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Diritto di Famiglia

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Cassiodoro:
Diritto di famiglia

- Il diritto di aborto e la “non bilateralità” delle scelte genitoriali.
Premettiamo che il tenore di questo articolo potrà sembrare un po’ ironico e paradossale. Tuttavia, i riferimenti normativi e giurisprudenziali sono tutti autentici, quindi è probabile che il paradosso sussista più nel diritto vivente di questi anni che nella nostra ricostruzione.
In ogni caso, siamo sinceri nell’affermare che la sentenza del Tribunale di Monza che verrà principalmente commentata (26 gennaio 2006, n. 388 [PDF]), ha il pregio della coerenza e dell’armonia. Ci pare infatti che essa sia riuscita a conciliare in modo elegante sia il favor abortionis che il favor divortii, che ormai sono orientamenti affermati nella nostra giurisprudenza. Il tutto in un quadro apertamente anti-maschile ed anti-paterno, che la sentenza ha saputo sintetizzare con una chiarezza che a nostro parere non aveva molti precedenti.
D’altra parte il relatore della decisione monzese, dott. Piero Calabrò, è un magistrato meno sospettabile di chiunque altro di scarsa attenzione per il sentire comune. Molti infatti ricorderanno che il predetto è anche un volto noto al pubblico televisivo: ci risulta che proprio lui sia il personaggio che è solito distribuire le proprie competenze giuridico-calcistiche in una popolare trasmissione sportiva, assai nota per la sua vivacità, come “Il Processo di Biscardi”.
A suo tempo, già la Cassazione e la stessa Corte Costituzionale avevano precisato che nel nostro ordinamento l’aborto deve considerarsi un diritto soggettivo della donna. Ora, il Tribunale di Monza sembra voler confermare che tale diritto non è rivolto solo allo Stato e alle sue strutture sanitarie, bensì è un diritto assoluto, che può essere fatto valere nei confronti di chiunque, e in primis verso il padre del concepito.
Quest’ultimo, secondo la sentenza in esame, non ha dunque nemmeno il diritto di dolersi di non essere stato informato della scelta abortiva della donna, anche nel caso – non infrequente, secondo le statistiche – che si tratti della propria moglie, oltre che ovviamente del proprio figlio.
Infatti, se la maternità è un diritto tutelato anche dalla Costituzione, secondo il Tribunale di Monza non sussiste invece un giustapposto “diritto alla paternità”, né in assoluto né in relazione allo status di marito. Nella sentenza si legge apertamente che “non può … attribuirsi alle scelte attinenti la maternità una qualsivoglia valenza ‘bilaterale’”. E pertanto, in questa materia “non possono essere invocati gli inderogabili principi di parità ed uguaglianza dei coniugi”.
In altri termini, secondo i giudici lombardi il diritto soggettivo di abortire garantito dal legislatore alla donna, purché nel rispetto delle procedure di legge, è pieno e incondizionato. Quindi, la titolare non può essere penalizzata se il suo esercizio ha leso gli interessi degli altri soggetti coinvolti nella vicenda. Semplicemente in quanto gli altri non hanno alcun interesse tutelato da fare valere.
E’ irrilevante la posizione del fornitore del seme maschile (tecnicamente tuttora definito dalla legge 194 col termine di “padre”, che forse è ormai da considerarsi arcaico e fuorviante). Così come, aggiungiamo noi, non ha alcuna importanza l’interesse di un personaggio di natura giuridica indefinita, quale il concepito stesso.
La possibilità di essere ascoltato che è data al primo – a condizione, appunto, che la titolare del diritto di aborto sia d’accordo nel coinvolgerlo – a quanto pare secondo i giudici di Monza è un semplice ornamento della legge 194, che non può far sorgere in capo al padre, nemmeno se marito, una qualsivoglia aspettativa giuridicamente rilevante.
In fondo, si è semplicemente preso atto del fatto che il diritto a riprodursi tende ormai ad essere considerato come un’opzione insindacabile della madre. E anzi, forse sta per diventare anche dalle nostre parti “la scelta” per eccellenza, visto che già negli Stati Uniti l’aborto è comunemente chiamato the choice, e sono appunto pro-choice quelli che cercano di difenderne e ampliarne la libertà di esercizio.
Questo per quel che riguarda la posizione del padre rispetto al diritto materno all’aborto. Ma come dicevamo all’inizio, la decisione in esame ha anche saputo armonizzare tale diritto femminile con quello, già altrettanto affermato, di separarsi dal coniuge. Anche quest’ultimo è ormai riconosciuto come diritto assoluto, nonostante che il legislatore, per ragioni forse tralatizie, tuttora ne appesantisca l’esercizio imponendo anche in assenza di prole l’onere di procurarsi una sentenza costitutiva, contenente una autorizzazione giudiziaria che deve essere preceduta da un tentativo di conciliazione.
Volendo dunque astrarre dalla sentenza un principio generale, possiamo dire che il Tribunale di Monza ha stabilito che la separazione coniugale è un diritto che non può essere condizionato dal fatto che la moglie abbia voluto escludere l’altro coniuge dalla scelta di non avere uno o più figli, qualora detta scelta si sia manifestata in sede di interruzione di gravidanza. Il tutto, appunto, in base all’individuato criterio di “non-bilateralità” tra la posizione materna e quella del padre.
