Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 68984 volte)

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Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #180 il: Gennaio 17, 2019, 23:51:52 pm »
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BOSNIA: Il lungo inverno dei profughi bloccati al confine UE
redazione  11 ore fa

Sono oltre 4.000 le persone bloccate per l’inverno in Bosnia Erzegovina. Profughi dal Pakistan, Iran, Afghanistan, Iraq e Siria, che risalendo la rotta balcanica sono arrivati alle porte dell’Unione europea – e lì hanno dovuto fermarsi, almeno per ora.

La situazione dei profughi bloccati in Bosnia Erzegovina

Nel corso del 2018, circa 24.000 persone hanno attraversato i confini bosniaci, proveniendo da Serbia e Montenegro. Alcune sono in cammino già da anni, arrivate a piedi attraverso la Turchia e la Grecia o la Bulgaria. Altre sono arrivate nei Balcani direttamente, approfittando del breve periodo di assenza di visti tra Serbia e Iran. La maggior parte sono riuscite a proseguire, attraversando la frontiera nonostante il rischio di violenti e illegali respingimenti da parte dei gendarmi croati (come continuano a denunciare le ONG), per arrivare infine ai loro paesi di destinazione: Austria, Germania, paesi scandinavi, per alcuni anche l’Italia. Chi non ce l’ha fatta a superare il gioco, “the game“, ha dovuto fermarsi un giro.

Per mettere un tetto sulla testa a tutte queste persone, la Commissione europea ha investito 9,2 milioni di euro finora. Con questi soldi, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) e i suoi partner (UNHCR e UNICEF) hanno approntato tre centri d’accoglienza temporanea con tende riscaldate e container in due ex capannoni industriali nelle città di Bihać e Velika Kladuša, al confine nord-occidentale del paese, laddove i profughi si concentrano per provare poi a superare il confine croato.

La situazione, che in autunno appariva disperata, si è ora in qualche maniera stabilizzata. L’intervento politico e il sostegno finanziario dell’UE hanno permesso di scongiurare quella che si presentava come una catastrofe umanitaria annunciata.

Ultimo progresso in ordine di tempo è la riapertura a tempo di record, una volta ristrutturata, della “casa dello studente” di Bihać, un edificio già abbandonato ed occupato da un migliaio di profughi, ora destinato all’accoglienza delle famiglie di profughi, complementare agli spazi disponibili presso l’ex Hotel Sedra di Cazin. Segnale di normalità è che un centinaio di bambini di queste famiglie, alcuni dei quali da anni sul cammino verso l’Europa, potranno presto sedere di nuovo sui banchi di scuola, iscritti alle scuole elementari di Bihać e Cazin.

Le autorità locali tra accoglienza e pugno duro

Ma la situazione in queste città del cantone Una-Sana non è semplice: le autorità locali si sentono abbandonate dal governo di Sarajevo, che – nonostante asilo e migrazione siano tra le poche competenze esclusive del governo centrale bosniaco – non si è assunto alcuna responsabilità politica. Così, la polizia cantonale ha dichiarato raggiunto il limite massimo dell’accoglienza.

Ogni giorno l’autobus che da Sarajevo raggiunge Bihać attraversa il confine cantonale presso la cittadina di Ključ. Qui la polizia fa scendere i profughi, lasciandoli senza riparo con temperature che in questa stagione possono facilmente scendere sottozero. I migranti sono costretti ad aggirare l’improvvisato “checkpoint”, e a continuare a piedi, spesso nella neve, per gli ultimi venti chilometri fino a Bihać.

La denuncia del garante bosniaco

Una mancanza di responsabilità politica e di capacità amministrative che è stata denunciata dalle stesse istituzioni bosniache: l’ufficio del Difensore Civico (Ombudsman) ha pubblicato un rapporto speciale sulla situazione dei migranti nel paese. L’Ombudsman Jasminka Džumhur ha sottolineato come il 90% dei profughi in Bosnia si trovi in un limbo legale, avendo espresso l’intenzione di richiedere asilo ma non potendo di fatto deporre domanda, poiché per farlo dovrebbe presentarsi a Sarajevo in orario d’ufficio.

Nonostante gli impegni internazionali, infatti il settore per l’asilo del ministero della Sicurezza bosniaco dispone di due soli impiegati per trattare tutte le domande d’asilo – oltre mille nel solo 2018, ma con un potenziale di varie volte superiore. Non è un caso che l’ultima volta che la Bosnia Erzegovina ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un richiedente asilo fosse il 2014.

“Il problema delle migrazioni è un problema europeo – ha ricordato Džumhur – e la soluzione deve venire dall’Europa”. Per il momento, l’unica cosa che le istituzioni bosniache sembrano fare è lasciare che l’Europa copra i costi per la permanenza temporanea di queste persone sul territorio bosniaco, nella speranza che con la primavera, così come sono arrivati, altrettanto spontaneamente svaniscano.
«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #181 il: Gennaio 17, 2019, 23:53:15 pm »
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SERBIA: A un anno dall’omicidio di Oliver Ivanovic, ancora nessuna giustizia
Angelo Massaro  1 giorno fa

E’ passato un anno esatto dall’omicidio di Oliver Ivanović, uno dei leader dei serbi del Kosovo, e i suoi responsabili non sono stati ancora individuati. In ricordo di Ivanović, parenti, amici e compagni di partito si sono riuniti a Nord Mitrovica davanti alla sede del suo partito, “Srbija, pravda, demokratija”, luogo in cui Ivanović si stava recando al momento dell’omicidio. Anche i cittadini di Belgrado hanno reso omaggio al politico serbo-kosovaro, nell’ambito delle proteste antigovernative organizzate nelle ultime settimane. E alle 18 di oggi, nella capitale serba, si terrà una marcia in ricordo di Ivanović.

Un anno di indagini

Le indagini sull’omicidio di Ivanović hanno finora indicato numerosi sospetti provenienti da settori diversi della comunità serba del Kosovo. Al momento risultano in stato di arresto tre indiziati a seguito di una retata delle unità speciali della polizia kosovara avvenuta a Nord Mitrovica lo scorso 23 novembre. Il fermo ha coinvolto due poliziotti, Dragiša Marković e Nedjelko Spasojević, e Marko Rosić, un tifoso appartenente al locale fan club del Partizan Belgrado.

Agli inizi di gennaio 2019 la corte d’appello di Pristina ha poi esteso la durata della custodia cautelare fino al 23 febbraio per i tre serbo-kosovari. Nell’elenco dei sospettati, però, c’è soprattutto Milan Radoičić, uomo d’affari serbo-kosovaro e vicepresidente di Srpska lista, il principale partito politico serbo del Kosovo, da sempre strettamente collegato al governo di Belgrado.

Le impressioni di Ivanović

A differenza degli altri tre accusati, Radoičić è riuscito a evitare l’arresto rifugiandosi in Serbia, paese verso cui Pristina ha già emesso un mandato d’arresto. In un’intervista rilasciata al portale Balkan Insight pochi mesi prima del suo omicidio, Oliver Ivanović menzionava proprio Radoičić come una figura centrale nel sistema informale di potere che detiene il reale controllo sulle municipalità kosovare a maggioranza serba.

Ivanović nell’intervista si era inoltre detto preoccupato che Radoičić fosse riconosciuto da Belgrado come un esempio di chi si batte per la sopravvivenza dei serbi in Kosovo. Va ricordato che Ivanović era entrato da tempo in rotta di collisione con il governo di Belgrado denunciando il clima di tensioni e minacce che si era creato già durante le elezioni locali kosovare del 2017.

Nel frattempo, il presidente Aleksandar Vučić ha negato ogni accusa, sostenendo che Radoičić non avrebbe preso parte all’omicidio di Ivanović. A provarlo sarebbero infatti un interrogatorio e un esame poligrafico effettuati dalla polizia serba al momento dell’arrivo a Belgrado del vicepresidente di Srpska lista. Secondo Vučić il governo di Pristina avrebbe tentato di incastrare Radoičić in quanto principale difensore dei serbi del Kosovo, cercando persino la sua uccisione.

Le autorità kosovare non hanno tardato a esprimere il proprio giudizio in merito alla vicenda. Per il presidente del Kosovo Hashim Thaçi i “maggiori sospettati dell’assassinio di Ivanović si troverebbero a Belgrado e le autorità serbe dovrebbero consegnare queste figure alla giustizia”. Mentre il premier kosovaro Ramush Haradinaj ha precisato che il caso dell’omicidio di Ivanović non si potrà risolvere velocemente senza la cooperazione della Serbia. Secondo alcune speculazioni, Haradinaj avrebbe in realtà un rapporto ambiguo con Radoičić, come dimostrato da un incontro ufficiale tra i due, lo scorso luglio a Nord Mitrovica. Per il premier Haradinaj sarebbe infatti essenziale preservare il supporto ricevuto dai rappresentati di Srpska lista alla coalizione di governo.

Le manifestazioni di Belgrado

Mentre le indagini vanno avanti, sono diverse le voci critiche nella società civile serba e kosovara a chiedere l’individuazione dei responsabili dell’omicidio di Ivanović. Il clima è particolarmente teso a Belgrado, dove a seguito del pestaggio del politico di opposizione Borko Stefanović si sono tenute diverse manifestazioni di protesta nel corso delle ultime settimane, sotto lo slogan “Stop alle camicie insanguinate”, nonché “1 di 5 milioni” – in riferimento a quando Vučić disse che non avrebbe ascoltato le richieste dei manifestanti nemmeno se fossero cinque milioni. Il corteo di oggi prenderà simbolicamente il nome di “il primo di 5 milioni”, alludendo a come Ivanović si schierasse in opposizione all’attuale governo serbo.

I manifestanti, che danno voce ad un crescente malcontento per la gestione autocratica del potere da parte del Partito Progressista Serbo guidato dal presidente serbo Aleksandar Vučić e per la scarsa copertura dei media del paese rispetto alle manifestazioni, hanno più volte sottolineato la necessità di fare luce sull’assassinio di Ivanović e sui rapporti tra Vučić e Radoičić.

Un quadro confuso

Dalle indagini sull’omicidio di Oliver Ivanović emerge al momento un quadro estremamente confuso. Nonostante siano state avanzate diverse ipotesi sui responsabili dell’assassinio non sono stati ancora trovati i mandanti. A complicare lo scenario è poi il gioco di accuse tra Kosovo e Serbia che rappresenta un ostacolo ulteriore per le analisi giudiziarie.

