Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 69232 volte)

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Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #360 il: Gennaio 24, 2020, 23:51:03 pm »
C'è anche un po' di uranio impoverito? I Balcani sono la porta d'Europa...
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

Offline Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #361 il: Gennaio 26, 2020, 19:15:14 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/102206

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BULGARIA: A Sofia non ci sono ambulanze
Giorgia Spadoni 3 giorni ago

Tra il 2010 e il 2012 a Sofia si registra un’impennata di chiamate al 112, il numero unico per le emergenze in Bulgaria, che passano da 11.016 a 12.930 nel solo mese di gennaio. Una media di 431 al giorno.
Nel 2012 la città conta oltre 1,2 milioni di abitanti, ma le ambulanze a disposizione dell’intera capitale sono solo 13. Il numero medio di équipe mediche d’urgenza attive è 20, il che significa circa 22 casi al giorno per ogni squadra.
Il regista bulgaro Ilian Metev decide di seguire una delle ambulanze sofiote proprio in questi due anni per il suo esordio dietro la cinepresa. Dopo aver aspettato a lungo l’autorizzazione per la distribuzione, il suo documentario L’ultima ambulanza di Sofia (Poslednata linejka na Sofija) viene finalmente presentato in anteprima alla 65ª edizione del Festival di Cannes.

Una metamorfosi a metà

L’inadeguatezza del servizio sanitario di emergenza bulgaro è legata all’irregolare transizione del Paese, costellata da riforme fiacche alternate a periodi di crisi.
La ristrutturazione finanziaria del sistema sanitario viene ufficialmente approvata e applicata solo negli anni Duemila; essa prevede l’istituzione di una Cassa nazionale di assicurazione sanitaria e un sistema di assicurazioni mediche.
Quattro anni dopo, un quarto dei bulgari non paga regolarmente le quote assicurative, e fino al 2005 non esiste uno strumento che verifichi lo stato di assicurazione dei pazienti. Nel 2009 la quota di stipendio da destinare all’assicurazione sanitaria passa dal 6 all’8%. Nello stesso anno, pur avendo subito un aumento, il salario bulgaro mensile medio ammonta a 555 leva, meno di 300 euro. Nel 2018 il 12% dei bulgari è ancora senza assicurazione sanitaria, la maggior parte perché non può permetterselo.
La Cassa nazionale di assicurazione sanitaria bulgara dipende tuttora in larga parte dai magri finanziamenti statali, meno del 3% del PIL nazionale.


Condizioni avverse

La medicina d’urgenza in Bulgaria è finanziata interamente dallo stato. I primi specialisti iniziano ad essere formati nel 1996, ma dieci anni dopo i reparti di pronto soccorso sono scarsi, circoscritti agli ospedali specializzati e cliniche universitarie.
Nel 2014 sono solo 63 i medici impiegati nel settore in tutta la Bulgaria. La causa si cela nelle limitate possibilità di carriera, condizioni di lavoro sfavorevoli e stipendi bassi che caratterizzano quest’ambito. Il compenso mensile di un medico non supera i 400 euro, e quello delle infermiere è di circa 200 euro, di poco superiore a quello degli autisti.
Tutto ciò riduce drasticamente il numero di squadre e ambulanze disponibili, oltretutto distribuite nel Paese in maniera non proporzionale al numero di abitanti né all’estensione dell’area in questione.

L’ultima ambulanza di Sofia

Quando Ilian Metev gira il suo documentario, ci sono 200 posti vacanti al centro di medicina d’urgenza di Sofia. Il rapporto di ambulanze per numero di abitanti è il più basso rispetto alle altre maggiori città bulgare: due unità per 100.000 residenti.
Metev racconta la realtà della squadra formata dal medico Krassimir Yordanov, l’infermiera Mila Mihaylova e l’autista Plamen Slavkov, che lottano “contro un sistema sanitario fatiscente, pazienti ubriachi e drogati e le loro famiglie nel panico, automobilisti indifferenti e buche che crivellano tutte le strade dell’animata città di Sofia”. La loro è anche e soprattutto una corsa contro il tempo, che molto spesso non lascia scampo.
Attraverso un approccio osservativo, lo spettatore è solo con l’équipe e i pazienti, i quali non sempre chiamano il 112 per reale necessità. L’assistenza sanitaria d’urgenza è gratuita, e quindi preziosa occasione di trasporto all’ospedale, ricovero o visita specialistica per un paziente non assicurato.

Reazioni e promesse

Premiato con il France 4 Visionary Award a Cannes, il film di Metev suscita grande scalpore e trambusto in patria e all’estero. Nel 2014 il Ministero della salute stila un progetto per lo sviluppo del sistema sanitario di emergenza, e nel 2015 promette un aumento dei salari del 20%. Nel 2018 viene annunciato un investimento di 163 milioni di leva nel settore, per l’acquisto di nuove e più moderne ambulanze. Riusciranno ad arrivare in tempo?
«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #362 il: Gennaio 28, 2020, 23:56:09 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Dragan-Bursac-Non-denuncio-piu-le-minacce-ricevute-199130

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Dragan Bursać: “Non denuncio più le minacce ricevute”

Il giornalista bosniaco Dragan Bursać si è arreso: ha deciso di non sporgere più denuncia per le minacce di morte ricevute. Ne ha già sporte una quindicina e non è cambiato nulla. La vita difficile di un giornalista nel mirino

28/01/2020 -  Elvira Jukić - Mujkić Sarajevo
(Originariamente pubblicato da Mediacentar Sarajevo  )

Nonostante sia ancora bersaglio di minacce di morte, il giornalista Dragan Bursać non sporge più denunce alla polizia né agli organi giudiziari. Bursać ha deciso di non denunciare più le minacce ricevute dopo che un uomo – che in passato lo aveva minacciato e la cui identità è nota alla polizia – gli ha mandato un messaggio in cui diceva che le sue denunce erano inutili.

“Dopo un anno dalla [mia] denuncia, mi ha mandato il seguente messaggio: ‘Bursać, ecco, vedi che non è servito a niente’”, ricorda il giornalista. “Mi sono arreso. Non voglio più farlo. Non ho più sporto alcuna denuncia dall’aprile 2018. Mi chiamano [dalla polizia] per chiedermi se voglio sporgere denuncia. La polizia mi ha detto di aver scoperto alcune cose e di averne informato la procura, e poi niente, non ho ricevuto nessun feedback. Penso di aver sporto una quindicina di denunce per le minacce di morte ricevute”, spiega Dragan Bursać.

Bursać è spesso bersaglio di critiche, insulti e minacce di morte a causa dei suoi articoli fortemente critici nei confronti della politica perseguita dalla leadership della Republika Srpska, ma anche nei confronti delle narrazioni dominanti, soprattutto quelle sulla guerra in Bosnia Erzegovina del 1992-1995. Bursać, così come altri membri della sua famiglia, spesso riceve commenti negativi, insulti e minacce anche sui social network – dove ha circa 10mila follower – e più volte gli è stato suggerito di andarsene da Banja Luka.

Il giornalista ricorda la prima volta che ha ricevuto un’esplicita minaccia di morte. All’epoca lavorava per il portale informativo Buka di Banja Luka. Un giorno, all’indirizzo della redazione del portale, è arrivato un messaggio destinato a Bursać, che diceva: “Ti troveremo, ti uccideremo”.

Bursać ha scelto consapevolmente di indagare su temi delicati, di cui in Bosnia Erzegovina non si parla affatto, e di interrogarsi sul passato, mettendo in discussione le identità nazionali ed etniche dei tre popoli costituenti della Bosnia Erzegovina. A causa di questa scelta Bursać è sottoposto, tra l’altro, a frequenti atti intimidatori, che vanno dagli insulti alle minacce di morte.

Interrogare il passato bellico
Dragan Bursać, classe 1975, è cresciuto a Bosanski Petrovac. Nel 1989 si trasferisce a Banja Luka, dove per due anni frequenta il liceo. Allo scoppio della guerra in Bosnia Erzegovina si trasferisce in Serbia. Terminata la scuola superiore a Sremska Mitovica, si iscrive alla Facoltà di Filosofia di Novi Sad. Nel 1995 viene mobilitato dall’Esercito della Republika Srpska. Dopo la fine della guerra torna a Novi Sad, per completare gli studi. Qualche anno più tardi decide di tornare a Banja Luka e nel 2002 inizia a lavorare come giornalista per una radio locale. Nei tre anni della sua permanenza alla radio, Bursać si è occupato di vicende legate ai progetti infrastrutturali realizzati a Banja Luka, di problematiche locali e fatti di cronaca. Tuttavia, ci sono stati dei disaccordi tra Bursać e altri membri della redazione riguardo ad alcuni temi cui Bursać voleva affrontare.

“C’erano vari argomenti che risultavano incompatibili con le linee editoriali dominanti. Una delle prime storie di cui mi sono occupato è stata quella dei 12 neonati morti in ospedale  ”, ricorda Bursać, precisando di aver seguito questa storia per circa 15 anni. Nel 1992, all’inizio della guerra in Bosnia Erzegovina, 12 neonati sono morti al reparto di terapia intensiva neonatale dell’ospedale di Banja Luka per mancanza di ossigeno necessario per garantire un’adeguata assistenza respiratoria neonatale.

“Questo evento è stato sfruttato per avviare l’operazione militare ‘Koridor’ [Corridoio] che mirava a collegare la parte occidentale della Republika Srpska con quella orientale. Ma nessuno ha spiegato i motivi per cui mancava l’ossigeno. Allora ho deciso di indagare un po’ e ho scoperto che l’ossigeno era arrivato all’ospedale, da tre fonti diverse. Ma poi è scomparso”, spiega Bursać. Aggiunge inoltre che la radio di Banja Luka per la quale lavorava all’epoca non era disposta a dare spazio a storie come questa, per cui ha deciso di collaborare con il portale Buka  , oggi uno dei principali portali informativi in Bosnia Erzegovina.

Guardando allo sviluppo del giornalismo in Republika Srpska negli ultimi vent’anni, Bursać evidenzia alcuni temi dominanti, spiegando che nel periodo tra il 2002 e il 2006 i media in Republika Srpska hanno parlato soprattutto di sviluppo economico, poi dal 2006 al 2010 si sono focalizzati sul tema della ri-egemonizzazione nazionale, e a partire dal 2010 hanno parlato perlopiù di nuove guerre, ma anche del passato.

“Non so se si tratti di un progresso o regresso. Abbiamo dovuto occuparci di sviluppo [economico] nel periodo tra il 1996 e il 2002, così come abbiamo dovuto occuparci anche di fosse comuni e crimini di guerra”, afferma Bursać, aggiungendo: “La storia dei 12 neonati mi ha fatto tornare al 1992, e da allora ho cominciato ad occuparmi sempre di più del passato”.

Dragan Bursać si occupa di temi legati al confronto con il passato, ai traumi di guerra, crimini di guerra e (presunti) eroi di guerra. Per il suo impegno professionale ha vinto lo European Press Prize 2018  . Ha scritto diversi articoli sulla fossa comune di Tomašica, sul genocidio di Srebrenica, sul massacro di Markale, mettendo in discussione le narrazioni dominanti in Republika Srpska che negano i crimini di guerra commessi contro la popolazione non serba.