Rimane quindi da discutere se esistano margini di applicazione del principio anche in senso inverso. Nel caso di specie si trattava di un marito che in ipotesi avrebbe potuto non venire nemmeno informato della situazione. Ma, ad esempio, nel caso opposto di un’interferenza attiva del marito – almeno in quanto presunto fornitore del seme – rispetto alle decisioni femminili in ordine alla procreazione, potrebbe esserci un motivo di addebito della separazione a suo carico?
La questione ci pare assai attuale. Difatti, da un lato si è stabilito che il suddetto fornitore del seme, in quanto non-donna non è titolare nemmeno per riflesso della insindacabile scelta di non genitorialità riconosciuta a quest’ultima. Dunque, in linea di principio non dovrebbe mai risentire di questa, e pertanto anche i suoi eventuali tentativi di interferenza dovrebbero essere irrilevanti.
Eppure, non mancano alcuni precedenti di merito che tra le cause di addebito della separazione al marito – o quantomeno tra le motivazioni concorrenti – adducono che lo stesso si sia reso colpevole di eccessive pressioni affinché la coniuge decidesse di avvalersi della scelta abortiva. E vi sono anche esempi in senso opposto: esiste un precedente nel quale l’addebito è stato pronunciato in quanto il marito aveva posto in essere eccessive insistenze non per convincere la coniuge ad abortire, bensì al contrario affinché non desistesse dai tentativi di curare la propria infertilità (Tribunale di Lecce, 14 ottobre 1994).
In altri casi l’addebito della separazione è stato persino ritenuto sanzione insufficiente, qualora il presunto padre abbia interferito sulla libertà procreativa della moglie per mezzo di un comportamento omissivo: un noto precedente del Tribunale di Milano (Sent. 4 giugno 2002) ha difatti stabilito, oltre all’addebito, anche una condanna del padre al risarcimento dei danni esistenziali causati alla moglie, della cui gravidanza si era completamente disinteressato.
Insomma, sembra proprio che in questa materia non valga il principio del cuius commoda, eius et incommoda, e quindi che il provider dei gameti maschili (che come già detto forse è ormai improprio definire con l’arcaico termine di “padre”) non possa chiamarsi fuori nel bene o nel male – e comunque, non nel male – dalle conseguenze della scelta della donna, sia che questa decida di esercitare il proprio diritto all’aborto, sia che intenda non avvalersene.
Anzi, volendo tentare una ricostruzione sistematica dei precedenti giurisprudenziali, si può azzardare che l’orientamento dominante sia quello di sanzionare allo stesso modo le interferenze omissive ovvero commissive del suddetto provider dei gameti maschili rispetto alle scelte procreative femminili, quando queste ultime siano orientate in senso abortivo.
Al contrario, tuttavia, la giurisprudenza tende a penalizzare con maggior rigore i comportamenti omissivi paterni, laddove la libertà femminile si sia risolta a favore dell’opzione procreativa. Anche perché in quest’ultima ipotesi, ovviamente, dopo la nascita entra in gioco un ulteriore soggetto, al quale il padre è chiamato a fornire non solo il patrimonio genetico ma anche quello economico, ai sensi degli artt. 147-148 cod. civ..
Vista la sopraggiunta pluralità di soggetti passivi, è d’altronde inevitabile che le omissioni paterne tendano ad essere represse con maggiore rigore e a comportare responsabilità più onerose. Sono quindi già numerose le sentenze che, in caso di rifiuto del provider maschile di assumersi le proprie responsabilità verso la prole, non solo hanno ravvisato il reato previsto dall’art. 570 c.p., ma anche disposto pesanti risarcimenti verso la prole stessa per “privazione della figura genitoriale”. Non ci risultano invece precedenti nei quali detta “privazione” sia stata sanzionata a carico della madre, come del resto è logico, vista la sopra esaminata insindacabilità delle sue scelte in materia riproduttiva.
Altresì, va ricordato che oltre che dalla legge 194 in tema di aborto, la libertà riproduttiva femminile è tutelata anche dall’istituto della cosiddetta “madre segreta” – L. 15 maggio 1997, n. 127, art. 2 – per il caso che la donna non voglia assumersi alcuna responsabilità verso il frutto del concepimento pur avendo portato a termine la gravidanza.
Su questo argomento, è intervenuta una sentenza della Corte Costituzionale (n. 171 del 1994 [PDF]), alla quale il giudice remittente aveva prospettato un caso di mancato riconoscimento del figlio da parte di genitori coniugati, mettendo a confronto la legge 4 maggio 1983, n. 184 – sull’adozione e l’affidamento – con la legge 194 sull’aborto.
Secondo il Tribunale remittente “dal raffronto … nascerebbe … un paradosso: la donna potrebbe abortire senza dover neppure informare il padre; nel caso di filiazione naturale potrebbe dichiarare di non voler essere nominata senza dover chiedere l’assenso al padre naturale; ma nel caso in cui il Tribunale [in sede di adozione, ndr] conosca per vie informali lo stato di filiazione del minore, é costretto a superare la volontà della madre e risalire al padre”.