Quello che invece sembra essere fortemente sostenuto dalla società civile è il desiderio di giungere al più presto alla verità sul caso Ivanović. A tal riguardo, le iniziative in memoria del politico serbo-kosovaro rappresentano un monito affinché episodi del genere non diventino una prassi consolidata nella politica balcanica.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #182 il: Gennaio 18, 2019, 00:08:40 am »
https://www.balcanicaucaso.org/Dossier/Balcani-a-tutto-smog

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Le città dei Balcani sono tra quelle dove si respira l'aria più inquinata d'Europa. Un problema aggravato dalla lentezza con cui le istituzioni stanno prendendo coscienza della gravità della situazione. Un dossier di OBCT
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #183 il: Gennaio 18, 2019, 00:39:07 am »
http://www.eastjournal.net/archives/75501

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ALBANIA: 25 anni fa, quando la Rai parlò di noi
Lavdrim Lita  9 Agosto 2016

25 anni fa cominciava il grande esodo dei profughi albanesi verso l’Italia. Tra la notte del 6 e la mattina del 7 marzo del 1991, una prima ondata di persone in fuga dall’Albania si riversò sulle coste pugliesi. Era il preludio al drammatico viaggio verso Bari della nave Vlora che ad agosto attraccò in Puglia con 20 mila passeggeri a bordo.

La storia

Il crollo del muro Berlino e la morte violenta dei coniugi Ceausescu in Romania nel 1989 aveva scosso i regimi comunisti nell’ est Europa e sopratutto Tirana. Per 45 anni l’Albania fu sottomessa a dura prova da un regime stalinista guidata con metodi spietati dal dittatore Enver Hoxha. Questa prova consisteva nell’impoverimento materiale e spirituale di tre milioni di persone. Centinaia di chiese, mosche e altri luoghi di culto furono distrutte e decine di chierici persero la vita perla volontà cieca di estirpare con la violenza la fede nelle persone per sostituirla con il culto del partito.

L’Albania arrivava nei primi anni ‘90 come il terzo paese più povero del mondo dopo l’Uganda e l’Angola e dove la proprietà privata, la libera impresa, la libertà e i diritti umani fondamentali erano stati vietati per Costituzione. Durante il regime comunista la mobilità interna ed esterna erano totalmente proibite. La propaganda contro la migrazione e immigrazione era massiccia e rappresentata come una piaga sociale frutto del capitalismo. La propaganda totalitaria fino alla morte di Enver Hoxha nel 1985 rappresentava nell’immaginario collettivo albanese il fenomeno migratorio come una deportazione territoriale simile a quella per gli oppositori politici.

Il regime comunista del post-Hoxha guidata da Ramiz Alia cercò di allentare la presa della repressione dando l’idea di prossime riforme economiche e sociali, ma l’ incapacità e l’atrofia politica della classe dirigente deluse subito le aspettative. In condizioni di povertà diffusa, di disoccupazione crescente e di mancanza di reali prospettive per il futuro,l’emigrazione sembrava l’unica strada percorribile per una generazione che non aveva nulla da perdere.

Nel luglio del 1990 centinaia di giovani si diressero, spinti dalla speranza di una vita migliore, verso i cancelli delle ambasciate occidentali come fossero una casa sicura per chiedere asilo politico e una nave che li avrebbe guidati verso l’occidente. I primi dati sono spaventosi per la credibilità del regime, circa tremila persone si rifugiarono all’ambasciata tedesca; altre cinquemila in quelle italiane, francesi, greche, turche, polacche, ecc.

A Tirana il malcontento si manifestò ormai apertamente e diversi gruppi sociali e sindacali organizzarono scioperi e manifestazioni. Quelli che diedero un colpo definitivo al regime comunista furono gli studenti universitari che scesero in piazza in numero sempre maggiore: anche se in un primo momento le loro richieste erano limitate alle condizioni di studio, ben presto acquisirono una maggiore connotazione politica. Il passaggio da un regime totalitario a un sistema democratico di tipo liberale coincise con una grave crisi economica del paese, in un momento storico in cui la globalizzazione cominciava a far sentire i suoi effetti. Alla povertà ereditata si aggiunse la piaga della disoccupazione che in una società molto giovane come quella albanese incentivò le forti spinte migratorie.

Verso l’Italia

In questa confusione politica, economica e sociale, alla vigilia delle prime elezioni libere nel marzo del 1991, l’Albania era un paese in rovina, in cui regnava il caos e il sogno dell’occidente,in particolare l’ Italia, vista solo alla televisione. La Rai e i canali mediaset, anche se il fenomeno non e’ ancora scientificamente studiato, furono uno dei più importanti spiragli che mantenne vivo nell’immaginario collettivo il desiderio di libertà e la possibilità di una alternativa.

Nella primavera del 1991 l’Italia scoprì di essere la terra promessa per migliaia di albanesi.Dal 7 marzo 1991, gli albanesi entrarono a pieno titolo sulla scena continentale con quello che fu denominato “l’ esodo biblico”. I legami con l’Italia erano stati sempre di amore e odio. L’amore per essere cosi simili: “due popoli, un mare”. Anche nel medioevo, gli albanesi per scappare all’ invasione ottomana sbarcavano in Sicilia o in Puglia come ci dimostra la presenza della comunità arberesh nel sud Italia. L’Italia era sempre stata vista come un porto sicuro. Tuttavia, gli albanesi residenti in Italia nel lontano 1980 erano appena 514; nel 1990, 2.034.

Tutto questo stava per cambiare.La prima calorosa accoglienza nelle ambasciate occidentali confermò il desiderio di molti giovani di provare a scappare dal non-vivere. La voce per la partenza delle navi dal porto di Durazzo aveva fatto sì che centinaia di giovani di Tirana percorressero a piedi o in bicicletta 40 chilometri che dividono la capitale dalla città di mare. Una maratona verso la libertà. In quei giorni migliaia di giovani albanesi “assaltarono” la nave “Vlora”, una bellissima nave italiana costruita a Genova negli anni 60. La Rai stava finalmente parlando di loro. Per la prima volta, loro erano la notizia.

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Chi è Lavdrim Lita
Lavdrim Lita
Giornalista albanese, classe 1985, per East Journal si occupa di Albania, Kosovo, Macedonia e Montenegro. Cofondatore di #ZeriIntegrimit, piattaforma sull'Integrazione Europea. Policy analyst, PR e editorialista con varie testate nei Balcani. Per 4 anni è stato direttore del Centro Pubblicazioni del Ministero della Difesa Albanese. MA in giornalismo alla Sapienza e Alti Studi Europei al Collegio Europeo di Parma.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #184 il: Gennaio 18, 2019, 15:48:30 pm »
Non ha a che fare con i paesi dell'Europa dell'est, bensì con la Cina e i cinesi, che comunque sono sempre ad est...
Il commento è di un italiano e non potrebbe essere altrimenti, perché in Europa, sia dell'ovest che dell'est (nel mondo non saprei), non esistono persone talmente esterofile e sprezzanti verso i propri connazionali.

Citazione
I cinesi hanno sempre lavorato, ovunque, tanto e a ritmi massacranti.
Non hanno sabati, domeniche o vacanze.
Lavorare, per loro, è una questione di orgoglio, onore. Status sociale.
Incassare, fare affari va oltre un atteggiamento tipico di alcuni italiani del ''Devo farlo per sopravvivere, altrimenti passerei tutta la giornata a non fare un cazzo..''.
Per molti di loro, lavorare è una questione che ''rende felici'' e non di noiosa routine.
Molti di loro sono imprenditori nati, col fiuto per gli affari.
Spesso alcuni cinesi ci disprezzano perchè noi italiani non sappiamo sacrificarci per il lavoro, ci considerano dei pelandroni nati.
Analizzando questi atteggiamenti culturali, non diventa facilissimo capire il perchè di così tanto successo?

Naturalmente, concludo dicendo che dietro alcuni cinesi c'è sicuramente delinquenza, mafia, omertà e mazzette.
Ma quando sei italiano e la parola stessa ''ITALIANO'' all'estero fa pensare subito ad un altra parola, ''MAFIA'', quando la metà dei tuoi parlamentari è stata arrestata per inciuci con organizzazioni delinquenziali e varie tangentopoli, ha davvero senso puntare il dito contro i cinesi?


Citazione
Ma quando sei italiano e la parola stessa ''ITALIANO'' all'estero fa pensare subito ad un altra parola, ''MAFIA'',

Un altro coglione che fa di tutta l'erba un fascio e che parla di "estero"...
Ed anche qui sorge spontanea la ferale domanda:
"Quale cazzo di estero? Di quali paesi parli, idiota?"

Tralascio il discorso relativo al fatto che in Italia non c'è una attività cinese, che sia una, che non sia finanziata dalla loro mafia, che peraltro ha radici ben più antiche di quella italiana (al pari della yakuza giapponese).
Ma tanto il disprezzo di sé, del proprio popolo, delle proprie radici, della propria storia, è talmente profondo e radicato nella mente dell'italiano medio, che è sostanzialmente inutile evidenziare certi dati di fatto.
E' come lottare contro i mulini a vento.
« Ultima modifica: Gennaio 18, 2019, 15:59:46 pm da Frank »
«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #185 il: Gennaio 20, 2019, 00:54:20 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-la-serie-TV-culto-Domani-cambiera-tutto-192059

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Serbia: la serie TV culto “Domani cambierà tutto”
Una serie Tv sta spopolando in Serbia. Una serie che racconta con autenticità la perenne incertezza in cui vivono quattro trentenni a Belgrado

18/01/2019 -  Nikola Radić
(Pubblicata originariamente da Le Courrier des Balkans  il 14 gennaio 2019)

Durante i 39 episodi di 20 minuti ognuno di Jutro će promeniti sve ("Domani cambierà tutto", titolo preso in prestito dai leggendari rocker jugoslavi Indexi), seguiamo per un intero anno le vite di quattro trentenni in una Belgrado contemporanea. Filip, ingegnere informatico prodigio, volta le spalle al sogno americano rinunciando al suo lavoro a San Francisco per tornare a Belgrado, la sua città natale, senza altro scopo se non quello di abbandonare la slot machine che è la Silicon Valley. Sua sorella Anđela, studentessa di dottorato in psicologia e assistente alla Facoltà di Filosofia, si sta separando dal suo compagno di lunga data. Il bar notturno, grazie al quale vive la sua migliore amica Saša viene chiuso a seguito di una perquisizione della polizia. Ljuba, originario della provincia, personal trainer, anticonformista e seduttore, perde il lavoro in una palestra locale e si ritrova per strada e indebitato.

