad altri di prendere decisioni importanti. Se Putin decidesse di non essere più in grado di gestire efficacemente le situazioni in corso, potrebbe decidere che farsi da parte è l'opzione più sicura, anche se Treisman osserva che ciò rimane improbabile.

"L'atteggiamento conflittuale" dell'Occidente
Quando si ha a che fare con le "dittature elettorali", il modello migliore è l'"atteggiamento conflittuale", come lo definisce Treisman. Gli Stati Uniti e l'Unione Europea devono lavorare attivamente per contrastare lo sfruttamento della corruzione e dei legami economici occidentali da parte delle dittature, chiudendo tutti i canali per il denaro corrotto e trovando il modo di limitare l'influenza dei dittatori sulle società occidentali. Ciò significa affrontare i lobbisti che lavorano nell'interesse delle dittature, rendere più difficile per i dittatori nascondere il loro denaro in Occidente e seguire da vicino il modo in cui gli Stati stranieri cercano di influenzare la politica interna: "Resta necessario esercitare la massima pressione sulla Russia in tutti i modi possibili, al di fuori di un coinvolgimento militare diretto della NATO, per assicurarsi che l'Ucraina possa difendersi da sola e che Putin non ne esca percepito come un vincitore, rafforzato a livello interno."

In futuro, se il successore di Putin diventerà meno pericoloso per il mondo esterno, l'Occidente dovrebbe essere pronto a reintegrare la Russia, sostiene Treisman, fornendole opportunità più moderne, meno aggressive e più aperte per prosperare e svilupparsi come parte dell'economia globale e della comunità internazionale. Attualmente, tuttavia, il compito più importante per l'Occidente è quello di aiutare l'Ucraina a difendersi dalla Russia e di essere pronto a sostenere lo sviluppo politico ed economico del paese non appena si presenterà tale opportunità.

Una "dittatura della paura" non durerà necessariamente per sempre, spiega Treisman a Meduza. "La repressione può essere molto efficace nel breve periodo, ma ti lascia con [...] problemi, con sfide economiche [...] e con le difficoltà interne, i vicoli ciechi della politica interna da cui si era partiti".
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Agosto 16, 2023, 19:46:54 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Oluja-la-storia-di-Nikola-226581

Citazione
Oluja, la storia di Nikola

Nikola aveva pochi mesi quando nell’agosto del 1995 la sua famiglia, insieme con le altre 200mila persone di nazionalità serba, lasciò in fretta e furia la Croazia. Dopo aver vissuto in Serbia per quindici anni è tornato in Croazia dove ha fatto gli studi superiori e dove tutt’ora vive e lavora. Lo abbiamo incontrato

08/08/2023 -  Giovanni Vale Zagabria
Ho incontrato per la prima volta Nikola Kožul al corso di Studi sulla pace organizzato dal Centar za Mirovne Studije (CMS) di Zagabria. Un giorno, durante il modulo sulle guerre degli anni Novanta, questo 28enne alto e magro ha preso la parola e ha raccontato la sua storia – quella di uno dei circa 200mila serbi di Croazia che nell’agosto del 1995 lasciarono in fretta e furia le proprie case, mentre l’esercito croato avanzava riconquistando la Krajina durante l’operazione Tempesta (Oluja). Tra il 1995 e il 2010, Nikola ha vissuto in Serbia, prima di tornare in Croazia, dove ha frequentato il liceo e si è laureato in legge. Il suo discorso mi aveva colpito non solo per la drammaticità degli eventi che raccontava, ma anche per la tenacia, l’impegno e persino l’ottimismo che trapelava dalle sue parole. Oggi Nikola lavora come giurista al Consiglio nazionale serbo (SNV, l’organo che rappresenta la minoranza serba in Croazia) e offre assistenza legale gratuita a chi ne ha bisogno. In occasione del 28° anniversario di Oluja, l’ho incontrato in un caffè della capitale croata per farmi raccontare nel dettaglio la sua storia.

Nikola, tu sei nato a Benkovac, nell’entroterra di Zara, quattro mesi prima dell’operazione Tempesta. Cosa ti hanno detto i tuoi famigliari di quell’agosto 1995?

La grande domanda, all’interno della comunità serba, è: “siamo partiti da soli o ci hanno cacciato?” La versione ufficiale croata sostiene che i serbi hanno deciso spontaneamente di partire. I miei dicono che avevano paura, che non si fidavano delle nuove autorità croate e che vedevano tutti fuggire. Hanno deciso all’ultimo momento. La mattina del 4 agosto 1995, quando mia mamma ha chiamato il nonno per dire “dobbiamo andare, stanno scappando tutti”, lui era tra i campi e stava costruendo una recinzione per le galline. Più tardi ho sentito altre storie, di persone che erano state avvicinate da agenti di sicurezza serbi che avevano consigliato loro di partire… È una vicenda di cui non saremo mai sicuri al 100%. Io penso che ci sia stato un accordo tra Croazia e Serbia, perché poi, durante il nostro viaggio, le autorità serbe ci dirottavano continuamente verso il Kosovo, per popolarlo di serbi. Ad ogni modo, per quanto riguarda i miei, l’effetto psicologico è stato sufficiente: tutti scappavano e quindi sono fuggiti anche loro. Siamo così partiti con due auto e a Knin ci siamo uniti alla grande colonna di auto e trattori che lasciava la Croazia.

L’immagine di quella colonna di migliaia di persone, perlopiù povere e provenienti dalla Croazia rurale, è diventata uno dei simboli più noti dell’operazione Oluja. La tua famiglia cosa faceva a Benkovac prima della guerra?

Mio nonno era figlio di partigiani e durante la Seconda guerra mondiale era finito, assieme a tutta la famiglia, in un campo di prigionia italiano sull’isola di Meleda (Molat) e poi a Napoli. Al suo ritorno, aveva iniziato la scuola e si era laureato in Economia a Belgrado, prima di tornare a Benkovac per lavorare come direttore della cooperativa agricola locale. La nonna – più giovane di 14 anni – aveva studiato anche lei all’università, laureandosi alla facoltà di Turismo a Zara. Entrambi, insomma, erano un esempio di successo della Jugoslavia socialista, provenienti da famiglie contadine e diventati parte della nuova élite. Mio nonno credeva molto nei valori della Jugoslavia ed era contrario al nazionalismo, così quando le nuove autorità serbe hanno preso il controllo della Krajina nel 1991, lui ha perso il lavoro ed è finito per un breve periodo in prigione, prima di ritrovare un impiego come direttore di banca fino al 1995.

Torniamo alla vostra fuga nel 1995. Dove siete andati una volta raggiunta la colonna a Knin?

Ci siamo fermati prima a Prijedor e poi a Banja Luka. Io avevo pochi mesi e faceva molto caldo, per cui le persone ci aiutavano molto ad ogni tappa. Arrivati in Serbia (dove non conoscevamo nessuno), la colonna di auto veniva indirizzata verso il Kosovo e tante strade erano chiuse. Ma i miei nonni sono riusciti ad ottenere un’autorizzazione per raggiungere la Vojvodina e io sono stato battezzato a Pančevo. Qualche mese dopo, nel 1996, i nonni hanno comprato casa a Temerin, un paesino poco a nord di Novi Sad, mentre io, mia sorella maggiore e i miei genitori siamo andati in Kosovo. Mio papà era giornalista e l’unico lavoro che gli hanno proposto era lì. Anche mia zia, che all’epoca studiava all’università, ci ha seguiti: tutta la facoltà di Knin era infatti stata spostata in Kosovo. L’esperienza però non è piaciuta ai miei (lì si preparava un’altra guerra…) e nel 1997 siamo tornati a Temerin, proprio quando i miei nonni hanno provato a rientrare a Benkovac.

I tuoi nonni sono rientrati in Croazia due anni dopo la fine della guerra… com’è andata?

Col senno di poi, sono tornati troppo presto, era ancora pericoloso all’epoca. Ma loro non potevano più aspettare. A Benkovac abbiamo della campagna: 150 olivi, due grandi vigneti, alberi da frutto… volevano occuparsene. Così sono entrati illegalmente in Croazia e hanno cominciato a prendersi cura dei terreni, ma un giorno, dopo che erano andati a trovare alcuni famigliari a Spalato, hanno trovato al ritorno la casa distrutta. Era stata fatta saltare in aria. Fu uno shock enorme per loro, ma anche il momento in cui decisero che non sarebbero mai più ripartiti. Hanno vissuto nella stalla, poi hanno preso in affitto un appartamento a Benkovac e ogni mattina lavoravano nei campi. Ancora oggi nella tenuta, si vede il buco di dove una volta c’era la casa di famiglia.

Nel frattempo voi eravate in Serbia…

Sì. Nel 1998 è nata mia sorella minore e nel 1999 ci siamo trasferiti a Nova Pazova, a metà strada tra Novi Sad e Belgrado, dove io ho frequentato la scuola elementare. Più che una città vera e propria, è un centro abitato che gravita attorno a Belgrado. Ho brutti ricordi di quel periodo, ma mi chiedo spesso se è perché ricordo solo il peggio o perché era davvero così difficile. Avevo degli amici, ma non sono mancati gli incidenti. Per insultarmi, i bambini mi chiamavano “rifugiato" o “croato". Ripensandoci ora, capisco che chi abitava lì aveva trascorso gli anni Novanta tra mille difficoltà e senza mai essere aiutato. Noi invece avevamo ricevuto un appartamento e dei mobili dal governo serbo. C’era molta invidia e rabbia. Ad ogni modo, non mi sono mai sentito a casa in Serbia. Anche se parlavamo la stessa lingua, il mio accento croato non passava inosservato. “Casa” è dove puoi parlare la lingua che parli in famiglia anche fuori dalle mura domestiche.

Nel 2000 sei tornato a Benkovac per la prima volta. Com’è andata?

Era inverno, durante le vacanze scolastiche. Mi ricordo l’arrivo di notte, la nonna che mi dice “qui è casa tua” e poi la vista dell’abitazione che era stata fatta saltare in aria, con ancora le pietre sparse nel prato. Quell’anno per la prima volta ho visto il mare, Zara con le mura, il centro storico… ne sono rimasto incantato. In confronto al fango di Nova Pazova, era un altro mondo. L’anno dopo siamo tornati per le vacanze estive e io ho incontrato i bambini croati. Giocavo con loro, ma ricordo che un giorno, quando sono arrivato, erano tutti in silenzio e non mi guardavano. Uno di loro mi ha detto “sappiamo cosa sei tu”. “Cosa?”, ho chiesto. “Un serbo”, mi ha risposto. Ho imparato a relazionarmi presto con quella domanda: “Chi sei e da dove vieni?”, sempre così importante. A Benkovac, tutti uscivano dal trauma della guerra. Con quei bambini ho finito comunque per fare amicizia, ci ritrovavamo ogni estate.

Quando hai finito la scuola elementare, hai deciso di fare il liceo a Zagabria, mentre i tuoi sono rimasti in Serbia. Com’è stato?

Ho seguito le orme di mia sorella, che già aveva preso quella strada. I miei genitori non vedevano un futuro per noi a Nova Pazova. L’educazione era molto importante per loro, uno strumento per migliorare la propria condizione. L’offerta formativa del liceo serbo ortodosso di Zagabria non era comparabile a quella degli istituti locali. È una sorta di scuola d’élite, ma aperta a tutti. Completamente finanziato dalla Chiesa ortodossa serba in Croazia, il liceo è laico e segue il programma nazionale croato, permettendo ai bambini provenienti da aree rurali e periferiche di studiare in centro a Zagabria, ricevendo una borsa di studio e vivendo alla casa dello studente. Quando ho annunciato ai miei compagni di classe che sarei andato in Croazia a fare il liceo, una ragazza mi ha detto che ero un “traditore”. Non è stato facile, tanto meno per i miei genitori che mandavano il loro secondo figlio a studiare in un paese che li considerava tutto sommato “nemici”. Ma avevano pochi soldi e non avrebbero mai potuto offrirci un’educazione come quella che abbiamo ricevuto a Zagabria. Quel liceo è davvero una buona cosa che la Chiesa ortodossa serba ha fatto.

Com’è stato studiare a Zagabria? Hai avuto nuovi problemi con i coetanei croati?

Finché eravamo in centro, no. Ma quando è stato costruito il nuovo liceo nel quartiere di Svedi Duh, ci siamo ritrovati a prendere ogni giorno l’autobus con gli alunni di una delle peggiori scuole tecniche della città. Ogni mattina ci insultavano, ci gettavano oggetti, a volte ci attaccavano. La polizia spesso ci scortava fino a scuola. Era un vero problema per il liceo. Se si fosse sparsa la voce nella comunità serba, i genitori avrebbero esitato a iscrivere i loro figli e sarebbe stato un vero peccato, perché la scuola era ottima.

Dopo il diploma, hai scelto di studiare Giurisprudenza a Fiume. Come mai?

In famiglia si parlava sempre di politica, di giustizia, di società… Erano temi che mi interessavano e Fiume è forse la città più liberale della Croazia. Quando ho saputo che mi avevano ammesso lì a Giurisprudenza, non ci ho pensato due volte. Sono rimasto quasi otto anni nel capoluogo quarnerino, anche se tornavo spesso a Zagabria. Avevo infatti iniziato con l’attivismo, con il partito politico “Za Grad” [poi confluito in Možemo, nda.] e co-fondando poi il Forum per lo sviluppo sostenibile “Zeleni Prozor”. In quegli anni ho partecipato a diversi incontri a Bruxelles, in Kosovo, ho fatto un Erasmus a Lubiana… ho potuto rileggere la mia esperienza attraverso lo studio e il confronto con giovani di altre nazionalità. Mi sono laureato a fine 2021 e nel 2022 ho iniziato a lavorare al Consiglio nazionale serbo (SNV) a Zagabria, non prima di aver fatto un lungo viaggio in bici attraverso l’Italia, che sognavo da tempo.

Questo fine settimana si è celebrato il 28° anniversario dell’operazione Tempesta, sempre con la solita retorica divisiva  . Come leggi tu i fatti dell’agosto 1995?