A detta dei giudici di merito il paradosso avrebbe potuto essere superato dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 10 della legge 184, nella parte in cui si impongono accertamenti per accertare l’effettiva filiazione prima di dichiarare lo stato di abbandono del minore, laddove la madre abbia dichiarato di non voler essere nominata ma si trovi nella condizione di coniugata. In tale caso, difatti, la sua sovrana volontà e la sua riservatezza avrebbero potuto essere lese attraverso l’individuazione del padre legittimo.
La Consulta ha dichiarato la questione inammissibile in virtù del fatto che il mancato riconoscimento comporta iuris et de iure l’inesistenza giuridica dei genitori (anche se la madre – legittima o naturale – non può mai subire un’accertamento giudiziale invito domino, e il padre sì): in questo modo è pertanto stata pienamente salvaguardata la “non bilateralità” dei diritti in materia riproduttiva.
In altri termini, si è confermato che la riservatezza della madre deve essere tutelata al punto che ormai l’unico caso di diritto in cui non si può procedere al riconoscimento giudiziale di paternità è quello in cui lo status di coniugata della madre stessa comporterebbe di riflesso anche per quest’ultima l’obbligo di assumersi gli oneri della genitorialità.
Tuttavia, laddove questo rischio non ricorra, come nei casi di filiazione naturale, resta invece pienamente possibile addivenire all’accertamento della sola paternità, in nome dei persistenti oneri che ricadono sulla controparte maschile che abbia fornito i propri gameti alla prole indesiderata.
La sussistenza di un “dovere di paternità” contrapposto in modo non bilaterale al “diritto di maternità” appare dunque come un principio sempre più consolidato: è addirittura stata pubblicata prima della chiusura di questo articolo una nuova sentenza della Consulta (10 febbraio 2006, n. 50 [PDF]), mediante la quale è stato dichiarato incostituzionale l’art. 274 cod. civ., che prevedeva la procedura delibatoria di ammissibilità nei procedimenti di riconoscimento giudiziale di paternità.
Un’ulteriore ostacolo alla pienezza del “dovere di paternità” è stato dunque appena rimosso, e questo va anche nel senso di una più piena affermazione del contrapposto diritto materno: basti osservare che storicamente il suddetto art. 274 cod. civ. era stato introdotto per salvaguardare le famiglie legittime dalle pretese temerarie di sedicenti figli adulterini; quindi era divenuto superfluo e irragionevole mantenere una simile precauzione, nel momento in cui la definizione dei rapporti di filiazione è stata socialmente affidata alla sovrana volontà delle madri.
A questo punto va precisato che il criterio di “non-bilateralità” con ogni probabilità non deve essere interpretato nell’interesse della prole, quanto a tutela dell’interesse proprio della madre alla genitorialità. Tanto che stesso Tribunale di Monza – per la verità a mezzo di diverso Presidente Relatore – nemmeno un paio di anni fa ci aveva offerto un altro contributo giurisprudenziale piuttosto significativo in questo senso (sent. 8 luglio 2004, n. 8994 [PDF]).
In tale occasione il collegio lombardo aveva appunto evidenziato che il provider maschile inadempiente può incorrere in responsabilità risarcitorie non solo nei confronti dei figli, ma anche della stessa madre iure proprio, laddove questa dovesse vedersi privata per colpa paterna del proprio ruolo genitoriale.
Il caso di quest’ultima sentenza monzese era particolarmente significativo, e da esso si può evincere quale estensione stia raggiungendo il criterio della “non-bilateralità”: nel merito infatti si era trattato di una situazione di accertata inadeguatezza di entrambi i genitori separati, al punto che il figlio non era stato affidato alla madre bensì ai servizi sociali, con “collocamento” presso il padre.
Però detta circostanza non è stata ritenuta sufficiente per escludere che la donna avesse comunque subito per colpa dell’ex-marito un danno da lesione del diritto alla maternità (quantificato in euro 50 mila). Se ne deduce che l’inadeguatezza genitoriale della madre non è ragione sufficiente per legittimare il comportamento ostativo del marito verso l’esercizio del suo diritto: se spetta allo Stato il diritto-dovere di limitare l’esercizio della maternità in casi di grave inadeguatezza, comunque il marito non può surrogarsi ai pubblici poteri, e risponde di illecito aquiliano qualora i suoi doveri di paternità vengano esercitati in modo da travalicare il prevalente diritto materno.
Possiamo dunque riassumere che, secondo gli orientamenti più recenti della nostra giurisprudenza, il soggetto onerato dell’apporto dei gameti maschili, pur non essendo titolare nemmeno per riflesso dell’opzione riproduttiva, non è affatto legittimato a rimanere neutro rispetto alla stessa. Piuttosto, esso tende ad essere assoggettato all’obbligo di assecondare i desideri del coniuge ovulante, sia nel senso dell’interruzione di gravidanza che in quello contrario della effettiva procreazione.
Il diritto sovrano alla maternità così come quello paritetico alla non-maternità tendono insomma a prevalere sempre, soprattutto rispetto alla controparte maschile, la cui funzione vicaria viene garantita dalla giurisprudenza anche mediante la crescente possibilità di condanne risarcitorie in tutti i casi di inadempienza.