Passioni effimere, separazioni, conflitti intergenerazionali, precarietà, gravidanze indesiderate, disillusioni, promiscuità, droghe e eccessivo consumo di alcol si susseguono in un affresco di una società disorientata da una transizione che non finisce mai. Jutro će promeniti sve racconta un'intera generazione, dipinge un bel ritratto dei millenials, questa generazione Y nata nell'Europa dell'Est agli ultimi sospiri del socialismo. Una generazione cresciuta con le turbolenze degli anni '90 che oggi vaga in questo labirinto neoliberista in cui il talento non sempre fa rima con successo.

"Nessuno è un dipendente fisso, tutti sono in affitto, tutti in lotta perpetua", riassume Vladimir Tagić, co-creatore della serie. I quattro eroi, che affrontano una tardiva transizione all'età adulta, sono coscienti che questa vita non è quella che avevano immaginato. Le loro rimozioni, la loro accettazione, le illusioni e le speranze rappresentano il cuore di questa serie melodrammatica firmata da Goran Stanković e Vladimir Tagić.

Ma i nostri protagonisti non rimangono immobili in attesa di un "mattino in cui tutto cambierà". La simpatica Ljuba si cimenta in cucina in un ristorante, Saša in una serie di lavori poco appassionanti e spesso ridicoli, Filip fa il giro di tutte le sue vecchie conoscenze alla ricerca di un posto da ingegnere e Anđela continua con la sua tesi, al termine della quale dovrebbe spettarle un posto da professoressa.

Ma troveranno un modo di sfuggire all'instabilità di questa vita dal sapore adolescenziale? Nulla è certo: le scelte importanti sono già state fatte (lasciare gli Stati Uniti per Filip, abbandonare l'università per Saša, ecc.). Le porte pian piano si chiudono: la start-up degli ex colleghi di Filip si è sviluppata così tanto che non c'è più spazio per lui, il nepotismo regna nella Facoltà di Anđela mentre sia Saša che Ljuba continuano ad annaspare nella precarietà.

Se la serie ha avuto così tanto successo in Serbia, è innanzitutto grazie all'autenticità dei dialoghi e al realismo delle situazioni. Alcune introduzioni sono dolorosamente realistiche (la città natale di Ljuba nella Serbia centrale, dove il quotidiano è una noia, intriso di birra e scandito dalle scommesse sportive), altre comiche (la polizia che interrompe una festa e alla fine rimane a bere qualcosa con i festaioli, Ljuba ed i suoi amici che ballano ubriachi il kolo nel cuore della notte su un campo da basket).

Più di 350 set ci accompagnano attraverso Belgrado e dintorni. Le immagini della capitale serba sono piccole cartoline urbane e perdono il potenziale della città come personaggio a parte. La fotografia è nitida e sottile che flirta con l'estetica del cinema indipendente americano; sullo sfondo una moderna colonna sonora strumentale, fissa un tono malinconico, soprattutto alla fine di ogni episodio, quando i personaggi, al calar della notte, galleggiano nell'incertezza. È in questi momenti che la nostra empatia è tirata in ballo, ci identifichiamo con i personaggi, immaginiamo il corso dei loro pensieri prima del prossimo episodio ed un nuovo risveglio.

“Domani cambia tutto” avrebbe potuto fare a meno di alcuni luoghi comuni come le infinite code davanti agli uffici, riferimenti ad una burocrazia desueta, o frasi del tipo "L'America è una terra di infinite opportunità”. I personaggi sono accattivanti anche se alcuni, come quello di Filip, rimangono un po' abbozzati. Lo stesso vale per alcune tracce narrative che rimangono sottoutilizzate come l'uso interessante di piccole finestre per visualizzare gli scambi di SMS. La serie solleva molte questioni etiche. Fare o meno visita ad un padre moribondo che non è mai stato parte della nostra vita? Quanto siamo disposti a fare per pagare i nostri debiti? È anche la prima serie tv serba di questa portata a mettere in scena una relazione romantica tra due donne.

Il cast è una vera e propria iniezione di freschezza: l'interpretazione di Nikola Rakočević è di una facilità degna di veterani del cinema. La presenza carismatica della giovane Isidora Simijanović, il recitare eccezionale e l'attenzione alle sottigliezze Jovana Stojiljković e l'incredibile naturalezza di di Andrija Kuzmanović sono supportati da ruoli secondari altrettanto interessanti, in particolare quello di Jakša, interpretato da Nemanja Oliverić e di Dušan, il padre di Filip, interpretato da Nebojša Dugalić.

Alcuni critici hanno rimproverato agli autori alcuni "tempi morti" e alcune narrazioni fuorvianti. Sono infatti presenti e per un motivo: “Domani cambierà tutto” è come i giorni dei suoi protagonisti, a volte sorprendenti ed euforici, a volte lenti e ripetitivi.

L'ultimo episodio conferma il messaggio che si libra nell'aria dalla prima scena: non ci sarà nessun deus ex machina, una sola mattina non potrà cambiare tutto e non si verificherà alcun miracolo. Gli eventi saranno collegati con un ritmo naturale, imposto dal tempo e dalle circostanze. Una nota di speranza si aggrappa comunque alla nostra mente alla fine di questa prima e per ora unica stagione, i nostri eroi guarderanno a nuovi orizzonti, ma sempre nel mezzo di un'incertezza permanente, di un eterno “vedremo”.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #186 il: Gennaio 20, 2019, 00:58:00 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Croazia-mille-cause-contro-i-giornalisti-192090

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Croazia, mille cause contro i giornalisti
Sono oltre mille i processi in corso contro i giornalisti o i media croati, e la lista non è completa. La denuncia dell'Associazione dei giornalisti croati

18/01/2019 -  Giovanni Vale   Zagabria
Dal punto di vista della libertà di espressione e della sicurezza dei giornalisti, in Croazia il 2019 pare cominciare con i peggiori auspici.

Gli ultimi giorni del 2018 hanno infatti portato due notizie preoccupanti per i reporter del paese: prima, un portale satirico è stato condannato per aver scritto delle “falsità” in un articolo di fantasia; poi, l’Associazione dei giornalisti croati (HND) si è vista citare in giudizio dalla televisione pubblica (HRT) che chiede 70mila euro di danni per alcuni commenti critici nei suoi confronti.

Purtroppo, non si tratta di eccezioni, ma di un trend che si sta confermando nel paese: è sempre più frequente, per chi fa giornalismo, essere trascinato in tribunale con l’accusa di diffamazione. L’HND, che in questi giorni sta contando tutte le cause aperte nei confronti dei colleghi, anticipa ad OBCT i dati finora raccolti: "Vi sono ad oggi più di mille processi in corso contro i giornalisti o i media croati”. E la lista non è completa.

Il “Lercio” croato condannato per aver scritto cose non vere
NewsBar.hr  è un portale satirico ed umoristico, alla stregua del nostro Lercio.it  . Pubblica quotidianamente articoli di politica, sport, economia… e ha persino una dichiarata sezione “clickbait”, oltre che un canale video.

Le “notizie” spaziano dalla "nonna zagabrese (che) batte il record dei 100 metri piani nel prendere il tram ", fino alla presentazione dell’ultima hit dei mercatini di Natale a Zagabria: il "sarmoled  ", un mix tra il gelato (sladoled) e il tradizionale cavolo farcito (sarma). Nella sezione politica, tutti i volti più noti finiscono regolarmente nel mirino della satira, con ad esempio la presidente croata Grabar-Kitarović che "sposta il suo ufficio in Spagna per occuparsi del Real Madrid  ".

In questo contesto, il caso  Bujanec vs. News Bar rasenta i limiti dell’assurdo. Nel 2015, il portale pubblica un articolo dal titolo: «Bujanec rianimato al pronto soccorso, dopo aver letto della confisca di un carico di cocaina da 44 milioni di euro». La storia (inventata) fa riferimento al fatto che Velimir Bujanec, un presentatore televisivo di estrema destra, è stato condannato nel 2014 per aver pagato una prostituta con della cocaina.

Per il giudice, "i fatti e gli eventi riportati nell’articolo sono inventati" e "pubblicati con lo scopo di discreditare moralmente (Bujanec)". Il fatto che nelle condizioni d’uso del portale Newsbar.hr sia precisato che tutte le notizie sono false non è sufficiente perché "non tutti i lettori ne sono al corrente", prosegue il giudice. Morale della favola: il portale è condannato in primo grado a pagare 12mila kune (1.600 euro circa) a Bujanec. La direzione di Newsbar.hr ha annunciato che farà ricorso.

La televisione pubblica croata contro tutti
Il caso della HRT  è, se possibile, ancora più sinistro. Tra Natale e Capodanno, la televisione pubblica croata ha chiesto all’Associazione dei giornalisti croati (HND, fondata nel 1910) e a due dei suoi massimi esponenti di pagare una somma complessiva di 500mila kune (circa 70mila euro), per "danni all’onore e alla reputazione".

Ad essere considerati diffamatori dall’HRT, sono un comunicato pubblicato sul sito dell’HND nel settembre scorso e firmato dalla responsabile per la televisione pubblica in seno all’HND Sanja Mikleušević Pavić e alcuni interventi pubblici del presidente dell’HND Hrvoje Zovko. In entrambi i testi, vengono criticate alcune decisioni editoriali dell’HRT e si condanna il possibile coinvolgimento della stessa nello scandalo della rivendita dei biglietti per la Coppa del mondo riservati alla televisione.

L’azione in giustizia della HRT ha fatto scalpore non soltanto per le motivazioni o per la somma richiesta, ma anche perché si inserisce in quella che sembra essere ormai una pratica assodata. L’HND nota infatti che la televisione pubblica croata ha sviluppato l’abitudine di citare in giudizio chiunque la critichi: negli ultimi mesi, una ventina di cause sono state intentate contro otto testate diverse. "È un chiaro esempio di censura", commentano dall’HND.

La vicenda diventa ancora più allarmante se inserita nel suo contesto. Come in Italia, la dirigenza della Tv pubblica è decisa dalla maggioranza al potere. Due anni fa, ai tempi del governo Orešković, la HRT ha sostituito nel giro di tre giorni una sessantina di redattori e caporedattori e, da allora, il numero di giornalisti licenziati è aumentato di pari passo con le accuse di censura interna e pressioni politiche.

Lo stesso Hrvoje Zvonko, presidente dell’HND, è stato licenziato senza preavviso nel settembre scorso dopo aver denunciato alcune pressioni interne in seno alla HRT. Nel frattempo si assiste a un fuggi fuggi di giornalisti che dalla HRT passano alle televisioni private, N1 in primis.

