Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 67962 volte)

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #30 il: Febbraio 07, 2018, 20:42:18 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Gli-albanesi-in-Italia-in-via-d-estinzione-180766

Citazione
Gli albanesi in Italia, in "via d’estinzione"?

Da alcuni anni il numero dei cittadini albanesi in Italia è in calo. Dopo aver superato il mezzo milione all’inizio del 2014, il loro numero ha cominciato a ridursi gradualmente
03/07/2017 -  Rando Devole   

Secondo gli ultimi dati appena pubblicati dall’Istat , in Italia vivono da residenti 448.407 albanesi. Con tale cifra essi occupano il secondo posto tra tutte le comunità straniere, attestandosi subito dopo i romeni, il cui numero ha superato il milione da molto tempo. Tuttavia, nella classifica dei paesi extra UE, gli albanesi residenti occupano il primo posto, seguiti da marocchini (420.651), cinesi (281.972) e ucraini (234.354). Del totale dei residenti stranieri, gli albanesi costituiscono l’8,9%.

Cos’è successo agli albanesi nel corso dell’ultimo anno? Se all’inizio del 2016 risultavano residenti in Italia 467.687 albanesi, in un anno il calo è stato di 19.280 persone. Tra 2015 e 2016 il decremento è stato ancora più sostanzioso. In poche parole, il trend negativo continua a essere evidente, anche se procede con un ritmo leggermente più lento. Se teniamo presente il fatto che i cittadini albanesi rientrano nella categoria di “immigrati storici”, sostanzialmente stabili e integrati, risultano tre i fattori principali della riduzione del loro numero: l’acquisizione della cittadinanza italiana, l’emigrazione verso altri paesi, il mancato bilanciamento di nuovi flussi migratori in ingresso dall’Albania.
Nuovi italiani

Dati più dettagliati sull’acquisizione della cittadinanza sono in via di pubblicazione, ciononostante il bilancio demografico ci permette già di avere un’idea complessiva del fenomeno. Il numero dei cittadini stranieri che hanno ottenuto la cittadinanza italiana durante il 2016 è notevole: 201.591. Con il 18% del totale, gli albanesi occupano il primo posto. Facendo un rapido calcolo, si può affermare che nell'ultimo anno più di 36.000 albanesi hanno preso il passaporto italiano (nel 2015 erano stati 35.134). Nell’arco degli ultimi anni, gli albanesi con passaporto italiano hanno raggiunto all'incirca le 100.000 unità. Un fenomeno sociale di grande interesse da molti punti di vista, anche se, contrariamente all'opinione diffusa in parte dell'opinione pubblica italiana, in Italia la maggior parte degli immigrati sono soggiornanti di lungo periodo. Questo vale in particolar modo per gli albanesi: se, nonostante la legge attuale sia abbastanza restrittiva, gli albanesi ottengono più di altri la cittadinanza, è perché essendo immigrati “storici” hanno già “compiuto” gli anni necessari.

A prescindere dalle statistiche o dalle stime, e al di là delle distinzioni tra residenti e soggiornanti, è evidente che a questo ritmo il numero di cittadini albanesi con il solo passaporto albanese si ridurrà drasticamente in pochi anni. Ciò non significa, è ovvio, che gli albanesi in Italia "spariranno", ma che per il “radar statistico” la maggior parte di loro non apparirà più come straniera: acquisendo il passaporto italiano, diverranno cittadini residenti di un altro paese, anche quando conservano la doppia cittadinanza.
Cambiamenti epocali

Si ha l’impressione che le politiche dei paesi interessati e le loro opinioni pubbliche siano distratte e non riescano a comprendere appieno il peso di questi cambiamenti epocali, che richiedono un approccio fondamentalmente diverso, che metta al centro le persone e le loro esigenze. Per non parlare delle grandi potenzialità e delle energie che rimarranno nascoste se non valorizzate dovutamente.

Oltre ai problemi economici, l’Italia si trova da anni nel vortice di una crisi migratoria nel Mediterraneo, svolgendo un buon lavoro nel campo dell’accoglienza, ma costretta ad affrontare discorsi strumentali in merito ad un fenomeno ormai strutturale. A tutto questo, negli ultimi giorni, si è aggiunto il feroce dibattito divampato sulla riforma della legge sulla cittadinanza, un tema che porta a galla atteggiamenti populistici e sentimenti xenofobi, assolutamente ingiustificabili nei confronti di una legge di civiltà e di giustizia sociale: di un atto dovuto nei confronti della seconda generazione, di ragazzi nati e cresciuti in Italia.