“Più mi interessavo a queste tematiche, più mi imbattevo in persone che fungevano da guardiani del silenzio”, ricorda Bursać. “Quella era una narrazione nascosta che nessuno ha mai voluto affrontare. Da lì è iniziato tutto. Diverse idee, persone, minacce”.

Nonostante ricevesse spesso minacce di morte, Bursać ha denunciato per la prima volta le minacce ricevute nel 2017 dopo la pubblicazione di un suo articolo intitolato "Slavi li Banja Luka srebrenički genocid?"  [Banja Luka festeggia il genocidio di Srebrenica?]. Prima di allora non prendeva sul serio i rischi connessi al suo lavoro. Poi ha fatto una ricerca su Internet e ha scoperto alcuni forum in cui si discuteva ormai da anni – più precisamente da quando Dragan ha iniziato ad occuparsi di giornalismo – di “come uccidere Dragan Bursać e cosa fare se lo si incontra in piena notte: picchiarlo con una mazza o qualcosa di più creativo”.

“Mi è capitato più volte che in un luogo pubblico mi si avvicinasse un uomo ubriaco dicendomi: ‘Traditore!’ Mi è capitato anche che i proprietari di alcuni ristoranti non volessero farmi entrare. Ma non ci davo troppa importanza… finché non ho cominciato a ricevere serie minacce di morte sui social network”, spiega Bursać.

“Nel momento in cui ho deciso di indagare e di portare alla luce quanto accaduto durante la guerra e nell’immediato dopoguerra – era forse il 2012 – ho iniziato a ricevere vere e proprie minacce, anche da parte delle persone che fino a quel momento mi applaudivano. A loro avviso, se io attacco il governo della Republika Srpska, cioè l’Unione dei socialdemocratici indipendenti (SNSD), allora vuol dire che appoggio il Partito democratico serbo (SDS). In realtà, SNSD e SDS condividono la stessa ideologia neo-cetnica. Quando ho cominciato a mettere a nudo pubblicamente questa ideologia e il loro atteggiamento nei confronti del passato e delle vittime [di guerra], soprattutto quelle appartenenti alla popolazione non serba, tutte le maschere sono cadute. Mi sono reso conto che sotto un primo esiguo strato di pudore si nasconde un male ideologico che non accetta assolutamente alcuna opinione diversa. Questo fenomeno va dall’ignoranza alle minacce”, spiega Bursać, che oggi lavora come editorialista per Al Jazeera Balkans e per il portale di Radio Sarajevo.

“I miei tentativi di svelare alcune mancanze nell’operato dell’amministrazione comunale e le frodi nelle forniture pubbliche non davano fastidio a nessuno, all’epoca non avevo mai ricevuto alcuna minaccia. I problemi sono sorti quando ho cominciato ad occuparmi dei crimini di guerra, del genocidio e delle ideologie che portarono alla guerra e che continuano ad alimentare l’ansia sociale”, spiega Bursać.

Trattato come se fosse un imputato
Dragan Bursać ricorda come funziona e quanto dura la procedura di presentazione di una denuncia per minacce. Cita l’esempio delle minacce ricevute qualche anno fa sul web da parte di una persona che si era collegata alla rete da Banja Luka tramite un server in Danimarca, e poi è stata rintracciata grazie all’indirizzo IP.

“Mi telefonano dicendomi di venire al ministero dell’Interno. Una volta arrivato mi informano di aver trovato quella persona, e uno [dei poliziotti] mi dice: ‘è un bravo ragazzo’ e mi chiede se voglio firmare la dichiarazione di rinuncia alla querela. Mi dicono nome e cognome dell’uomo [che mi ha minacciato], suggerendomi di non denunciarlo. Cercano di convincermi di perdonarlo. Poi ho cercato un po’ su Google, ho visto che era coinvolto in una vicenda serbo-russa, ho visto una foto di Putin, non ho capito molto. Nome e cognome non mi dicevano nulla. E allora ho firmato… i poliziotti mi hanno convinto”, racconta il giornalista.

Tenendo conto del fatto che all’ultimo censimento della popolazione effettuato in Bosnia Erzegovina la maggior parte degli abitanti di Banja Luka si sono dichiarati serbi, e che la stragrande maggioranza dei politici di Banja Luka e dei media mainstream continua a difendere quanto fatto dall’Esercito della Republika Srpska durante la guerra, compresi i crimini condannati dal Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, risulta chiaro perché le questioni, per nulla semplici, sollevate da Dragan Bursać nei suoi articoli provocano reazioni furiose da parte di molti.

“Stavo rilasciando una dichiarazione alla polizia, dovevo dire se pensavo davvero che Banja Luka avesse festeggiato il genocidio di Srebrenica, e nel loro ufficio c’era una foto di Mladić”, ricorda Bursać.

“Ogni volta che mi sono recato lì [i poliziotti] mi hanno trattato come se fossi il principale imputato, come se io avessi fatto qualcosa… come se volessero dirmi: ‘Perché sei venuto?’ Erano già stufi di dover occuparsi (per dovere d’ufficio) della mia denuncia, ci mancavo solo io”, racconta Bursać.

“È uno spazio aperto, come un ufficio postale, la gente passa in continuazione. E allora dovevo parlare più forte. I poliziotti mi chiedono: ‘Cosa ha detto? Chi è Mladić?’. E io rispondo: ‘Un criminale’. Poi ancora: ‘Cosa ha scritto?’. Io ripeto: ‘Un criminale’. ‘Ah, sì, un criminale’, dicono i poliziotti. Allora la metà dei presenti gira lo sguardo verso di noi… Poi la gente mi dice: nessuno ti ha costretto a infastidire i cittadini onesti, a provocare”.

Dragan Bursać continua a ricevere minacce, ma non le denuncia più. Dice che la polizia fa quello che deve fare ma tutto quello che scoprono se lo passano alla procura, lì rimane

Per Bursać la protezione migliore è quella fornita dall’opinione pubblica, motivo per cui parla sempre pubblicamente delle minacce ricevute. Tuttavia, sostiene di essere lasciato alla mercé della folla che vorrebbe linciarlo.

“Non è mai stato avviato alcun procedimento penale, nessuno mi ha mai chiamato. Non c’è stata alcuna sentenza, come se nessuno mi avesse mai minacciato”, afferma Bursać, e aggiunge: “Penso che quelle persone aspettino che mi succeda qualcosa di brutto, per poi dire che sapevano qualcosa”.

L'articolo originale è frutto di una collaborazione all'interno della rete giornalistica delle organizzazioni SNEEPM e IFEX, di cui Mediacentar Sarajevo fa parte
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #363 il: Gennaio 28, 2020, 23:58:22 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/102255

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Bielorussia e Russia stanno litigando per il petrolio
Gianmarco Riva 4 ore ago

Nell’ultimo decennio i rapporti tra Russia e Bielorussia sono stati contraddistinti da numerose dispute energetiche, petrolio e gas in primis, in quella che è stata descritta come una relazione d’amore e odio tra i presidenti Vladimir Putin e Aleksander Lukašenko.

Nell’ultimo anno la Russia, che da tempo rappresenta un’importante fonte di sostentamento per l’economia e il mercato energetico bielorusso, ha costantemente cercato di incoraggiare una maggiore integrazione economica tra Mosca e Minsk al fine di mantenere quest’ultima nella sua orbita politica. In questo contesto, le crescenti pressioni esercitate da Mosca si sono recentemente tradotte in un aumento dei prezzi del petrolio e in una parallela riduzione di sussidi finanziari. Secondo i portavoce del Cremlino, il consolidamento dei legami economici è imprescendibile se Minsk desidera continuare a ricevere approvvigionamenti energetici a prezzi competitivi. L’atteggiamento proattivo russo, tuttavia, ha riscontrato una considerevole resistenza dalla controparte bielorussa, che ha dimostrato riluttanza ad accettare un consolidamento delle relazioni economiche fino a quando i problemi relativi ai prezzi delle forniture per l’anno 2020 non verranno risolti.

La posta in gioco

Le discussioni sono sorte a fine 2019, nel corso delle trattative sul consolidamento dei legami economici bilaterali, la cui attuazione è prevista da un trattato che i due paesi hanno firmato nel 1999. L’accordo, rimasto finora essenzialmente solo su carta, impegna i due ex stati sovietici a fondersi in uno stato confederale: una sorta di Unione Statale di Russia e Bielorussia da realizzarsi attraverso l’integrazione dei sistemi legislativi, valutari e giuridici. In un clima di speculazioni sul fatto che Putin stia puntando all’unione per diventare il capo del nuovo stato unitario dopo la scadenza del suo attuale mandato presidenziale prevista per il 2024, Lukašenko, che inizialmente aveva accolto con favore il trattato vedendoci la possibilità per i due paesi di rafforzare la loro posizione nei confronti dell’Occidente, si è in seguito dimostrato renitente a cedere l’autorità al suo vicino, accendendo così un confronto geopolitico con Mosca.

Se da un lato gli osservatori bielorussi si aspettano che l’integrazione economica perduri, essendo la Russia il più importante partner commerciale del paese, dall’altro lato rimangono scettici in merito alle prospettive di una vera e propria unione politica, che significherebbe l’erosione dell’indipendenza post-sovietica e, come riportato da Aleksandr Feduta (ex consigliere di Lukashenko) al Financial Time, una perdita di potere del presidente.

Alla ricerca di un accordo

Lo scorso dicembre Putin e Lukašenko hanno tenuto due round di colloqui in merito al consolidamento dei legami economici. Nonostante le divergenze sul processo di integrazione siano state superate, il ministro dello sviluppo economico russo ha dichiarato che i negoziati non hanno tuttavia portato ad alcun accordo sul petrolio. Uno stallo negoziale a cui Mosca ha riposto interrompendo i rifornimenti di petrolio. La sospensione delle forniture energetiche non ha influito sui flussi diretti ai paesi europei (di fatto solo il 10% del greggio russo verso l’Europa transita per la Bielorussia), ma ha avuto conseguenze importanti per Minsk, che si affida a Mosca per oltre l’80% del suo fabbisogno energetico complessivo e per metà dei suoi volumi commerciali.

Dopo una sospensione di cinque giorni, all’inizio di questo mese le due parti hanno raggiunto un compromesso per scorte limitate di petrolio e la Bielorussia ha quindi ricominciato la lavorazione del greggio proveniente dai giacimenti russi.

L’operatore russo Transneft, gestore del gasdotto dell’Amicizia (Družba), ha confermato il trasferimento di 133.000 tonnellate di petrolio in Bielorussia. Nondimeno, Belneftechim, compagnia petrolifera bielorussa, sostiene che il primo lotto di petrolio greggio proveniente dalla Russia sarà sufficiente per garantire un funzionamento non-stop delle raffinerie del paese solo per il mese di gennaio. Motivo che ha spinto Belneftechim a fare affidamento su fonti di sostentamento alternative come il giacimento norvegese di Johan Sverdrup, da cui il 22 gennaio è previsto l’arrivo di 88.000 tonnellate di petrolio.