In termini costituzionali, si può dire che l’orientamento sia quello di dare piena effettività al secondo comma dell’articolo 31 Cost., mentre l’attuazione del comma precedente (sulla tutela della famiglia e sulle provvidenze economiche che la Repubblica dovrebbe disporre al riguardo) tende ad essere affidata ai soli doveri sia genetici che economici del più volte citato provider.
Siamo pertanto convinti, visto che non mancano i precedenti di vari Tribunali e comunque il quadro normativo è favorevole, che il principio di “non-bilateralità” teorizzato dalla sentenza commentata all’inizio potrà presto trovare altre sanzioni giurisprudenziali. E non è escluso che l’assoluta insindacabilità del diritto di aborto, unita al principio per cui la tutela della maternità sarebbe per definizione “non-bilaterale” – e quindi non debba scontare nemmeno il contrapposto principio di eguaglianza formale tra le persone in base al sesso (art. 3 Cost.) – presto potrà essere esteso ad altri rapporti civili.
Infatti, da un altro punto di vista, ci permettiamo di ricordare che il legislatore continua tuttora a considerare l’impotenza maschile come possibile motivo di nullità del matrimonio (art. 122 cod. civ.). Si tratta di una norma ormai residuale, che risale alla concezione tradizionale del matrimonio in funzione della prole, ed è stata socialmente superata dal fatto che ben difficilmente nella realtà dei costumi odierni si può verificare un errore preventivo, durante il periodo pre-matrimoniale, rispetto alle capacità sessuali del futuro coniuge.
Ciò nonostante il principio rimane valido, visto che quel che non si ha quasi più ragione di tutelare ex ante in sede di validità del vincolo, ben può venire sanzionato ex post mediante l’addebito della separazione e la responsabilità aquiliana del coniuge sessualmente inadeguato.
Ora, a quanto ci consta né l’art. 122 cod. civ., né l’addebito della separazione, né la successiva responsabilità ex art. 2043 cod. civ. sono mai state ritenute applicabili in caso di sterilità femminile, e nemmeno nel caso di malattia psichica che comporti da parte della moglie un continuativo rifiuto della copula. E abbiamo appena visto che, data l’assolutezza del diritto all’aborto, tali norme non sarebbero invocabili nemmeno nel caso che la coniuge ovulante volesse rendersi di fatto sterile nel matrimonio attraverso la sistematica interruzione delle proprie gravidanze.
Questo ci pare un ulteriore fulgido esempio di non-bilateralità, non solo in materia riproduttiva ma anche rispetto alla libertà sessuale femminile. Infatti, l’art. 122 cod. civ. ha invece avuto modo di essere applicato più volte in caso di impotentia coeundi. Ed oltre a ciò, come da sentenza n. 9801 del 2005 [PDF], da noi indegnamente commentata nel blog diritto del maggio scorso, la Cassazione anche precisato che nascondere eventuali carenze di talamo nei confronti della futura coniuge può comportare, oltre che la nullità del vincolo nuziale, anche il risarcimento dei danni esistenziali arrecati a quest’ultima.
Il che ci suggerisce come, oltre alla sopra esaminata non-bilateralità delle scelte riproduttive, la parte maschile stia assumendo tra i propri oneri anche una vera e propria funzione vicaria rispetto al diritto femminile alla soddisfazione sessuale. D’altro canto quest’ultimo diritto si sta facendo rapidamente strada anche nel nostro quadro legislativo, e al riguardo ci permettiamo di rimandare al nostro commento sulla nuova legge sulla infibulazione, da poco pubblicato nel blog opinioni.
Infine, anche a prescindere dalla questione dell’aborto e dei nuovi diritti femminili, la prima decisione monzese qui commentata è interessante anche perché consente di individuare alcune ulteriori interessanti applicazioni degli orientamenti dominanti in materia di separazione coniugale.
Risulta difatti che nella fattispecie concreta il coniuge non-titolare della scelta abortiva avesse chiesto l’addebito della separazione a carico dell’altro, perché a detta del marito dopo l’interruzione di gravidanza la titolare stessa aveva anche ingiustificatamente abbandonato la residenza familiare.
La sentenza ha quindi applicato il principio già consolidato, secondo il quale in materia di addebito rilevano soltanto le violazioni dei doveri matrimoniali che siano state cause efficienti della separazione. E non le pretese violazioni che eventualmente fossero state consumate quando già la cessazione della comunione spirituale tra coniugi era irrimediabilmente avvenuta.
Tuttavia, nel caso di specie risultava dagli atti che il ricorrente, a seguito dell’aborto e del conseguente abbandono della residenza familiare da parte della moglie, avesse scritto a quest’ultima una lettera confessoria, poi opportunamente prodotta in giudizio dalla destinataria.
Citiamo testualmente la sentenza monzese, nella parte in cui riferisce che in tale lettera il ricorrente: “ha ammesso alcune proprie mancanze (di essere “stato stupido” nei confronti della moglie e di averla “ferita”), se ne è assunta l’esclusiva responsabilità (“ti chiedo perdono…per i momenti aspri che ho avuto con te, i miei scatti, i nervosismi”) ed ha riconosciuto che l’allontanamento della resistente ha avuto meri scopi difensivi (“tu ti stai solo difendendo, lo capisco”)”.
