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Quando il conflitto tra mamma e manager fa discutere il mondo

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Cassiodoro:
Anne-Marie Slaughter era il braccio destro di Hillary Clinton: ha lasciato il lavoro per potersi dedicare ai figli, suscitando reazioni vivaci e polemiche

Anne-Marie Slaughter era il braccio destro di Hillary Clinton: ha lasciato il lavoro per potersi dedicare ai figli, suscitando reazioni vivaci e
polemiche

 ROSELINA SALEMI



Alla domanda «Come fa a far tutto?», bestseller della scrittrice Allison Pearson (e commedia con Sarah Jessica Parker), Anne-Marie Slaughter ha risposto indirettamente che non si può. Che le donne non possono «avere tutto», se nel pacchetto è inclusa la maternità. Professoressa di Scienze politiche a Princeton, Slaughter, dal 2009 al febbraio 2011 è stata direttrice della pianificazione delle politiche al Dipartimento di Stato Usa (la sua superiore era Hillary Clinton) e ha mollato l’incarico a Washington. Non voleva perdere il posto a Princeton e voleva occuparsi dei due figli, dei loro brufoli, dei loro voti scolastici.

Le reazioni? Delusione («Un peccato che tu abbia dovuto lasciare») e condiscendenza («Io non ho mai dovuto fare compromessi e i miei figli se la sono cavata benissimo»). Si è arrabbiata. Ha risposto a tutti su «The Atlantic», nel numero di luglio e agosto, con un lungo saggio che entra nei più intimi dettagli delle sue dimissioni e ne chiarisce il senso (come spiega nell’articolo che pubblichiamo qui sotto). Risultato: un putiferio. Anne-Marie Slaughter ha una visione che non quadra con le teorie femministe («madri non si nasce, è una scelta») e non coincide con la gioiosa, onnipotente avanzata delle donne in carriera, tipo Sheryl Sandberg, amministratore delegato di Facebook, pronte a sfidare gli uomini sul loro terreno gridando: «Miriamo alle stelle!». E’ una mina vagante lanciata nel mondo compiaciuto di quelle che ce l’hanno fatta, o almeno lo dichiarano.

Va giù pesante. Chi ha tutto è un’eccezione frustrante (per le altre). Non basta l’impegno, non basta la caparbietà, né la volontà. Avendo una famiglia, bisogna rinunciare a qualcosa, e spesso si rinuncia al lavoro. L’imperativo materno, idea che trova conferme nelle neuroscienze, non lascia scelta. Così, il caso personale, che pure è significativo, diventa ultrapolitico. Ciò che Anne-Marie racconta di sé è incontestabile, anche da parte di chi le ha mosso critiche severe, come Laurie Penny, dell’«Independent». Due anni in cui la settimana cominciava alle 4.20 del lunedì mattina «quando mi alzavo per prendere il treno delle 5.30 da Trenton a Washington» e finiva il venerdì sera tardi. Due anni senza lasciare una sola volta l’ufficio prima dell’orario di chiusura dei negozi: «Tutto, dal lavasecco alla parrucchiera, era rimandato al weekend, tra le attività sportive dei ragazzi, le lezioni di musica, i pranzi in famiglia e le chiamate in teleconferenza». Però aveva una giornata libera al mese, ed era un buon trattamento, perché Hillary teneva conto del fatto che i suoi collaboratori avessero una famiglia e limitava il suo orario dalle 8 alle 19. E poteva contare su un marito meraviglioso, che «si è dedicato ai compiti, ha imparato a memoria il copione della recita scolastica, preparato la pietanza tipica per la festa dei sapori, fatto il tifo alle partite di baseball».