Peggio che negli anni Novanta?
Discutendo con i giornalisti croati e soprattutto con chi è impegnato nei sindacati o all’HND, non è raro sentirsi dire che la situazione della stampa oggi è "peggiore che negli anni Novanta". Può sembrare un’esagerazione, considerato che, durante e dopo la guerra (1991–1995), la Croazia è stata governata in modo autoritario dal primo presidente Franjo Tuđman (1922–1999). Ma i dati sembrano confermare questa versione.

"In quanto al numero di condanne contro i media, il 2018 ha registrato il dato più alto dall’indipendenza della Croazia nel 1991, con alcuni verdetti così illogici che potrebbero essere interpretati come attacchi contro la libertà di espressione". Inizia così un recente articolo di Euractiv  sulla situazione dei media in Croazia, analizzando alcuni casi che hanno colpito i principali organi di stampa croati.

Tra le cause di questa situazione, è menzionata anche la legge voluta dal governo socialdemocratico nel 2013 e che ha introdotto il reato di shaming, una variante della diffamazione che può essere invocata dalla persona offesa qualora questa consideri che un articolo l’abbia fatta vergognare, anche se per dei fatti veri. Sta al giudice, poi, valutare se ci fosse pubblico interesse nel pubblicare il fatto.

In Croazia, "è possibile fare causa ai giornalisti anche per dei fatti acclarati", lamenta Oriana Ivković Novokmet dell’associazione GONG, impegnata nel monitoraggio dei processi democratici e del pluralismo nel paese. La nuova normativa si aggiunge ad un generale "caos nel sistema" e al fatto che "i giudici non vogliono occuparsi del nocciolo del problema", producendo così "un’ondata di cause contro i giornalisti".

Oltre mille, appunto, le cause tuttora in corso contro giornalisti e testate appartenenti al gruppo Hanza media (Jutarnji List, Globus…), al gruppo Styria (Večernji List, 24 Sata…), o ancora ai portali Index et T-Portal e ai settimanali Nacional e Novosti. Inoltre, precisa l’HND, questi dati non tengono ancora conto di grandi organi di stampa come RTL, Nova TV, Slobodna Dalmacija, Novi list e altri.

Dall’estero, le prime denunce dell’insostenibilità della situazione in Croazia sono già arrivate, con alcuni eurodeputati che hanno condannato il comportamento dell’HRT e con un comunicato pubblicato anche dalla rete per la libertà di stampa e la sicurezza dei giornalisti nei Balcani (Western Balkan’s Regional Platform for Advocating Media Freedom and Journalists’ Safety  ). Nessuna presa di posizione, anche solo formale, da parte del governo di Zagabria.


Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto
«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #187 il: Gennaio 29, 2019, 00:47:29 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Albania-prima-o-poi-doveva-accadere-192292

Citazione
Albania, prima o poi doveva accadere

Gresa Hasa in manifestazione - foto di Ivana Dervishi e Isa Dervishi

Un fiume di vitalità per la società e il futuro dell'Albania. Un'intervista a Gresa Hasa, attivista del movimento studentesco che sta mettendo in difficoltà il governo albanese

28/01/2019 -  Nicola Pedrazzi
«Prima o poi doveva accadere». Sono le prime parole di Gresa Hasa, 23 anni, nata e cresciuta a Tirana, studentessa di Scienze politiche: una delle menti – anche se lei non lo ha detto – della protesta che dal 4 dicembre paralizza l’Università pubblica albanese. Un “Sessantotto altrove”, scattato cinquant’anni dopo? La tentazione al parallelo è forte, ma per capire cosa stia succedendo in Albania potrebbe essere più utile mettersi nei panni di Gresa: una giovane donna europea che non vuole lasciare il suo paese e non capisce perché, in termini di istruzione e di prospettiva, dovrebbe accettare di avere così tanto meno rispetto a una coetanea italiana, tedesca o francese. La cassa di risonanza delle sue parole – tranchant e amare, ma mai venate di vittimismo – è l’insufficienza della democrazia costruita da Berisha e Rama: ex leader dei giovani, che giovani non sono più.

Sono quasi due mesi che non si fa lezione. Come si è arrivati a questo punto?

Il Movimento Lëvizja Për Universitetin esiste dal 2012 e manifesta da più di quattro anni, ma l’Università pubblica è paralizzata dal 4 dicembre scorso, da quando hanno detto agli studenti di architettura che avrebbero dovuto pagare una tassa per ogni credito formativo degli esami arretrati. Da lì è partita una protesta che ha coinvolto diverse città del paese, portando 15.000 studenti davanti al ministero dell’Istruzione.

Quanto è spontanea e quanto organizzata la mobilitazione di massa che stiamo vedendo?

La protesta del 4 dicembre è cominciata grazie agli studenti. Studenti liberi. Lo ribadisco perché il nostro principale problema sono le infiltrazioni dei militanti inviati dai partiti, che vorrebbero strumentalizzarci per loro tornaconto. La maggior parte dei ragazzi che avete visto in strada in questi mesi non è politicizzata, viene da famiglie normali, molti da strati medio-bassi; dalla protesta non guadagnano nulla, anzi rischiano personalmente. In un paese corrotto come il nostro questa cosa fa la differenza, la gratuità della nostra mobilitazione è qualcosa di nuovo ed è la nostra forza. Gli attivisti del Movimento per l’Università si stanno impegnando per tenere costante la mobilitazione e il livello di informazione tra gli studenti; ma anche per noi, che organizziamo manifestazioni da anni, la reazione di dicembre è stata una sorpresa. Una sorpresa bellissima.

Fotoracconto

Il fotoracconto di Ivana Dervishi e Isa Dervishi dei giorni di manifestazioni degli studenti albanesi

Dunque la mobilitazione è spontanea, ma tu e gli altri attivisti del Movimento per l’Università soffiate sulla brace per tenerla viva. Ho capito bene?

Noi del Movimento continuiamo a fare quello che abbiamo sempre fatto: mobilitazione e sensibilizzazione. Non rivendichiamo alcuna leadership, cerchiamo di dare una mano e di condividere la nostra esperienza con tutti gli studenti che sentono il desiderio di partecipare alla protesta. Per comunicare all’esterno le nostre iniziative utilizziamo una pagina FB  e un profilo Instagram  .

Cosa avete chiesto al governo? Qual è il vostro obiettivo?

La nostra protesta è diretta conseguenza della riforma dell'istruzione superiore varata nel luglio 2015 [dal primo governo Rama, ndr.] La riforma si basa sull'idea neoliberista che la concorrenza tra le università pubbliche e private (che in Albania sono di più) innalzerà il livello dei servizi e dell’offerta didattica. Per il momento l’università pubblica ha visto crescere solamente le rette, ed è normale che sia così: se il bilancio statale per l’istruzione stanzia il 50% delle sue risorse per le università private, quelle pubbliche dovranno rifarsi sugli iscritti. In Albania buona parte degli studenti lavora, ma un anno di triennale costa circa 350 euro, che è più del salario medio mensile. L’iscrizione al master è molto più cara, si aggira attorno ai 1.700 euro.

A Tirana ci sono studenti da tutto il paese: immaginate che ogni gennaio, per pagare le rette, i fuorisede prendono un autobus che li riporta a casa, chiedono alle loro famiglie uno sforzo immane e ritornano a Tirana con i contanti appena sufficienti a pagare l’iscrizione. Dopodiché bisogna sopravvivere nella città più costosa del paese, in dormitori fatiscenti, senza riscaldamento, senza le strutture basilari per lo studio, senza biblioteche. La nostra situazione è insostenibile, per quale formazione e quale prospettiva stiamo facendo questi sforzi? Quello che chiediamo è l’abolizione della riforma del 2015 ed un serio investimento pubblico per la costruzione di un sistema universitario di qualità e accessibile a tutti.

Potremmo dire che il vostro è un movimento di sinistra…

Se vogliamo utilizzare delle categorie, sì: stiamo lottando per un’istruzione pubblica e garantita; per i diritti delle giovani donne, contro la corruzione e lo schema di potere che rende povero il nostro paese. Ma nel movimento ci sono diverse posizioni ideologiche… Quello che conta e ci rende diversi è che nessuno di noi è iscritto a un partito. In questo momento il Partito Democratico, ma anche il Partito Socialista per l’Integrazione (LSI), gli attuali partiti di opposizione al governo Rama, sono molto aggressivi. Vedono una mobilitazione reale, non controllata da loro, e vogliono impossessarsene. Loro vogliono sostituirsi a Rama, noi vogliamo accesso all’istruzione. Sono due motivazioni molto diverse. Il nostro movimento si occupa di università, nient’altro. Non abbiamo nulla a che spartire con l’opposizione, che è responsabile di questa situazione al pari del governo in carica.

Cosa dicono i docenti? Da che parte stanno?

La maggior parte dei professori ci sostiene: conoscono le condizioni della nostra università perché ci lavorano. Venerdì scorso per la prima volta docenti di tutte le facoltà dell'Università di Tirana si sono riuniti e hanno deciso di sostenere gli studenti. Abbiamo anche casi di “appoggio indesiderato”: docenti che hanno provato a unirsi alla protesta ma hanno dovuto abbandonarla perché accusati pubblicamente dagli studenti, chi di corruzione in sede di esame e chi addirittura di molestie sessuali. La situazione è mista, in linea di massima vige solidarietà.

Il femminismo? È un fattore del movimento studentesco?

Direi che il femminismo è al centro. Questa è la prima protesta di massa in cui le donne e i diritti delle donne albanesi sono un argomento. La maggioranza del movimento è composta da ragazze, e non stupisce, perché questa riforma universitaria penalizza soprattutto loro. Parliamoci chiaro: cosa fa una donna albanese senza accesso all’istruzione? Passa da un padre a un marito. Nel movimento i ragazzi sono al nostro fianco, ma le ragazze sono le più coraggiose. Perché noi abbiamo molto più da perdere. Questo è un altro aspetto che sta mandano in paranoia il potere.


I genitori cosa vi dicono? Come affrontate il gap generazionale?

In verità tanti genitori ci sostengono. In corteo abbiamo avuto dei nonni, ci credi? Ma è ovvio che veniamo da una società patriarcale, si tratta di cambiare la mentalità. Un giorno c’è stato un dibattito interessante, interno al movimento, sull’opportunità di andare in strada a manifestare in gonna. E allora sai cosa abbiamo fatto? Ci siamo andate tutte quante con la minigonna e senza reggiseno. È stata una protesta dentro la protesta. Mi è piaciuta molto.