Dunque la citata missiva, secondo il Tribunale di Monza, era prova della non addebitabilità della separazione alla moglie, in quanto dimostrava che la causa efficiente della stessa non era stata l’abbandono della residenza. Infatti, in motivazione la sentenza ha aggiunto subito dopo che: “non solo [il marito] non ebbe a contestare alla moglie il preteso unilaterale abbandono della casa coniugale, ma dimostrò di comprenderne le ragioni e di non considerarlo come motivo di rottura del vincolo coniugale (“forse un giorno aprirai una porticina, io sarò lì” …).
Da quanto sopra si potrebbero pertanto desumere altri due nuovi interessanti principi di diritto: in primo luogo, che in materia di separazione deve ritenersi che la confessione stragiudiziale di generici atti di stupidità e di nervosismo da parte di un coniuge, anche se non meglio definiti né tantomeno accertati, può essere motivo indiziario per considerare la separazione stessa non addebitabile all’altro.
Ciò anche qualora, al fine di difendersi dai predetti atti, l’altro coniuge abbia abbandonato la residenza familiare. A nulla ostando, al riguardo, le eventuali pulsioni personali – come ad esempio il desiderio di riconciliazione, o al limite di comprensione o di perdono per i propri umani difetti – che possano avere indotto l’onerato ad edere contra se.
In secondo luogo, la sentenza in esame ha sancito che la mera comprensione psicologica delle ragioni del coniuge che ha abbandonato la residenza coniugale, nonchè la manifestazione (anche se eventualmente revocata) della disponibilità a riaccoglierlo è motivo sufficiente per escludere che l’abbandono della residenza possa oggettivamente avere influito sulla decisione di separarsi.
Anche in questo caso, il fatto che si possa essere in presenza di moti dell’animo espressi a posteriori e comunque per loro natura soggettivi e mutevoli, che in diritto sono tendenzialmente irrilevanti (salvo, nei contratti, il motivo illecito comune ai contraenti ex art. 1345 cod. civ.), non ha impedito il riconoscimento del principio.
E’ dunque opportuno, a nostro parere, che in ogni situazione di crisi matrimoniale i pratici consiglino alle parti da loro assistite di non esternare mai all’altro coniuge – tantomeno per iscritto – la proprie personali debolezze, né la propria eventuale soggettiva comprensione delle ragioni dell’altro.
Infatti, abbiamo appena visto che tali riconoscimenti potrebbero di per sé bastare al futuro giudice della separazione, per giustificare ex post comportamenti della controparte altrimenti censurabili. In questi casi, è dunque consigliabile rivolgersi al legale di fiducia, che al limite potrà incaricare il collega di controparte di fare presenti tali sentimenti al coniuge da lui assistito, sotto il vincolo deontologico della riservatezza. (M.F. 13.2.06)
 
 
- Il nuovo affido condiviso:
l’armata dei padri all’assalto dei Tribunali?
Solo il tempo dirà se la riforma varata proprio in articulo mortis dal Senato della Repubblica (DDL n. 3537 approvato il 26 gennaio 2006 [PDF]) avrà dato il via ad un memorabile assedio giudiziario.
La nuova legge non ha difatti previsto alcun automatismo per l’introduzione del principio della “bigenitorialità” e delle altre norme riformate. Tuttavia, sia con il proprio art. 4 – relativo ai provvedimenti già definitivi – sia con il nuovo art. 155 ter cod. civ., ha offerto ai genitori separati la possibilità di ricorrere sempre e comunque ai sensi dell’art. 710 c.p.c., per ottenere l’adeguamento delle decisioni giudiziarie sull’affidamento dei figli.
Il principio ispiratore della nuova normativa è sempre stato largamente disatteso nella prassi, considerato che circa l'85 per cento degli affidamenti finora disposti è a favore della sola madre. Per questo, ci si attende una massa di ricorsi, che potrebbe investire anche i provvedimenti provvisori adottati nelle cause tuttora in corso.
Infatti, già il legislatore era intervenuto sulla materia nel recente decreto di riforma della procedura civile (D.L. 14 marzo 2005, n. 35), stabilendo al nuovo art. 709 c.p.c. la possibilità di ricorrere incondizionatamente al giudice istruttore per la modifica dei provvedimenti temporanei ed urgenti ex art. 708 c.p.c.. Ed ora, con un chiaro segno di sfiducia verso le capacità delibatorie dei Presidenti di Tribunale, il testo definitivo del DDL n. 3537 ha introdotto una ulteriore possibilità di reclamo contro i suddetti provvedimenti, da proporre alla Corte d’Appello nel termine di dieci giorni dalla pronuncia.
Questo forte ampliamento delle possibilità di gravame a nostro parere evidenzia un punto debole della nuova normativa, che già ha scatenato le serrate critiche di alcune associazioni: il pur sacrosanto ritorno della potestà sui figli a favore di entrambi i genitori separati – che è il principio qualificante della riforma – non sarà in alcun caso automatico. Esso richiederà comunque un intervento della magistratura, che sul punto conserverà discreti margini di discrezionalità, sia per la revisione delle decisioni pregresse che per quelle future.