Insomma, il femminismo ha mentito a generazioni di donne, sostiene Slaughter, e il dibattito diventa aspro. Lo rilancia la potentissima Jill Abramson, arrivata con fatica e soddisfazione a dirigere il «New York Times», e si finisce, dopo molti interventi, con un progetto ambizioso, forse troppo: ridisegnare il mondo del lavoro, riportare il privato al centro della vita e restituire valore alla maternità, evitando di considerarla un intralcio. Oppure è necessario avere idee chiarissime come Axelle Lemaire, neodeputata francese per i residenti all’estero, trentasette anni, che ha rifiutato senza batter ciglio l’offerta di un ministero da parte di Francois Hollande: «Faccio politica per migliorare la vita degli altri, non per peggiorare la mia».

http://www3.lastampa.it/mamme/articolo/lstp/463418/


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Anne Marie Slaughter "Così sono diventata un simbolo globale



Il nuovo articolo della professoressa: molti problemi restano aperti

 ANNE-MARIE SLAUGHTER *


princeton

Quando ho scritto l’articolo di copertina per il numero di luglio e agosto di «The Atlantic», intitolato «Perché le donne non possono ancora avere tutto», mi aspettavo una reazione ostile da molte americane in carriera della mia generazione e di quelle precedenti, e risposte positive dalle donne di età compresa tra 25 e i 35 anni. Mi attendevo che anche molti uomini della stessa generazione più giovane avrebbero avuto reazioni forti, visto che parecchi di loro stanno cercando di capire come poter stare con i figli, sostenere la carriera delle mogli e seguire i propri progetti.

Mi aspettavo osservazioni anche dai rappresentanti delle imprese sul fatto che le soluzioni da me proposte - maggiore flessibilità, fine della cultura della continua presenza fisica e del machismo valutato secondo il tempo passato al lavoro, reinserimento senza penalizzazione dei genitori rimasti fuori o passati al parttime - fossero fattibili o utopistiche.

Quello che non avevo proprio messo in conto erano la velocità e la portata della reazione - quasi un milione di lettori in una settimana e persino troppe risposte scritte, e TV, radio, e dibattiti sui blog da seguire - e la sua portata globale. Sono stata intervistata da giornalisti di Gran Bretagna, Germania, Norvegia, India, Australia, Giappone, Paesi Bassi e Brasile, e articoli sul mio intervento sono stati pubblicati in Francia, Irlanda, Italia, Bolivia, Giamaica, Vietnam, Israele, Libano, Canada, e molti altri Paesi.

Reazioni diverse da un paese all’altro, naturalmente. In effetti, e sotto molti aspetti, l’articolo è una cartina di tornasole del punto in cui si trovano i vari Paesi nella loro evoluzione verso la piena parità tra uomini e donne. India e Gran Bretagna, per esempio, hanno avuto primi ministri donna con Indira Gandhi e Margaret Thatcher, ma devono confrontarsi con l’archetipo del successo femminile delle «donne -uomo».

Le nazioni scandinave sanno che le donne di tutto il mondo guardano ad esse come pionieri delle politiche sociali ed economiche che consentono alle donne di essere madri e professioniste di successo in carriera e che incoraggiano e si aspettano che gli uomini svolgano un ruolo paritario come genitori. Ma non stanno sfornando tante donne manager nel settore privato come gli Usa, che pure sono parecchio più indietro.

I tedeschi sono in conflitto. Un’importante rivista tedesca ha deciso di inquadrare il mio contributo al dibattito come «donna in carriera ammette che è meglio stare a casa». Un’altra (con maggior precisione) ha sottolineato la mia enfasi sulla necessità di un cambiamento sociale ed economico per permettere alle donne di avere pari opportunità.

I francesi restano in disparte, anche un po’ sprezzanti, come si addice a una nazione che rifiuta il femminismo come creazione americana antifemminile e riesce a produrre un leader al contempo competente ed elegante come Christine Lagarde, a capo del Fondo Monetario Internazionale. Naturalmente, l’esempio del suo predecessore, Dominique Strauss-Kahn, e altre storie sul comportamento maschile francese, che nei noiosi Stati Uniti sarebbero chiaramente letti come molestie sessuali, suggeriscono che ci vorrebbe forse un po’ più di «féminisme» alla francese.