Io penso che ci siano elementi di verità da entrambe le parti. A Benkovac c’è sempre stato un forte nazionalismo croato, fino a qualche anno fa si festeggiava Oluja in pompa magna e solo dagli ultimi anni la situazione si sta calmando un po’. Per i nazionalisti croati, Oluja rimane una vittoria senza errori e senza macchia. In Serbia, invece, si opta per il vittimismo, di cui si nutre il nazionalismo serbo. Noi rifugiati veniamo usati e Oluja diventa come il bombardamento Nato. Tra queste due versioni estreme, ci siamo noi, la minoranza, la chiave per la pace. La guerra è sempre una guerra contro le minoranze. Io penso che la Krajina era una legittima parte della Croazia e che le autorità serbe hanno sbagliato nel 1991 a cacciare i croati, a distruggere le loro case e chiese. Nel 1995 è stato invece il nazionalismo croato a sbagliare. Avrei voluto che la Croazia di allora fosse più matura e che le autorità di Zagabria avessero davvero detto chiaramente “non dovete partire”, “nessun civile sarà maltrattato”. Ma non è andata così. La verità è che - e qui la si nega - 200mila serbi sono partiti, tra i 600 e i 1200 civili sono stati uccisi, 20mila case sono state distrutte… E per chi è tornato, come per i miei nonni, non è stato facile.

Cosa vedi nel futuro della minoranza serba in Croazia?

Purtroppo, non si può ricreare la situazione antecedente alla guerra. Quei territori non saranno mai così popolati come lo erano prima. Tuttavia, possiamo migliorare la situazione e negli ultimi anni si lavora in questa direzione. Nel 2020 il governo Plenković per la prima volta ha invitato i rappresentanti della minoranza serba alla commemorazione di Oluja a Knin. Per la prima volta ha menzionato le vittime, ha parlato di giustizia, si è detto dispiaciuto… La narrativa in Serbia, invece, non cambia, anzi si allontana.

Il bicchiere è mezzo pieno dunque?

Per me sì, i miei genitori direbbero di no. Ma forse la differenza sta nel punto di vista. Loro hanno visto il bicchiere completamente pieno prima del 1991, io sono partito con un bicchiere vuoto. Dall’altro lato, sono consapevole di essere un esempio positivo di integrazione dei serbi in Croazia, forse un’eccezione. Non tutti hanno fatto il liceo serbo a Zagabria. Tanti sono rimasti nelle aree rurali, magari si sono radicalizzati col nazionalismo. Altri sono partiti in Germania. Ma se è vero che i nostri villaggi sono sempre più vecchi e più vuoti dal punto di vista demografico, è vero anche che c’è chi torna dall’estero. Si farà una nuova società. Insomma, sono ottimista anche se con cautela.

Che progetti hai per la proprietà di famiglia di Benkovac?

Senza aiuti da parte dello stato sono passati più di trent’anni senza poter ricostruire quella casa. Ma sono certo che ricostruiremo la casa dei nonni e rilanceremo la produzione agricola con l’aiuto dei fondi europei. Ho già detto ai miei che mi occuperò ben volentieri di tutte le questioni amministrative.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Settembre 14, 2023, 20:29:35 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/La-crisi-demografica-della-Bosnia-Erzegovina-227070

Citazione
La crisi demografica della Bosnia Erzegovina

Stando ad alcuni dati e stime la Bosnia Erzegovina entro il 2060 potrebbe perdere persino il 75% della sua popolazione. Miodrag Pantović, studente presso la Facoltà di Geografia di Belgrado, ha svolto una tesi di master su questo fenomeno. Intervista

14/09/2023 -  Tatjana Čalić
(Originariamente pubblicato sul portale Buka  , il 12 settembre 2023)

Miodrag Pantović, studente presso la Facoltà di Geografia di Belgrado, attualmente è impegnato a portare a termine la sua tesi di master sulla demografia e la guerra del 1992-95 in Bosnia Erzegovina. Il portale Buka lo ha incontrato per parlare delle dinamiche e dell’attuale situazione demografica in BiH.

Descrivendo gli anni immediatamente precedenti allo scoppio del conflitto, lei tende a ricorrere ad una metafora…

A cavallo tra gli Ottanta e Novanta del XX secolo la Bosnia Erzegovina, dal punto di vista demografico, era come una pentola a pressione ed era solo questione di tempo prima che esplodesse. Oggi invece è come una pentola piena di acqua calda che si sta lentamente raffreddando.

Se osserviamo la struttura della popolazione della BiH tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, vediamo che nel paese c’erano tantissimi giovani di età compresa tra i 18 e i 30 anni. Proprio in quel periodo in BiH il numero di giovani, compresi quelli maggiormente istruiti, aveva raggiunto i suoi massimi storici. Questa tendenza positiva, legata allo sviluppo degli anni ’70 – contrassegnati dall’apertura di molte università e da un’urbanizzazione su larga scala – era però desinata a cambiare già dalla metà degli anni ’80, soprattutto dopo le Olimpiadi di Sarajevo, quando la BiH si era trovata a dover fare i conti con una stagnazione economica. Poi dal 1988 il tasso di disoccupazione aveva iniziato a crescere, soprattutto tra i giovani laureati.

Un altro aspetto problematico riguarda l’ordinamento sociale e politico della Bosnia Erzegovina. Dall’epoca dell’Impero austro-ungarico – con la formazione dei primi organismi dell’autogoverno locale e poi con la Costituzione del 1910 – fino ai giorni nostri, l’ordinamento della BiH è sempre stato imperniato su una logica etnica per quanto riguarda la ripartizione delle funzioni e degli incarichi nel settore pubblico. Un paese in cui sono presenti tre grandi gruppi etnici, dove la ripartizione del potere si basa sempre su una logica etnica, tende a soffocare la creatività, e quindi stenta ad avanzare. La società bosniaco-erzegovese ha pagato caro le conseguenze di queste dinamiche. Credo che la miccia che fece esplodere la sanguinosa guerra in BiH sia da ricercare proprio nelle dinamiche demografiche e strutturali interne.

Torniamo un attimo indietro al periodo precedente alla guerra e all’emigrazione che aveva contrassegnato quell’epoca. Alla fine degli anni ’60 la Germania aveva sottoscritto un accordo con la Jugoslavia per il reclutamento di manodopera. In quegli anni molti cittadini jugoslavi erano andati a lavorare all’estero per non tornare mai più…

Esatto. Anche prima della guerra degli anni ’90 la Bosnia Erzegovina aveva il più alto tasso di emigrazione in Europa. Ed è un fatto poco noto.

Quando ho iniziato a scrivere la tesi, mi sono trovato costretto a reperire dati e documenti statistici sparsi negli archivi di tutta la ex Jugoslavia. Analizzando questi dati sono rimasto sorpreso nell’apprendere che stando al censimento del 1991 – l’ultimo censimento condotto in tutte le repubbliche jugoslave – nel periodo preso in considerazione 600mila persone si erano trasferite dalla BiH in Croazia, Serbia e Slovenia, mentre nello stesso periodo in BiH erano arrivate solo 150mila persone, quindi quattro volte di meno. Inoltre, stando allo stesso censimento, all’inizio degli anni Novanta 220mila cittadini bosniaco-erzegovesi si trovavano all’estero per “lavoro temporaneo”. Quindi, già a quel tempo si assisteva ad una sorta di esodo spontaneo.

Quali aree della Bosnia Erzegovina erano maggiormente colpite dall’emigrazione?

Una delle principali caratteristiche dell’emigrazione bosniaco-erzegovese è la disomogeneità territoriale. Prima della guerra si era registrato un grande esodo dei serbi e dei croati: quasi il 90% delle persone che avevano lasciato la BiH prima del 1991 era di nazionalità serba o croata. L’emigrazione dei bosgnacchi, che a quel tempo non era tanto massiccia, era iniziata verso la fine degli anni ’70, interessando innanzitutto la Bosnia occidentale, in particolare l’area di Cazin, segnata dall’estrema povertà, da dove si partiva soprattutto verso la Slovenia. Quindi, anche il fenomeno dell’emigrazione rispecchia quelle differenze etniche e strutturali di cui abbiamo parlato prima.

Va detto che gran parte della responsabilità, seppur implicita, grava anche sulla Croazia e sulla Serbia che attingevano massicciamente alla manodopera bosniaco-erzegovese. I serbi e i croati della Bosnia Erzegovina erano visti come una riserva demografica dai paesi vicini, soprattutto dalla Croazia che cercava di sopperire al calo demografico incoraggiando l’immigrazione dei croato-bosniaci.

Poi è arrivata la guerra e una nuova svolta demografica…

Esatto. La guerra, la pulizia etnica, i crimini… In quel periodo ad andarsene dalla Bosnia Erzegovina erano stati soprattutto i bosgnacchi, quindi quel gruppo etnico che prima della guerra emigrava meno.

Una delle conclusioni della sua tesi di master è sintetizzata in una mappa che dimostra il calo del numero di giovani sotto i 20 anni nel territorio della Bosnia Erzegovina dal 1991 ad oggi. Dalla mappa emerge chiaramente che stiamo perdendo i giovani e che questo fenomeno si acuisce ad una velocità spaventosa. La situazione è particolarmente preoccupante in alcune aree?

La mappa è stata realizzata mettendo a confronto i risultati del censimento del 1991 e i dati sul numero di nascite nel periodo compreso tra il 2003 e il 2022. Ne emerge un quando assai allarmante. Ad esempio, il comune di Bosansko Grahovo ha perso il 93% della sua popolazione rispetto al periodo precedente alla guerra, mentre la popolazione di Srebrenica è diminuita del 92% rispetto al censimento del 1991. Quindi, ad essere maggiormente colpite dal calo demografico solo la Bosnia orientale, la Posavina e la parte occidentale della Krajina.

Com’è invece la situazione nell’Erzegovina che spesso viene definita una regione in via di estinzione?

L’Erzegovina occidentale è costretta a fare i conti con un altro problema, ossia con un enorme divario tra il numero di bambini nati nel corso di un anno e il numero di bambini, appartenenti a quella generazione, iscritti a scuola. Questo fenomeno interessa soprattutto la città di Neum dove, stando alle statistiche, nel 2015 sono nati nove bambini, mentre i nuovi iscritti a scuola sono stati 25. Suppongo che si tratti di famiglie con doppia residenza e doppia cittadinanza: i bambini nascono in Croazia e poi vengono iscritti a scuola in BiH. Così si finisce per creare un caos demografico.

Invece nel cantone Una Sana la situazione è diametralmente opposta: in alcuni comuni la differenza tra il numero di nascite e il numero di nuovi iscritti a scuola è del 20-25%. La città di Brčko risulta maggiormente colpita da questo fenomeno. In Republika Srpska invece tale percentuale si attesta attorno al 2%.

E nell’Erzegovina orientale?

La situazione nell’Erzegovina orientale non era rosea nemmeno prima della guerra. Osservando i dati del censimento del 1991 vediamo che questa regione già allora aveva una popolazione molto anziana. Tutti i comuni, ad eccezione di Trebinje, si stavano spopolando. È curioso notare come nel corso del tempo si sia creato un particolare legame tra l’Erzegovina orientale e la Vojvodina. Nel periodo tra il 1945 e il 1948 tantissime famiglie serbe dell’Erzegovina emigrarono in Vojvodina, e poi durante la guerra degli anni Novanta molti erzegovesi fuggirono trovando rifugio dai loro parenti in Vojvodina.

Oltre al calo della popolazione giovanile, cos’altro è emerso dalla sua analisi? Qual è l’attuale struttura etnica delle città bosniaco-erzegovesi?

Ad eccezione di una parte della Bosnia centrale e delle città di Mostar, Srebrenica e Brčko, tutti i comuni della BiH sono diventati etnicamente omogenei.

Un dato interessante riguarda il numero di bambini serbi nati a Mostar e Sarajevo. Nel periodo compreso tra il 2003 e il 2022 a Sarajevo sono nati 651 bambini serbi, mentre nello stesso periodo sono morte 4993 persone di nazionalità serba. A Mostar invece sono nati 275 bambini e morte 1558 persone di nazionalità serba.

Qual è invece la struttura etnica della popolazione di Banja Luka?

Nel 1991 a Banja Luka vivevano 8.099 persone di fede musulmana sotto i 20 anni, mentre negli ultimi vent’anni nella città sono nati solo 502 bambini musulmani. Quindi, oggi a Banja Luka ci sono 7.500 giovani musulmani in meno rispetto al periodo immediatamente precedente alla guerra.

Per quanto riguarda la popolazione croata, nel 1991 a Banja Luka c’erano oltre 8.000 croati sotto i 20 anni, e negli ultimi due decenni vi sono nati solo 347 bambini di nazionalità croata. Il numero di giovani croati è quindi diminuito del 95%.

La popolazione serba della città è invece aumentata rispetto al periodo precedente alla guerra. Oltre a Banja Luka, la popolazione serba è cresciuta anche a Bijeljina, Brčko e Pale. D’altra parte, la popolazione giovanile bosgnacca è aumentata in alcuni quartieri periferici di Sarajevo, nello specifico a Ilidža, Ilijaš e Vogošća. Non abbiamo invece registrato alcun aumento della popolazione giovanile di nazionalità croata.

Il quadro che emerge dalla sua ricerca è piuttosto allarmante. Eppure, le istituzioni e i politici tacciono, non offrono alcuna soluzione, talvolta addirittura negano la realtà. Quei pochi che decidono di commentare la situazione dicono invece che è tutta colpa del calo delle nascite…

I politici sia in Bosnia Erzegovina che in Serbia continuano a riempirsi la bocca parlando di famiglia e natalità, invece di impegnarsi nel garantire le condizioni di vita dignitose per quelli che scelgono di rimanere nel proprio paese. In BiH si registra un alto tasso di mortalità tra persone di mezza età. Oltre ad un cambio dello stile di vita, migliorando il sistema sanitario e la prevenzione, sicuramente si riuscirebbe ad arginare il crollo demografico. Ma nessuno ne parla. In Serbia, ad esempio, un cittadino su cinque muore prima della pensione.

Le nostre vite sono condizionate dai cicli politici. Tutto dipende dai partiti al governo che cercano solo di mantenere il potere fino alle prossime elezioni. Non vi è alcuna pianificazione a lungo termine, si offrono solo soluzioni veloci da sfruttare tra due tornate elettorali.

Intanto l’elettorato è costituito perlopiù da anziani. In BiH, come anche in Serbia, si assiste ad una stagnazione politica e il motivo è forse da ricercare proprio nel continuo invecchiamento della popolazione. Avendo perso l'ottimismo e la creatività, stiamo cadendo in una sorta di letargo.

Date queste premesse, quale futuro può aspettarsi la Bosnia Erzegovina?