Si tratta di una scelta contraddittoria, dal momento che – se nello spirito della riforma l’affido condiviso deve diventare la regola – non si capisce perché l’onere di nuovi ricorsi giudiziari non sia stato lasciato a chi ritenga di dover ottenere un’eccezione.
D’altro canto, paradossalmente, i detrattori della nuova legge potrebbero trovare argomenti sia nel caso che i ricorsi in massa si verifichino, sia in quello contrario. Nella prima ipotesi, certamente si rinfocoleranno le critiche di quegli operatori del settore che da tempo sostengono che l’affido condiviso porterà ad un aumento ingestibile del contenzioso. Ma anche nel caso contrario, così come nel caso che ai ricorsi segua un’ondata contrapposta di rigetti da parte dei Tribunali, gli stessi soggetti potranno sostenere – anche se ci vorrà una certa dose di impudenza – che alla prova dei fatti il vecchio sistema dell’affido esclusivo non era poi così male.
Proprio per questo, vista anche la possibile istituzione di un osservatorio parlamentare sul primo biennio di applicazione della legge, è assai auspicabile che i padri separati e i loro difensori facciano un uso responsabile dello strumento dell’art. 710 c.p.c.. Il cambiamento culturale da parte dei giudici non sarà immediato, e quindi il rischio di andare incontro a una valanga di rigetti sarà alto. Perdipiù, ora che l’affido condiviso è legge, sarebbe preferibile evitare di fornire ulteriori argomenti ai paladini del vecchio sistema, specie se si dovesse andare incontro ad un imminente cambio della maggioranza politica che ha reso possibile la riforma.
Infatti, a prescindere dagli aspetti perfettibili, a nostro parere la legge in esame rappresenta comunque una grande occasione per il ritorno del padre nella famiglia e nella società, che non deve essere sprecata. Nonostante le motivate perplessità che si possono nutrire sulla sua efficacia, specie per i primi tempi, il testo definitivo del DDL n. 3537 ci sembra più che idoneo per arginare il moltiplicarsi delle tante storie di ordinaria ingiustizia alle quali in tutti questi anni ha dato luogo il criterio dell’affidamento esclusivo dei figli alla madre.
E’ vero, come lamentano alcune associazioni, che alcuni punti qualificanti della riforma – quali, in primo luogo, il primato dell’affidamento condiviso, il mantenimento diretto dei figli e la mediazione familiare preventiva – sono stati accolti in modo parziale e non obbligatorio, essendo stati di fatto affidati al discernimento del giudice. E’ quindi comprensibile il timore di molti padri separati, che senza tutti i torti considerano con grande sfavore, se non proprio con esecrazione, l’atteggiamento finora tenuto nei loro confronti dalla giurisprudenza.
Del resto è davvero possibile che, non essendo tenuti ad accertare gravi motivi per disporre l’affidamento esclusivo alla madre, i magistrati tenderanno a perpetuare il più possibile tale criterio, per un fatto di resistenza culturale al cambiamento, se non proprio in virtù di un radicato pregiudizio antipaterno.
Soprattutto, non essendo stato del tutto chiarito il confine concettuale tra genitore affidatario e genitore convivente con la prole – che comunque continuerà ad essere solo uno, in virtù del fatto lapalissiano che altrimenti non ci sarebbe nemmeno la separazione – a nostro parere è possibile che molti giudici tenderanno a ricorrere con relativa facilità all’esercizio separato della potestà, in virtù del noto pregiudizio per cui “è impossibile fare andare d’accordo chi proprio non vuole”.
Sarebbe dunque stato meglio che il nuovo art. 155 cod. civ. avesse specificato il significato di detto esercizio separato della potestà che il giudice potrà disporre per le questioni di ordinaria amministrazione. Se il legislatore avesse voluto riferirsi alla semplice facoltà di esercizio disgiunto della potestà stessa, l'inciso del testo sarebbe stato superfluo perchè detto criterio è insito nel principio dell'affidamento condiviso. Dunque, si tratta di una possibilità che, nella pratica, potrebbe avere effetti ad excludendum verso il genitore non convivente con la prole (diciamo pure il padre, nella stragrande maggioranza dei casi), fino a fare rientrare dalla finestra l'affido esclusivo che è appena uscito dalla porta. Sarà quindi importante che la giurisprudenza, se non proprio un nuovo intervento correttivo sulla legge, possa correggere quello che altrimenti potrebbe manifestarsi come un bug del nuovo sistema.
Tuttavia, a parte tutto, nascondere il principio dell’affidamento condiviso non sarà comunque facile per le corti di merito. Occorreranno almeno un paio di anni per vedere come sarà stato attuato l’obbligo di motivazione imposto dalla riforma, per tutti quei casi in cui i Tribunali decideranno di continuare a disporre l’affidamento alla sola madre. Però, al momento nulla consente di affermare che il principio di bigenitorialità verrà facilmente eluso.
Difatti, resta pur sempre ben delineato il principio generale del nuovo art. 155 cod. civ., secondo cui la potestà sui figli in caso di separazione di regola dovrà rimanere ad entrambi i genitori. Affinchè venga disposto un affidamento esclusivo, che prima era la regola, secondo il nuovo art. 155 bis cod. civ. il giudice dovrà motivare il fatto che “l’affidamento all’altro [genitore] sia contrario all’interesse del minore”. Quindi, laddove non sussistano situazioni particolari, solo mediante un chiaro pregiudizio antipaterno d’ora in poi i giudici potranno sostenere che solo la madre in quanto tale sia idonea a conservare l’affidamento della prole.