Al di fuori dell’Europa, le donne giapponesi si chiedono quanto dovranno ancora restare in una cultura inesorabilmente maschile e sessista. I cinesi adesso hanno una generazione di giovani donne istruite e autonome che mettono in dubbio l’idea stessa del matrimonio a causa dei vincoli che un marito (e una suocera) porrebbero alla loro libertà.

Le donne brasiliane guardano con orgoglio al loro presidente, Dilma Rousseff, ma sottolineano anche come ci sia ancora molta discriminazione. In Australia, con il suo vigoroso dibattito sulla vita lavorativa, le donne fanno notare il successo di Julia Gillard, la prima donna primo ministro, ma anche che non ha figli (e nemmeno ne ha il cancelliere tedesco Angela Merkel, la prima donna a guidare il suo Paese).

La natura globale di questo dibattito offre almeno tre lezioni importanti. In primo luogo, se «soft power» significa esercitare un’influenza perché «gli altri vogliono quello che vuoi tu», come dice Joseph Nye, allora le donne di tutto il mondo vogliono quello per cui le femministe americane cominciarono a lottare tre generazioni fa.

In secondo luogo, gli americani, e non sorprende, hanno molto da imparare dai dibattiti, dalle leggi e dalle consuetudini culturali di altri Paesi. Dopotutto, in molte altre nazioni le donne hanno salito la scala politica più velocemente che negli Stati Uniti. Infatti, gli Usa non hanno mai avuto una donna alla presidenza, né come leader della maggioranza al Senato, segretario del Tesoro o Segretario alla Difesa.

Infine, non si tratta di questioni femminili, ma di temi sociali ed economici. Le società che scoprono come utilizzare l’istruzione e il talento di metà delle loro popolazioni, consentendo nello stesso tempo alle donne e ai loro partner d’investire nelle loro famiglie, avranno un vantaggio competitivo nel mercato globale della conoscenza e dell’innovazione.

Naturalmente, centinaia di milioni di donne nel mondo possono solo sperare di avere i problemi di cui ho scritto. La scorsa settimana c’è stato l’ennesimo omicidio di un’attivista per i diritti delle donne in Pakistan; la prova che l’esercito egiziano usa la violenza sessuale per dissuadere le donne dal dimostrare a Tahrir Square, al Cairo; un rapporto dal Women’s Media Center di New York sull’uso della violenza sessuale e dello stupro di gruppo da parte delle forze governative siriane; e un video di un comandante talebano che uccide una donna accusata di adulterio mentre gli abitanti del villaggio applaudono.

Questi sono solo i casi più estremi di violenza fisica che molte donne devono affrontare. A livello mondiale, più di un miliardo di donne si scontra con una distruttiva e palese discriminazione di genere in materia di istruzione, nutrizione, sanità e stipendi.

I diritti delle donne sono un problema globale della massima importanza, ed è necessario concentrarsi sulle peggiori violazioni. Ancora, si consideri un recente rapporto sullo stato dell’arte di una sobria e autorevole rivista statunitense. In un articolo su «Le donne a Washington», il National Journal ha osservato che le donne nella capitale degli Stati Uniti hanno percorso una lunga strada, ma «devono scontrarsi con ostacoli alla loro carriera, e spesso il più grande è avere una famiglia».

Se «avere una famiglia» è ancora un ostacolo alla carriera per le donne, ma non per gli uomini, anche questo è questione di diritti delle donne (e quindi di diritti umani). Nel dibattito sul lavoro, la famiglia, e la promessa della parità di genere, nessuna società è esente.

* Ex direttrice al Dipartimento di Stato Usa, ora professoressa di Politica e affari internazionali alla Princeton University
Copyright Project Syndicate 2012 www.project-syndicate.org

Traduzione di Carla Reschia

http://www3.lastampa.it/mamme/articolo/lstp/463413/

ilmarmocchio:
più divetrente di tutto il commento su DSK : molestie sessuali.
eccome no . Invece che lo hanno fatto fuori per mandare avanti questa guerra finanziaria contro l'euro, guerra nella quale il FMI della lagarde è stato arruolato, no, quello non si dice.
ah questi maschilisti...