Stando alle dichiarazioni di Anatolij Golomolzin, vicedirettore del Servizio federale antimonopolio della Federazione Russa (FAS) all’agenzia stampa Ria Novosti, le decisioni finali sulle tariffe di transito e il ripristino delle importazioni regolari verranno prese entro la fine di questo mese. Ad oggi, tuttavia, non è ancora stato raggiunto un accordo.

Divorzio diplomatico o Unione Statale?

La perpetrata disputa tra Russia e Bielorussia sembra stia portando i due paesi verso un divorzio, o almeno verso una grave contrazione della loro alleanza. Se da un lato Mosca pare essersi stancata del vecchio sistema, dall’altro le sue proposte di cambiamento non riescono a soddisfare gli interessi di Lukašenko, il quale potrebbe trovarsi costretto ad adattarsi a una futura vita senza il partner di lunga data. In tal caso, gli shock economici derivanti da un’improvvisa rottura col Cremlino sarebbero insostenibili per il leader bielorusso. Fino a che punto Minsk si impegnerà a rallentare il processo e a salvaguardarsi da eventuali rischi senza rinunciare alla sua sovranità rimane incerto.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #364 il: Gennaio 29, 2020, 00:00:02 am »
https://www.eastjournal.net/archives/102307

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RUSSIA: Le riforme costituzionali di Putin non piacciono a tutti
Martina Napolitano 24 ore ago

Il pacchetto di riforme costituzionali annunciate dal presidente Vladimir Putin il 15 gennaio è stato approvato in prima lettura senza voti contrari alla Duma il 23 gennaio. L’11 febbraio è previsto il voto in seconda lettura. Questi i punti in cui si articola il pacchetto e sul quale probabilmente saranno chiamati a esprimersi i cittadini russi con un voto referendario:

Limitazione della preminenza del diritto internazionale su quello interno russo
Modifica della procedura di nomina del governo. Passa dal Presidente alla Duma il diritto di nominare ministri, premier e vice-premier
Modifica della procedura di nomina dei siloviki (i capi dei cosiddetti ministeri “forti” e dei servizi federali, delle forze armate e di sicurezza). Il Presidente li potrà nominare dopo essersi confrontato con il Consiglio federale (la camera alta)
Modifica del divieto di ricoprire la carica di Presidente oltre i due mandati consecutivi
Innalzamento dell’obbligo di residenza sul territorio della Federazione russa da 10 a 25 anni per chi ricopre la carica di Presidente
Divieto di cittadinanza straniera e permesso di soggiorno all’estero per giudici, capi dei soggetti federali, deputati, senatori, premier e ministri. Il Presidente non potrà aver avuto cittadinanza straniera, né permesso di soggiorno all’estero nemmeno in tempi precedenti alla sua nomina
Trasformazione del Consiglio di Stato da organo consultivo a organo costituzionale
Introduzione del diritto per il Consiglio federale di concerto con il Presidente di rimuovere dalla loro funzione i membri della Corte costituzionale e della Corte suprema
Introduzione del diritto per la Corte costituzionale, su volontà del Presidente, di verificare la costituzionalità delle leggi federali prima della firma del Presidente
Introduzione nel testo della Costituzione della perequazione delle pensioni e di una norma sul salario minimo
Benchè tutti i gruppi parlamentari presenti alla camera bassa del Parlamento si siano espressi a favore di queste modifiche alla Legge fondamentale dello stato russo, più voci critiche si sono alzate in seno alla società civile nelle ultime settimane – politici di opposizione, attivisti, giornalisti, politologi. Novaja gazeta ha pubblicato il 23 gennaio una lettera aperta/manifesto, già sottoscritto da oltre 14.000 persone, in cui gli autori criticano aspramente il pacchetto, sottolineandone i limiti e definendolo un vero e proprio “golpe costituzionale”, e invitano i cittadini a non sostenerlo. Ne riportiamo di seguito il testo tradotto (qui l’originale).

Manifesto dei cittadini russi contro il golpe costituzionale e l’usurpazione di potere

Oggi, noi cittadini della Federazione russa affermiamo che nel paese sotto i nostri occhi è in corso un golpe costituzionale, il cui obiettivo, siamo convinti, è per Vladimir Putin e per il suo regime corrotto quello di rimanere al potere a vita.

A questo fine è pensata l’attuale riscrittura speciale e illegale della Costituzione, annunciata da Putin il 15 gennaio come fosse una decisione già presa. Un annuncio che in appena 17 minuti ha sancito il destino della Russia. Le modifiche sono state preparate in cinque giorni.

Molti di noi hanno motivo di criticare l’attuale Costituzione. Tuttavia, modifiche al testo della Legge fondamentale dettate da interessi politici del momento vanno a demolire l’ultimo istituto chiamato a difendere la Russia da una totale usurpazione di potere. Uno stato stabile, democratico e sviluppato si basa su un principio del tutto opposto: la Costituzione va modificata in rari casi e dopo attenta disamina, mentre è l’entourage politico a cambiare con regolarità.

Oggi assistiamo a un attentato ai principi fondamentali dell’ordinamento statale, ai diritti costituzionali dei cittadini russi. E sebbene gli articoli della Costituzione dove sono sanciti tali principi e diritti non paiono interessati dalle modifiche annunciate, esse non soltanto li interessano, ma li contraddicono. Gli autori cancellano la priorità degli obblighi internazionali della Russia, eliminano l’autonomia della giurisdizione locale, limitano la suddivisione dei poteri, in primo luogo l’autonomia dei giudici, rinforzando all’interno della Legge fondamentale una pratica anticostituzionale di potere. Inoltre, sanciscono la nascita di un nuovo organo amministrativo statale non soggetto al controllo dei cittadini: il Consiglio di Stato.

È importante sottolineare che nel testo della Legge fondamentale vengono inserite intenzionalmente delle contraddizioni che conducono al caos legislativo e calpestano le basi dell’ordinamento statale. Inoltre, un tale cambiamento arbitrario, voluto in tutta fretta e furia, priva la Costituzione della sua caratteristica fondante: l’inalterabilità. Ciò solleva gli ostacoli per ulteriori modifiche dettate in base alla congiuntura politica del momento.

Noi riteniamo che, sotto forma di modifiche, ci sia presentato un golpe costituzionale. Proprio per questo motivo la modifica costituzionale avviene in tal fretta, su spinta di manipolazioni retoriche e giuridiche, senza una reale discussione con la società civile. Al posto di un’Assemblea costituente ci viene presentato un gruppo di lavoro similare formato da non specialisti. Al posto di un referendum ci propongono una “votazione federale” illegittima. Il fatto che si voti “a pacchetto” evidenzia che gli autori del golpe sono consapevoli che non tutte le modifiche da loro proposte piaceranno ai cittadini.

I cittadini si renderanno conto che la modifica illegittima della Costituzione andrà a peggiorare in maniera inevitabile e radicale la vita non solo della società presa come un tutto, ma anche quella del singolo, anche quella di chi si sente totalmente estraneo alla politica.

Alla società sono necessari:

– un reale avvicendamento politico, e non una redistribuzione apparente di poteri che garantisce il governo a vita di un unico individuo;

– il potere di influenzare le decisioni governative, e non di assistere soltanto a procedure poco trasparenti e incomprensibili;

– leggi non contraddittorie e uguali per tutti, che difendano i diritti dell’uomo e che aiutino ognuno a realizzarsi in accordo alle proprie possibilità, e non modifiche che vadano a limitare questi diritti e possibilità.

Proprio per questo noi, cittadini russi che sottoscriviamo questo manifesto, invitiamo tutti coloro che non sono pronti ad accettare l’usurpazione di potere da parte di Vladimir Putin, a unirsi alla nostra dichiarazione e a partecipare alla campagna sociale.

A nostro modo di vedere la procedura di votazione che viene prevista per queste modifiche costituzionali non è aperta e onesta. E il silenzio varrà come assenso. Se verremo chiamati a una tale votazione invitiamo tutti a dire NO a questo golpe costituzionale e all’usurpazione di potere.

Alla Russia servono reali cambiamenti, non la distruzione della statualità.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #365 il: Febbraio 01, 2020, 11:53:09 am »
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Diritti umani in Russia, Ucraina e Bielorussia: questi sconosciuti
Claudia Bettiol 1 giorno ago

L’organizzazione internazionale non governativa Human Rights Watch (HRW) ha recentemente pubblicato il suo rapporto annuale sulle violazioni dei diritti umani in quasi 100 paesi del mondo. Tra questi figurano anche Bielorussia, Russia e Ucraina, regioni alle porte d’Europa di cui ci occupiamo e dove i diritti umani rimangono ancora ben lontani dall’essere tutelati e difesi. Eppure, anche di fronte alle politiche repressive e agli scarsi risultati ottenuti, sono cresciuti attivismo e proteste, un coro di voci che si batte per chiedere giustizia e uguaglianza.

Bielorussia: tra pena di morte, repressioni e discriminazioni

Il capitolo dedicato alla Bielorussia di HRW si apre con la pena di morte. La patria di Aljaksandr Lukašenka è l’unico paese europeo a non aver ancora abolito questa pratica, nonostante le autorità bielorusse e il Consiglio d’Europa abbiano annunciato lo scorso agosto l’intenzione di sviluppare una tabella di marcia verso una moratoria sulla pena capitale. Tre sono le condanne a morte che sono state registrate nel 2019, a cui se ne è aggiunta una quarta lo scorso 10 gennaio con l’esecuzione dei due fratelli Ilja e Stanislav Kostev. Il verdetto, come sottolineano gli attivisti per i diritti umani, viene eseguito da un boia con un colpo alla nuca del condannato; la famiglia non viene informata né del luogo dell’esecuzione, né di quello di sepoltura.

HRW parla anche della mancata libertà di espressione, di informazione e di manifestazione nel paese, citando i ricorrenti attacchi ai giornalisti e le numerose discriminazioni nei confronti della popolazione rom e dei disabili. Il rapporto non fa alcun riferimento a repressioni specifiche nei riguardi della comunità LGBT, ma un recente articolo sul sito dell’organizzazione riporta il brutale attacco omofobico nei confronti del regista Nikolaj Kuprič (che ha prodotto un film su pregiudizi e discriminazioni nei confronti delle persone LGBT dal titolo “Pussy Boys”), che gli ha provocato gravi perdite di memoria.

I diritti umani in Russia: cambiamenti insperati

La situazione dei diritti umani in Russia continua a mantenersi negativa e la lunghezza del capitolo dedicato da HRW lo dimostra. L’aumento dell’attivismo civile e delle proteste ha solo provocato l’ennesima ondata di repressioni, divieti e un inasprimento delle leggi e dei relativi procedimenti amministrativi e penali per motivi politici. L’esempio più recente è quello delle proteste di massa di Mosca della scorsa estate per le “elezioni pulite” alla Duma della città di Mosca. Ma il mancato rispetto dei diritti umani si spinge oltre la sfera prettamente politica e abbraccia anche la vita sociale: dall’ambiente alla vita domestica, dalla libertà di parola alle più diffuse discriminazioni xenofobe e omofobiche.