L’Albania, da parte sua, è alle prese con forti contraddizioni, profonde diseguaglianze e crisi provocate da una politica che pare sempre più distante dai bisogni reali delle persone. Il paese ha fatto enormi progressi negli ultimi due decenni, ma è bloccato da guerriglie politiche interne che rendono ancora più visibili l’assenza di una visione condivisa per il futuro e l’oblio riservato ai propri migranti, al di là delle dichiarazioni retoriche. Per capire la gravità della situazione, è sufficiente menzionare l’ultimo sondaggio Gallup , secondo cui il 56% degli albanesi d’Albania desidera emigrare all’estero.

Fatto sta che le politiche continuano ad essere condizionate da emergenze, interessi specifici e obiettivi di breve termine. Bisognerebbe, invece, alzare lo sguardo verso l’orizzonte, che ovviamente è molto ampio.


http://news.gallup.com/poll/211883/number-potential-migrants-worldwide-tops-700-million.aspx
«Se potessimo vivere senza donne, faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro, né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri.»
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #31 il: Febbraio 08, 2018, 00:17:36 am »
Sul versante adriatico (specialmente Puglia) la presenza albanese è massiccia. Anche se l'immigrazione albanese sembra avere un minore impatto di altre, è un'ottima notizia. Del resto molte aziende italiane investono in Albania, cosa sicuramente preferibile (anche se crea disoccupazione da noi) ai 35 Euro al giorno e ai centri d'accoglienza con Wi-Fi.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

Alberto1986

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #32 il: Febbraio 08, 2018, 15:14:44 pm »
Sul versante adriatico (specialmente Puglia) la presenza albanese è massiccia. ...

Negli anni '90. Ora sono gli italiani che vanno in Albania per pura convenienza economica.

Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #33 il: Febbraio 09, 2018, 23:39:18 pm »
Negli anni '90. Ora sono gli italiani che vanno in Albania per pura convenienza economica.
Ce ne sono meno ma sono stato nel Gargano pochi anni fa e gli albanesi non erano proprio pochissimi.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #34 il: Febbraio 12, 2018, 00:08:48 am »
Ce ne sono meno ma sono stato nel Gargano pochi anni fa e gli albanesi non erano proprio pochissimi.


Sempre riguardo agli albanesi, leggi questo vecchio articolo.
http://www.eastjournal.net/archives/75501

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ALBANIA: 25 anni fa, quando la Rai parlò di noi

Lavdrim Lita 9 agosto 2016   

25 anni fa cominciava il grande esodo dei profughi albanesi verso l’Italia. Tra la notte del 6 e la mattina del 7 marzo del 1991, una prima ondata di persone in fuga dall’Albania si riversò sulle coste pugliesi. Era il preludio al drammatico viaggio verso Bari della nave Vlora che ad agosto attraccò in Puglia con 20 mila passeggeri a bordo.

La storia

Il crollo del muro Berlino e la morte violenta dei coniugi Ceausescu in Romania nel 1989 aveva scosso i regimi comunisti nell’ est Europa e sopratutto Tirana. Per 45 anni l’Albania fu sottomessa a dura prova da un regime stalinista guidata con metodi spietati dal dittatore Enver Hoxha. Questa prova consisteva nell’impoverimento materiale e spirituale di tre milioni di persone. Centinaia di chiese, mosche e altri luoghi di culto furono distrutte e decine di chierici persero la vita perla volontà cieca di estirpare con la violenza la fede nelle persone per sostituirla con il culto del partito.


L’Albania arrivava nei primi anni ‘90 come il terzo paese più povero del mondo dopo l’Uganda e l’Angola e dove la proprietà privata, la libera impresa, la libertà e i diritti umani fondamentali erano stati vietati per Costituzione. Durante il regime comunista la mobilità interna ed esterna erano totalmente proibite. La propaganda contro la migrazione e immigrazione era massiccia e rappresentata come una piaga sociale frutto del capitalismo. La propaganda totalitaria fino alla morte di Enver Hoxha nel 1985 rappresentava nell’immaginario collettivo albanese il fenomeno migratorio come una deportazione territoriale simile a quella per gli oppositori politici.

Il regime comunista del post-Hoxha guidata da Ramiz Alia cercò di allentare la presa della repressione dando l’idea di prossime riforme economiche e sociali, ma l’ incapacità e l’atrofia politica della classe dirigente deluse subito le aspettative. In condizioni di povertà diffusa, di disoccupazione crescente e di mancanza di reali prospettive per il futuro,l’emigrazione sembrava l’unica strada percorribile per una generazione che non aveva nulla da perdere.