Che ruolo ha l’Europa nella vostra mobilitazione? Parlo di Europa come modello sociale, come prospettiva futura e riferimento culturale.

Il nostro movimento nasce dalle condizioni in cui versa il nostro paese, ma noi non ne rivendichiamo l’albanesità, sarebbe assurdo: cerchiamo di prendere spunto da quei paesi dove le cose vanno meglio, anche se sappiamo che ogni paese ha i suoi problemi, la mia generazione non idealizza più. Al momento tutte le facoltà pubbliche sono occupate: stiamo organizzando letture, proiezioni, dibattiti sui movimenti sociali in Europa e nel mondo. Facciamo paragoni, perché è utile comprendere che certe richieste in altre parti del mondo sono già state fatte; e abbiamo ricevuto messaggi di solidarietà dagli studenti di mezza Europa, inclusa l’Italia. Il governo ci dice che le casse dello stato albanese rendono impossibile un’istruzione pubblica gratuita, noi diciamo che è proprio questo stato di cose a renderla necessaria, e che questa cosa già esiste, in Europa e nel mondo. Insieme con i professori abbiamo analizzato i sistemi educativi di diciassette paesi europei, comparando quanto questi stati investano nell’educazione pubblica in proporzione al loro PIL e al loro salario medio. Non stiamo parlando di utopie, ma di politiche possibili.

Considerato lo stato in cui versa il welfare albanese si capisce perché le vostre richieste vengano considerate ambiziose. In questo senso, anche se girate alla larga dai partiti, il vostro è un movimento politico, perché per ottenere quello che chiedete occorrono tutta una serie di riforme in materia di fiscalità pubblica che non si cambiano dall’oggi al domani, si tratta di imporre un nuovo paradigma culturale. È normale che si veda in voi un’alternativa per il paese. Siete sicuri di non incarnare una nuova élite culturale?

Vedi, farsi queste domande è esattamente quello che dobbiamo evitare in questo momento. Questo paese ha moltissimi problemi, la cosa buona del Movimento per l’Università è che non è colluso con il potere. Durante il regime di Berisha non avremmo potuto avere piazze così, ma il potere politico in Albania resta malato, su questo non c’è stato nessun cambiamento, e noi non ci stiamo. Durante le proteste davanti al ministero dell’Istruzione alcuni militanti dei partiti hanno cercato di dividerci utilizzando la tentazione della politica: “Basta stare qui davanti, andiamo alla sede del primo ministro, buttiamo giù Rama”. Anche i militanti del partito socialista ci hanno provato, arrivavano in facoltà e dicevano: “Siamo studenti come voi, ma vogliamo fare lezione”. Al che abbiamo votato: la maggioranza voleva continuare la protesta. Il Movimento per l’Università deve stare lontano da queste dinamiche. Noi non chiediamo le dimissioni del governo Rama, perché questo comporterebbe la sua sostituzione con un altro governo che è altrettanto responsabile dello stato della nostra università. Al contempo non ascoltiamo Rama, che ha detto che vuole parlare a un leader. Il giorno in cui ci porremo il problema di individuare un leader il nostro movimento sarà finito.

Quindi cosa farete? Qual è il piano?

Continueremo a occupare. Il 75% degli studenti è d’accordo sul blocco delle lezioni, nessuna facoltà riprenderà a funzionare. Inizialmente ci aveva dato dei ripetenti, poi Rama cambiato i toni, ha accettato di rispondere alle domande degli studenti e ha dichiarato che ascolterà le nostre richieste. Propaganda: fino a quando non sarà cancellata la legge del 2015 per noi tutto questo è irrilevante. È possibile che torneremo in strada, ma non lo sappiamo nemmeno noi, perché siamo spontanei, bisogna che i politici si rassegnino a questa novità.

Non temete che tutta questa spontaneità vi sfugga di mano?

Stiamo parlando della più grande mobilitazione in 28 anni di “democrazia”, il sistema è ancora sotto shock. Sinora le manifestazioni sono state pacifiche, nessuno si è mai azzardato a tirare qualcosa, e così deve rimanere, gli studenti sono contro la violenza. Gli unici momenti di tensione, come ti dicevo, sono stati causati dai rappresentanti dei partiti che hanno provato a manipolare il movimento, e che con noi sono molto aggressivi: ci odiano proprio. Nelle ultime settimane, poi, abbiamo avuto la polizia all’interno delle facoltà. Secondo la legge, la polizia non può entrare in università, se non per disastri ambientali. Alcune delle loro azioni sono state fisiche, e questo non va bene, non va bene che il governo lo abbia consentito.

Il Presidente della Repubblica, in una sua dichiarazione, ha invitato la politica a considerare le istanze degli studenti. Vi sentite tutelati dalla massima carica dello Stato?

Oh Dio, Ilir Meta rappresenta tutto quello che non funziona. Belle parole, ma sfortunatamente conosciamo chi le ha pronunciate.

E i giornalisti? I media raccontano la protesta?

Ci sono media molto attenti, soprattutto quelli dell’opposizione, per le ragioni di cui sopra; ma le nostre dichiarazioni sono spesso tagliate o manipolate. Cerchiamo di rendere semplice e chiaro il nostro messaggio, e per questo accettiamo di partecipare ai talk show in cui veniamo invitati. La maggior parte di noi non è preparata sul piano della comunicazione, ma da quando sono iniziate le proteste ho visto cose incredibili, ragazze tener testa al primo ministro e metterlo in difficoltà. Ho visto il coraggio.

Esiste un collegamento tra la vostra protesta e altre rivendicazioni della società albanese? Penso alle manifestazioni ambientaliste di qualche anno fa, o alla recente polemica sulla demolizione del teatro Nazionale.

Ripeto: non cerchiamo di creare collegamenti con altre altre questioni politiche, ma siamo aperti a chiunque desideri manifestare per l’università; in strada al nostro fianco sono scesi rappresentanti delle istanze che ricordavi, ambientalisti e attivisti che hanno difeso il teatro Nazionale, ma c’erano anche anziani, genitori, famiglie, semplici cittadini… Gli unici che non vogliamo al nostro fianco, lo ribadirò fino allo sfinimento, sono i membri e i rappresentanti dei partiti politici, sia di governo che di opposizione.

No partiti. Ti giuro che l’ho segnato. Ma fammi capire come riconoscete questi “infiltrati”.

Si capisce da come parlano. E poi grazie a Dio c’è internet: vediamo da FB se hanno fatto foto con politici, se sono attivi; in quel caso non vengono con noi semplicemente in quanto studenti.

Mettiamo che la mia famiglia sia del PD, e che mio padre ha pubblicato un selfie di lui con Basha, perché quando era sindaco è venuto a inaugurare il cantiere in cui lavorava... Provo a unirmi alla protesta ma sulla base del FB di mio padre mi emarginate. Non mi sembra un criterio molto democratico…

Tutti sono i benvenuti, non fraintendiamoci. Non è un problema di credo politico, non è una discriminazione; si tratta di isolare persone che cercano di mischiarsi a noi per ordine del loro partito. Forse fuori di qui si fatica a comprenderlo, ma in Albania la politica non è fatta di idee, è fatta di fazioni, per questo non la vogliamo con noi. Anche questo parallelo che fanno con gli anni Novanta è una manipolazione storica utile alla loro lotta per il potere, che a noi non interessa.

A proposito di paralleli storici stiracchiati… Qui in Italia la tentazione di dipingere un ’68 albanese è molto forte. Posso chiederti cosa ne pensi di questo modo di guardare all’Albania? Non è sminuente descrivervi come pezzo d’Europa in ritardo sulla cronologia?

Non so come risponderti. Senza dubbio sentiamo che è tempo anche per noi. Veniamo da quarantacinque anni di dittatura e da ventotto anni di “democrazia” con le virgolette, anni in cui le generazioni di giovani che si sono susseguite non hanno mai alzato la voce come stiamo facendo oggi. Secondo me noi siamo molto diversi dai ragazzi degli anni Novanta: gli studenti della transizione, i miei genitori, venivano dalla dittatura e non avevano prospettive reali dal punto di vista della società. Democrazia e benessere erano il sogno, molti l’hanno realizzato andando via, ma al posto del ’68 in Albania abbiamo fatto il ’97 (ero piccola però la guerra me la ricordo…). Ora ci siamo noi: ancora una volta senza prospettive né dentro né fuori l’Università, ma consapevoli e non depressi. Noi non vogliamo chiedere asilo in Europa, non vogliamo finire per strada cercando di nutrirci e di sopravvivere. Noi vogliamo trasformare questa merda. Senza questa speranza tutto in Albania sarebbe troppo buio: in un certo senso siamo obbligati a crederci. Se vogliamo una società migliore, una società senza corruzione, omicidi e violenza sulle donne, dobbiamo chiedere più istruzione. Una società diversa passa dall’università
.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #188 il: Gennaio 29, 2019, 00:50:57 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Slovenia/Le-carceri-in-Slovenia-e-il-modello-scandinavo-192186

Citazione
Le carceri in Slovenia e il modello scandinavo

Con i suoi 1400 detenuti, la Slovenia è tra i paesi europei con il più basso tasso di detenuti per abitanti. Ma il sovraffollamento rimane un problema e gli esperti chiedono politiche di reinserimento sociale


28/01/2019 -  Charles Nonnes
(Pubblicato originariamente da Courrier des Balkans il 20 gennaio 2019)

Niente fa capire al visitatore che sta per entrare in un penitenziario. Lasciando la via principale di Ig, piccola città a sud di Lubiana, una stretta strada asfaltata serpeggia attraverso file di conifere senza incontrare alcuna barriera, guardia o dispositivo di sicurezza.

L'edificio massiccio assomiglia ad uno tra le centinaia di forti medievali del territorio sloveno: residenza nobiliare fino al 1717, ha attraversato rivolte contadine, gli attacchi degli Ottomani, la villeggiatura dei carabinieri italiani, l'incendio innescato dai partigiani. Solo le sbarre delle finestre tradiscono il fatto che il castello di Ig, vecchio più di sei secoli, è una delle sei prigioni della Slovenia e l'unico centro di detenzione femminile nel paese.

Il penitenziario ha 50 dipendenti e 75 detenute, divise in zone chiuse, semi-aperte o aperte. Le quattordici detenute di quest'ultima categoria possono liberamente fare telefonate, usare i loro computer, Internet e camminare nel parco vicino alla fortezza. Le uscite avvengono senza intoppi. "C'è una buona convivenza con la popolazione locale", sottolinea Tadeja Glavica, direttrice della prigione.