Le autorità russe hanno continuato a introdurre nuove restrizioni alla libertà di parola, anche online, adottando una legge sul controllo di Internet e una sugli “agenti stranieri“. Anche le persecuzioni religiose dei testimoni di Geova e l’oppressione ai tatari di Crimea (con più di 63 sentenze per atti terroristici) continuano senza sosta nelle repubbliche federali russe e nell’annessa penisola di Crimea.

L’unico raggio di luce nella questione dei diritti umani sembra esser stato rappresentato dai due scambi di prigionieri tra Russia e Ucraina avvenuti rispettivamente a settembre e dicembre 2019. Ma ciò non ha portato, comunque, alla fine del conflitto armato nell’est dell’Ucraina, né a un miglioramento delle condizioni dei rimanenti prigionieri politici rinchiusi nelle carceri russe.

Il focolaio ucraino

Sebbene ci sia stata una diminuzione delle vittime civili, la guerra in corso da 6 anni nei territori a est del paese rappresenta un rischio continuo per la popolazione civile. Un problema sottovalutato e che si aggiunge oggi a violenze e violazioni dei diritti di altra natura.

I media indipendenti continuano a subire pressioni. Da gennaio a luglio 2019 l’Istituto dei mass media (Institut Masovoi informacii) ha documentato almeno 12 casi di attacchi a giornalisti, di cui uno fatale; ha inoltre registrato decine di casi di minacce che ostacolano le attività professionali dei giornalisti. Intimidazioni e casi di violenza si sono verificati anche nei confronti del clero e dei credenti, soprattutto in seguito alla scissione delle due chiese ortodosse ucraine.

Le repressioni persistono anche nei confronti delle minoranze. La violenza e la discriminazione basate sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, sull’appartenenza etnica, linguistica e religiosa, sono tematiche che hanno attirato l’attenzione di moltissime associazioni e organizzazioni locali e internazionali, tra cui OSCE e ONU.

Diritti umani: parlarne per poterli tutelare

Questo trentesimo rapporto mondiale annuale di Human Rights Watch riflette il vasto lavoro investigativo che l’organizzazione indipendente, nata nel 1978, ha condotto durante l’anno in stretta collaborazione con attivisti locali e internazionali al fine di poter riassume le condizioni dei diritti umani nei diversi paesi. Rappresenta solo uno dei tanti modi che ci fanno aprire gli occhi nei confronti dei nostri vicini e capire quanto ancora c’è da lottare per i nostri diritti di base.

Le violazioni della libertà di parola e di movimento, le discriminazioni e i pregiudizi, le misure di sicurezza antiterrorismo e la pena di morte in Bielorussia, ai confini d’Europa, ci rivelano la faglia esistente tra la retorica dei diritti umani e la difficile realtà della loro applicazione.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #366 il: Febbraio 02, 2020, 17:38:46 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-le-elezioni-si-avvicinano-cresce-la-pressione-sui-media-199409

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Serbia: le elezioni si avvicinano, cresce la pressione sui media

La compagnia Telekom, di cui lo stato è proprietario di maggioranza, ha tolto dalla sua offerta via cavo TV N1, l’unica rete televisiva rivolta al grande pubblico che presenta anche posizioni critiche rispetto all'attuale maggioranza

31/01/2020 -  Dragan Janjić
La leadership al potere in Serbia, guidata dal presidente Aleksandar Vučić, esercita una pressione sempre maggiore sulle forze di opposizione che hanno annunciato di voler boicottare le prossime elezioni politiche e sui media che non sono controllati dalla coalizione di governo; Washington e Bruxelles sono fermamente contrarie all’idea del boicottaggio e hanno più volte invitato l’opposizione a rinunciare all’intenzione di non presentarsi alle prossime elezioni; le relazioni tra Serbia e Montenegro hanno toccato il punto più basso degli ultimi anni; l’opposizione serba continua a ripetere che in Serbia mancano le condizioni necessarie per lo svolgimento di elezioni eque e democratiche e non sembra disposta a riconsiderare la propria decisione di boicottare le prossime elezioni.

Così potrebbe essere descritta l’attuale situazione in Serbia, dove tra pochi mesi, probabilmente ad aprile, dovrebbero tenersi le prossime elezioni politiche.

L’opposizione serba ha ragione quando sostiene che fino ad oggi il governo non ha fatto praticamente nulla per garantire le condizioni per lo svolgimento di elezioni democratiche e che ormai non c’è più tempo per intraprendere alcuna seria azione in tale direzione, visto che mancano solo tre mesi al voto. Il problema principale, per quanto riguarda le elezioni, resta comunque quello di garantire la libertà di espressione e la parità di accesso ai mezzi di informazione durante la campagna elettorale.

Il governo a breve dovrebbe adottare una nuova strategia per i media, annunciata da quasi un anno, e probabilmente cercherà di presentare l’approvazione di questo documento come un’importante concessione nei confronti dell’opposizione. Tuttavia, un’eventuale decisione di approvare la nuova strategia per i media non può portare ad alcun cambiamento immediato, perché non si tratta di una legge bensì di un atto sulla base del quale verranno elaborate nuove leggi, che poi dovranno essere implementate.

Inoltre, la leadership al potere ha intrapreso una serie di azioni allo scopo di limitare ulteriormente la già scarsa possibilità dell'opposizione di raggiungere ampie fasce della popolazione. La società di telecomunicazioni Telekom Srbija – di cui lo stato è proprietario di maggioranza – ha recentemente eliminato dalla sua offerta di canali via cavo l‘emittente televisiva N1, che è praticamente l’unica grande emittente che dà spazio alle opinioni degli esponenti dell’opposizione e di altri oppositori del governo. Telekom ha motivato la sua decisione citando ragioni economiche e presunte incomprensioni con la società United Group, proprietaria dell’emittente N1, ma United Group ha smentito che ci siano state delle incomprensioni. Resta comunque il fatto che alla vigilia dell’avvio della campagna elettorale si cerca di limitare fortemente – strumentalizzando un’azienda pubblica – la visibilità di un importante mezzo di informazione, uno dei pochi non allineati al regime.

La direzione di N1 sostiene che, a causa della decisione di Telekom Srbija di rimuovere dalla sua offerta l’emittente N1, molte famiglie in Serbia sono state private del diritto a ricevere un’informazione obiettiva e che, per volere del partito di governo, in questo momento circa un milione di cittadini serbi abbonati ai provider di servizi via cavo gestiti da Telekom non hanno la possibilità di seguire il canale N1. Inoltre, il portale web dell’emittente N1, che rappresenta un’importante fonte di informazione indipendente, ormai da qualche giorno è bersaglio di ripetuti attacchi DDos ed è stato più volte oscurato.

Che l’intera vicenda abbia connotazioni politiche lo ha confermato implicitamente anche la premier serba Ana Brnabić, affermando che N1 si comporta come se fosse “un partito politico”, lasciando così intendere che al governo non piace il modo in cui l’emittente N1 fa informazione, e per questo sta cercando di metterla a tacere.

Kosovo
La questione del Kosovo attualmente non è al centro dell’attenzione pubblica in Serbia per il semplice fatto che non è ancora chiaro come evolverà la situazione, ovvero se e quando sarà formato un nuovo governo, oppure se dovranno essere indette nuove elezioni. La crisi kosovara – benché al momento meno presente nel dibattito politico (una situazione che giova alla coalizione di governo perché le permetterà di focalizzare la sua campagna elettorale su altri temi) – resta il fulcro della maggior parte dei problemi con cui si confronta la Serbia.

Appena sarà formato un nuovo governo kosovaro, Belgrado dovrà impegnarsi per accelerare i negoziati sulla normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo, e questo implicherà anche la necessità di fare certe concessioni nei confronti di Pristina. Ed è per questo che l’attuale leadership serba auspica che la formazione del nuovo governo kosovaro venga rinviata ancora di qualche mese, cioè fino alle elezioni politiche in Serbia.

La maggior parte degli analisti di Belgrado ritiene che le aspettative di una normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo, nutrite dalla comunità internazionale, siano il principale motivo per cui Vučić e la coalizione di governo godono ancora del sostegno dell’Occidente. A dire il vero, il governo serbo è stato spesso criticato dalla comunità internazionale per il deterioramento dello stato di diritto e per le pressioni esercitate sui media, ma le potenze occidentali non hanno mai posto alcun preciso ultimatum alla leadership di Belgrado e continuano a dirsi contrarie all’idea del boicottaggio delle prossime elezioni parlamentari da parte dell’opposizione serba.

L’ambasciatore statunitense a Belgrado Anthony Godfrey ha recentemente dichiarato che gli Stati uniti sono “preoccupati per il clima in cui si svolgeranno le elezioni in Serbia” e che l’attuale governo serbo, se vuole essere considerato un governo legittimo, deve garantire elezioni eque. L’ambasciatore Godfrey si è rivolto anche all’opposizione serba affermando: “A mio avviso, il boicottaggio delle elezioni priverebbe molti elettori della possibilità di far sentire la propria voce. Penso che ciò non sia giusto né produttivo”.

Questa affermazione dimostra che Washington (e sicuramente anche Bruxelles) ci tiene molto affinché il prossimo governo serbo sia non solo legale ma anche legittimo e che sia in grado di prendere decisioni importanti e serie e, al contempo, di attenuare eventuali tensioni che tali decisioni potrebbero innescare sulla scena politica serba. L’opposizione serba si sente schiacciata tra le richieste delle potenze occidentali e l’impossibilità di partecipare alle elezioni alle condizioni attuali, che ritiene completamente inaccettabili e inique, motivo per cui continua ad insistere sulla necessità di boicottarle.

Opposizione
Nelle loro reazioni alla netta presa di posizione dell’ambasciatore statunitense rispetto all’idea del boicottaggio, gli esponenti dell’Alleanza per la Serbia (SZS, la più grande coalizione dei partiti di opposizione in Serbia) hanno assunto atteggiamenti variegati, che vanno da una parziale comprensione a una rabbia esplicita. Nebojša Zelenović, leader del partito Insieme per la Serbia (ZZS) e sindaco di Šabac, ha interpretato la presa di posizione dell'ambasciatore statunitense come un segnale di preoccupazione perché nel caso in cui l’opposizione dovesse boicottare le prossime elezioni, il nuovo governo e il nuovo parlamento serbo non sarebbero in qualche modo legittimati a prendere decisioni di peso. “Capiamo completamente la dichiarazione del signor ambasciatore, capiamo anche la sua preoccupazione”, ha dichiarato Zelenović.