A questo proposito sono stati inoltre introdotti, vista l’esperienza pluriennale di tanti ricorsi ex art. 710 c.p.c. troppo velleitari o puntigliosi, due nuovi art. 155 bis cod. civ. ed art. 709 ter c.p.c., che richiamano espressamente l’istituto della lite temeraria: d’ora in poi il giudice, nei casi di ricorsi per affidamento esclusivo palesemente infondati, potrà ricorrere all’art. 96 c.p.c.; mentre per le controversie relative all’esercizio della potestà o alle modalità dell’affidamento, potrà comminare una serie di sanzioni processuali a carico del genitore che ostacola la pari genitorialità. Queste ultime andranno dall’ammonimento al risarcimento danni (a favore dell’altro genitore ma anche del figlio stesso), fino a sanzioni amministrative pecuniarie.
L’intento deflattivo di queste ultime novità processuali è evidente, per quanto vada osservato che finora l’art. 96 c.p.c. è stato uno degli articoli del codice di procedura civile storicamente meno applicati, un po’ perché non si è mai riusciti a precisare la natura dei danni da lite temeraria, e molto per la tendenza piuttosto salomonica della maggior parte dei giudici.
Ad ogni modo, quanto sopra dovrebbe consentire di superare molte delle penose privazioni alle quali finora sono stati sottoposti i padri separati, particolarmente in ordine agli orari e alle modalità delle visite dei figli. Purtroppo, anche se la nuova legge tende a favorire gli accordi tra genitori, nel nuovo art. 155 cod. civ. la definizione “dei tempi e delle modalità della loro presenza presso ciascun genitore” rimarrà affidata al giudice, senza alcun automatismo che consenta di superare la prassi decisamente umiliante degli orari fissi e dei week-end alternati.
Lo stesso vale per le decisioni relative ai figli che richiedono un impegno economico: per queste ultime la riforma prevede che il giudice debba stabilire “la misura e il modo” con il quale ciascuno dei genitori deve contribuire a mantenimento, cura ed istruzione. A questo riguardo, è facile prevedere che – quantomeno per inerzia, nei primi anni – i Tribunali continueranno a stabilire più la “misura” che non il “modo”, non essendo stato accolto il principio del mantenimento diretto.
Ma queste inevitabili difficoltà, a nostro parere, non devono fare perdere di vista il valore innovativo della legge, e soprattutto il fatto che solo un cambiamento culturale – che passerà soprattutto dall’atteggiamento dei padri nella crisi della famiglia – potrà dare vita ad un sostanziale mutamento della giurisprudenza. Perché è vero che finora l’atteggiamento di quest’ultima è stato spesso pedissequo rispetto alla mentalità corrente, che vede la madre come soggetto privilegiato, e il padre come semplice provider dei mezzi di sussistenza per tutti.
Tuttavia è anche vero che sarebbe stato infantile sperare di cambiare di colpo questo orientamento, con la bacchetta magica di una normativa rigida che togliesse discrezionalità ai magistrati, specie nei casi delle separazioni ad elevata conflittualità. A nostro parere, mediante un’adeguata prospettazione dei modi concreti con cui intende fare fronte alle esigenze del figlio, il genitore separando che dovrà cessare la convivenza con la prole minore potrà trovare già in questa nuova legge uno strumento idoneo, per ottenere sia maggiore giustizia che maggiore possibilità di controllo.
Non va difatti scordato che, in modo davvero innovativo, grazie alla riforma in esame stanno per entrare nel disposto della legge una serie di criteri di ripartizione delle spese di mantenimento che finora la giurisprudenza (specie di merito) aveva rifiutato o aveva adottato in modo decisamente aleatorio.
Finora, la prassi ha teso ad imporre anche nella separazione coniugale il modello tradizionale – che del resto è ancora vivo nella realtà sociale – secondo il quale è il padre che garantisce il maggior reddito familiare, mentre la madre ha limitate possibilità reddituali anche in virtù dei suoi compiti di cura dei figli. Questo menage ha teso ad essere mantenuto nelle crisi coniugali da parte dei giudici di merito, con conseguente imposizione al padre non affidatario di pesanti contributi economici per i figli, e spesso anche per la stessa moglie. Tutto questo senza troppa attenzione al fatto che la separazione coniugale comporta di per sé una duplicazione di costi (di abitazione, di consumi domestici, di esigenze personali) che un solo reddito di norma non può sopportare.
Ma ora, grazie ai criteri sanciti dal nuovo 4° comma dell’art. 155 cod. civ., le parti avranno una base normativa più solida per sottoporre al giudice opportuni temi di indagine sulle reali condizioni dei coniugi. Finora la giurisprudenza di merito aveva preso in considerazione questi temi in modo molto incerto e discontinuo, mentre ora il giudice sul punto avrà perlomeno un obbligo di motivazione: il nuovo art. 155 cod. civ. prevede che l’assegno periodico per il mantenimento dei figli, che finora è stato pressoché automatico, dovrà essere versato soltanto “ove necessario” e al fine di realizzare “il principio di proporzionalità” rispetto ai redditi di ciascun genitore. E non soltanto dei redditi, in quanto dovranno essere presi in considerazione anche altri parametri assai interessanti, quali il “tempo di permanenza presso ciascun genitore” e “le risorse economiche di entrambi”.