Con un tasso di occupazione di solo il 72,82%, Ig risulta sicuramente un carcere modello. Per Tadeja Glavica la principale difficoltà sta nell'utilizzo dell'edificio, in qualche suo aspetto poco adatto alla funzione che svolge: "C'è solo uno spazio molto piccolo per le madri che ricevono visite dai propri figli, non abbiamo un posto dedicato per le visite e le detenute spesso dormono in ampie sale comuni senza alcuna intimità”.

Studente modello, in apparenza
Ci sono solo sei carceri in Slovenia. Data l'assenza di grandi centri urbani, il tasso di criminalità rimane inferiore rispetto ad altri paesi della regione. Il 60% delle condanne a reclusione sono legate a furti, furti con scasso o traffico di droga. L'ergastolo è in vigore dal 2008, ma la pena massima rimane de facto di 30 anni di reclusione.

"Spiegando a un collega messicano che la Slovenia aveva solo 1.500 detenuti, inizialmente pensò che avevo dimenticato degli zeri", sorride Damjana Žist, penalista e giornalista giudiziaria per il quotidiano di Maribor Večer. Nel 2016, il tasso medio di incarcerazione in Slovenia era del 63,4 per 100.000 abitanti, a fronte dei 117 come media europea.

Europa

Dall’inizio del secolo il vecchio continente è l’unica macroregione al mondo a conoscere una riduzione della popolazione carceraria. Una tendenza che si spiega con gli sviluppi positivi in Russia e in Europa centro-orientale. Invece in Italia si registra un aumento del 13% in tre anni, e si fa notare il problema del sovraffollamento. Un'analisi del network Edjnet

Il paese ha 1398 prigionieri per 1339 posti disponibili, con un tasso di occupazione quindi del 104%. La realtà è però più contrastata: la prigione di alta sicurezza di Dob, 60 chilometri a est di Lubiana, ospita 497 detenuti per 449 posti, nonostante la costruzione di una nuova ala nel 2012. La piccola prigione di Capodistria ospita 146 detenuti per 110 posti. Inoltre la popolazione carceraria è in aumento, in particolare tra le donne, e il tasso di recidiva raggiungerebbe il 50% tra i detenuti di età superiore ai 18 anni.

Il problema è amplificato dalla precarietà di strutture che inizialmente non erano state concepite come prigioni. Lubiana rimane la pecora nera: "Fino al 2014 c'erano ancora prigionieri stipati in celle dove i bagni e la doccia erano separati dal resto della cella da una tenda", sottolinea Damijana Žist.

Condanne internazionali
La Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU) viene regolarmente adita da detenuti sloveni che denunciano l'angustia e l'insalubrità delle loro celle: tra il 2012 e il 2018, lo stato ha pagato più di 173.277 euro di danni e interessi a detenuti ed ex detenuti. A questi si aggiungono i 119.204 euro erogati a seguito di procedimenti giudiziari intentati nei tribunali sloveni.

L'ombudsman slovena Vlasta Nussdorfer, che ha in ogni caso sottolineato evidenti miglioramenti negli ultimi anni, rileva "condizioni di vita ancora negative nella maggior parte delle strutture. I prigionieri non devono essere privati ​​della loro dignità umana". Ogni anno, il suo ufficio pubblica raccomandazioni come la possibilità di lavorare per i detenuti che ne facessero richiesta, una migliore assistenza per i gruppi più vulnerabili e la ristrutturazione delle celle.

Il fenomeno è aggravato dalla carenza di personale: "Siamo in situazioni in cui un solo poliziotto accompagna un detenuto in tribunale e siamo talvolta obbligati a rinviare le udienze", afferma Damjana Žist. Il personale di altre carceri deve a volte dare man forte a quello di Lubiana, in un contesto di spossatezza denunciato dai sindacati: tra gennaio e luglio 2018, ogni guardia ha lavorato in media 91 ore di straordinario.

Le falle del sistema sono state messe a nudo nel caso dell'evasione nel gennaio 2019 di due detenuti dalla prigione di Capodistria, fuggiti dopo aver segato le sbarre della loro cella e aver utilizzato dei bidoni della spazzatura impilati nel cuore della notte. La loro fuga è stata scoperta solo il giorno successivo, a colazione. L'incidente è costato al direttore della prigione un pensionamento immediato, oltre a un rapporto al vetriolo della commissione di inchiesta.

Pene alternative
Da oggi al 2023, saranno investiti più di 100 milioni di euro per la costruzione di un nuovo penitenziario nei pressi della capitale. Avrà una capacità di 388 posti, più del doppio della prigione di Lubiana, che andrà a sostituire. Ig sarà ristrutturato e ampliato. L'ombudsman Damjana Žist si felicita di queste misure pur rilevando che "il problema del sovraffollamento non può essere risolto con la semplice costruzione di nuove prigioni". Il governo sta addirittura pensando di poter riassegnare i soldati che sono oltre i 45 anni alla sorveglianza penitenziaria.

Per Damjana Žist, il problema è l'indurimento delle pene. "I penitenziari sarebbero meno affollati se i giudici usassero più spesso punizioni alternative", come servizi alla comunità, arresti domiciliari e il carcere nel fine settimana. Tuttavia, questi ultimi sono accessibili solo per reati punibili con la reclusione fino a tre anni e su richiesta dell'imputato. L'alternativa spesso è solo tra carcere e assoluzione.

"La costruzione di carceri era assolutamente necessaria, ma è solo uno spegnere l'incendio quando le luci di emergenza lampeggiano", sottolinea Mojca Plesničar, ricercatrice presso l'Istituto di criminologia della facoltà di diritto di Lubiana. Al di là della questione delle pene alternative, Plesničar evidenzia la mancanza di omogeneità nelle politiche in campo penale. "I segnali inviati dal ministero della Giustizia non sempre sono coerenti. Spesso si dipende dall'iniziativa personale dei giudici”. Inoltre, in assenza di linee guida specifiche, la gestione di ciascun carcere dipende dallo stile del suo direttore.

Il sistema scandinavo
Il quadro rimane comunque positivo se lo si compara al contesto internazionale. Il tasso di affollamento è inferiore rispetto ad altri paesi come la Francia o il Belgio. Le condanne dei giudici di Strasburgo per trattamenti umanitari o degradanti riguardano solo il carcere di Lubiana. I rari casi di strutture obsolescenti dovrebbero essere risolti con i recenti investimenti. Il concetto di "regime aperto" ricorda tra l'altro le prigioni aperte in gran numero in Svezia.

"In verità - dice Mojca Plesničar - non siamo così lontani dal modello scandinavo. Ci sono ovviamente fattori che dipendono dal PIL del paese, ma il divario fondamentale tra gli stati del nord e la Slovenia è più legato alla concezione del regime carcerario. La Slovenia rimane combattuta tra la visione punitiva del sistema anglosassone e il sistema riabilitativo scandinavo, incentrato sui bisogni e sulla reintegrazione dei detenuti”.

E Mojca Plesničar poi tira fuori una sorprendente fonte di ispirazione: la Jugoslavia negli anni '80, che avrebbe promosso il sostegno umano per i detenuti piuttosto che l'asprezza della sorveglianza. "All'epoca, la socioterapia era parte integrante del sistema carcerario. Le autorità erano consapevoli dell'importanza di aprire il carcere. Ig era a quei tempi un modello: quasi tutte le detenute erano collocate nell'area aperta. In contatto quasi permanente con il mondo esterno".
«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #189 il: Febbraio 01, 2019, 20:09:01 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/95655

Citazione
RUSSIA: Un senatore è stato arrestato per omicidio e altre gravi accuse
Martina Turra  9 ore fa

Mercoledì 30 gennaio, Rauf Arashukov, il trentaduenne senatore russo per la regione Karačaj-Circassia, è stato arrestato in Senato durante una riunione del Consiglio della Federazione. È accusato di almeno due omicidi su commissione verificatisi nel 2010.

Le dinamiche dell’arresto

Lo scorso mercoledì, è stato annunciato che la regolare sessione parlamentare che doveva svolgersi quella mattina era stata chiusa alla stampa. In seguito, i presenti hanno votato affinché venissero sottratte ad Arashukov le immunità parlamentari al fine di poterlo perseguire. Stando a quanto riporta l’agenzia di stampa russa TASS, il senatore ha tentato la fuga durante il discorso del procuratore generale russo Yury Chaika ma, in seguito al sollecito da parte della portavoce del Consiglio della Federazione Valentina Matviyenko, è stato costretto a rimanere in aula. Le forze dell’ordine, che in quel momento avevano già circondato l’edificio, lo hanno quindi arrestato. Più tardi, un tribunale di Mosca ha ordinato la sua detenzione preventiva fino al 30 marzo.

Le accuse a carico di Arashukov

La principale accusa a carico del senatore è l’aver collaborato a due omicidi avvenuti nel 2010. Le vittime furono un assistente presidenziale ed un giovane politico. Vivevano nella stessa regione di provenienza di Arashukov, la Karačaj-Circassia, che si estende nel versante nord-occidentale del Caucaso. Tuttavia, il senatore nega ogni accusa, anche se sembra che sia responsabile anche di altri due omicidi. Il sito web Baza riporta alcune segnalazioni non verificate che sosterrebbero queste denunce, mostrando come prova il fatto che la polizia ha trovato nella sua casa un passaporto falso che gli sarebbe servito per scappare negli Emirati Arabi Uniti.

Una dichiarazione della commissione d’inchiesta russa afferma che Arashukov avrebbe anche agito come membro di un gruppo organizzato del quale faceva parte anche il padre Raul Arashukov. Quest’ultimo è stato arrestato lo stesso giorno con l’accusa di appropriazione indebita. Infine, il senatore è inoltre accusato di aver falsificato gli stessi documenti che gli hanno permesso di prendere parte al Consiglio della Federazione. È stato quindi espulso dal partito “Russia Unita”.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #190 il: Febbraio 01, 2019, 20:11:24 pm »
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Cronache dalla Romania, tra gelicidio e Securitate
Francesco Magno  2 giorni fa

da BUCAREST- Chi abitualmente legge le nostre colonne ha imparato che niente di quel che succede tra i Carpazi ed il Danubio è sorprendente. Un vecchio saggio diceva che la Romania non è un luogo, ma uno stato d’animo: mai affermazione fu più pertinente. L’atmosfera che in questo freddo gennaio ha permeato Bucarest è stata totalmente surreale, e non solo per il gelicidio che negli ultimi giorni ha afflitto la capitale trasformandola in un grigio scenario da fine dei tempi, tra alberi ghiacciati e lastre di ghiaccio volanti che, staccandosi dai tetti, provano a dimezzare i capi di ignari passanti. Il mese è iniziato in pompa magna, con la grande celebrazione per l’inaugurazione del semestre di presidenza dell’UE, e si chiude mestamente tra le critiche di Bruxelles, il leu in caduta libera, e il ritorno dei fantomatici archivi della Securitate, pronti a decapitare, proprio come le lastre di ghiaccio di Calea Victoriei, la carriera politica di rampanti uomini nuovi.