Nel luglio del 1990 centinaia di giovani si diressero, spinti dalla speranza di una vita migliore, verso i cancelli delle ambasciate occidentali come fossero una casa sicura per chiedere asilo politico e una nave che li avrebbe guidati verso l’occidente. I primi dati sono spaventosi per la credibilità del regime, circa tremila persone si rifugiarono all’ambasciata tedesca; altre cinquemila in quelle italiane, francesi, greche, turche, polacche, ecc.

A Tirana il malcontento si manifestò ormai apertamente e diversi gruppi sociali e sindacali organizzarono scioperi e manifestazioni. Quelli che diedero un colpo definitivo al regime comunista furono gli studenti universitari che scesero in piazza in numero sempre maggiore: anche se in un primo momento le loro richieste erano limitate alle condizioni di studio, ben presto acquisirono una maggiore connotazione politica. Il passaggio da un regime totalitario a un sistema democratico di tipo liberale coincise con una grave crisi economica del paese, in un momento storico in cui la globalizzazione cominciava a far sentire i suoi effetti. Alla povertà ereditata si aggiunse la piaga della disoccupazione che in una società molto giovane come quella albanese incentivò le forti spinte migratorie.

Verso l’Italia

In questa confusione politica, economica e sociale, alla vigilia delle prime elezioni libere nel marzo del 1991, l’Albania era un paese in rovina, in cui regnava il caos e il sogno dell’occidente,in particolare l’ Italia, vista solo alla televisione. La Rai e i canali mediaset, anche se il fenomeno non e’ ancora scientificamente studiato, furono uno dei più importanti spiragli che mantenne vivo nell’immaginario collettivo il desiderio di libertà e la possibilità di una alternativa.

Nella primavera del 1991 l’Italia scoprì di essere la terra promessa per migliaia di albanesi.Dal 7 marzo 1991, gli albanesi entrarono a pieno titolo sulla scena continentale con quello che fu denominato “l’ esodo biblico”. I legami con l’Italia erano stati sempre di amore e odio. L’amore per essere cosi simili: “due popoli, un mare”. Anche nel medioevo, gli albanesi per scappare all’ invasione ottomana sbarcavano in Sicilia o in Puglia come ci dimostra la presenza della comunità arberesh nel sud Italia. L’Italia era sempre stata vista come un porto sicuro. Tuttavia, gli albanesi residenti in Italia nel lontano 1980 erano appena 514; nel 1990, 2.034.

Tutto questo stava per cambiare.La prima calorosa accoglienza nelle ambasciate occidentali confermò il desiderio di molti giovani di provare a scappare dal non-vivere. La voce per la partenza delle navi dal porto di Durazzo aveva fatto sì che centinaia di giovani di Tirana percorressero a piedi o in bicicletta 40 chilometri che dividono la capitale dalla città di mare. Una maratona verso la libertà. In quei giorni migliaia di giovani albanesi “assaltarono” la nave “Vlora”, una bellissima nave italiana costruita a Genova negli anni 60. La Rai stava finalmente parlando di loro. Per la prima volta, loro erano la notizia.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #35 il: Febbraio 12, 2018, 00:40:21 am »
https://www.balcanicaucaso.org/Media/Multimedia/Romania-situazione-politica-e-sociale-preoccupante

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Romania: situazione politica e sociale preoccupante

Mihaela Iordache, corrispondente di OBCT, analizza la situazione in Romania dove, nonostante la crescita economica record, vi è povertà diffusa, corruzione, disparità sociali e forte instabilità politica (28 gennaio 2018)

Vai al sito di Radio Radicale
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #36 il: Febbraio 12, 2018, 01:19:52 am »
Confermato da conoscente rumeno.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #37 il: Febbraio 14, 2018, 18:36:20 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/88167

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STORIA: Le divisioni sindacali nell’Ungheria post-socialista

Stefano Cacciotti 8 giorni fa   

Il movimento sindacale ungherese vive oggi una crisi profonda, sia in termini di “efficacia” dell’azione negoziale sia in termini di unità del movimento. Questa crisi è dovuta in parte alle politiche del lavoro attuate da Orbán tra il 2010 ed il 2012. Tra queste, è opportuno ricordare gli emendamenti del 2010 sulle leggi che regolano il diritto di sciopero, l’abolizione della Legge sulle associazioni del 1990 (che regolava la formazione dei sindacati indipendenti) e l’introduzione di un nuovo Codice del lavoro nel 2012. Queste modifiche hanno ulteriormente liberalizzato il mercato del lavoro magiaro, oltre che minato alcuni dei diritti sindacali di base.