Dragan Đilas, leader del Partito della libertà e giustizia (SSP), ha reagito in modo molto più duro, affermando che a Godfrey “non importa” nulla del fatto che in Serbia le persone vengano picchiate e cacciate dal loro posto di lavoro e che i giornalisti vengano perseguitati. “L’importante è che colui che gode del vostro sostegno riconosca l’indipendenza del Kosovo e che concluda con le aziende provenienti dal vostro paese affari per svariati miliardi di euro senza alcuna gara d’appalto. Ed è per questo che tollerate tutto quello che fa, lo state lodando e ammirando, mentre centinaia di migliaia di persone se ne vanno dal paese”, ha scritto Đilas in una lettera aperta indirizzata all’ambasciatore Godfrey. A spingere Đilas a scrivere questa lettera è stata la decisione dell’ambasciatore Godfrey di partecipare a una trasmissione alla tv Pink che ormai da anni sta conducendo una dura campagna denigratoria contro l’opposizione.

La lettera di Đilas lascia intendere che una parte dell’opposizione serba vorrebbe che Bruxelles e Washington – a causa delle costanti violazioni dei principi democratici, il progressivo smantellamento dello stato di diritto e le limitazioni imposte alla libertà di espressione da parte del regime di Vučić – mettessero da parte la questione del Kosovo, la cui indipendenza è stata riconosciuta dalla maggior parte dei paesi occidentali. Questo, ovviamente, non accadrà e non può accadere e proprio la sopracitata frase della lettera di Đilas rivela uno dei principali motivi per cui l’opposizione serba non gode di grande sostegno da parte dell’Occidente. Perché se le potenze occidentali hanno già ricevuto da Vučić una promessa in merito alla soluzione della questione del Kosovo – una soluzione che sia in linea con gli interessi e con la politica dell’Occidente – , allora non hanno alcun motivo di appoggiare l’opposizione serba, che non ha mai assunto un chiaro atteggiamento nei confronti della questione del Kosovo.

L’opposizione serba capisce perfettamente che per l’elettorato serbo quella del Kosovo è ancora una questione molto delicata e sta cercando di sfruttare tale situazione per indebolire la posizione di Vučić, che si trova costretto a rispondere alle richieste di ulteriori concessioni nei confronti di Pristina. Tale strategia dell’opposizione potrebbe rivelarsi utile a breve termine, ma è difficilmente compatibile con una prospettiva più ampia, ovvero con i rapporti di forza nella regione e con gli interessi dei principali attori internazionali. L’opposizione serba è sicuramente consapevole del fatto che difficilmente potrà incidere sulla risoluzione della questione del Kosovo, ma non sembra disposta di ammetterlo pubblicamente né di definire una piattaforma comune allo scopo di avvicinare la propria posizione a quella di Bruxelles e Washington.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #367 il: Febbraio 02, 2020, 18:46:28 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Bosnia-Erzegovina-curarsi-missione-impossibile-176359

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Bosnia Erzegovina: curarsi, missione impossibile

Non è un segreto, in Bosnia servono regali o bisogna conoscere qualcuno per ricevere cure adeguate. E a volte non basta. Reportage nei meandri di un sistema sanitario al collasso

28/12/2016 -  Mersiha Nezić
(Pubblicato originariamente da Courrier des Balkans il 14 dicembre 2016)


“Se non avessi dato del contante a medici e infermiere, non avrebbero neppure dato uno sguardo a mio padre quando era in ospedale”, afferma desolata Edina. Quest'insegnate di quarant'anni è categorica: per ricevere cure occorre distribuire bustarelle, pratica ereditata dal periodo comunista. “Tutte le volte che ho avuto a che fare con medici ho dovuto far loro dei regali, portare del cioccolato o bottiglie di liquore”, conferma, seduto ad un caffé Emir, pensionato di Sarajevo.

Secondo la classifica redatta da Transparency International  , la Bosnia Erzegovina ha uno dei tassi di corruzione più elevati d'Europa e la sanità è uno dei settori più colpiti da questo flagello. “I pazienti sono talmente abituati alle bustarelle quando vanno dal medico o in ospedale, che si presentano spontaneamente dal personale curante con soldi o regali”, s'indigna Ivana Korajlić, responsabile dell'organizzazione internazionale a Banja Luka.

I medici bosniaci - dal canto loro sono - molto sensibili a queste “offerte”, dato che guadagnano tra i 550 e i 750 euro al mese. Salari bassi che provocano, da dopo la guerra, la fuga dal paese dei professionisti del settore medico. Nel 2015 360 medici generici hanno abbandonato la sola Federazione di Bosnia Erzegovina (una delle due entità che costituiscono il paese, ndr).


Ma tutti i bosniaci sanno ormai bene che le mance non bastano più a farsi curare dignitosamente. “Sono riuscito a farmi operare rapidamente perché avevo i contatti giusti”, racconta Emir. Avere una “talpa” diviene necessario per ottenere un appuntamento con uno specialista in tempi ragionevoli. Esma, ingegnere di Sarajevo di 36 anni, ne ha fatto amara esperienza: è solo grazie a buoni contatti che ha ottenuto il ricovero in ospedale di sua madre. All'inizio le era stato risposto. “Perché ricoverarla? E' vecchia e noi abbiamo bisogno di letti”.

Odissee nel sistema sanitario
Anche Esma è stata vittima delle carenze del sistema sanitario bosniaco, piombato nella paralisi amministrativa. Qualche anno fa una violenta emicrania la colpì. Prima tappa: l'ambulatorio, passaggio obbligato per tutti i bosniaci, altra eredità della Jugoslavia socialista. Lì per prima cosa dovette convincere un'infermiera a fare in modo che un medico la visitasse, dalla diagnosi di quest'ultimo però non emerse nulla di grave. Esma rimase però preoccupata e insistette sino ad ottenere una visita specialistica. Esami, radiografie, analisi del sangue durarono settimane. Infine le venne diagnosticato un aneurisma celebrale. Ma alla ragazza venne detto che il suo caso non aveva priorità e che avrebbe dovuto pazientare sei mesi prima di poter essere operata. Esma decise allora di andare all'estero. Lo specialista sloveno che la visitò la fece operare d'urgenza. “Mi spiegò che se avessi aspettato qualche giorno in più sarei morta”, racconta.

Dopo aver raccolto 10mila euro per l'operazione e a sole 48 ore da quest'ultima, la giovane donna ha dovuto affrontare un'ulteriore difficoltà: l'impossibilità di effettuare un bonifico su un conto estero senza un'autorizzazione del ministero delle Finanze bosniaco. “Si possono fare bonifici per un massimo di 2500 euro, ho dovuto coinvolgere amici, cugini, vicini di casa... e ho impiegato un anno per riprendermi da questa vicenda”.

Esma, funzionaria di alto livello di un'organizzazione internazionale, fa parte di una classe privilegiata. Guadagna molto più del salario medio bosniaco, che si aggira poco sopra i 300 euro al mese, in una paese dove metà della popolazione è senza lavoro. Secondo un recente studio, un terzo dei bosniaci vive al di sotto della soglia di assoluta povertà. E chi si ammala si ritrova all'inferno. “Se vostro figlio viene ricoverato, dovete portarvi tutto da casa, dalla carta igienica ai medicinali, passando per i condimenti per il cibo. Nei nostri ospedali non c'è nulla. Nemmeno dei fazzoletti”, s'indigna Nina. Proprietaria di un bar “che funziona bene”, questa trentenne aiuta altre persone che non hanno risorse per ottenere delle cure. Gestisce una pagina su Facebook, “Pretty Women”, alla quale sono iscritte migliaia di donne bosniache che si sono coalizzate per venire in aiuto a propri familiari per sostenere le spese ospedaliere o per acquistare dei medicinali. “Attualmente stiamo aiutando la madre di un bambino che soffre di epilessia. Il trattamento costa 150 euro al mese, somma che lei non può avere guadagnando 250 euro come cassiera di un supermercato”.

Sui social media le richieste di aiuto pullulano. I bosniaci si vengono in aiuto anche per permettere a pazienti colpiti da patologie gravi, come ad esempio alcuni tumori che non possono essere curati nel paese, di farsi curare all'estero. Austria, Germania e Turchia sono le destinazioni più frequenti. “La sicurezza sociale rimborsa molto poco, solitamente meno di un quarto di operazioni assai complesse”, sottolinea Nina.

La media delle pensioni è di soli 170 euro e quindi gli anziani hanno grandi difficoltà nel procurarsi i medicinali di cui hanno bisogno. Hatidja, 75 anni, dipende ad esempio dall'aiuto di sua figlia, emigrata in Austria. “Mi invia 50 euro ogni mese. Compero i medicinali in una farmacia di Istočno Sarajevo, nell'entità serba: è un po' meno cara”.

"Oltre ogni immaginazione"
I prezzi dei medicinali in effetti non sono gli stessi nelle due entità che costituiscono la Bosnia Erzegovina. Ciascuna ha un proprio ministero della Salute e a loro volta i dieci cantoni di cui è costituita una di queste entità, la Federazione, hanno a loro volta propri ministeri della Salute. Esiste un elenco federale dei farmaci che dovrebbero essere rimborsati, ma non tutti i cantoni hanno budget a sufficienza per rispettarla. Gli abitanti di Sarajevo sono quelli più fortunati, perché si tratta del cantone più ricco della Federazione. “I miei genitori abitano a Livno, devono pagare di tasca propria medicinali che invece a Sarajevo sono gratuiti”, spiega Fatima Insanić-Jusufović, una farmacista di Sarajevo. “Solo un terzo dei farmaci che a Sarajevo sono gratuiti lo sono anche a Livno”.

Qualsiasi sia il cantone o l'entità, i bosniaci devono in ogni caso pagare i medicinali di più di quanto non avvenga nei paesi vicini. I prezzi dovrebbero abbassarsi almeno di un 10%, secondo quanto sta cercando di ottenere la Banca Mondiale condizionando un proprio prestito all'armonizzazione dei prezzi con quelli del resto della regione.

Altra assurdità: i bosniaci che desiderano o devono farsi curare in un cantone o entità diverso da quello di residenza devono espletare un lungo iter burocratico. “All'epoca della Jugoslavia può darsi si offrissero regali ai medici, ma se si voleva si poteva anche ottenere cure gratuite e dove si desiderava, dalla Slovenia alla Macedonia, con libretto sanitario rosso” sospira Hatidja. “Il sistema attuale è oltre ogni immaginazione”.
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Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #368 il: Febbraio 02, 2020, 20:09:18 pm »
Però in Croazia si è sviluppato un turismo medico low cost
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

Offline Duca

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #369 il: Febbraio 04, 2020, 00:23:16 am »
Anche in Slovenia, ma ricordo già dai tempi della Jugo.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #370 il: Febbraio 08, 2020, 18:45:04 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/102437

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Una città bulgara è senz’acqua da tre mesi
Raffaele Mastrorocco 1 giorno ago

Il festival Surva è una famosissima ricorrenza che si tiene tutti gli anni a fine gennaio a Pernik, in Bulgaria, e che vede maschere del folklore bulgaro risalenti ai tempi pagani sfilare per le vie della cittadina. Di portata internazionale con visitatori da tutto il mondo, quest’anno il festival si sarebbe dovuto tenere tra il 24 e il 26 gennaio ma è stato cancellato a causa di una grave crisi idrica che ha colpito Pernik e i paesi vicini. Sono ormai tre mesi che i cittadini di Pernik sono sottoposti a restrizioni per l’utilizzo dell’acqua e la scarsità dell’approvvigionamento idrico nella zona ha costretto le autorità locali a cancellare, per la prima volta da quando fu istituito nel 1966, l’edizione annuale del festival.