Secondo tutti i parametri, la Bosnia Erzegovina è il paese più fragile del mondo dal punto di vista demografico. Su questo punto non vi è alcun dubbio. Cito solo un dato: secondo un rapporto pubblicato nel 2019 dal Centro per la popolazione e la migrazione (CEPAM) la BiH potrebbe perdere il 75% della sua popolazione entro il 2060. Forse però vi è anche un aspetto positivo. Da queste parti probabilmente non scoppierà mai più alcun conflitto armato: siamo troppo vecchi per combattere una nuova guerra.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Settembre 14, 2023, 20:31:27 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Grecia/Grecia-polemiche-dopo-le-alluvioni

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Grecia, polemiche dopo le alluvioni
11 settembre 2023

È salito a quindici il numero delle vittime accertate delle devastanti alluvioni che hanno sconvolto la Grecia centrale la settimana scorsa. Nella giornata di ieri, infatti, altri quattro corpi sono stati recuperati dalle acque. Al momento, almeno altre due persone risultano disperse.

Ad essere colpita, a partire da martedì scorso, è stata la piana di Tessaglia, trasformata da tre giorni ininterrotti di precipitazioni in un enorme lago pluviale. Buona parte della produzione agricola dell’area è andata distrutta, insieme ad abitazioni, attività economiche ed infrastrutture.

Particolarmente delicata la situazione nelle città di Larissa e di Volos, dove la rete idrica è rimasta danneggiata e i 200mila abitanti restano senza accesso all’acqua potabile.

Per la Grecia, colpita durante le scorse settimane dall’ennesima ondata di gravi incendi, l’estate termina quindi sotto il segno delle calamità naturali, questa volta sotto forma del ciclone “Daniel” che ha colpito anche la vicina Bulgaria, dove si sono registrate quattro vittime lungo le coste del mar Nero.

Ancora presto per fare un bilancio, anche economico, dei danni subiti dal paese. Secondo il governatore della Tessaglia, Kostas Agorastos – intervistato dall’emittente pubblica ellenica - le perdite si attestano ad almeno due miliardi di euro. Di certo serviranno anni per rimettere in sesto le capacità produttive della regione, tradizionalmente cuore delle attività agricole in Grecia.

La gestione lacunosa dell’emergenza ha generato una forte tensione politica. Il primo ministro conservatore Kyriakos Mitsotakis è stato fortemente contestato durante la sua visita a Larissa, nonostante le sue rassicurazioni su una futura compensazione dei danni. Si è arrivati allo scontro tra contestatori e polizia, che la lanciato lacrimogeni sui contestatori.

Anche i partiti di opposizione hanno accusato Mitsotakis. Per la sinistra di SYRIZA, il premier si sarebbe recato in Tessaglia “senza una traccia di autocritica per le sue enormi responsabilità”, limitandosi invece “a essere puro osservatore del disastro di bibliche dimensioni”
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Settembre 17, 2023, 10:45:10 am
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Montenegro/Montenegro-l-ennesima-sconfitta-dello-stato-227092

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Montenegro: l’ennesima sconfitta dello stato

Nei giorni scorsi in Montenegro è stato scoperto un tunnel sotterraneo utilizzato per entrare nel deposito dell’Alta corte di Podgorica, luogo dove vengono archiviati oggetti e documenti usati nei processi come prove. Secondo gli esperti è l’ennesima sconfitta dello stato nella lotta alla criminalità organizzata

15/09/2023 -  Nikola Dragaš,  Jelena Jovanović
(Originariamente pubblicato dal quotidiano Vijesti  , il 14 settembre 2023)

Lunedì 11 settembre è stato scoperto un tunnel sotterraneo utilizzato per irrompere nel deposito dell’Alta corte di Podgorica dal quale, stando ai dati resi noti finora, sono stati portati via diversi oggetti, comprese alcune pistole addotte come prove nei procedimenti penali a carico dei capi di uno dei più potenti gruppi criminali montenegrini, noto come clan di Kavač.

Gli esperti interpellati dal quotidiano Vijesti interpretano l’irruzione nell’Alta corte come segno della sconfitta dello stato nella lotta alla criminalità organizzata, un segno che suggerisce che alcuni centri di potere credono di essere intoccabili e sono disposti a tutto pur di sfuggire alla giustizia.

Secondo Stevo Muk, giurista e membro del Consiglio della procura del Montenegro, l’irruzione nel deposito dell’Alta corte dimostra che alcuni gruppi criminali sono disposti a utilizzare tutti i mezzi a loro disposizione per influenzare l’esito dei procedimenti penali che li vedono coinvolti.

Episodi come questo – spiega Muk – evidenziano la necessità di agire tempestivamente per innalzare al massimo il livello di sicurezza delle istituzioni giudiziarie. “Tale impegno inevitabilmente implica la ristrutturazione dell’edificio esistente o, in alternativa, la costruzione di un nuovo edificio in grado di ospitare un deposito di oggetti di prova in linea con i più alti standard di sicurezza. La prontezza dei vertici dello stato nel prendere una decisione in tale direzione, stanziando risorse adeguate per la sua attuazione, sarebbe il segno della volontà politica di risolvere questo problema”, sottolinea il giurista.

Il tunnel, lungo almeno trenta metri, scavato per raggiungere il deposito dell’Alta corte, parte da un edificio sito in via Njegoševa che costeggia lateralmente la sede di uno dei più alti organismi giudiziari del paese. Alcune fonti interpellate da Vijesti ritengono che la costruzione del tunnel sia durata un mese e mezzo al massimo poiché l’appartamento da cui sono partiti i lavori è stato affittato a fine luglio. Evidentemente si è voluto approfittare del fatto che ad agosto la maggior parte dei dipendenti dell’Alta corte era in ferie.

L'ennesima sconfitta di uno stato debole
Per Sergej Sekulović, consigliere del premier Dritan Abazović ed ex ministro dell’Interno, l’incursione nel deposito dell’Alta corte rappresenta una sconfitta dello stato. Sekulović spiega che questo episodio, su cui va assolutamente fatta chiarezza, ha reso ancora più evidente la necessità di intraprendere profonde riforme del sistema.

“La custodia inadeguata degli oggetti di prova è un problema che si trascina da tempo, solo che veniva affrontato con grande nonchalance, ritenendo impossibile uno scenario come quello degli ultimi giorni. Lo stato deve ritrovare la propria forza e dimostrare chiaramente di essere più forte della criminalità organizzata. Spero che i danni siano minimi, quanto accaduto però dimostra che c’è chi non teme affatto lo stato. Il Montenegro deve riconquistare la stabilità politica perché solo così riusciremo a costruire un sistema giudiziario forte e resiliente”, sostiene Sekulović.

L’ex ministro sottolinea poi che è giunto il momento che tutti gli attori politici e della società civile raggiungano un consenso sulla lotta alla criminalità organizzata.

“Questa questione non può essere oggetto di polemiche. Ovviamente, a condizione che il sistema venga ripulito dall’interno. Siamo di fronte ad un’equazione semplice: un sistema politico instabile e conflittuale equivale ad un sistema di criminalità organizzata e di corruzione stabile e ad alto livello”, conclude Sekulović.

Secondo una fonte di Vijesti ben informata sulle indagini in corso, è stato uno dei dipendenti dell’Alta corte ad accorgersi per primo del disordine nel deposito in cui vengono custodite le prove processuali. Il tunnel invece è stato scoperto solo in un secondo momento, durante il sopralluogo e la stesura dell’elenco degli oggetti mancanti.

Nel corso di una conferenza stampa convocata martedì 12 settembre, Boris Savić, presidente dell’Alta corte, ha dichiarato che l’ingresso del tunnel è stato trovato in un luogo ben nascosto e che sicuramente ci è voluto molto tempo per portare a termine l’impresa, aggiungendo però che nel deposito “non manca quasi nulla”.

Reagendo alle dichiarazioni del presidente dell’Alta corte, Nikola Terzić, capo ad interim della polizia montenegrina, ha affermato di non credere che qualcuno abbia scavato un tunnel fino alla sede dell’Alta corte per puro svago.

“A differenza del presidente dell’Alta corte, il quale ha dichiarato che dal deposito non è stata portata via quasi alcuna prova, io non credo che qualcuno abbia intrapreso un’azione così impegnativa per puro svago. Anche se preferirei che lui avesse ragione e io torto, temo che la verità sia un’altra”, ha affermato Terzić.

Un caso insolito ma non inaspettato
L’avvocato Božo Prelević – noto anche per essere stato il primo ministro dell’Interno serbo dopo la caduta del regime di Slobodan Milošević – afferma di non aver mai sentito parlare di un caso analogo. “Non mi risulta che una cosa del genere sia mai accaduta in nessuna parte del mondo. Tale irruzione non è possibile senza l’aiuto di qualcuno dall’interno. Se un’istituzione [come l’Alta corte di Podgorica] si è rivelata così fragile in termini di sicurezza, significa che ci sono alcuni centri di potere che continuano a sfuggire al controllo dello stato, credendo di essere intoccabili”.

Tea Gorjanc Prelević, direttrice dell’ong Akcija za ljudska prava [Azione per i diritti umani] di Podgorica, ricorda invece alcuni episodi avvenuti negli ultimi anni che, a suo avviso, avrebbero dovuto spingere le autorità ad aumentare il livello di sicurezza delle istituzioni giudiziarie.

“La scomparsa del fascicolo sul caso riguardante le intercettazioni telefoniche di alcuni giudici dell’Alta corte di Podgorica, svelate nel 2011 dal giornalista Petar Komnenić, e poi quell’incendio scoppiato nel Tribunale di Podgorica nel 2016 in cui è andato distrutto l'ufficio amministrativo, dovevano essere interpretati come un avvertimento, un segnale della necessità di innalzare la sicurezza di tutti gli archivi giudiziari del paese ad un livello adeguato e di impegnarsi nell’accertare la responsabilità per gli errori commessi fino ad allora. A quanto pare però, era necessario che qualcuno scavasse un tunnel fino al deposito di un tribunale per rendersi conto di dover finalmente agire. A meno che anche questo buco non venga semplicemente tappato, procedendo come al solito”, commenta Tea Gorjanc Prelević.

Alla domanda se ritiene che quest’anno il Montenegro abbia compiuto qualche progresso nella lotta alla corruzione e la criminalità organizzata, anche nell’ottica del processo di adesione all’Unione europea, Stevo Muk risponde affermando di aspettarsi che la Commissione europea nella sua prossima relazione sul Montenegro riconosca alcuni risultati raggiunti dalla Procura speciale e dal Reparto speciale della polizia montenegrina.

“Mi auguro però che nella sua relazione la Commissione europea metta in luce anche diversi punti di debolezza e l’inefficacia di alcuni altri reparti di polizia, come anche il fatto che non si è mai cercato di sfruttare meccanismi esistenti, previsti dalla Legge sugli affari interni, per ‘ripulire’ la polizia dai quadri la cui integrità professionale risulta compromessa”, conclude il giurista.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 01, 2024, 17:23:55 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-viaggiare-per-raccontare-228764

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Romania, viaggiare per raccontare

La storia di una giornalista e un fotografo romeni che da dieci anni vivono in un camper per poter scrivere le loro inchieste su come si vive in Romania e su come vivono i romeni espatriati. Sono Elena Stancu e Cosmin Bumbut: li abbiamo incontrati

22/12/2023 -  Oana Dumbrava
Elena Stancu e Cosmin Bumbut, una giornalista e un fotografo. Da dieci anni vivono in un camper e viaggiano per poter documentare storie di vita romena che pochi conoscono o possono immaginarsi.

Elena ha lavorato per quasi sei anni presso la rivista Marie Claire, dove è stata prima redattrice, poi vice caporedattrice. Cosmin ha scattato foto di moda e pubblicitarie fino all'età di 40 anni, quando ha deciso di lavorare solo su progetti documentari. Un’attività ricca di riconoscimenti per entrambi e una vita che non era male. Ma il vero senso mancava.

Nel novembre 2013, due borse di giornalismo, una del Carter Center e la Fellowship for Journalistic Excellence di BIRN, hanno dato loro il coraggio di rinunciare al monolocale affittato a Bucarest, per trasferirsi insieme in un camper e iniziare un viaggio per osservare come vive la Romania nel profondo.

Hanno iniziato con un progetto sulla cultura della violenza in Romania che è durato più di due anni (“Cicatrice”), poi sono seguite storie sulla vita dei detenuti nei penitenziari romeni, sulle famiglie che vivono in estrema povertà, sulla discriminazione, sul razzismo, sulla mancanza di medicinali negli ospedali romeni.

Storie che sono state pubblicate anche nel libro “Acasa pe drum” (A casa sulla strada). Hanno continuato a vivere in macchina, contando sulle donazioni dei lettori e su altre borse di studio per il giornalismo che si sono susseguite, felici di avere il privilegio di poter fare il loro lavoro attraverso la Romania, un paese dove non è esattamente facile trovare il modo di dare vita a progetti del genere.

Nel gennaio 2019 hanno iniziato a lavorare su "Plecat" (Partito), viaggiando attraverso l'Europa per scrivere e raccontare storie reali sui migranti romeni.

Ed eccoci ora, nel 2023. Sono già dieci anni da quando la coppia vive in un camper per poter fare il lavoro che ha sempre voluto fare.

Curiosa di sapere se possibile quantificarlo, chiedo a Elena – quanti chilometri avete percorso in dieci anni?

Cosmin ha già fatto dei calcoli, perché è proprio a novembre di quest’anno che abbiamo compiuto dieci anni di vita nel camper, una buona occasione quindi per rifletterci sopra. In questi 10 anni abbiamo percorso circa 140.000 km di cui 80.000 in Europa. Abbiamo parcheggiato in 387 posti, il che significa che abbiamo trascorso in media 7,7 giorni in città, villaggi, campi, foreste, parchi o spiagge. Abbiamo dormito 3.000 notti in macchina, il che significa 3.000 notti senza pagare la sistemazione in un albergo o altro.

Noi non siamo viaggiatori nel senso puro del termine. Non è certo la vita più comoda, ma abbiamo il camper per avere una sistemazione sicura e conveniente ovunque vogliamo andare.

Abbiamo bisogno di tempo per documentare tematiche complesse e comprendere tutte le sfumature di grigio che compongono la realtà. La vita in camper ci ha dato il privilegio di lavorare solo su argomenti in cui crediamo e di poterci fermare in un posto finché non abbiamo finito la nostra indagine. Adesso, ad esempio, siamo nei Paesi Bassi per documentare la vita di giovani romeni che hanno deciso di venire qui a studiare. Parcheggiamo dove vivono gli studenti per essere vicini ai nostri soggetti, ma poiché qui è vietato dormire nel camper, siamo costretti a volte anche a nasconderci e spesso a cambiare posto.