Nemo90:
Breve parentesi nel mondo reale: la vera ragione per cui la Slaughter se ne è andata è che all'università di Princeton si perde il posto da professore a tempo indeterminato dopo due anni di aspettativa. Ergo, fra la prospettiva di perdere quella lauta, tranquilla e sicura carriera e quella di mantenere una poltrona faticosa, insicura e traballante (la Slaughter non si è distinta per bravura ed efficienza, lo spoils system non perdona e alle prossime elezioni sarebbe stata sicuramente silurata), ha scelto la prima.
Tornando nell'iperuranio delle idee, delle belle opinioni e dell'aria fritta, a me sembra che la vexata quaestio sulla "scelta obbligatoria" che le donne debbano sostenere fra famiglia e carriera sia una quaestio de lana caprina.

Qui si fa sempre l'esempio di supermanager, consiglieri d'amministrazione delle Big 500, megaprofessori da Ivy League con cattedre in quattro continenti, ministri, presidenti, funzionari d'alto livello. Sembra quasi che ogni donna, perfino la Maria Pia di via Martiri della Liberazione, in un momento della sua vita si trovi a dover scegliere fra dirigere la FIAT e la possibilità di cantare ogni notte la ninna nanna ai figli. Tanto è grave e diffuso il problema che, a beneficio di tutte le donne, si deve ricorrere alle quote rosa nei CdA o nel consiglio dei ministri, il vero problema che angustia la donna di strada.
"Ora sì che la vita è migliore, con il 20% di donne nei CdA dell'Ansaldo-Breda e della Juventus"
"Già. Si respira tutta un'aria diversa, in casa! La vita è più luminosa, ora. C'è speranza all'orizzonte". Al mercato rionale del pesce non si parla d'altro. Giusto? Giusto? In realtà no.

Sempre nel solito mondo reale, sono pochissimi gli uomini e le donne che aspirano a quelle posizioni di altissima responsabilità. Sia per una questione numerica (stiamo parlando di un pugno di eletti), sia per una questione di vivibilità: un sottosegretario agli Esteri o un amministratore delegato devono ipso facto condurre, indipendentemente da tutto, una vita da pallina del flipper, rimbalzati da una parte all'altra del globo senza il benché minimo riguardo per la vita domestica. Sono i loro compiti istituzionali. È incluso nel pacchetto che debbano vivere in aeroporto, dormire pochissimo, passare buona parte del tempo vigile in riunione o al telefono, essere in quattro nazioni simultaneamente, lavorare ventiquattr'ore al giorno, mangiare come capita, essere reperibili in qualsiasi istante per essere inviati agli antipodi.
Maschio o femmina che sia il soggetto, il lavoro è lo stesso.

Dubito seriamente che i figli di Marchionne o di Mario Monti abbiano visto il padre molte più volte di quante i figli della Slaughter vedessero la madre. Nemmeno le grandi manager scandinave hanno l'opportunità di seguire passo passo i propri bambini (una volta lessi, non so dove: "Dietro ogni grande donna c'è una piccola donna che le pulisce la casa e le spupazza i figli"). Se vuoi perseguire una certa carriera, devi obbligatoriamente mettere in conto di sacrificare del tempo per la famiglia: in questo la Slaughter ha ragione, non possono "avere tutto" (del resto, l'erba voglio non cresce né nel giardino dei re né in quello dei dirigenti ministeriali). Invece, la maggior parte delle donne (e degli uomini) aspirano semplicemente ad una "buona condizione media", per citare il padre di Robinson Crusoe. Una condizione in cui i vantaggi e le gratificazioni della propria professione superino, di poco, gli svantaggi e le responsabilità, per poter condurre una vita dignitosa ma tranquilla.

Certamente c'è sempre il problema della famiglia. Ma credo che un buon sistema di welfare possa tranquillamente permettere alla Maria Pia di cui si parlava prima di lasciare i figli al sicuro mentre va al lavoro, per poi tornare a prenderli alla fine del regolare orario lavorativo e poter passare tutto il tempo del mondo con loro. Senza bisogno di quote rosa.

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