Gravi pericoli per la salute, arrestato il Ministro dell’ambiente

A partire dal 18 novembre scorso, le autorità locali di Pernik hanno ridotto l’uso dell’acqua prima a 10 ore al giorno e poi a 8, per un periodo previsto inizialmente di 5 mesi e che interessa più 100.000 persone. La decisione è stata presa a causa del livello criticamente basso delle fonti idriche presente nella diga Studena, di proprietà statale e che quotidianamente rifornisce tutta l’area. A inizio gennaio il ministro della salute bulgaro ha visitato la città e analizzato a fondo il problema valutando che la mancanza d’acqua nella zona avrebbe potuto comportare gravi rischi per la salute dei cittadini e causare la diffusione di malattie. Da lì, l’annullamento del festival Surva ma anche l’arresto del ministro dell’ambiente e dell’acqua bulgaro, Nino Dimov. Inizialmente fermato per 24 ore, poi per 72 ma tuttora in arresto, Dimov è accusato di cattiva amministrazione delle risorse idriche cittadine e di aver violato deliberatamente le leggi sulla gestione dei rifiuti e sulla protezione ambientale. Secondo l’accusa, Dimov avrebbe permesso alle industrie della zona di utilizzare le scorte d’acqua del bacino di Studena, unica fonte d’approvvigionamento d’acqua di Pernik, nonostante fosse a conoscenza del suo stato critico. Per più di un anno e mezzo dall’inizio del 2018, il ministro veniva informato mensilmente dal capo della compagnia di fonti idriche e fognature sullo stato della diga, permettendo però l’utilizzo dell’acqua a scopi industriali. Ogni mese autorizzava la Stomana industry, acciaieria di notevoli dimensioni nei pressi di Pernik, e la compagnia distrettuale per il riscaldamento ad accedere alle risorse idriche della diga, in alcune mensilità addirittura in quantità maggiori del necessario.

L’ormai ex ministro si è dimesso il 10 gennaio, qualche giorno dopo l’arresto, e ora rischia tra i due e gli otto anni di carcere. Le indagini hanno coinvolto anche Irina Sokolova, già governatrice distrettuale a Pernik e affiliata al partito GERB del primo ministro bulgaro Boyko Borisov, Ivan Vitanov, l’ex direttore della compagnia che gestisce le fonti idriche e fognature della città, e Vera Tserovksa, ex sindaca di Pernik anche lei del partito di Borisov. Nonostante ciò, quest’ultimi sono stati coinvolti solamente come testimoni al momento e a loro carico non sarebbero presenti alcune accuse.

Da Sofia arriva una soluzione temporanea

Il 15 gennaio l’Assemblea Nazionale bulgara ha accettato le dimissioni di Neno Dimov e eletto il nuovo ministro dell’ambiente e dell’acqua, Emil Dimitrov, nomina che segna la nona modifica della composizione del gabinetto di Borisov dalle elezioni del 2017. Conosciuto per esser stato a capo dell’agenzia delle dogane bulgara tra il 2001 e il 2005 durante il governo di Simeon Sakskoburggotski, Dimitrov non ha alcuna esperienza in materia di protezione ambientale. Per questo è stato fortemente criticato dai partiti di opposizione ma è riuscito ugualmente a ottenere la nomina e il sostegno del governo; attualmente è membro della coalizione  di estrema destra Patrioti Uniti, dal quale proveniva anche Dimov, che insieme a GERB governa il paese.

Nel frattempo, la crisi idrica sembrerebbe aver trovato una soluzione, almeno momentanea. Pernik tornerà presto ad essere rifornita d’acqua proveniente però dalla diga Belmeken, la cui acqua passerà attraverso la diga Beli Iskar per poi attraversare la rete idrica di Sofia e che infine porterà a Pernik 700.000 litri al mese. La decisione presa alla riunione del Consiglio dei ministri tenutasi il 18 gennaio non intaccherà in alcun modo gli abitanti della capitale, come ha affermato la sindaca di Sofia Yordanka Fandŭkova, ed è la scelta più conveniente in quanto dista solamente circa 30 km da Pernik. In ogni caso, l’acqua proveniente da Belmeken arriverà alle case di Pernik solamente per due mesi, periodo stimato per permettere a Studena di riempirsi di nuovo a sufficienza. Il collegamento della rete idrica tra le due città si stima che impiegherà tra i 35 e i 45 giorni per essere costruito, ma nel frattempo la Studena si stima che toccherà il punto più critico tra un mese scarso.

Mentre la corsa contro il tempo inizia per evitare che la situazione peggiori ulteriormente, il dibattito sulla questione viene politicizzato dall’opposizione incarnata dal partito socialista BSP e dalla sua veemente leader Kornelia Ninova. La Ninova non ha mancato l’occasione per accusare il governo di non essere in grado di gestire le risorse ambientali e idriche del paese e ha presentato una mozione di sfiducia nei confronti del governo. La mozione, la quarta del terzo governo di Borisov, non riesce però a far virare il dibattito sulla necessità nazionale di proteggere l’ambiente dalla corruzione prorompente nel paese e dagli interessi economici. Piuttosto, sembrerebbe essere l’ennesimo tentativo della Ninova di portare Borisov alla sconfitta politica. In un paese in cui l’ambiente è la prima vittima di un sistema corrotto, molte sono le domande che non trovano risposta. La più importante è la seguente: perché la Stomana industry avrebbe avuto accesso a tutte quelle risorse idriche senza una necessità imperativa? Tuttavia, l’incapacità o la scarsa volontà politica non permettono al dibattito pubblico di alzare la testa e affrontare la questione. Quindi, nel frattempo, gli abitanti di Pernik aspettano l’acqua.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #371 il: Febbraio 08, 2020, 18:46:40 pm »
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CINEMA: Il backgammon come metafora della vita in Bulgaria
Giorgia Spadoni 24 ore ago

Per le vie di un paesino da qualche parte in Bulgaria, una lesta signora si aggira alla ricerca di zucchero. È una mattina di metà settembre del 1975. Dopo aver chiesto invano ad un paio di negozi, vuoti, salta impunemente la lunga fila davanti al terzo per accaparrarsi il prezioso ingrediente, arrivato direttamente da Cuba.
Il film del regista bulgaro Stephan Komandarev Il mondo è grande e la salvezza si nasconde dietro l’angolo (Svetăt e goljam i spasenie debne otvsjakăde) inizia con una delle immagini della realtà oltrecortina rimasta stampata nella memoria comune dei più, quella delle lunghe file davanti ai negozi di alimentari, in carenza cronica dei beni di consumo primari.
In Bulgaria lo zucchero spesso mancava dagli scaffali negli anni Settanta, soprattutto in autunno, quando la richiesta era maggiore, per preparare conserve e alcolici in vista della stagione fredda.

Non solo zucchero

Questo è appena uno dei tanti spaccati della Bulgaria dell’epoca che la pluripremiata pellicola di Komandarev offre allo spettatore.
Basato sull’omonimo romanzo dello scrittore bulgaro-tedesco Ilija Trojanow, il film racconta la storia di Aleksandăr Georgiev (Carlo Ljubek, attore tedesco-croato che se la cava con un bulgaro credibilissimo), figlio di bulgari emigrati in Germania negli anni Ottanta.
Unico superstite del violento incidente stradale in cui muoiono i genitori, è colpito da amnesia totale. Il nonno, Yordàn detto ‘Baj Dan’ (Miki Manojlović, poliedrico talento del cinema jugoslavo), raggiunto il nipote, decide di coinvolgerlo in un viaggio a ritroso, verso la Bulgaria, per aiutarlo a recuperare la memoria.

Da che parte stare

Alternando presente e analessi, il lungometraggio fornisce allo spettatore un’accurata e inedita prospettiva su tre generazioni di storia bulgara: da una parte la morsa pervasiva del governo totalitario, e dall’altra la controffensiva degli oppositori, tra cui il nonno e il padre di Aleksandăr, Vasko.
Il primo, richiamato in patria per aver preso parte alla rivoluzione ungherese, fa esplodere una statua di Stalin; graziato, passa 15 anni in carcere. Il secondo, dopo aver pestato un superiore durante la leva militare, viene recluso per sei mesi e cacciato dal Komsomol, la Gioventù comunista, ma riesce comunque ad ottenere un diploma e poi un impiego, presentando referenze false.
Il fragile equilibrio dei Georgievi crolla quando la finta facciata perbenista di Vasko viene smascherata, e un agente della DS (il Comitato per la sicurezza di stato) lo invita a collaborare con il governo per mantenere il posto, riportando per iscritto tutti i movimenti del suocero. Baj Dan, infatti, continua a farsi beffa del regime con i suoi coetanei, nel bar in cui passano le giornate a giocare a backgammon, attività proibita dal regime.

Il dilemma morale imposto al capofamiglia apre la strada ad un altro capitolo drammatico della storia assolutista, non solo bulgara: l’emigrazione, il mettere in gioco la propria dignità nella speranza di un futuro migliore in cambio. Rifiutandosi di diventare un delatore, Vasko decide di fuggire dal Paese con la moglie e il figlio, verso la Germania.
Dopo aver attraversato la frontiera con l’Italia, però, i tre rimangono bloccati nel Centro regionale profughi di Trieste, costretti a vivere in condizioni mediocri. Il backgammon diventa così l’unica via di uscita, la possibilità di racimolare la cospicua somma necessaria per farsi portare oltreconfine illegalmente dai corrieri clandestini.

Il Re del Backgammon

Il gioco del backgammon, illecito e originale fil rouge del film, unisce le tre generazioni ed appare nei momenti chiave della storia. Simbolo di dissenso e libertà, è metafora della vita umana, in cui sorte e intelligenza concorrono in egual misura a determinarne i risvolti.
Qualunque siano i presupposti iniziali, nessun destino è già scritto, nemmeno per chi, come Aleksandăr Georgiev, viene al mondo in un momento ostile, “da qualche parte nei Balcani, dove l’Europa finisce senza mai iniziare”, perché la salvezza può celarsi dietro ad ogni angolo.
«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #372 il: Febbraio 14, 2020, 00:41:26 am »
https://www.eastjournal.net/archives/102833

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La Romania è nel caos…di nuovo
Francesco Magno 2 giorni ago

Questo articolo è frutto di una collaborazione editoriale tra East Journal e Osservatorio Balcani e Caucaso

Lo scorso 5 febbraio il governo del partito nazional-liberale guidato da Ludovic Orban – entrato in carica lo scorso ottobre – è stato sfiduciato in Parlamento a seguito di un voto richiesto dal partito social-democratico (PSD), costringendo il presidente della Repubblica Klaus Iohannis ad avviare il necessario iter per la formazione di un nuovo esecutivo. Dopo un rapido giro di consultazioni, il capo dello Stato ha conferito l’incarico nuovamente ad Orban, che lunedì 10 febbraio ha presentato alle camere la lista dei nuovi ministri in attesa del voto di fiducia per il quale, tuttavia, sono necessari i voti del PSD, che detiene ancora la maggioranza relativa dei seggi. E’ difficile ipotizzare che i social-democratici possano dare il loro beneplacito ad un governo che hanno abbattuto meno di una settimana prima. Com’è probabile, Orban non riceverà la fiducia e la palla tornerà ancora a Iohannis che darà a Orban nuovamente l’incarico, sperando in un’ulteriore sfiducia. Al secondo tentativo fallito di dar vita ad un esecutivo, infatti, le camere devono essere sciolte e vengono indette elezioni anticipate, quello a cui Iohannis e tutto il PNL aspirano da settimane. Una matassa intricata, colma di bizantinismi e negoziazioni trasversali, che cerchiamo di dipanare nelle prossime righe. Quale sono le posizioni dei grandi attori in campo? Quali i loro obiettivi?