Siete quindi sempre “A casa sulla strada”, tra l’altro il titolo di uno dei vostri progetti, a cui è seguito il progetto “Plecat” (Partito). Con il progetto “Partito”, siete stati finora in dieci paesi e avete documentato la vita dei romeni emigrati in Spagna come raccoglitori di fragole, la vita delle badanti romene in Italia, dei lavoratori stagionali in Germania, degli agricoltori in Norvegia, dei musicisti nei Paesi Bassi, degli elettricisti navali che costruiscono navi in ​​Danimarca, dei medici e degli infermieri medici in Inghilterra e in Italia, dei ricercatori romeni in Svezia, cosi via. Secondo la vostra esperienza, in tutte queste comunità e luoghi in cui i romeni sono andati a vivere e lavorare, c’è qualcosa che in qualche modo accomuna queste esperienze? C’è un elemento comune, tipico del romeno che ha lasciato la Romania?

In realtà no, le storie dei romeni che decidono di andare via non hanno quasi nulla in comune. Ed è proprio questo che abbiamo cercato di mostrare. La Romania è il Paese con la più alta percentuale di emigrazione in Europa in rapporto alla popolazione. Ufficialmente, ci sono 5,7 milioni di romeni emigrati.

Abbiamo capito però, che lo stato romeno non ha i mezzi e il metodo necessari per poter fornire dati reali. In Spagna, ad esempio, del milione di romeni emigrati dal 2014, oggi ce ne sono meno di mezzo milione. Questo perché, con l'ingresso nell'Unione Europea e l'abolizione delle restrizioni ai viaggi, i romeni hanno iniziato a scegliere destinazioni come l'Inghilterra e la Germania, e lo stato romeno non ha più seguito le dinamiche migratorie. Non è nemmeno interessato a farlo, perché la situazione è in continua evoluzione. Le ambasciate romene all'estero sono oberate di lavoro, i consolati pure.

Basti pensare che in Germania, per una diaspora di quasi un milione di romeni, ci sono solo un'ambasciata e due consolati. Lo stato non conosce la reale situazione dei romeni emigrati all'estero. Non sa chi sono e cosa devono affrontare. I loro problemi e le loro storie sono molto diversi.

I lavoratori stagionali partono perché non hanno altro modo per guadagnarsi da vivere. Lo stesso vale per i lavoratori portuali che sono partiti per la Danimarca. Dopo la chiusura del porto navale di Mangalia, si sono trovati a 50 anni senza molte opportunità di lavoro e sono dovuti partire. Non hanno intenzione di integrarsi in Danimarca e tornerebbero volentieri a casa se ci fossero altre possibilità.

D'altra parte, i giovani romeni che vanno a studiare nei Paesi Bassi fanno questa scelta per la varietà di opportunità a loro disposizione e potrebbero anche non tornare. Le storie sono quindi molto diverse.

Alcune badanti romene ci hanno detto che per loro l'Italia è stata una fuga dalla violenza domestica. La diaspora è davvero un'altra Romania che va esplorata e compresa.

Le vostre inchieste documentano la vita dei romeni al di là delle cifre, con storie vere, foto, testimonianze: avete mai visto conseguenze concrete dopo la loro pubblicazione?

Siamo stati contattati da un politico romeno che era interessato a progettare un programma per i lavoratori stagionali. Poi siamo stati invitati dal Consiglio europeo per parlare della situazione dei migranti romeni. Anche l'agenzia governativa del Regno Unito ci ha chiesto un supporto per denunciare i bassi salari dei lavoratori stranieri all'estero. Naturalmente, siamo aperti a parlare con chiunque voglia fare la differenza.
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Elena e Cosmin hanno finora realizzato due film documentari:  “Rezidentele” (Le Residente)  sul primo centro della Romania per le detenute con problemi di salute mentali e “Ultimul caldărăr”( L’ultimo caldărăr) che racconta la storia di una giovane famiglia rom in viaggio per la Francia per recuperare rottami metallici nelle discariche. Il film ha vinto, tra gli altri, il Premio Speciale al Millenium International Documentary Film Festival Bruxelles 2017, il Picture Award al Docuart Film Festival 2016 ed è stato selezionato, al Making Waves New York 2017 e al Let's CEE Film Festival di Vienna 2018.

Hanno pubblicato il libro “Acasa pe drum“ (A casa sulla strada) e le loro storie sono disponibili sul sito https://teleleu.eu/
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Ma quello che ci auguriamo è che le nostre indagini abbiano un effetto molto più profondo. Che costruiscano ponti tra i romeni che sono partiti e quelli che sono rimasti. E di sfatare i miti e i pregiudizi che alcuni hanno sugli altri. Non passa mese senza che riceviamo messaggi di persone che ci ringraziano perché si sono ritrovate nelle nostre storie o perché, grazie alle nostre storie, hanno potuto capire meglio la situazione dei loro vicini e delle persone che vivono in contesti sociali diversi. Al festival letterario Filit di Iasi, ad esempio, tre o quattro dei giovani che hanno letto la nostra serie sulle badanti romene in Italia avevano le loro madri lontane che facevano proprio questo lavoro. È stato interessante per loro vedersi nelle storie e, allo stesso tempo, rendersi conto che non sono soli.

Quello che fate quindi va oltre un semplice approccio giornalistico...

Sì, quello che facciamo ha poco a che fare con le cosiddette news. Noi entriamo nella profondità della storia e del problema. Parliamo di identità, di traumi transgenerazionali, di come questi traumi vengono trasferiti da una generazione all'altra. E con questi temi al centro dell'attenzione, anche noi ci chiediamo: ma cosa stiamo facendo in realtà e come possiamo chiamarlo? Giornalismo? Antropologia?

Le idee per i progetti nascono dai vostri interessi e dalle vostre curiosità. Cosa vedete nel futuro?

Abbiamo un’agenda infinita di idee e non ci basterebbe una vita per portarle a compimento. Nel 2014 avevamo inserito il progetto “Partito” nella nostra agenda e ci stiamo ancora lavorando. Il nostro è un lavoro lungo e faticoso non solo perché i temi sono complessi e molto ampi, ma anche perché è emotivamente drenante.

Viviamo attraverso i nostri soggetti, entriamo in empatia con le loro storie per capirle in profondità. E a volte ci manca la vita normale. È bello sapere dove si dormirà stanotte, è bello incontrarsi con gli amici, perfino lavarsi senza problemi. Noi abbiamo perso questa normalità. Se ci pensate, anche i romeni in diaspora possono scegliere di integrarsi nella loro comunità. Noi non possiamo farlo, ci integriamo nella vita delle persone e nelle storie che documentiamo. E poiché ogni giorno abbiamo così tanti problemi da risolvere, non possiamo pensare a nuovi progetti. Ci aspetta ancora un anno di indagini in Francia e in Belgio, più di 100mila foto da editare, poi finalmente pubblicheremo il nostro libro "Partito" e ripartiremo con un tour per promuoverlo. Infine, e meritatamente, torneremo per una breve pausa nella nostra mansarda ad Alba Iulia. Questo è il progetto per il futuro.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Gennaio 01, 2024, 17:32:05 pm
Dice il solito italiano medio. affetto e afflitto da esterofilia cronica:
"Certe cose succedono SOLO in Italia!"
Ah no, cazzo, siamo in Serbia...

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Elezioni-in-Serbia-il-trionfo-dei-brogli-229168

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Il Partito progressista serbo (SNS) ha ottenuto la maggioranza dei voti nelle elezioni straordinarie del 17 dicembre. L'opposizione contesta il risultato, un politico dell'opposizione è in sciopero della fame, i cittadini protestano in strada e gli osservatori internazionali denunciano diverse irregolarità durante le votazioni

21/12/2023 -  Antonela Riha Belgrado
Stando agli ultimi dati ufficiali  , sulla base del 99,66% delle schede scrutinate, alle elezioni politiche anticipate il Partito progressista serbo (SNS) ha conquistato il 46,7% dei voti, seguito dalla coalizione delle forze di opposizione “Srbija protiv nasilja” [La Serbia contro la violenza] con 23,69% dei voti.

Al terzo posto si è attestato il Partito socialista serbo (SPS), che ha subito un calo di consensi rispetto alle elezioni precedenti, ottenendo appena il 6,55% delle preferenze. Superano la soglia di sbarramento anche la coalizione di destra “Nada” [Speranza] e il movimento “Mi – Glas iz naroda” [Noi – Voce del popolo] guidato dal dottor Branimir Nestorović che, pur avendo in passato partecipato alle varie tornate elettorali, alle elezioni di domenica per la prima volta si è presentato con una lista indipendente.

Non è passato inosservato il fatto che alcune forze di destra, che dopo la tornata precedente erano riuscite ad entrare in parlamento, questa volta non hanno superato la soglia di sbarramento. Anche la lista dell’ex presidente della Serbia Boris Tadić è rimasta al di sotto dello sbarramento.

Contemporaneamente alle elezioni politiche, si sono tenute anche le elezioni per il rinnovo del parlamento della provincia autonoma della Vojvodina, nonché le elezioni amministrative in 65 municipalità e comuni, Belgrado compresa. Stando agli ultimi dati diffusi  , nella capitale l’SNS è in testa con il 39,35% dei voti, seguito dal movimento di opposizione “La Serbia contro la violenza” con il 34,26% dei voti. Entrano in consiglio comunale anche la coalizione NADA, l’SPS e il movimento Noi – Voce del popolo.

“Una vittoria assoluta che mi rende estremamente felice. Un risultato migliore rispetto alla tornata del 2022”, ha commentato a caldo il presidente Vučić dopo la chiusura dei seggi.

L’opposizione civica e filoeuropea riunita attorno al movimento “La Serbia contro la violenza” chiede la ripetizione delle elezioni a tutti i livelli. Intanto, i media indipendenti continuano a riportare notizie sulle irregolarità registrate durante il voto.

Gli autobus di Dodik e il treno bulgaro
Già nel corso della giornata del voto è stato pubblicato un video  in cui si vedono alcune persone che scendono dagli autobus davanti all’Arena di Belgrado, per poi essere indirizzate dagli addetti alla sicurezza verso i luoghi dove dovevano votare, o persino accompagnate ad alcuni seggi elettorali a Belgrado.

Come emerso successivamente, quelle persone erano cittadini della Republika Srpska che possiedono la cittadinanza serba, e quindi hanno il diritto di votare alle elezioni parlamentari in Serbia. Ovviamente, potevano votare anche nel luogo in cui vivono, ma arrivando a Belgrado hanno approfittato dell’occasione per votare anche alle elezioni comunali, pur non avendone diritto, dato che non risiedono nella capitale serba.

Quando i membri della Commissione elettorale centrale (RIK) appartenenti all’opposizione sono arrivati all’Arena per vedere cosa stava accadendo, le guardie private hanno impedito loro di entrare  . Anche Nenad Nešić, ministro della Sicurezza della Bosnia Erzegovina, ha votato a Belgrado  , vantandosene sui social. Punti di raduno degli elettori sono stati rilevati anche in altre città serbe, soprattutto lungo il confine con la Republika Srpska. Recatosi presso un seggio elettorale a Belgrado, il presidente della RS Milorad Dodik ha votato davanti alle telecamere  , contrassegnando la lista “Aleksandar Vučić – la Serbia non si deve fermare”.

Stando alle stime dell'opposizione, circa 40mila persone hanno dichiarato una residenza falsa a Belgrado pur di poter votare. In molti condomini sono state ritrovate schede di voto false, indirizzate a persone sconosciute a chi ci vive. Il fenomeno è stato segnalato all’opposizione, ai media indipendenti e all’organizzazione CRTA  che si occupa del monitoraggio delle elezioni.


L’opposizione sostiene  che non solo a Belgrado, ma anche in altre aree del paese si sia assistito ai casi di falso trasferimento di residenza dai comuni non interessati dalla tornata elettorale a quelli in cui si è votato, influenzando così l’esito del voto. I media hanno riportato diversi casi di compravendita di voti  , il cosiddetto "treno bulgaro"  , ossia il ricorso a schede precompilate, il trasferimento delle schede elettorali  da un seggio all’altro, votavano anche le persone non iscritte all’elenco degli aventi diritto e persino i morti. Gli osservatori dell’organizzazione CRTA che hanno monitorato le elezioni, registrando numerose irregolarità, sono stati aggrediti presso un seggio elettorale e la loro auto è stata vandalizzata  .

Anche gli osservatori internazionali hanno denunciato  “gravi irregolarità, tra cui la compravendita di voti e la pratica di inserire le schede precompilate nell’urna”. Stefan Schennach, capo della delegazione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa che ha monitorato le elezioni, ha dichiarato esplicitamente che le elezioni non sono state eque e che Vučić ha dominato la campagna elettorale. “Il presidente è una figura neutra che dovrebbe rappresentare il paese e tutti i cittadini. Eppure, l’attuale presidente ha dominato il processo elettorale, comportandosi come se fosso candidato alle elezioni, dal livello locale a quello centrale”, ha affermato  Schennach, aggiungendo che durante lo spoglio dei voti ha visto alcune schede elettorali false, però regolarmente timbrate.

Anche i media internazionali parlano delle manipolazioni elettorali in Serbia. Un altro aspetto che balza agli occhi è che, a differenza delle tornate elettorali precedenti, questa volta dalle capitali occidentali non sono arrivati i soliti complimenti ai vincitori. Il ministero degli Esteri tedesco ha sottolineato  che l’abuso delle risorse pubbliche e le intimidazioni nei confronti degli elettori sono inaccettabili in un paese candidato all’adesione all’UE. Washington ha invitato  le autorità serbe a “indagare sulle denunce di irregolarità elettorali sollevate dagli osservatori internazionali”.

Alieni
L’opinione pubblica serba, almeno quella parte che si oppone all’attuale regime, non è rimasta stupita dalle irregolarità elettorali. Da quando il partito del presidente Vučić è salito al potere, tutte le tornate elettorali sono state caratterizzate da pressioni sugli elettori, violenza e furto di voti. A sorprendere invece è l’enorme successo della lista “Noi – Voce del popolo” guidata dal Branimir Nestorović  .