Si pensi solo al caso, assai frequente, delle famiglie a basso reddito che per crescere la prole avevano fatto affidamento sul contributo lavorativo della madre e/o sugli aiuti economici delle famiglie di origine, che in caso di separazione possono venire a mancare ovvero essere utilizzati come arma di ricatto e di esclusione verso il padre. Ora, solo per fare un esempio, i criteri del nuovo 4° comma dell’art. 155 cod. civ. renderanno meno aleatoria la possibilità di continuare a fare affidamento sulle capacità e sulle risorse proprie del coniuge che continuerà a convivere coi figli.
Vi è sì l’arma a doppio taglio del n. 5) del suddetto comma, che impone di prendere in considerazione la “valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore”. Questa specificazione probabilmente è stata posta per autorizzare una ipervalutazione della contributo della madre, che in genere è la coniuge più debole sul piano reddituale anche a causa della propria maggiore vocazione per i compiti domestici. Però, è anche vero che il padre non convivente potrà ribaltare il concetto facendo presenti i maggiori oneri domestici che la separazione gli impone anche per se stesso. Inoltre, grazie alla nuova legge il padre avrà maggiori margini di manovra per prospettare soluzioni di mantenimento diretto.
Ad esempio, il padre separando potrà meglio prevenire l’onerosa somma forfettaria che di solito viene provvisoriamente disposta a suo carico dal Presidente del Tribunale, sfruttando il principio dell’affidamento condiviso al fine di offrirsi di tenere con sé i figli per periodi più lunghi. In base a ciò potrà offrire un contributo “ragionato” di tot all’anno per le spese di istruzione, tot per le spese sportive, tot in percentuale per le spese sanitarie e di villeggiatura, e così via. Insomma, i parametri del nuovo 4° comma dell’art. 155 cod. civ. consentiranno anche al padre di prospettare la propria valutazione del costo effettivo delle esigenze del figlio, nonché delle possibilità economiche della coppia prima e dopo la crisi, in modo molto più analitico e ragionato.
Vi è poi l’interessante novità dell’art. 155 quater cod. civ. sui criteri di assegnazione della casa familiare, che prima d’ora – spesso prendendo a pretesto l’interesse dei figli – hanno dato luogo ad una penosa serie di espropriazioni di fatto a carico dei padri separati, ed anche ad ulteriori abusi ed umiliazioni. Il fatto nuovo è che di fronte ad un bene così importante come la casa, nel disposto del codice ora accanto all’interesse dei figli entreranno in considerazione anche i rapporti economici tra i genitori e il titolo di proprietà.
Dovrebbero quindi essere attenuati gli abusi finora verificatisi, anche perché il nuovo testo di legge si è premurato di precisare che il cambiamento di residenza del coniuge convivente potrà portare ad una ridefinizione delle condizioni di separazione anche sul piano economico, e non solo riguardo alle possibilità di visita dei figli. E’ quindi auspicabile che d’ora in poi per le madri separande sarà più difficile usare l’affidamento della prole come garanzia abitativa per se stesse. Anche perché il nuovo art. 155 quater ha previsto l’automatica cessazione della assegnazione della casa familiare in caso di cambiamento di residenza del genitore assegnatario, e ancor più in caso di nuova convivenza more uxorio.
In definitiva, dunque, secondo noi di questa riforma non si può che dare un giudizio positivo. E sarà altresì molto importante che gli operatori del diritto più sensibili alle istanze dei padri separati sappiano sfruttare a fondo le nuove possibilità offerte dal DDL 3537, senza abusi o pretese velleitarie che possano dare argomenti ai tanti detrattori dell’affido condiviso.
La delusione di certe associazioni è comprensibile, ma francamente sperare di più ci sarebbe parso velleitario, anche perché se questa legge dovesse davvero dimostrarsi inutile, allora probabilmente bisognerà prendere atto che nessun altro testo normativo potrà cambiare le cose. E’ prevedibile che, nonostante le nuove norme, con ogni probabilità la prole minore dei genitori separati continuerà ad essere in gran parte dei casi collocata presso la madre (anche se, positivamente, quest’ultima non sarà più considerata affidataria esclusiva). Ma questo non dovrà essere visto come un fallimento della riforma, né come il frutto di un perdurante pregiudizio o della malevolenza dei giudici.
Bisognerebbe sempre partire dal presupposto che, di fronte alla crisi di un matrimonio con prole, si è sempre in presenza di una frattura devastante, non solo per gli interessati ma anche per tutta la società. Frattura che dovrebbe essere prevenuta e possibilmente ricomposta in ogni modo. Questo è il vero cambiamento di mentalità che dovrebbe essere adottato da tutti gli operatori del diritto che hanno a che fare con la crisi della famiglia, in particolare gli avvocati. (M.F. 27.1.06)

Studio legale dell'avvocato Massimiliano Fiorin

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