 I liberali vogliono votare

Il PNL, al governo da ottobre, vuole capitalizzare il consenso di cui gode secondo tutti i sondaggi nazionali; Iohannis, il vero leader del partito, vuole andare a votare il prima possibile, per evitare che una permanenza troppo lunga al governo possa lentamente erodere il credito ottenuto. Anche per accelerare la sua stessa caduta l’esecutivo ha proposto una nuova legge sulle elezioni dei sindaci, eliminando l’attuale sistema a turno unico per introdurre un doppio turno con ballottaggio tra i due candidati più votati. Un cambiamento da sempre osteggiato dal PSD, che da anni ormai basa il suo successo alle consultazioni locali soprattutto sulle divisioni delle opposizioni. In uno spettro politico che si sta configurando in modo sempre più tripolare, con due forti partiti di centro-destra (PNL e USR-Plus) da una parte e i social-democratici dall’altra, un’elezione a doppio turno porterebbe indubbiamente le destre a coalizzarsi ai ballottaggi in funzione anti-PSD, distruggendo quel ramificato sistema di potere regionale e provinciale che da decenni costituisce la vera forza del partito. Orban era consapevole che la proposta di legge avrebbe portato il PSD a sfiduciarlo, e ha forzato la mano sperando proprio di creare una situazione di impasse, dalla quale uscire soltanto attraverso l’indizione delle elezioni anticipate.

E se ci fosse un’intesa segreta?

Gli osservatori più maliziosi sostengono che vi sia in realtà un’intesa di fondo tra PNL e PSD; quest’ultimo avrebbe accelerato la caduta del governo e la convocazione delle elezioni dopo aver ricevuto dai liberali la promessa di non introdurre l’elezione a doppio turno tramite decreto-legge. Secondo altri analisti, pur di scongiurare le anticipate, che lo vedrebbero quasi sicuramente sconfitto, il PSD potrebbe addirittura votare la fiducia a Orban quando questi si presenterà per la seconda volta in Parlamento, costringendolo così ad avviare l’attività di governo e ritardare le elezioni. Si tratterebbe di una situazione folle e paradossale, in virtù della quale un esecutivo liberale si ritroverebbe sostenuto dai social-democratici con l’unico scopo di non andare a votare.

Le aspirazioni di Iohannis

Nel caso in cui, come spera Iohannis, Orban non dovesse ricevere la fiducia, le date più probabili per le elezioni sarebbero il 14 o il 21 giugno. In realtà, la strada verso il voto anticipato è ancora tortuosa e dissestata, e non è detto che si possa giungervi. Sono giorni di negoziazioni e trattative serrate condotte nelle segrete stanze del potere bucarestine. Il perno rimane, di fatto, il presidente della Repubblica, l’uomo politico più forte del paese: Iohannis vuole avere un “suo” governo sorretto da una forte maggioranza parlamentare, così da poter implementare senza ostacoli nei prossimi cinque anni del suo mandato tutte le promesse fatte durante le presidenziali dello scorso novembre. E’ difficile dire, allo stato attuale, se ci riuscirà.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #373 il: Febbraio 14, 2020, 00:45:20 am »
https://www.eastjournal.net/archives/102507

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RUSSIAGATE: Le ombre di un oligarca dietro lo scandalo
Guglielmo Migliori  5 ore ago

Lo scorso 28 gennaio, il dipartimento del tesoro degli Stati Uniti ha deciso di revocare le sanzioni a tre società industriali russe. Nonostante l’opposizione della Camera, il pressing di Trump e della maggioranza repubblicana al senato è riuscito – non senza polemiche – a far passare la mozione e renderla effettiva. Le sanzioni americane, ben lungi dalla cessazione o da un eventuale ammorbidimento, hanno quindi graziato il gigante dell’alluminio RusAl, secondo produttore al mondo, e le compagnie energetiche EuroSibEnergo ed En+– tutte accomunate, sino al 2018, dal controllo diretto del magnate russo Oleg Deripaska, una figura in controluce che pare essere coinvolta nello scandalo del Russiagate.

Chi è Oleg Deripaska?

Arricchitosi a tempo di record negli anni ’90, nell’epoca sregolata delle privatizzazioni, grazie a incredibili movimenti speculativi nel mercato delle risorse minerali, Deripaska ha poi fondato il gruppo industriale Basic Element, instaurando rapporti preferenziali con l’establishment politico-industriale moscovita. Nel 2004, il magnate è stato cooptato all’interno del Consiglio consultivo per il business e la cooperazione economica Asia-Pacifico (ABAC) tramite nomina presidenziale. Dal 2007 è inoltre vicepresidente dell’Unione russa degli industriali e imprenditori – equivalente della nostra Confindustria – nonché presidente della Camera internazionale del commercio e di svariate altre agenzie governative.

Incredibilmente danneggiato dalla crisi del 2007-08 e dalle sanzioni americane del 2014, che hanno più che dimezzato il suo enorme patrimonio finanziario, l’oligarca russo-cipriota aveva già avuto problemi con le autorità statunitensi. Accusato di essere coinvolto nei traffici criminali delle “Guerre dell’Alluminio” negli Anni ’90, gli fu negato il visto statunitense già nel 1998. Nonostante le nette smentite da parte del suo entourage, Deripaska non fu in grado di recarsi regolarmente negli Stati Uniti fino al 2009, quando l’avvocato e lobbista statunitense Adam Waldman, pagato oltre 40mila dollari al mese dall’oligarca per assisterlo legalmente nella procedura di ottenimento di visti e permessi commerciali, riuscì a persuadere le autorità competenti.

Come se ciò non fosse bastato a gettare ombra sulla sua figura, nel 2016 l’oligarca è finito nell’occhio del ciclone. Tacciato da Aleksej Navalnyj di aver corrotto il vice-primo ministro russo Sergej Prichodko, paparazzato sullo yacht di Deripaska a discutere delle incombenti elezioni americane, il magnate è stato sottoposto al regime sanzionatorio di Washington. Secondo il rapporto Horowitz, l’oligarca sarebbe infatti uno dei principali indiziati nello scandalo Russiagate.

Le ombre dello scandalo Russiagate

Nello specifico, il nome di Oleg Deripaska è stato ripetutamente collegato a quello di Paul Manafort, responsabile della campagna elettorale di Donald Trump nel 2016 e già collaboratore del tycoon in Ucraina tra il 2005 e il 2009. Secondo i documenti del dossier incriminato, Manafort, oggi in carcere per frode fiscale e intralcio all’inchiesta giudiziaria del procuratore generale Robert Mueller, avrebbe ricevuto 10 milioni di dollari da un fondo d’investimento dell’oligarca vicino al Cremlino.

A seguito di tutto ciò, Deripaska era infine stato “costretto”, lo scorso aprile, a dimettersi dal CdA di En+ e ridurre le sue quote di partecipazione azionaria in RusAl dal 70% a poco meno del 45%. Il temporaneo passo indietro del magnate della città di Dzeržinsk, almeno per il momento, ha permesso al colosso nato dall’entente con Roman Abrahamovič di sopravvivere a un periodo di gravi ristrettezze di bilancio.

A quanto pare, però, i capitali personali di Deripaska, ritenuto coinvolto “nelle attività nocive del Cremlino e nel tentativo di sovvertire la democrazia occidentale”, rimarranno tuttavia bersaglio delle sanzioni statunitensi, imposte lo scorso aprile a 23 imprenditori russi accusati di “minacciare la vita dei rivali in business, avere intercettato illegalmente un funzionario governativo, e aver partecipato in episodi di estorsione e racket”.

In aggiunta, i deputati democratici avversi all’iniziativa presidenziale hanno ritenuto insufficienti le misure imposte a Deripaska per aggirare le sanzioni, meri pro forma incapaci di modificare sostanzialmente gli assetti societari delle tre compagnie. Come sottolineato dai deputati dell’opposizione, infatti, il magnate russo sarebbe ancora in controllo indiretto della maggioranza assoluta degli stock azionari grazie alle quote affidate all’ex moglie Polina e all’ex suocero Valentin Jumašev, direttore dell’amministrazione presidenziale all’epoca di Boris Eltsin.

Un tentativo di aggirare le sanzioni?

La revoca delle sanzioni ai tre colossi industriali russi, pur non modificando sostanzialmente la linea d’azione statunitense verso la Russia, rinforza dunque i sospetti sul legame – più o meno evidente – instaurato dal Cremlino con numerose forze politiche, tra le quali figurano numerosi partiti europei e la cosiddetta “internazionale sovranista” di Donald Trump e Mike Pence.

Come affermato dal procuratore generale Rober Mueller, a capo dell’indagine speciale sullo scandalo Russia-Gate, gli esiti del rapporto finale “non concludono che il presidente abbia commesso un crimine, né, tuttavia, lo esonera”. Pertanto, la contro-inchiesta che prenderà piede nei prossimi mesi, insieme a quanto prospettato dallo stesso Mueller – ossia che Trump possa essere incriminato allo scadere del mandato – lascia intuire che in un futuro non troppo prossimo venga gettata nuova luce sulla vicenda.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #374 il: Febbraio 14, 2020, 00:48:36 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Azerbaijan/Elezioni-in-Azerbaijan-trucchi-e-magie-del-regime-199570

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Elezioni in Azerbaijan, trucchi e magie del regime

Le elezioni politiche tenutesi lo scorso 9 febbraio in Azerbaijan non possono che far pensare a trucchi e magie, purtroppo però non si è trattato né di un film fantasy né di uno spettacolo di prestidigitazione, bensì dell'ennesima dimostrazione di autoritarismo in stile Aliyev

12/02/2020 -  Arzu Geybullayeva
La magia è ciò che viene in mente quando si cercano le parole giuste per descrivere le elezioni anticipate di domenica 9 febbraio in Azerbaijan. Immaginiamo un bambino che cerca di fare colpo sugli spettatori con un nuovo trucco. Ora pensiamo ad un'urna che viene svuotata sul tavolo di un seggio. Il bambino attira la tua attenzione mormorando le parole magiche, "Abracadabra", "Hocus Pocus" o "Bibbidi-bobbidi-bu!" e, all'improvviso, qualcosa appare in superficie. Ora torniamo a quel tavolo e alle schede che determineranno i 125 membri del prossimo parlamento. E lì, in pochi secondi, compaiono da sotto il tavolo nuove schede che si mescolano rapidamente alla pila appena uscita dall'urna. E questa volta, invece di battere le mani e fare una standing ovation per il piccolo trucco a cui abbiamo appena assistito, ci mettiamo le mani nei capelli, ci mangiamo le unghie e urliamo increduli perché proprio lì, davanti ai nostri occhi, è appena avvenuta una frode elettorale.