Rinomato pneumologo di Belgrado, Nestorović è salito alla ribalta della cronaca quando, dopo lo scoppio della pandemia da Covid 19, ha dichiarato che il coronavirus è “il virus più ridicolo della storia dell’umanità”. Quando dall’Italia ormai giungevano notizie sulle tragiche conseguenze del virus, il dottor Nestorović ha invitato i cittadini ad andare a fare shopping a Milano. Ben presto è diventato una star dei tabloid e delle emittenti di regime dove diffondeva varie teorie del complotto, da quella sugli aerei che controllano le nostre onde cerebrali a quella secondo cui le persone con gli occhi verdi e azzurri discendono dagli alieni e quella sulle porte del tempo dietro alle quali gli aerei spariscono per poi ritornare dopo diciassette anni. È arrivato persino ad affermare che la Terra “in realtà è un disco piatto, solo leggermente inclinato”. Col tempo ha conquistato molti sostenitori, tanto che i video che pubblica sul suo canale YouTube raggiungono centinaia di migliaia di visualizzazioni.

Nestorović aveva partecipato alla precedente tornata elettorale con una coalizione di destra, ora invece con una lista indipendente è riuscito a superare la soglia di sbarramento non solo alle elezioni parlamentari, ma anche a quelle amministrative a Belgrado. Considerando che – come dimostrano i dati pubblicati finora – alle elezioni nella capitale nessun partito ha conquistato la maggioranza assoluta dei voti, e che quindi le alleanze post-elettorali saranno decisive per formare un nuovo governo, Nestorović potrebbe fungere da ago della bilancia.

Quanto ancora?!
Il giorno dopo le elezioni, lunedì 18 dicembre, a Belgrado sono iniziate le proteste. I leader della coalizione “La Serbia contro la violenza” si sono chiusi nei locali all’interno dell’edificio in cui si trova la sede della Commissione elettorale centrale (RIK) e Marinika Tepić, capolista della coalizione, ha avviato uno sciopero della fame. Ogni sera alle 18 i cittadini si riuniscono davanti alla sede della RIK per sostenere l’opposizione che protesta e per denunciare brogli elettorali. Se in un primo momento il movimento guidato da Marinika Tepić si era focalizzato su Belgrado, dove con ogni probabilità si sono verificati i brogli più massicci, mercoledì 20 dicembre, spinti anche dal moltiplicarsi delle critiche avanzate da osservatori internazionali, i leader dell’opposizione hanno deciso di chiedere l’annullamento delle elezioni a tutti i livelli.

Il presidente Vučić non è un leader politico disposto ad ammettere i propri errori, figuriamoci i brogli. Vede la via d’uscita dalla situazione a Belgrado in Nestorović, quindi in un uomo, reso popolare proprio dai media filogovernativi, la cui biografia politica assomiglia ad un progetto ideato dal regime. Dopo la chiusura dei seggi Vučić ha dichiarato che [a Belgrado] non intende coalizzarsi con nessuno, di certo non con l’opposizione, aggiungendo che comunque aspetterà i risultati definitivi. “Se Branimir Nestorović non appoggia nessuno, le elezioni verranno ripetute”.

Se si dovesse decidere di ripetere le elezioni a Belgrado, potrebbero tenersi in primavera, contemporaneamente alle amministrative in altre città già in programma. Vučić può scegliere se utilizzare Nestorović come un asso nella manica o acuire la crisi a Belgrado. Ormai da più di sei mesi una parte della popolazione scende in piazza per protestare, e in questi giorni alle manifestazioni davanti alla sede della Commissione elettorale è molto evidente la partecipazione dei giovani. Gli studenti hanno annunciato che, qualora il governo non dovesse esaudire la loro richiesta di verificare l’elenco degli aventi diritto, dalla settimana prossima inizieranno a bloccare alcune zone di Belgrado. Protestano tenendo in mano striscioni con la scritta: “Quanto ancora?!”.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 10, 2024, 15:14:40 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Azerbaijan/Azerbaijan-le-elezioni-piu-imbarazzanti-di-sempre-229834

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Azerbaijan, le elezioni più imbarazzanti di sempre

Nonostante lo scontato trionfo dell'attuale presidente Ilham Aliyev, le elezioni presidenziali anticipate del 7 febbraio in Azerbaijan sono state segnate ancora una volta da violazioni, brogli ed atteggiamento aggressivo nei confronti di osservatori e giornalisti indipendenti

09/02/2024 -  Arzu Geybullayeva
La tornata elettorale dello scorso 7 febbraio in Azerbaijan, per il presidente in carica Ilham Aliyev poteva essere un’occasione per provare a conquistare la vittoria senza compiere le solite violazioni e frodi elettorali  . E per i sei milioni di aventi diritto poteva essere forse un’occasione per vivere, per una volta, elezioni eque e libere. Si è rivelata però un’occasione mancata, considerando le innumerevoli violazioni denunciate e documentate, tra cui voto carosello  [elettori che si spostano di seggio in seggio per votare più volte], brogli  e comportamenti aggressivi  nei confronti di osservatori e giornalisti indipendenti.

Le elezioni si sono tenute in un contesto in cui “le libertà fondamentali di associazione, espressione e riunione pacifica sono state ristrette”, come si legge in un rapporto  pubblicato lo scorso 23 gennaio dall’Ufficio OSCE per le istituzioni democratiche e i diritti umani (ODIHR). D’altra parte, parlando con i giornalisti, i tanti falsi osservatori  , che sostengono di aver monitorato il voto per conto del leader del partito al potere, non hanno potuto nemmeno citare  il nome di quest’ultimo.


Un’era tutt’altro che nuova
A gennaio, nel corso di un incontro con un gruppo di giornalisti dei media filogovernativi, attentamente selezionati, il presidente Ilham Aliyev, parlando  dei motivi che lo hanno spinto a indire elezioni anticipate, ha affermato che la tornata elettorale si sarebbe svolta in “una nuova era”: per la prima volta nella storia dell’Azerbaijan le elezioni si sarebbero tenute in tutto il paese, compresi gli ex territori occupati, riconquistati dall’Azerbaijan dopo la guerra dei 44 giorni del 2020 e l’operazione militare del 23 settembre 2023. Quindi, le prime elezioni a svolgersi in quei territori, secondo Aliyev, dovevano essere quelle presidenziali. Per avvalorare la sua tesi, Aliyev ha portato la sua intera famiglia a votare a Khankendi (Stepanakert in armeno).

Inizialmente era previsto che le elezioni presidenziali si tenessero ad aprile 2025, dopo le politiche in programma a febbraio 2025 e le amministrative a dicembre 2024.

Tutti e sei i candidati che, oltre al presidente in carica, si sono presentati alle elezioni del 7 febbraio, hanno apertamente espresso il loro sostegno  ad Aliyev, il quale invece durante la campagna elettorale non ha mai partecipato di persona a dibattiti televisivi con altri candidati, né tanto meno li ha appoggiati.

Musavat e il Fronte popolare sono stati gli unici partiti di opposizione ad aver boicottato il voto. Gli altri ventitré partiti presenti nel paese, compreso il partito di governo (Partito Nuovo Azerbaijan, YAP), hanno espresso solidarietà e sostegno ad Aliyev in una dichiarazione  rilasciata nell’ottobre dello scorso anno.

In una sua analisi  del contesto alla vigilia del voto, la ricercatrice Hamida Giyasbayli ha sottolineato che le speranze che il governo azero potesse introdurre alcune riforme dopo la seconda guerra del Karabakh sono state deluse, sollevando anche la questione della “direzione in cui si sviluppa la politica interna” dell’Azebaijan.

Dopo la guerra dei 44 giorni del 2020, la situazione in Azerbaijan è solo peggiorata, dalle intimidazioni  online e offline nei confronti degli attivisti pacifisti  che si erano opposti alla guerra del Karabakh del 2020, alle nuove leggi restrittive  sui media, passando per il perseguimento delle critiche online  e dei giornalisti  e attivisti politici  e l’utilizzo delle tecnologie di sorveglianza invadenti  contro i membri della società civile, per citare solo alcune delle misure messe in atto. Ne sono seguiti ulteriori arresti  e repressione contro gli oppositori della leadership di Baku.

L’anno scorso, le autorità hanno arrestato Gubad Ibadoglu, noto economista e professore. La scorsa estate le autorità hanno represso con violenza  le proteste degli abitanti di un villaggio che denunciavano i danni ambientali causati da una miniera d’oro. Poi sono stati presi di mira molti attivisti per i diritti dei lavoratori  , diventando vittime di arresti e intimidazioni  . La situazione è poi ulteriormente deteriorata  con una serie di arresti  contro la piattaforma di informazione indipendente Abzas, a cui hanno fatto seguito l’ennesimo arresto di un esponente dell'opposizione  e altre repressioni  .

Nel frattempo, l’elenco degli arresti politicamente motivati ha continuato, e probabilmente continuerà ad allungarsi, considerando l’esito delle elezioni del 7 febbraio. Al tempo della pubblicazione di questo articolo, secondo la Commissione elettorale centrale (CEC), Aliyev è in testa  con il 92,1% dei voti.

Il partito di opposizione Musavat ha chiesto  l’annullamento delle elezioni, parlando di un “ambiente non libero e iniquo”.

Tutto come al solito
Interpellata da OBCT, la giornalista Ulviyya Ali, che ha seguito le elezioni appena concluse, ha affermato di essere stata sottoposta a pressioni da parte dei rappresentanti della commissione elettorale all’interno di alcuni seggi, notando che molti osservatori indipendenti hanno subito simili pressioni. “Da giornalista, sono stata più volte avvertita e mi è stato detto dove stare e cosa filmare”, ha affermato Ali. Un’altra giornalista indipendente, Lida Abbasli, ha dichiarato all’emittente Meydan che le è stato impedito di filmare e che è stata cacciata da un seggio elettorale.

Anche altri giornalisti che hanno seguito il voto hanno raccontato testimonianze simili, subendo un trattamento che, secondo Alasgar Mammadli, esperto di diritto dei media, è illegale. Molti giornalisti sono stati vittime di pressioni, nonostante nella giornata del voto Mazahir Panahov, presidente della CEC, abbia dichiarato che “non dovrebbero esitare a filmare qualsiasi problema”.

Alla vigilia del voto, almeno tre osservatori indipendenti hanno raccontato a OBCT di tentativi di violazione dei loro account su Telegram. Poi è giunta la notizia, riportata dall’emittente Meydan, che l’Università statale di Baku starebbe utilizzando WhatsApp per la propaganda elettorale. Notizia prontamente smentita dall’Università che ha negato di aver coinvolto i suoi studenti nelle attività di propaganda elettorale.

“Lei mi chiede perché sono qui? So perché sono qui”, ha risposto un elettore ottantenne ad un giornalista del servizio azero di Radio Liberty. Nello stesso reportage, una donna ha affermato di aver votato perché se non lo avesse fatto, i suoi figli avrebbero perso il lavoro. “Non raccontarmi favole”, ha risposto la donna quando il giornalista le ha chiesto quali fossero le sue aspettative nei confronti del nuovo presidente. “Sì, certo, nomineranno mio figlio presidente. Vattene. Non parlo più”, ha detto andandosene dopo essere uscita dal seggio elettorale.

Tuttavia, nessuna di queste storie, né le numerose prove di brogli elettorali, sembrano aver sconcertato un gruppo di osservatori internazionali  che hanno spudoratamente elogiato le elezioni. Tra questi spicca Oracle Advisory Group, rappresentato da George Birnbaum, il quale, dopo aver condotto un’analisi del voto  , ha affermato che l’esito  delle elezioni rappresenta una “vittoria della democrazia”. Birnbaum è noto per essere l’uomo dietro alla campagna denigratoria contro Soros che, secondo un’inchiesta condotta da Buzzfeed  “ha finito per scatenare un’ondata globale di attacchi antisemiti contro l’investitore miliardario”. Stando alla stessa inchiesta, Birnbaum sembra aver giocato un ruolo anche nell’ascesa di Orban al potere.

Anche Salvatore Caiata, membro della delegazione italiana, non sembra minimamente infastidito dalle violazioni registrate durante le elezioni. In un'intervista  rilasciata ai media filogovernativi, Caiata ha dichiarato che i cittadini azeri, a differenza degli italiani, sono stati molto attivi il giorno del voto. Ha capito bene la parte dell'attivismo, ma non le motivazioni sottostanti: non è un compito facile organizzare il voto carosello e altri brogli, così come non è facile temporeggiare e impedire agli osservatori indipendenti di fare i loro lavoro, e infine votare se, alla fine di una giornata di lavoro dura e dinamica, si riesce ancora a trovare il proprio seggio elettorale.

Forse questa svista è dovuta al fatto che Caiata è membro di un gruppo interparlamentare di amicizia tra Azerbaijan e Italia  all’interno del partito Fratelli d'Italia (FDI). È probabile che la controparte azera abbia dimenticato di menzionare come l’intera storia delle elezioni in Azerbaijan – amministrative, politiche o presidenziali che fossero – è macchiata di violazioni e frodi elettorali, poiché il paese non è mai riuscito a soddisfare gli standard fondamentali di elezioni libere, eque, democratiche e trasparenti. Gli esponenti di FDI lo avrebbero saputo se avessero prestato maggiore attenzione durante il loro viaggio in Azerbaijan  l’anno scorso per celebrare il centenario della nascita dell’ex presidente Haydar Aliyev.

Date queste premesse, viene da chiedersi perché il presidente Aliyev durante le ultime elezioni abbia fatto ricorso a così tanti meccanismi di controllo? Probabilmente perché, non avendo alcuna esperienza nello svolgimento di elezioni libere ed eque, aveva paura e voleva evitare un risultato inaspettato. Ed è riuscito ad evitarlo. Questo sarà il quinto mandato del presidente Ilham Aliyev e probabilmente non l’ultimo se la salute gli consentirà di candidarsi anche nel 2031, quando compirà 69 anni.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 10, 2024, 15:20:35 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-e-fondi-UE-un-paese-in-costante-ritardo-229665

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Romania e fondi UE: un paese in costante ritardo

Dal 2007, anno dell’ingresso della Romania nell’UE, nel paese sono affluiti oltre 62 miliardi di euro dall’UE. Sarebbero potuti essere di più, ma lo stato romeno non è riuscito ad attirarli tutti. Perché?

06/02/2024 -  Laura Popa
(Originariamente pubblicato dal nostro partner di progetto PressOne  )

Nel gennaio 2007, quando la Romania ha festeggiato la sua adesione all’Unione europea, oltre la metà della popolazione nel paese non aveva fognature, il rapporto PIL/pro capite era inferiore alla metà della media europea e il salario netto medio era di 1.042 lei [circa 210 Euro]. Il paese guardava con fiducia al progetto europeo (il livello di fiducia nell'UE nel 2007 era al 75%) e con speranza alle decine di miliardi di Euro comunitari destinati a strade, acqua, fogne, scuole e ospedali. La Romania sognava di essere un paese moderno.