La presidenza più bistrattata

Nessuno stato membro all’alba del suo turno di presidenza ha ricevuto più critiche e sberleffi della povera Romania; persino l’uomo che più di ogni altro dovrebbe difenderla, il presidente Klaus Iohannis, l’ha definita totalmente impreparata a guidare la combriccola europea: da queste parti, a quanto pare, ogni scarrafone non è bello a mamma sua.
Da Bruxelles sono arrivate e continuano ad arrivare critiche per il modo in cui il paese è governato, e per il mancato rispetto di standard politici da tempo richiesti. Delle critiche paternaliste di cui oggettivamente si poteva anche fare a meno. Lungi da noi difendere il governo a guida socialista, puntualmente falcidiato da chi scrive, e non solo. Tuttavia, il resto del continente non pullula certo di statisti illuminati, e accanirsi contro la Romania all’inizio della sua prima presidenza è sembrato uno sparare sulla croce rossa. In compenso, Bucarest è tornata, almeno per un mese, al centro della scena giornalistica europea. E’ stato bello stare essere protagonisti. Adesso torniamo nel nostro microcosmo di generale disinteresse. Salvo cataclismi (che non possiamo comunque escludere), ci si rivede a giugno, quando arriva il Papa.

Il leu crolla

Come se non bastasse la malinconia da fine della festa, la partenza dei giornalisti e dei riflettori europei è coincisa con il crollo del leu, che attraversa una delle sue più acute svalutazioni dal 2012. Al momento della stesura di queste righe, un euro viene cambiato con 4,77 lei. I più pessimisti dicono che nel giro di qualche giorno potremmo arrivare a 1 euro per 5 lei. Secondo gli analisti, la svalutazione si deve alle ultime misure fiscali non particolarmente lungimiranti del governo, che hanno causato la sfiducia degli investitori. Per rendere il tutto più interessante e dinamico il PSD (partito social-democratico) ha accusato la Banca Nazionale di portare avanti un mirato progetto di svalutazione del leu, probabilmente su ordine di qualche demoniaco potere occulto straniero. Immaginiamo già Soros trattare e cospirare contro il leu insieme ai tecnici della Banca Nazionale, sorseggiando bourbon e accarezzando un gatto persiano bianco.

La Securitate è viva e lotta insieme a noi

La Romania probabilmente non si libererà mai della Securitate, la terribile polizia politica di Ceausescu. Anche se fisicamente non è più tra noi (e anche su questo, forse, ci sarebbe da discutere), essa aleggia nelle impolverate carte degli archivi; il suo ricordo è pronto a riemergere per arginare sul nascere nuove carriere politiche. L’ultimo a farne le spese è stato Dacian Ciolos, ex primo ministro, fondatore di un nuovo partito (PLUS), con il quale correrà alle europee. Pochi giorni dopo l’ufficializzazione della nascita del nuovo soggetto politico, ha fatto capolino sulla scena pubblica romena una notizia: il padre di uno dei collaboratori di Ciolos è stato un ufficiale della Securitate. Apriti cielo, scandalo, cataclisma, gogna. Il popolo delle anime candide si è levato contro il povero Ciolos che, in un momento di rassegnata e sconsolata sincerità, si è lasciato andare ad un commento mortifero per i suoi sondaggi. Egli ha infatti fatto notare che, se si dovesse eliminare dalla scena chiunque abbia avuto anche un solo lontano rapporto con la Securitate, allora non resterà più nessuno a far politica, dal momento che tutti per un motivo o per l’altro ci hanno avuto a che fare. Affermazione politicamente infelice ma umanamente condivisibile, che Ciolos ha poi ritrattato nei giorni seguenti sulla scia della pubblica indignazione. Caro Dacian, tutta la nostra compassione: forse per la prima volta, dopo tanti anni, qualcuno a Bucarest ha finalmente detto ciò che sentiva. E’ stato ripagato con una lastra di ghiaccio in testa. Per fortuna l’inverno finirà, il ghiaccio si scioglierà, e forse, prima o poi, qualcun altro si azzarderà a dire ciò che pensa senza il timore di essere (figuratamente) decapitato.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #191 il: Febbraio 02, 2019, 12:52:29 pm »
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Della barzellatta di affidare la presidenza di turno UE a un governo totalmente inadeguato in Romania, come ammesso dallo stesso presidente rumeno, ne ha parlato tutta la stampa internazionale.

Solo la patetica stampa nostrana ha totalmente ignorato la notizia, perche' sia mai che passi l'idea che l'Italia non e' il paese peggiore della Terra, e che in Europa c'e' chi e' messo molto peggio.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #192 il: Febbraio 02, 2019, 15:25:34 pm »
Del resto l'esterofilia dell'italiano medio deriva anche e soprattutto dal fatto che i media nostrani si guardano bene dal mettere in evidenza, in maniera dettagliata, le magagne altrui.
Non a caso, ormai da tempo, porto avanti questa battaglia anti-esterofili; perché un conto è l'autocritica - che è cosa buona e giusta - e un conto è il disfattismo, di cui è realmente impregnato l'italiano medio, specie se di sesso maschile.
Come ho già avuto modo di scrivere, mai riscontrato qualcosa del genere in rumeni e albanesi, ossia gente proveniente da paesi ben peggiori del nostro e che fino a non molti anni fa erano nella merda più totale.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #193 il: Febbraio 05, 2019, 21:18:17 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Bosnia-Erzegovina-lo-scandalo-dei-diplomi-falsi-192451

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Bosnia Erzegovina: lo scandalo dei diplomi falsi

Un'inchiesta realizzata dal due giornalisti del portale bosniaco Žurnal mette in luce lo scandalo dei diplomi falsi e la scarsa attenzione prestata a questo fenomeno da parte degli organi giudiziari


05/02/2019 -  Zdravko Ljubas
(Originariamente pubblicato dalla Deutsche Welle  , il 30 gennaio 2019)


Trovare lavoro in Bosnia Erzegovina, un paese schiacciato dalla burocrazia, disoccupazione e crisi economica, è come vincere alla lotteria. Per coloro che possiedono un titolo di studio è un po’ più facile trovare un impiego, ma i datori di lavoro raramente si chiedono come sia stato conseguito il diploma, ovvero se sia accompagnato da adeguate competenze.

Da ormai molto tempo, più precisamente dalla fine della guerra degli anni Novanta, in cui sono andati distrutti e smarriti numerosi diplomi, attestati e registri di molte scuole superiori e università, è un segreto di pulcinella che in Bosnia Erzegovina molte persone hanno conseguito un titolo di studio in modo illecito.

Sembra che negli ultimi 24 anni il business dei diplomi veloci sia stato portato alla perfezione. Un’inchiesta su questo argomento, realizzata da Azra Omerović e Avdo Avdić, giornalisti del portale Žurnal, ha suscitato una vera e propria bufera, dimostrando come la criminalità organizzata e la corruzione arrivino fino alle più alte istituzioni statali ed evidenziando tutte le debolezze del sistema giudiziario bosniaco-erzegovese.

Conseguire un diploma senza sostenere nemmeno un esame
Il piano era semplice. Nel tentativo di ottenere un diploma falso, ovvero veloce, la giornalista Azra Omerović ha contattato un uomo, una persona che fungeva da tramite, e in poco più di due settimane, senza aver assistito a una sola lezione e senza aver superato alcuna prova, ha ricevuto il diploma di tecnico sanitario rilasciato dalla Scuola superiore di Sanski Most.


“Qui non si tratta solo di diplomi di scuola superiore. Quello stesso Senad Pehlivanović ci ha offerto anche un diploma di laurea. Potevamo scegliere la facoltà”, dice alla Deutsche Welle il giornalista del Žurnal Avdo Avdić.

“Se avessimo avuto più tempo e risorse a disposizione, avremmo potuto ottenere il diploma di laurea della Facoltà di Giurisprudenza, senza dover assistere ad alcuna lezione e senza dover sostenere alcun esame. E poi con quella laurea probabilmente saremmo riusciti a trovare un impiego come collaboratori presso qualsiasi organo giudiziario in Bosnia Erzegovina. Abbiamo le prove che alcune persone attualmente impiegate nelle istituzioni giudiziarie si sono laureate in questo modo presso la Facoltà di Giurisprudenza o uno degli istituti di istruzione superiore, dove peraltro lavorava anche Senad Pehlivanović ”, afferma Avdić.

Il fenomeno della criminalità organizzata
Stando alle sue parole, il problema è molto più profondo di quanto si pensi, perché si tratta evidentemente di “una criminalità ben organizzata che opera sotto l’egida della stato e con la tacita approvazione degli organi giudiziari”.

“Senad Pehlivanović è un dipendente pubblico il cui compito era solo quello di mediare tra soggetto erogatore e destinatario del diploma. Si potrebbe dire che era un commercialista, mentre le vere menti dell’intera operazione sono da ricercare negli assetti proprietari di vari istituti di istruzione, ovvero nei partiti politici legati a questi istituti e da essi finanziati”, spiega Avdić.

Per quanto possa sembrare innocua, questa vicenda potrebbe avere conseguenze molto serie a lungo termine. Secondo Avdić, questo caso rivela l’esistenza di seri problemi che costituiscono una minaccia per l’intera società bosniaca. “Tra qualche anno, se non prima, potrebbe capitarvi di essere curati da un medico o giudicati da un giudice che ha conseguito il suo diploma in questo modo, e il paese potrebbe finire per essere governato da persone con un diploma conseguito in questo modo”.