Questione di punti di vista
Così alcuni osservatori e candidati indipendenti in corsa per il Parlamento si sono sentiti mentre assistevano alle ennesime elezioni truccate. Così, il 9 febbraio, adulti che fanno gli insegnanti e i presidi hanno preso il posto dei bambini, fingendo di fare una magia, ma non era una magia.

Bisogna riconoscere l'intraprendenza delle autorità. Il presidente Aliyev e la Commissione elettorale centrale (CEC) hanno dimostrato di avere molti altri assi  nella manica. Ambulanze che trasportavano elettori da un collegio all'altro, membri dei Comitati elettorali che tentano di soffocare un osservatore indipendente, balli nei seggi al suono di tamburi, funzionari elettorali scomparsi  con le schede verso destinazioni ignote, elettori risorti che i familiari giuravano  di aver seppellito personalmente mentre il personale del seggio si rifiutava di accettarne la perdita, schede depositate anche dopo la chiusura ufficiale delle votazioni, telecamere ai seggi coperte con documenti o nastro adesivo e via così.

Ma torniamo un attimo indietro.

Il 28 novembre, alcuni parlamentari azerbaijani avevano chiesto al presidente Aliyev di sciogliere le camere in quanto non in grado di attuare pienamente le riforme previste. Una settimana dopo il presidente, con la benedizione della Corte costituzionale, aveva firmato un decreto che liberava i legislatori dalle loro funzioni. Le elezioni, originariamente previste per novembre 2020, erano state anticipate al 9 febbraio.

I 125 parlamentari sono eletti da collegi elettorali a mandato unico per un periodo di cinque anni. Il 9 febbraio non è stato possibile organizzare le elezioni in un totale di 10 collegi elettorali, territori attualmente occupati a causa del conflitto in corso con l'Armenia. Circa 5,2 milioni di elettori sono stati registrati per votare (anche se i cittadini in età da voto secondo il Comitato statistico statale sono circa 2 milioni in più). Le elezioni sono gestite dalla Commissione elettorale centrale (CEC), 125 Commissioni elettorali locali (ConEC) e 5.573 Commissioni elettorali di seggio (PEC).

In totale, all'inizio della campagna sono stati registrati 1.637 candidati. Tuttavia, 313 si sono ritirati. Tra questi c'è chi ha giustificato la scelta affermndo di sostenere altri candidati, chi ha rifiutato di commentare e chi ha dichiarato di essere stati spinti dalle autorità locali a ritirarsi, il che è in contrasto  con il paragrafo 7.7 del Documento OSCE di Copenaghen del 1990 e la giurisprudenza della Corte EDU.

L'ex parlamento era composto prevalentemente da membri del partito al potere (65 seggi), ma ciò non significa necessariamente che il resto dei parlamentari rappresentasse opinioni alternative. 12 membri dell'opposizione sostenevano il partito di maggioranza, mentre 38 parlamentari indipendenti in genere votavano in linea con il governo. 99 dei parlamentari uscenti hanno votato a favore della mozione di scioglimento delle camere. 80 ex parlamentari hanno chiesto la rielezione e, al 10 febbraio, la CEC ha confermato che 79, che avevano dichiarato di non essere in grado di attuare il pacchetto di riforme, sono tornati in parlamento.

Il rappresentante del partito di governo Mubariz Gurbanli ha affermato  che si è trattato comunque di un restyling. "Fare elezioni parlamentari e rinnovare il parlamento non significa che tutti i parlamentari saranno sostituiti [da nuove persone]. Questo non può succedere. Il rinnovamento significa nuove persone, nuove forze. Sono fiducioso che il rinnovamento, il cambiamento delle persone, si farà vedere. E il parlamento lavorerà più velocemente ora per attuare le riforme”. Gurbanli non è riuscito a spiegare come questa velocizzazione si manifesterà esattamente, quando gli stessi parlamentari che hanno chiesto di essere licenziati sono tornati. Ha anche respinto le segnalazioni di violazioni e brogli elettorali definendole come nient'altro che un tentativo di offuscare l'immagine del paese.

Una delle prime violazioni del codice elettorale è stata segnalata da osservatori indipendenti che hanno riferito la mancanza di trasparenza delle urne. Il direttore della CEC Mazahir Panahov ha negato, affermando che le urne erano trasparenti come prescrive la legge e, se qualcuno ha visto diversamente, è a causa del suo punto di vista.

Osservatori internazionali
Nel frattempo, la missione di osservazione internazionale che ha coinvolto l'Ufficio OSCE per le istituzioni democratiche e i diritti umani (ODIHR), l'Assemblea parlamentare dell'OSCE (OSCE PA) e l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa (PACE) ha espresso un'opinione diversa. Nel report  preliminare, la missione ha concluso che:

la restrittività di legislazione e ambiente politico ha impedito un'autentica concorrenza;
la campagna è stata fondamentalmente inesistente a causa di un ambiente politicamente controllato;
agli elettori non è stata fornita una scelta significativa a causa della mancanza di una vera discussione politica;
i media mainstream non hanno informato correttamente gli elettori sui candidati e le loro piattaforme e non hanno coperto gli eventi della campagna, mentre il presidente ha ricevuto ampia copertura;
la copertura delle notizie relative alle elezioni è stata ridotta alle notizie sulle attività della CEC;
la campagna era priva di coinvolgimento politico, essenziale per una vera competizione;
il voto è stato valutato negativamente nel 7% dei seggi elettorali osservati, mentre il conteggio è stato valutato negativamente in 66 su 113 osservazioni;
l'inchiostrazione obbligatoria degli elettori è stata spesso omessa e gli osservatori hanno riferito casi di riempimento delle urne e votazione di gruppo;
le PEC spesso hanno omesso i controlli incrociati numerici, non contavano le firme negli elenchi degli elettori e non registravano i dati prima dell'apertura delle urne;
la tabulazione è stata valutata negativamente in 22 delle 109 ConEC osservate, principalmente a causa della scarsa organizzazione del processo e della mancanza di comprensione delle procedure da parte dei membri delle ConEC.
Durante una conferenza stampa del 10 febbraio, la missione di osservazione internazionale ha anche sottolineato che lo spazio per le donne era limitato, in quanto non solo sono sottorappresentate nella vita pubblica e politica, ma non esistevano requisiti legali per promuovere le donne candidate. Un giornalista di un quotidiano pro-governativo Xalq [Gente], apparentemente insoddisfatto della conclusione, ha ricordato che l'Azerbaijan è stato il primo paese a dare il diritto di voto alle donne. Questo è un dato di fatto, di cui le donne azere sono orgogliose, ma non spiega perché non vi siano condizioni giuridiche pertinenti che incoraggino una più attiva partecipazione politica o la bassa posizione dell'Azerbaijan quando si tratta di combattere la violenza domestica e promuovere la parità di genere.

Un altro giornalista della stessa testata ha contestato la valutazione della legge elettorale da parte della missione, rilevando che tutte le modifiche alla legge elettorale esistente sono state apportate in conformità con le raccomandazioni delle organizzazioni presenti in sala e della Commissione di Venezia. Pertanto, le loro critiche alla legge esistente dovrebbero essere auto-critiche, poiché il codice si basa sulle loro raccomandazioni. E ancora una volta, se è vero che la legge elettorale dell'Azerbaijan è stato rivisto, nessuna delle revisioni ha seguito le raccomandazioni di lunga data dell'ODIHR e della Commissione di Venezia relative alle libertà di riunione ed espressione, indipendenza e imparzialità dell'amministrazione elettorale, finanziamento della campagna, ambiente mediatico e registrazione dei candidati.

Gli indipendenti
Eppure, nonostante le violazioni ampiamente segnalate, alcuni candidati non rimpiangono di aver partecipato. Turgut Gambar, candidato indipendente del blocco politico "Movimento", ha affermato che, sebbene il voto e la tabulazione dimostrino che le autorità non avevano alcuna reale intenzione di cambiamento o riforma, partecipare era comunque la decisione giusta. “Come sempre hanno condotto un'elezione falsa. Hanno nominato più o meno le stesse persone [...] Sono certo che, piuttosto che non fare nulla, partecipare e usare questa piccola finestra di opportunità sia stata la decisione giusta”.

Allo stesso modo Samad Rahimli, avvocato per i diritti umani e candidato indipendente dello stesso blocco, ha dichiarato: “La decisione di candidarsi in queste elezioni è stata un passo giusto. Anche se sapevamo che sarebbe stata una frode. È stato importante partecipare e continueremo a partecipare anche alle prossime elezioni. Perché non tutti i cambiamenti politici avvengono dall'oggi al domani”.

Altri sono più pessimisti. Commentando le elezioni, il veterano osservatore politico Altay Goyushev el ha interpretate come il segno di una catastrofe. “Chi pagherà per questo? Coloro che hanno falsificato queste elezioni. Ho osservato un generale degrado intellettuale, culturale, estetico e di altro genere nella nostra comunità. Questo sistema di gestione individualistico, in stile KGB, non avrebbe mai portato illuminazione alle persone. Perché, in fondo, stava invece conducendo una politica di degenerazione collettiva. E i risultati sono davanti a noi. Persino gli insegnanti sono diventati una categoria degenerata”.

Per il presidente Ilham Aliyev, queste sono state elezioni di successo  che hanno espresso la volontà della gente. Ma è piuttosto difficile capire a chi si riferisca il presidente quando la metà degli elettori non si è presentata alle urne, e anche laddove c'è stata affluenza c'era una discrepanza nel numero di elettori registrati. In oltre la metà dei collegi elettorali, tale indicatore si è discostato dalla media in misura maggiore a quella consentita dalla legge, minando concretamente la correttezza del voto. O forse il presidente alludeva agli abili addetti al riempimento delle urne e ai partecipanti al voto a carosello. Potrebbe anche aver fatto riferimento ai membri delle Commissioni elettorali locali, che si sono prodigati per impedire a osservatori e giornalisti di svolgere il proprio lavoro, a volte persino facendo pratica di wrestling. In tal caso, queste persone hanno certamente espresso la propria volontà. Per tutti gli altri, compresi molti candidati indipendenti e aspiranti a riforme democratiche, le elezioni del 9 febbraio hanno schiacciato l'ennesima speranza con quello che è sembrato un trucco di magia a buon mercato.
«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
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