Sedici anni dopo, il PIL pro capite della Romania è vicino a quello di Ungheria e Polonia, il salario netto medio ha raggiunto i 4.593 lei [920 Euro] e nel paese sono affluiti più di 62 miliardi di Euro dall'Unione europea. Sarebbero potuti essere di più, ma lo Stato non è riuscito ad attirarli tutti. PressOne spiega perché.


La Romania beneficia dei fondi UE sin dalla pre-adesione
La politica di coesione è lo strumento principale con cui l’UE investe nei suoi paesi membri. A che scopo? Ridurre le disparità economiche, sociali e territoriali all’interno del blocco europeo. Dal 2007, la politica di coesione ha portato alla Romania decine di miliardi di Euro.

"Quasi sedici anni dopo l'adesione, la Romania ha contribuito con circa 21 miliardi di Euro al bilancio dell'UE e, parallelamente, ha ricevuto 62 miliardi di Euro. Quindi un saldo positivo di almeno 41 miliardi", spiega Ana-Maria Icătoiu, esperta in materia di accesso ai fondi UE e vicepresidente dell'Organizzazione delle donne imprenditrici UGIR (OFA).

I fondi dell’UE sono affluiti in Romania sin dalla fase di pre-adesione, dando impulso ad alcuni settori, come l’agricoltura.

"Prima di entrare nell'UE, la Romania disponeva di alcuni programmi sul riscaldamento, i cosiddetti programmi PHARE, che hanno permesso di costruire molti impianti di trasformazione. E questo ha dato i suoi frutti, perché ha consentito il passaggio ai fondi europei", spiega a PressOne l'analista economico Constantin Rudnițchi.

Eppure, l’esperienza pre-adesione non sembra aver aiutato molto la Romania. A causa delle difficoltà burocratiche e strutturali e, a volte, della riluttanza dei decisori politici ad utilizzare i fondi europei, che sono molto più severamente controllati, il paese lotta ancora per risorse che altri membri attraggono molto più facilmente.

Nel primo settennato finanziario, quello del 2007-2013, la Romania ha attirato con grandi sforzi burocratici il 91% dei fondi disponibili.

Per il periodo seguente, quello 2014-2020, la Romania aveva a disposizione 41 miliardi di Euro di fondi UE, ma è riuscita ad attrarne solo l'82%.

Oggi la Romania è al suo terzo settennato finanziario: ha a disposizione 46 miliardi di Euro (compresa la parte di cofinanziamento), ma anche i fondi del Programma nazionale di sviluppo rurale (NRDP), con oltre 30 miliardi.

Primo contatto con i fondi UE. Prime priorità
Le prospettive oggi non appaiono però positive. Se l’UE si espanderà, i fondi di coesione che riceverà la Romania saranno molto inferiori a quelli attuali. "È praticamente l'ultimo treno sul fronte della coesione", afferma l'eurodeputato REPER Dragoș Pâslaru.

Dopo l’adesione, la Romania ha potuto accedere ai fondi UE per l’anno finanziario 2007-2013, per un totale di circa 27 miliardi di Euro nell’ambito di sette programmi operativi.

Le priorità all’epoca erano gli investimenti in infrastrutture e accessibilità, ovvero nuove strade. Al secondo posto troviamo la ricerca e l'innovazione, le PMI, l'istruzione e la formazione, l'inclusione sociale e l'ambiente.

"Alla fine del primo periodo di programmazione, 2007-2013, a causa della pessima situazione in termini di assorbimento reale alla fine del periodo, cioè intorno al 2014-2015, perché ogni volta il periodo viene prorogato di un anno o due, sono stati realizzati alcuni escamotage: alcuni progetti di investimento, molti dei quali realizzati dagli enti locali, compatibili con il programma regionale di allora, sono stati finanziati con fondi europei. Pavimentazioni, parchi, strade, investimenti locali", racconta Icătoiu.

Nonostante il denaro stanziato per la Romania nel periodo 2007-2013 non sia stato interamente attratto, i fondi di coesione hanno rappresentato il 35% del totale degli investimenti pubblici effettuati dalle autorità nel periodo in questione, come affermato dall’ex primo ministro Nicolae Ciucă nell’aprile 2023.

Sette anni fatti in dieci
Sette anni dopo, il nuovo ciclo finanziario 2014-2020 è stato negoziato e votato a livello UE per raggiungere gli obiettivi di "Europa 2020". Per il periodo 2014-2022 erano previste ben undici aree di investimento, tra cui ricerca, sviluppo e innovazione, digitalizzazione, PMI più competitive, transizione verso un'economia verde, gestione del rischio e cambiamento climatico, conservazione e tutela dell'ambiente, trasporti e investimenti sostenibili nell’istruzione e nella formazione per combattere ogni forma di discriminazione.

Alla Romania sono stati stanziati 41 miliardi di Euro dai Fondi strutturali e di investimento europei, di cui oltre 35 miliardi dal solo bilancio europeo attraverso la politica di coesione.

Il denaro passa da otto programmi operativi gestiti da tre autorità: il ministero degli Investimenti e dei progetti europei, il ministero dello Sviluppo, dei lavori pubblici e dell'amministrazione e il ministero dell'Agricoltura e dello sviluppo rurale.

Secondo gli ultimi dati, il tasso di assorbimento dei fondi per il periodo 2014-2020 è poco superiore all’84%. La Romania ha ancora tempo fino alla fine dell'anno [2023] per completare tutti i progetti ancora in corso.

Mappa dei finanziamenti europei attratti dalla Romania nel periodo 2014-2020 Foto: Ministero dei Progetti e degli Investimenti Europei
Mappa dei finanziamenti europei attratti dalla Romania nel periodo 2014-2020 Foto: Ministero dei Progetti e degli Investimenti Europei

"Affinché ciò avvenga, in teoria bisogna presentare le fatture entro la fine dell'anno (...) C'è un'altra cosa che può succedere, ovvero detrarre alcune tipologie di spese effettuate e riclassificarle come spese in fondi europei", spiega Pâslaru.

La Romania, ad esempio, spiega l'eurodeputato, ha ottenuto dalla Commissione europea che una buona parte del risarcimento per le bollette energetiche venisse saldato con i fondi europei a sua disposizione. E ora sta cercando di spostare quanta più spesa possibile verso il denaro europeo per aumentare artificialmente il tasso di assorbimento dei fondi.

"Con i tre anni in più che avremo a disposizione per finire i nostri progetti, utilizzeremo poco più dell'80% dei fondi, ma attenzione, non in sette, ma in dieci anni", spiega Rudnițchi.

Secondo l'esperto, la parola che meglio descrive il rapporto della Romania con i fondi europei è "ritardo".

"Tutte le volte partiamo con circa due, tre anni di ritardo nell'anno di bilancio. È quanto ci vuole per accreditare le istituzioni, per preparare l'amministrazione, i progetti, i bandi. Diciamo che nel 2007 ci abbiamo messo un po' per abituarci ai rigori e agli standard europei, ma dal 2013 non abbiamo più avuto scuse. E poiché i progetti arrivano in ritardo, finiscono per essere prolungati", spiega Rudnițchi a PressOne.

Due programmazioni finanziarie sovrapposte
Ecco perché attualmente ci sono due esercizi finanziari sovrapposti: 2014-2020 e 2021-2027. Il primo è stato prorogato di tre anni per consentire di portare a termine il maggior numero possibile di progetti, mentre il secondo è appena iniziato, anche se sono già trascorsi due anni. Il motivo del ritardo? Solo nel luglio 2022 è stato firmato l’accordo quadro di partenariato con la Commissione europea, che costituisce la base per la distribuzione dei fondi della politica di coesione. Solo successivamente sono state accreditate le altre strutture coinvolte nella gestione dei fondi UE.

Per i prossimi anni la Romania disporrà di un budget di 46 miliardi di Euro, di cui quasi 31 proverranno dal bilancio europeo. Il denaro sarà disponibile attraverso sedici programmi operativi, otto nazionali e otto regionali.

Per la prima volta, i budget per gli investimenti nello sviluppo regionale sono stati assegnati alle otto agenzie di sviluppo regionale (RDA) e non saranno più amministrati da un’autorità centrale.

"Penso che il vantaggio della decentralizzazione sia, da un lato, che le RDA hanno esperienza e si muovono più velocemente di un'autorità a livello ministeriale. E sono più vicine alla regione. Possono vedere meglio cosa deve essere sviluppato a livello locale", spiega Rudnițchi.

Lo stato di attuazione dei progetti per i quali la Romania ha richiesto fondi europei nel periodo 2014-2020.  Foto: Commissione europea

Se nel 2007 la digitalizzazione e la transizione verde non erano in cima alla lista delle priorità di investimento, ora sono i pilastri di tutte le linee di finanziamento europee.

"Stiamo parlando di settori come l'energia verde, la riduzione del carbonio, le infrastrutture ambientali, la conservazione della biodiversità, la creazione di spazi verdi, la gestione del rischio e le misure di mobilità urbana sostenibile", afferma l'eurodeputato USR Vlad Gheorghe.

Perché la Romania è in fondo alla classifica quando si tratta di attrarre fondi UE, anche se ne ha grande bisogno
Mentre il settore privato riesce molto bene ad assorbire tutti i fondi ad esso dedicati, con richieste di finanziamento che superano il 1.200% del budget stanziato, il pubblico non se la passa altrettanto bene.

"Da un lato, i grandi progetti infrastrutturali, dalle ferrovie alle autostrade, i progetti di ampliamento delle forniture d'acqua, delle fognature e dell'energia, per ragioni di cui sentiamo parlare in TV, non vengono realizzati. Ciò vale anche per gli ospedali regionali, su cui lavoriamo da 12-13 anni", afferma Icătoiu.

Un’altra spiegazione del basso tasso di assorbimento dei fondi UE si nasconde nei progetti finanziati dal bilancio nazionale.

"Anche se in teoria alla Romania non sarebbe permesso lanciare programmi nazionali, cioè con i fondi del bilancio nazionale, che cannibalizzino i fondi dell'Unione europea, cioè finanziando la stessa cosa, noi lo abbiamo sempre fatto. Quando lei, come sindaco o presidente di un ente locale, vede che i fondi europei hanno un livello di controllo molto alto, soprattutto nelle procedure di appalto, farebbe domanda per i fondi europei o opterebbe piuttosto per un PNDL (Programma nazionale di sviluppo locale), Anghel Saligny? [Anghel Saligny è stato uno dei più famosi ingegneri romeni, autore tra l'altro del ponte ferroviario sul Danubio a Cernavodă, N.d.R]", continua l'esperta.

La Romania, oltre a non attrarre tutti i fondi strutturali e di investimento europei ad essa destinati, rischia di perderli perché i progetti presentati per il finanziamento non sono stati completati in tempo.

Ad esempio, se non tutti i progetti dell’anno finanziario 2014-2020 verranno completati entro la fine di quest’anno [2023], ci sono due possibilità: o il denaro ricevuto viene restituito alla Commissione europea e i progetti vengono chiusi, oppure i progetti continuano, ma con i soldi del bilancio nazionale. Come nel caso degli ospedali cancellati dalla lista dei finanziamenti del PNRR, per i quali il governo ha promesso di chiedere un prestito alla Banca europea per gli investimenti.

Dettagli che riducono il budget per il 2021-2027
Per evitare ciò, ci sono alcune procedure a cui le autorità pubbliche possono ricorrere. Tra queste la cosiddetta procedura di introduzione graduale, secondo la quale i progetti non completati non vengono cancellati, ma semplicemente spostati da un esercizio finanziario all'altro.

"La procedura di cut-off è un classico che la Romania, poiché non fa mai le cose in tempo, ha già utilizzato due volte, ma questa volta è più complicata, perché solo i progetti che soddisfano le condizioni del regolamento 2021-2027 possono essere introdotti gradualmente. Ciò significa solo per quei progetti che non hanno un impatto dannoso sull'ambiente. In altre parole, invece di attirare nuovi progetti nei prossimi anni, dedicheremo parte del tempo al completamento di quelli vecchi", spiega Pâslaru.

Con due anni finanziari sovrapposti, diversi anni di ritardo nell'avvio dei progetti e la passione delle istituzioni per i fondi nazionali, abbiamo chiesto agli esperti quali possibilità ci sono che la Romania possa attrarre più denaro in futuro. Soprattutto quando in gioco ci sono anche i fondi NRDP, e lo Stato deve avviare riforme reali per attirarli.

"Se facciamo le cose esattamente come le abbiamo fatte, con le stesse persone e la stessa mentalità, non cambierà nulla. Voglio dire, torneremo nel 2030 a cercare di chiudere l'assorbimento dei fondi, ma è triste pensare che se l’UE si espande i fondi per la coesione che la Romania ha ricevuto così abbondantemente negli ultimi due cicli saranno molto inferiori", aggiunge l’eurodeputato.

Servono riforme
Nel 2007 la Commissione europea non si fidava dei meccanismi di controllo romeni sui fondi europei, come la Corte dei conti. È stato quindi creato un nuovo livello di istituzioni per garantire che i fondi UE fossero spesi nel rispetto della legge, istituzioni che non esistono in molti altri paesi europei.

"In Romania c'è un trattamento diverso tra i fondi europei e quelli nazionali. Per quelli europei c'è un ministero dedicato e procedure proprie di controllo. Noi abbiamo un trattamento diverso, con bonus salariali del 75% e ogni sorta di procedure. Con fondi nazionali non ci sono né bonus salariali, né procedure di valutazione e monitoraggio, e questo è un problema estremamente serio, è la prima grande riforma che dovrebbe essere fatta in Romania con i fondi europei: mettere tutte le risorse in un unico cassetto", spiega Pâslaru.

La logica a cui dovremmo arrivare, dice il deputato, è che le politiche pubbliche non dovrebbero più dipendere dai fondi europei.

"Il problema principale è che non abbiamo politiche che cambiano da un momento all'altro, o politiche che non sono necessariamente influenzate dai cicli finanziari, praticamente partiamo da zero ogni volta. Quindi facciamo politiche per ottenere fondi europei", è la conclusione tratta dall'eurodeputato.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 10, 2024, 15:23:49 pm
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-nessun-colpevole-per-l-omicidio-Curuvija-229755

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Serbia, nessun colpevole per l’omicidio Ćuruvija

A venticinque anni dall’assassinio del giornalista Slavko Ćuruvija e nove dall’inizio del processo contro i quattro imputati dell’omicidio, dopo una prima condanna nel 2019 e la ripetizione del processo, lunedì 5 febbraio il Tribunale d’Appello di Belgrado ha assolto gli imputati

06/02/2024 -  Massimo Moratti
La notizia è giunta alla fine di un venerdì di una giornata particolarmente intensa: poche ore prima, il presidente della Serbia Aleksandar Vučić aveva annunciato che, a causa della situazione in Kosovo, avrebbe richiesto una convocazione del Consiglio di Sicurezza della Nazioni unite. L’attenzione era quindi concentrata sulle vicende relative al Kosovo e su possibili nuove tensioni.