Lo scandalo dei diplomi falsi non ha scosso solo la Bosnia Erzegovina, ma anche altri paesi della regione, dal momento che le controverse scuole superiori e università in Erzegovina, Bosnia centrale e Republika Srpska risultano attraenti anche per i cittadini dei paesi vicini. I giornalisti del Žurnal, insieme ai loro colleghi dell’emittente televisiva croata Nova Tv, sono venuti in possesso di alcuni documenti che dimostrano come un vigile del fuoco di Kostajnica in Croazia, che possiede un diploma di una scuola superiore di Široki Brijeg in Bosnia Erzegovina, non sia mai stato nel territorio bosniaco nel periodo di svolgimento degli esami.

Poco dopo lo scoppio dello scandalo dei diplomi falsi in Bosnia Erzegovina sono arrivate le reazioni anche da alcune organizzazioni croate, tra cui l’Associazione croata degli infermieri che ha sottolineato che in Croazia solo chi possiede adeguate competenze può lavorare come infermiere, mentre i “falsi” infermieri non riuscirebbero mai a soddisfare i loro severi criteri.

Anche altri paesi dell’Unione europea potrebbero trovarsi di fronte a falsi professionisti provenienti dalla Bosnia Erzegovina. La Germania resta una delle mete preferite dai bosniaco-erzegovesi che decidono di emigrare, e vi è una costante richiesta di personale medico-tecnico di diversi profili. Stando alle stime ufficiali, negli ultimi 10 anni dalla Bosnia Erzegovina sono emigrati circa 250.000 cittadini, ma il numero effettivo degli espatriati è probabilmente molto superiore.

Il trend emigratorio non accenna a diminuire, anzi sono sempre di più le persone, soprattutto giovani, che cercano in ogni modo di lasciare la Bosnia Erzegovina dove, stando ai dati della Banca mondiale, il tasso di disoccupazione si attesta al 20%, mentre il 17% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Molti cittadini bosniaco-erzegovesi scelgono di emigrare pur avendo un lavoro, perché percepiscono uno stipendio – spesso molto inferiore allo stipendio medio mensile che si aggira attorno ai 850 marchi (circa 430 euro) – che non è sufficiente a garantire nemmeno la mera sopravvivenza.

Servono indagini, non revisioni
È sorprendente che la vicenda dei diplomi falsi non abbia suscitato alcuna seria reazione da parte delle istituzioni bosniache né tanto meno la richiesta di dimissioni dei responsabili. L’unico a reagire è stato il Comitato per l’educazione, scienza, cultura e sport della Camera dei rappresentanti del parlamento della Federazione BiH, che ha lanciato un’iniziativa per la revisione dei titoli di studio dei propri membri.

Avdo Avdić ritiene che la revisione dei diplomi non sia sufficiente a risolvere la questione. “È ormai prassi diffusa tra i rappresentanti delle istituzioni statali lanciare iniziative per la revisione dei diplomi. Ma questo è l’ultimo dei problemi. La cosa fondamentale, secondo me, è sottoporre al controllo l’operato delle istituzioni che rilasciano questi diplomi. Se guardate i documenti, attestati e diplomi che siamo riusciti a ottenere, vedrete che vi è scritto che il destinatario del diploma si è iscritto regolarmente al corso prescelto, ha superato tutti gli esami e al termine del percorso di studio della durata di due anni ha ottenuto il diploma. Se qualcuno avesse esaminato uno di questi diplomi prima della pubblicazione della nostra inchiesta, non avrebbe notato nulla di strano”, afferma Avdić.

Stando alle sue parole, ciò che preoccupa di più è la debole reazione degli organi giudiziari. “Nessuna istituzione giudiziaria – tranne la procura del cantone Una-Sana che ha aperto un’inchiesta contro la scuola di Sanski Most e contro Senad Pehlivanović – ci ha chiesto di poter prendere visione del controverso diploma per accertare se si tratta di un reato di criminalità organizzata. La procura della Bosnia Erzegovina ci ha chiesto informazioni, comprese quelle relative alle nostre fonti, sulla base delle quali abbiamo sviluppato la nostra inchiesta, ma non ci ha chiesto il diploma”, spiega Avdić.

Aggiunge inoltre che il portale Žurnal continuerà a indagare sulla questione e a pubblicare quanto scoperto. Quello dei diplomi falsi non è il primo scandalo svelato dai giornalisti di questo media indipendente, il cui obiettivo è quello di mettere a nudo tutte le irregolarità, e soprattutto le collusioni tra potere politico e criminalità organizzata in Bosnia Erzegovina, che nell’ultimo indice di percezione della corruzione, stilato da Transparency International, occupa l’89° posto su un totale di 180 paesi presi in considerazione.



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“Se avessimo avuto più tempo e risorse a disposizione, avremmo potuto ottenere il diploma di laurea della Facoltà di Giurisprudenza, senza dover assistere ad alcuna lezione e senza dover sostenere alcun esame. E poi con quella laurea probabilmente saremmo riusciti a trovare un impiego come collaboratori presso qualsiasi organo giudiziario in Bosnia Erzegovina. Abbiamo le prove che alcune persone attualmente impiegate nelle istituzioni giudiziarie si sono laureate in questo modo presso la Facoltà di Giurisprudenza o uno degli istituti di istruzione superiore, dove peraltro lavorava anche Senad Pehlivanović ”, afferma Avdić.

"Certe cose accadono solo in Italia! "
Italiano medio docet.
...
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #194 il: Febbraio 10, 2019, 18:04:20 pm »
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Indice di corruzione, i Balcani peggiori d’Europa
Pietro Aleotti  3 giorni fa

Nei giorni scorsi Transparency International, un’organizzazione che ha la propria ragione fondante nella lotta alla corruzione nel settore pubblico, ha pubblicato i risultati relativi alla valutazione dell’indice di percezione della corruzione, misurata in 180 paesi in tutto il mondo. La situazione per i paesi balcanici è tutt’altro che lusinghiera essendo stabilmente collocati agli ultimi posti della classifica europea, meglio solo di Russia ed Ucraina.

La metodologia

Dal 1995 Transparency International presenta questi dati con cadenza annuale offrendo, così, uno spaccato della situazione a livello globale. Il grado di corruzione viene espresso tramite un indice, denominato “Indice di Percezione della Corruzione” (Corruption Perception Index, CPI), calcolato incrociando i dati ufficiali provenienti da varie istituzioni indipendenti, e attinenti diversi aspetti della corruzione. Tra gli altri: l’uso dei fondi pubblici e la loro diversione, l’esistenza di leggi sul conflitto di interessi, la lotta alla corruzione, il livello di burocratizzazione, l’autonomia dei media e altri ancora. Il CPI è espresso su una scala da 0 a 100, dove 0 indica il massimo grado di corruzione e 100 la sua completa assenza.

I dati

L’Europa occupa ben sette delle prime dieci posizioni tra i paesi più virtuosi, inclusa quella di testa con la Danimarca. Il valore medio dei paesi dell’Unione europea è di 66, superiore a quello medio globale di oltre 20 punti.
La situazione dei paesi balcanici è, invece, di gran lunga peggiore: tutti i paesi dell’area occupano posizioni medio basse nel ranking generale. In ragione di un CPI medio di soli 41 punti, Serbia, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Macedonia e Albania si collocano tra l’ottantottesimo e il centesimo posto della classifica e solo Croazia (60) e Montenegro (68) appaiono leggermente più in salute.

A dare una connotazione ulteriormente negativa ai dati forniti da Transparency International contribuisce l’analisi del trend di questi stati: dal 2012 (anno dal quale la rilevazione viene fatta con la metodologia attuale) al 2018 non si rileva alcun segnale di miglioramento e, rispetto allo scorso anno, tutti i paesi dei Balcani occidentali hanno, viceversa, peggiorato il proprio punteggio, con la sola eccezione della Macedonia.

I singoli casi

Nonostante la lotta alla corruzione sia una delle condizioni imposte dalle istituzioni europee per l’ingresso nell’UE, nessuno degli stati candidati o aspiranti tali ha fatto, dunque, sforzi apprezzabili sul tema.

In Serbia, ad esempio, il tentativo di porre sotto il proprio controllo le istituzioni pubbliche preposte al mantenimento dello stato di diritto è stato evidenziato dall’associazione dei giudici serbi che, con un comunicato di rara durezza, ha definito la bozza di riforma costituzionale presentata dal governo un tentativo di “ampliare la possibilità di influenza politica sul sistema giudiziario”. Un potere giudiziario debole è sicuramente meno efficace ad indagare l’ambito politico dal quale risulta, al contrario, assoggettato.  Un quadro negativo cui si deve aggiungere, secondo quanto riportato da Transparency Serbia, la tendenza a non intervenire nemmeno in casi in cui la corruttela sarebbe comprovata da indagini giornalistiche o da quelle delle autorità investigative.

In altri contesti il problema si origina da un vuoto di natura legislativa e, più, in generale, dalla debolezza delle istituzioni: è il caso, ad esempio, del Kosovo dove, a fronte dell’esistenza di ben quattro organi preposti alla vigilanza, la poca chiarezza nella suddivisione di ruoli e di compiti ha creato sovrapposizioni e inefficienze, vanificandone di fatto l’operato. Attraverso il meccanismo del finanziamento pubblico dei partiti, inoltre, la corruzione può persino influenzare l’esito delle elezioni politiche: un sospetto in tal senso è quello che, secondo quanto riportato da Transparency International, riguarderebbe le ultime tornate elettorali in Montenegro e in Bosnia Erzegovina.

Ultima tra i paesi balcanici con il suo centesimo posto, l’Albania soffre di gran parte delle problematiche appena descritte: è di pochissimi giorni fa la raccomandazione con la quale il Fondo Monetario Internazionale esorta Tirana ad intraprendere più efficaci e puntuali misure anti-corruzione, come condizione indispensabile per il rilancio economico del paese e come incentivo alla ripresa del mercato del lavoro consentendo, così, un più efficace contrasto al fenomeno dell’emigrazione.

Un problema per la democrazia

Spesso benevolmente derubricato a malcostume, per quanto esecrabile, quello della corruzione è dunque un problema che investe la sfera democratica dei paesi coinvolti, con impatti pesanti anche sul piano economico e sociale. Negli ultimi anni al tentativo di molti dei governi dell’area di aumentare la propria influenza e il proprio controllo sulle istituzioni e sui mezzi di informazione si è aggiunta una diffusa recrudescenza del conflitto con le organizzazioni non governative e, più in generale, con gli oppositori politici.

Un clima, questo, che favorirebbe il proliferare di pratiche corruttive, come osservato dalla presidente stessa di Transparency International secondo la quale  la “corruzione pubblica ha maggiore possibilità di prendere piede in un contesto dove le basi democratiche sono più deboli”.
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