In questo contesto, è arrivata la notizia che il Tribunale d’Appello di Belgrado ha assolto tutti e quattro gli imputati accusati dell’omicidio di Slavko Ćuruvija.

Ćuruvija, giornalista di grande caratura civica, fu ucciso nell’aprile del 1999 dopo aver criticato il regime di Slobodan Milošević e della moglie Mira Marković. A quel tempo, Vučić era il ministro dell’Informazione.

I quattro imputati sono stati personaggi di grande spicco della Državna bezbednost (DB), l’agenzia di sicurezza del ministero degli Interni jugoslavo, erede della famigerata UDBA. Nello specifico, Radomir Marković allora ne era il capo, Milan Radonjić era a capo del dipartimento di Belgrado, Ratko Romić  e Miroslav Kurak due operativi della DB.

Il processo nei confronti dei quattro era iniziato nel 2015 grazie agli sforzi della Commissione per indagare sull’uccisione dei giornalisti in Serbia.  La commissione era stata creata nel 2013 dal governo serbo, in cui Vučić era allora vice primo ministro, ed era il risultato della persistente insistenza di Veran Matić, lo storico caporedattore di B92 ai tempi di Milošević, deciso a far chiarezza sugli omicidi di Ćuruvija, Dada Vujasinović e Milan Pantić. Ai tempi dell’inizio del processo, lo stesso Vučić aveva detto che si sarebbe dimesso  qualora non fossero stati trovati i responsabili.

Un processo travagliato
Sin dall’inizio quello di Ćuruvija è stato definito come un omicidio di stato e si pensava che il processo avrebbe confermato la verità che tutti conoscevano, cioè che a uccidere Ćuruvija era stato lo stesso stato serbo.

Il processo, iniziato nel 2015, ha visto circa un centinaio di testimoni comparire davanti ai giudici, anche se alcuni personaggi chiave, come la moglie di Milošević, Mira Marković  , da molti ritenuta la mandante dell’omicidio, non furono mai sentiti. L’indagine si limitò a considerare i facilitatori e gli esecutori materiali dell’omicidio, senza cercare di scoprire chi furono i mandanti, dato che questo molto probabilmente avrebbe condotto a Mira Marković e Slobodan Milošević.

Altri personaggi chiave che, per la loro appartenenza e il ruolo che ricoprivano alla DB potevano essere indagati  , furono invece sentiti solo come testimoni. Numerosi testimoni poi, nel corso delle udienze, ebbero improvvise amnesie o cambiarono le versioni iniziali. Nel corso degli anni si è poi saputo che lo stesso ispettore che conduceva le indagini era stato minacciato e rischiava la vita  .

La sentenza di primo grado è stata emessa nel 2019 e i quattro imputati sono stati condannati ad oltre cento anni di carcere. In seconda battuta, però, la sentenza fu rovesciata e il Tribunale d’Appello a settembre 2019 ha ordinato la ripetizione del processo. Il processo è stato ripetuto a partire dall’ottobre 2020 e nel dicembre 2021 il Tribunale di prima istanza ha confermato sostanzialmente la decisione precedente per i quattro imputati. Tale sentenza però è stata alla fine annullata dall’assoluzione di venerdì scorso.

I quattro vengono quindi considerati non colpevoli e sebbene in teoria ci sia ancora la possibilità di ricorso di fronte alla Corte Suprema, le possibilità di successo sono decisamente risicate  , come hanno fatto notare gli esperti, e l’assoluzione dei quattro imputati non può esser rimessa in questione. Ad ogni modo, lunedì 5 febbraio la procura ha fatto capire di avere intenzione di presentare ricorso alla Corte Suprema.

Una decisione annunciata
L’assoluzione è una pietra tombale sulle possibilità di avere giustizia nel caso Ćuruvija, ma la decisione non è giunta del tutto inattesa. Sebbene sia stata annunciata solamente lo scorso venerdì, in realtà sembra che fosse già stata presa da diverso tempo.

Lo stesso Veran Matić, nella primavera dello scorso anno, aveva fatto capire  che il Tribunale d’Appello aveva già deliberato sul caso dei quattro imputati. A settembre, lo stesso Matić e la Fondazione Ćuruvija avevano scritto  che in realtà la sentenza era già stata emessa e che il Tribunale aveva assolto i quattro imputati. Ciò nonostante la sentenza non fosse ancora stata pubblicata, dato che si attendeva il momento più opportuno per renderla pubblica  . Lo stesso invito a pubblicare la sentenza era poi stato reiterato dalla Fondazione Ćuruvija a novembre  dello scorso anno.

Le autorità non hanno fornito spiegazioni sul perché la pubblicazione della sentenza sia stata ritardata di così tanti mesi. È possibile che le proteste di piazza contro il governo e l’infuocato clima elettorale siano stati gli elementi che hanno consigliato di ritardare la pubblicazione della sentenza, per non esacerbare ulteriormente gli animi.

Le reazioni e le proteste
Nonostante il contenuto della sentenza fosse stato largamente anticipato e il fatto che la notizia sia stata comunicata poco prima del weekend, la decisione sull’assoluzione ha comunque provocato parecchio scalpore in Serbia.

Perica Gunjić della Fondazione Ćuruvija  è lapidario: “La decisione è scandalosa e rappresenta una sconfitta non solo per i giornalisti e la libertà di stampa, ma per l’intera indipendenza del sistema giudiziario e per lo stesso processo di democratizzazione”.

In quanto al processo Gunjić commenta che “il tribunale durante l’intero processo ha adottato molte decisioni strane, che indicavano che c’era qualcosa di storto. Le stesse due decisioni di prima istanza sono state scritte in modo approssimativo, come se vi fosse l’intenzione di farle annullare in seconda istanza”. Questa decisione, conclude Gunjić rappresenta il “ritorno immediato agli anni '90, al periodo più buio della nuova storia della Serbia, ai tempi delle guerre, ai tempi di Slobodan Milošević”.

Matić ha poi commentato che è venuta meno sia la volontà politica che il ruolo delle istituzioni, soprattutto per quanto riguarda il settore giudiziario, che di fatto rimane ancorato agli anni ‘90.

Lo stesso Matić ha poi commentato che nei prossimi giorni discuterà sul futuro della commissione che indaga l’uccisione dei giornalisti e su quanto abbia ancora senso che esista. Unione Europea, OSCE e numerosi altri membri della comunità diplomatica hanno espresso la propria delusione per l’assoluzione.

Lunedì 5 febbraio inoltre si è tenuta una protesta davanti al Tribunale d’Appello di Belgrado, organizzata dalle associazioni di giornalisti: i manifestanti sono stati in silenzio per 25 minuti davanti al Tribunale, a simboleggiare i 25 anni di silenzio dall’omicidio Ćuruvija.

Le reazioni del mondo giudiziario e politico
Lunedì 5, il Presidente del Tribunale d’Appello di Belgrado ha pubblicato un comunicato  in cui, mentre comprende l’insoddisfazione della famiglia e degli amici di Ćuruvija, ha specificato che il Tribunale ha giudicato in base alle prove contenute nel caso e che non erano sufficienti a sostenere le tesi dell’accusa.

La premier Ana Brnabić ha dichiarato di non poter commentare la decisione del Tribunale dato che il potere giudiziario è indipendente. La Brnabić ha sottolineato come i procedimenti fossero comunque iniziati solo dopo 16 anni dopo l’assassinio, grazie all’arrivo al potere di Vučić. Come cittadina, però, ha detto che cercherà giustizia.

La ministra della Giustizia, Maja Popović si è detta invece profondamente delusa  dalla decisione del Tribunale d’Appello, dicendo che il sistema giudiziario non ha svolto la sua funzione. Lo stesso Vučić nella tarda serata del 5 febbraio ha detto di esser scioccato dalla decisione  , che rappresenta una grande ingiustizia e un fatto terribilmente grave per il paese.

La sensazione predominante tra coloro che hanno seguito il processo è di rabbia ed impotenza, ma allo stesso tempo si insinua la cupa consapevolezza che le forze che hanno dominato la Serbia nel corso degli anni ‘90 siano ancora all’opera, come ha commentato Jelena Ćuruvija, la figlia del giornalista ucciso  .

Simbolicamente, il giorno dopo l’assoluzione, di primo mattino sulla televisione filogovernativa Pink, Aleksandar Vulin, ex direttore della BIA, l’agenzia che ha rimpiazzato la DB ed ex membro di spicco del partito di Mira Marković negli anni ‘90, dichiarava apertamente che il compito della sua generazione è quello di riunire tutti i serbi ovunque essi vivano  e che tale processo è già iniziato e non si può fermare.

Parole che riecheggiano molto da vicino l’idea della Grande Serbia e che riportano alla mente gli anni ‘90.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Febbraio 10, 2024, 18:17:51 pm
Qui Turetta l'hanno trovato subito e l'hanno riportato in Italia con un aereo militare, meno male. Un genio del crimine, non lascia traccia di sangue dall'auto ma poi rimane senza benzina con 200 euro in tasca. La giustizia ha trionfato
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 11, 2024, 00:48:12 am
Quindi il colpevole chi sarebbe?
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Febbraio 11, 2024, 01:26:09 am
Cosa vuoi che ne sappia, abbiamo dovuto attendere decenni per sapere che Pasolini è stato ucciso dal colpevole "ufficiale" e autoproclamato in concorso con ignoti. Tu invece cosa pensi, che Turetta sia sicuramente colpevole e sia l'unico? Dove sono le prove che ti convincono?
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Duca - Febbraio 17, 2024, 10:59:53 am
Ci sono molti, troppi lati oscuri in questa storia.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Febbraio 17, 2024, 12:17:31 pm
Cosa vuoi che ne sappia, abbiamo dovuto attendere decenni per sapere che è stato ucciso dal colpevole "ufficiale" e autoproclamato in concorso con ignoti. Tu invece cosa pensi, che Turetta sia sicuramente colpevole e sia l'unico? Dove sono le prove che ti convincono?

Penso che Turetta sia un grandissimo coglione, questo sì.
Tipi come lui fanno solo danni.
Di certo non è innocente.
Il resto lo accerterà la magistratura, quindi né io né te.


Per inciso: per me, stare dalla parte degli uomini, non equivale a stare anche dalla parte di coglioni del genere, chiaro?
E lo dico e scrivo io, che di certo non sono uno "tenero" con le femmine.
Io sono anche lo stesso uomo che ha fatto notare, innumerevoli volte, che le femmine, nonostante la loro infinita superiorità intellettiva, unità ad un altrettanto eccezionale "sesto senso" (sic...), si scelgono uomini con i quali io non andrei a prendere nemmeno un caffè al bar; e che anzi, in alcuni casi potrei anche menare.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Febbraio 17, 2024, 16:07:15 pm
Ma era scontato che stavi dalla parte della magistratura, che è più infallibile del papa e non incastra mai nessuno (v. Bossetti con prove poi rivelatesi fabbricate). Come è chiaro che stai dalla parte dei sieri genici, e verosimilmente degli OGM. Dici di essere antifemminista ma su tutti gli altri argomenti aderisci senza domande alla narrativa governativa.
Chissà, forse pensi davvero che due aerei con al comando piloti da turismo hanno abbattuto TRE grattacieli e che Kennedy sia stato ucciso senza movente, da un solitario con un fucile del 19° secolo (te lo conferma anche il tuo Polidoro, che non ha neppure una laurea a parte il patentino da prestigiatore).

E' certo che nel caso Cecchettin ci sono molte cose poco chiare, a partire dall'assenza di sangue nella vettura e sul corpo dell'idiota "assassino". Ma sono cose che non si possono discutere con te perché "la magistratura ha deciso e io obbedisco"
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Duca - Aprile 06, 2024, 17:06:39 pm
Kennedy sia stato ucciso senza movente, da un solitario con un fucile del 19° secolo
Concordo su tante cose, però attenzione un'arma non è come un PC che è obsoleto dopo un anno, e poi il 91 non è niente male, ovviamente se tenuto bene e utilizzato da un esperto, non da una burba qualunque.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Aprile 06, 2024, 20:40:31 pm
Lo so (anche se non ho armi) ma in base a numerosi approfondimenti non era comunque possibile con quel residuato, per ragioni di distanza, inclinazione (pallottola magica) e soprattutto tempi di azionamento dell'otturatore manuale.
Non è solo una questione "balistica", la narrativa del solitario (come al solito senza movente chiaro) fa acqua per mille motivi e se anche fosse c'è il precedente di Princip a Sarajevo che si sa che non agì da solo.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Frank - Aprile 07, 2024, 02:59:57 am
Ma era scontato che stavi dalla parte della magistratura, che è più infallibile del papa e non incastra mai nessuno (v. Bossetti con prove poi rivelatesi fabbricate). Come è chiaro che stai dalla parte dei sieri genici, e verosimilmente degli OGM. Dici di essere antifemminista ma su tutti gli altri argomenti aderisci senza domande alla narrativa governativa.
Chissà, forse pensi davvero che due aerei con al comando piloti da turismo hanno abbattuto TRE grattacieli e che Kennedy sia stato ucciso senza movente, da un solitario con un fucile del 19° secolo (te lo conferma anche il tuo Polidoro, che non ha neppure una laurea a parte il patentino da prestigiatore).

E' certo che nel caso Cecchettin ci sono molte cose poco chiare, a partire dall'assenza di sangue nella vettura e sul corpo dell'idiota "assassino". Ma sono cose che non si possono discutere con te perché "la magistratura ha deciso e io obbedisco"

Vicus, leggo solo ora la tua risposta...
Ascolta, evita di scrivere certe cazzate quando parli con me, d'accordo?
Altrimenti anch'io potrei fare un elenco di tutte le robe assurde e senza senso a cui credi tu.
Non solo: potrei mettermi a fare anche il sarcastico, con domande del tipo:
"Ma tu se scoprissi di avere un cancro alla prostata, oppure una leucemia, a chi ti rivolgeresti"?
Ai tuoi amici complottisti?
Oppure ai medici che, notoriamente, sono lì per ammazzare le persone, mica per curarle...?
Te l'ho già detto e te lo ripeto: a me non interessa litigare nel mondo virtuale, fra soprannomi...
Certe robe le faccio solo a quattr'occhi.


Citazione
E' certo che nel caso Cecchettin ci sono molte cose poco chiare, a partire dall'assenza di sangue nella vettura e sul corpo dell'idiota "assassino". Ma sono cose che non si possono discutere con te perché "la magistratura ha deciso e io obbedisco"


Sei tu che obbedisci ai tuoi amici complottisti, il che è ben diverso.
Io obbedisco solo a me stesso.
Vicus, scendi dal pero.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Aprile 07, 2024, 07:03:43 am
Ma non c'è nessun sarcasmo. E se tu avessi una leucemia oppure un cancro alla prostata, i medici non ti curerebbero (come hanno testimoniato migliaia di colpiti da affetti avversi) più di quanto farebbero i guaritori filippini.
Ancora non ho sentitto da te un pensiero controcorrente su qiualsiasi tema che non sia il femminismo, o lo sport femminile
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Massimo - Aprile 08, 2024, 00:01:11 am
Evitiamo di litigare. Sul caso Turetta, mi sembra chiara una cosa: Turetta si è rovinato la vita, oltre a mettere fine a quella di una ragazza, perchè era arrivato a dipendere totalmente da questa storia, come un drogato che dipende dalla dose di eroina per andare avanti. Che la strumentalizzazione che il femministume vario e assortito e anche il padre e la sorella stanno facendo dell'omicidio di Giulia Cecchettin rischia di farmelo diventare quasi simpatico non toglie il fatto che Filippo Turetta si è comportato come un coglione incapace di lasciare una che lo stava lasciando. In casi del genere si deve dire alla fidanzata, prima che diventi un'ex: "Vai cara, una stronza di meno". Non è stato capace di farlo, ha commesso un omicidio (non un femminicidio) perchè non poteva più vivere senza di lei o meglio senza un simile rapporto che era diventato per Turetta una vera ossessione e ha fatto un danno a se stesso e soprattutto agli altri maschi colpevolizzati in quanto "potenziali femminicidi" e quindi tenuti ad espiare la colpa genetica di essere nati maschi. Ha perfettamente ragione Frank: tipi come lui fanno solo danni. Le femministe dovrebbero erigere a Turetta un monumento: nessuno ha giustificato la misandria come lui in questo periodo. E tutti gli uomini dovrebbero prenderlo a calci in culo se e quando uscirà dal carcere. Nessuno li ha inguaiati come lui. 
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Aprile 08, 2024, 08:31:57 am
In base a molte incongruenze nelle prove non è affatto scontato che Turetta sia colpevole, o che abbia agito da solo. Spesso occorrono decenni (v. caso Mattei, lungi dall'esser risolto) per accertare le dinamiche dell'omicidio, o il concorso con ignoti (caso Pasolini).

Quanto a Frank malgrado tutti i tentativi di normalizzare la situazione, viene qui solo per dire che quelle del sottoscritto sono "cazzate", "basta con le cazzate" e via dicendo. Non è accettabile e non mi posso censurare solo perché lui non è d'accordo con me. Qui chiunque può dire quello che vuole nel rispetto altrui e si può replicare sugli argomenti, senza aggredire l'utente. E' l'ABC della moderazione, sul quale non intendo ulteriormente soprassedere.

Inoltre vorrei capire cosa ci sta a fare in wiki uno che svilisce altri wiki e il cui quasi unico apporto al forum è l'esterofilia degli italiani e i risultati sportivi

Questo è un avvertimento di moderazione, eventuali commenti saranno rimossi. Spero che serva a ritrovare una rispettosa e pacifica convivenza nel forum
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Marco21 - Aprile 10, 2024, 06:11:29 am
Spesso mi capita di leggere, quando accadono fatti di cronaca inversi, in cui la donna uccide il marito (e che NON fanno mai notizia), di donne che nei commenti scrivono "chissà cosa avrà dovuto sopportare per arrivare ad uccidere il marito, poverina". Così, per partito preso e senza nessuna analisi seria. Le donne non si fanno problemi, a scrivere post vergognosi e sessisti, e molti uomini, non solo non si indignano, ma addirittura sostengono queste tesi.

Mentre se uno prova a fare una analisi psicologica seria, di un assassino uomo, viene subito etichettato come un mostro che adora gli assassini.

Questo è il nazi-femminismo. Due pesi e due misure. Sempre.

Dobbiamo avere paura addirittura anche di analizzare i fatti con lucidità, mentre loro possono essere libere di fare post idioti e sessisti contro gli uomini e sentirsi pure applaudite, persino da uomini, per le tonnellate di stronzate che scrivono.


La mia opinione, è che tutti gli esseri umani hanno una psiche, con degli auto-inganni, che producono sofferenza. Negarlo significa negare la psicologia. Quindi, perchè questo non dovrebbe valere anche per Turetta? Fa eccezione solo perchè uomo, in virtù del nazi-femminismo?

Possiamo anche negare la psicologia, ma cosa otteniamo di utile?

Non prestiamoci anche noi, ai giochetti sessisti e disonesti delle donne, contro gli uomini. Bisogna andare in profondità nelle questioni. E le donne lo fanno (in modo solo apparente e stupido), solo quando a loro conviene e solo per difendere altre donne. Conoscono solo la logica della CONVENIENZA PERSONALE. Ma la logica vera, non sanno neppure cosa sia. Neppure lontanamente.

Come dissi tempo fa, non possiamo sapere con certezza, cosa sia accaduto in questa storia. Solo Dio lo sa davvero. Ma pensare che una mattina un ragazzo si alzi e uccida la fidanzata, senza che questa mai abbia fatto nulla di male, e sia stata empatica, corretta e non egoista, è da ingenui. Significa volersi mettere il salame sugli occhi, per partito preso. Lo si può fare, ma bisognerebbe essere spietatamente onesti con sè stessi, per riconoscere che è una SCELTA. Non un ragionamento. E' solo PARTITO PRESO.

Non si può dimenticare il fatto che le donne sono capaci di crudeltà immense, sono capaci di torturare gli uomini e ricattarli, e nessuna di queste atrocità è considerabile come reato. Perchè i reati morali, non esistono.

Eppure, si può uccidere una persona dentro, a tal punto da far perdere la ragione anche al più santo, al più buono, al più mansueto degli esseri umani. Anzi, come disse lo psichiatra Alessandro Meluzzi, questo genere di omicidi (spesso seguiti da SUICIDIO), sono commessi dalle persone più fragili e non certo da maschilisti o patriarchi. Sono proprio le persone più buone, più sincere e più oneste, che credevano nell'idea della "donna angelo", e che magari erano pure diventati femministi, che poi un bel giorno esplodono e uccidono. E' chi ha donato tutto sè stesso, che poi non riesce a reggere il dolore. Non certo gli egoisti e i bastardi seriali.

Per il resto, concordo con Massimo su una cosa importantissima: appena ci sono i primi segnali che una ragazza non è affidabile e che ci lascerebbe perchè è nelle condizioni di poter pretendere, bisogna subito mandarla a quel paese. SUBITO. Prima di impegnarsi, prima di spendersi e donare sè stessi a lei.

E lo si "sente".

Si percepiscono i subdoli ricatti emotivi.


Si "sente" quando si è creata una dinamica tossica, nella quale una ragazza non ha bisogno nemmeno di chiedere e pretendere, perchè crede di essere nelle condizioni di ricevere tanto, senza donare nulla (magari solo perchè si sente BELLISSIMA, perchè riceve centinaia di like alle foto sui social che pompano il suo ego mostruoso). Si sente eccome quando si è caduti in queste trappole.

Ma molti uomini, invece di lasciare LORO PER PRIMI, ALL'ISTANTE, UNA CHE SI VEDE GIA DA UN CHILOMETRO CHE E' UNA INGRATA MALATA, si mettono il salame sugli occhi, e proseguono la relazione, per bisogno, per paura della solitudine, per debolezza, per sensi di colpa nei confronti della ragazza, per paura di farla soffrire (a me per esempio è capitato di non riuscire a lasciare una ragazza perchè mi implorava piangendo, e poi un anno dopo, mi lasciò lei, infischiandosene della mia sofferenza, ed eravamo stati insieme per 6 anni), per auto-lesionismo, per desiderio di affetto, e per mille altre ragioni psicologiche, finchè un bel giorno, il mostro travestito da angioletta, che li aveva dominati e usati, esce completamente allo scoperto, e li lascia.

E ovviamente gli uomini si sentono crollare il mondo addosso, perchè avevano donato tutta la loro vita, per quella persona ingrata ed egoista. Ma in realtà non si accorgono, di essersi auto-ingannati.

Perchè i segnali dell'ingratitudine, c'erano già da prima.

Ci sono sempre.

Perchè chi non ringrazia per il poco, non ringrazierà nemmeno per il tanto. E un bel giorno ti lascerà.

Chi pretende, un bel giorno ti lascerà perchè non avrai donato abbastanza e non ti sarai dissanguato abbastanza per lei e lei cercherà un altro bar in cui consumare e soddisfare i suoi infiniti desideri egoistici e narcisistici. Per molte donne, gli uomini sono proprio come dei bar. E dopo aver preso tutto quello che c'era da prendere, cambiano bar, come se nulla fosse. Con una facilità rivoltante, traumatizzante, che può uccidere dentro e distruggere una vita. Per sempre. La persona resta in vita, ma è come se fosse morta, perchè non riuscirà mai più a riprendersi e perderà la fiducia nel prossimo e nell'umanità intera.

Vite distrutte per sempre. E ne sanno qualcosa i padri separati, che mangiano alla Caritas. Chiusi nel loro dolore, inconsolabili.

Del resto quale donna, riuscirebbe a sopravvivere, dopo aver perso in un colpo solo, la casa, lo stipendio e i figli? Nessuna. Ma per loro è troppo difficile mettersi nei panni degli uomini. Non gliene frega niente di aver distrutto una vita e di aver rubato tutto, creando di fatto persone che non hanno più niente da perdere. E una persona che non ha più NIENTE da perdere, diventa pericolosissima, come sanno bene tutti gli psicologi. Se rubi tutto, ma proprio TUTTO, devi anche mettere in conto poi che la persona impazzisca. Perchè non sono tutti Gesù o Buddha, pronti a farsi crocifiggere.

E tutto questo non è reato per la legge.
Eppure, sarebbe giusto se lo fosse. Se gli uomini, potessero avere giustizia dalla legge, sono convinto che molti omicidi non avverrebbero. E' la stessa cosa che accade per le vittime di un qualche reato, che non viene punito poi dalla magistratura. Quando il colpevole la fa franca, a volte è successo che le persone (donne comprese), si sono fatte giustizia da sole, perchè sentono, percepiscono dentro, di essere state vittima di una grave ingiustizia che non è stata riconosciuta e non è stata punita.

Ovviamente gli uomini più consapevoli, sono invece quelli che, sfruttano quella sofferenza per lavorare sulla propria interiorità, comprendono che la donna era vittima della sua stessa ignoranza, ed imparano come evitare fregature simili in futuro. Ma a volte serve una grande forza d'animo e non è facile per tutti, specie per le persone molto fragili.

Analizzare è difficile. Sparare e gridare allo squalo, invece è semplicissimo e lo sanno fare tutti. Ma non risolve nulla, perchè in questo modo si trascurano completamente le cause del fenomeno, che ovviamente, come è ovvio, si ripete. Sebbene va detto, che tutte le statistiche ci dicono che in Italia siamo tra i più virtuosi d'Europa per tasso di femminicidi, perchè è uno dei tassi più bassi. Ma non si può dire, se no casca il castello di carta che hanno costruito sul nulla più assoluto...e a cui tanti hanno creduto.
Quindi sshhhh!!! Facciamo silenzio, che non si dica mai la verità.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Massimo - Aprile 10, 2024, 10:17:00 am
Caro Marco21, piuttosto che fare leggi che limitino l'autoreferenzialità femminile o che la contrastino e la puniscano, l'Occidente accetta che migliaia o centinaia di migliaia di donne muoiano ammazzate. E, in fondo, lo prefriscono anche le donne. Il calcolo che fanno è questo: prima o poi gli uomini si stuferanno di ammazzarci mentre noi non ci stuferanno di rompere loro le scatole. La partita la vinveremo noi. E creeremo il paradiso. Ovviamente, solo per noi! Questo è quanto. Ecco perchè la situazione non cambia. Almeno non a breve termine. 
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Marco21 - Aprile 10, 2024, 11:27:37 am
Caro Marco21, piuttosto che fare leggi che limitino l'autoreferenzialità femminile o che la contrastino e la puniscano, l'Occidente accetta che migliaia o centinaia di migliaia di donne muoiano ammazzate. E, in fondo, lo prefriscono anche le donne. Il calcolo che fanno è questo: prima o poi gli uomini si stuferanno di ammazzarci mentre noi non ci stuferanno di rompere loro le scatole. La partita la vinveremo noi. E creeremo il paradiso. Ovviamente, solo per noi! Questo è quanto. Ecco perchè la situazione non cambia. Almeno non a breve termine.

Ciao Massimo. Concordo. Secondo me le cose cambieranno in un futuro molto lontano, quando le donne avranno tirato così tanto la corda, da spezzarla. Solo quando si arriverà alle assurdità più incredibili, la razionalità dell'uomo tornerà a prevalere sull'istinto sessuale, sul desiderio di affetto e sulle paure, ristabilendo il giusto ordine e rimettendo le donne al loro posto. Forse la storia è un pendolo che oscilla. Ma gli uomini hanno ancora bisogno di soffrire molto, prima di riuscire a vedere le donne per quello che sono davvero, smettendo di idealizzarle e viziarle.

Gli uomini devono arrivare al punto di stancarsi davvero e di non poterne proprio più. Solo allora sorgeranno e si diffonderanno molto i movimenti e le associazioni maschili, perchè gli uomini non avranno più nessuna paura dei ricatti femminili a cui tutti sono sottoposti e che paralizzano il pensiero e l'azione. Oggi gli uomini hanno anche persino paura, terrore di esprimersi, come se fossimo davvero in un regime di nazi-femminismo, nel quale se non adori il "Führer", sei condannato a morte.
Titolo: Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
Inserito da: Vicus - Aprile 10, 2024, 11:39:25 am
Tutto vero, anche se in teoria è possibile uccidere senza particolare provocazione, sono eventi rari commessi da individui con seri e palesi problemi, solitamente non europei, per cui non si può appiccicare questa spiegazione a ogni caso di "femminicidio" specialmente in Italia.