Tuttavia, per comprendere l’attuale crisi delle organizzazioni del lavoro ungheresi non ci si può limitare all’analisi delle politiche anti-sindacali portate avanti da FIDESZ nell’ultimo decennio. Infatti, nell’opera di logoramento dei diritti dei lavoratori, Orbán è stato facilitato dalle divisioni interne presenti nel movimento sindacale ungherese, incapace di organizzare un fronte unitario a livello nazionale sin dai primi anni 90 (Neumann, 2012).

1990. La nascita del Forum tripartito

Il passaggio da un’economia pianificata ad un’economia di mercato ha causato una profonda ristrutturazione del modello di relazioni industriali, fino ad allora caratterizzato da un sostanziale allineamento tra gli interessi dei sindacati ufficiali, rappresentati del Consiglio nazionale dei sindacati SZOT (Szakszervezetek Orszagos Tanacsa) e quelli dello Stato.

Con la fine dell’economia pianificata e l’innesto del libero mercato, questo modello viene progressivamente sostituito da un sistema ispirato al modello di contrattazione triangolare tipico delle società capitalistiche. Le prime modifiche in tal senso sono apportate nel 1990 da József Antall, leader del Forum democratico ungherese (Magyar Demokrata Fórum) e capo del primo governo eletto dopo la fine del regime, il quale avvia un processo di occidentalizzazione del modello di negoziazione sindacale che vede il suo fine principale nella nascita del Forum Tripartito. L’avvio di questa trasformazione, fortemente supportata dell’International Labour Organization (ILO), verrà successivamente accolta in modo favorevole anche dell’Unione Europea (Neumann, 2012).

Due “blocchi” sindacali

Nella nuova struttura tripartita le organizzazioni dei lavoratori si dividono principalmente in due blocchi: i sindacati riformati e i sindacati indipendenti. I primi sono gli eredi dei sindacati SZOT, e rappresentano le continuità con il passato socialista. I secondi, nati dopo il crollo del regime, rivendicano invece la distanza ideologica dall’ormai disciolto Partito Socialista Operaio Ungherese (Magyar Szocialista Munkáspárt).

Sebbene l’intenzione del governo Antall è quella di unificare la lotta sindacale in un unico canale istituzionale, la contrapposizione ideologica tra i due blocchi (riformati vs indipendenti) rende questo progetto difficile da realizzare. Tra le organizzazioni indipendenti, la Lega democratica dei sindacati (LIGA), fondata nel 1989 e guidata da pochi sindacalisti e molti accademici (perlopiù provenienti dalle Università di Budapest) si presenta come la formazione più agguerrita nel denunciare i privilegi dei sindacati riformati (Hughes, 2001).

Indipendenti vs riformati

In particolare, gli attacchi della LIGA si indirizzano contro il MSzOSz (Magyar Szakszervezetek Országos Szövetsége), “colpevole” di aver ereditato le proprietà e il capitale finanziario del vecchio sindacato di regime SZOS. Ad incrementare i malumori delle LIGA c’è anche la questione legata al numero di iscritti. Se infatti il MSzOSz supera i 2 milioni di membri, la lega democratica dei sindacati non raggiunge i 200 mila affiliati (Hughes, 2001).

Agli occhi del sindacato indipendente, le proprietà e i capitali accumulati dal MSzOSz, insieme all’alto numero dei lavoratori affiliati, sono il frutto del rapporto subalterno avuto da quest’ultimo con il regime socialista, e quindi considerate illegali nel nuovo contesto politico-economico. La LIGA rivendica quindi la necessità di spezzare tutte le connessioni con il vecchio regime, in modo tale da avviare un modello di attività sindacale democratica e libera a tutti gli effetti (Hughes, 2001).

L’assenza di un’azione sindacale unitaria

Se, da una parte, le denunce dei sindacati indipendenti nei confronti dei loro “cugini” riformati possono essere considerate legittime e coerenti con il cambiamento storico in atto in Ungheria, è altrettanto vero che la frammentazione che ne conseguì influì drammaticamente sulla forza contrattuale di tutto il movimento sindacale ungherese durante gli anni 90. Lo sviluppo di due blocchi contrapposti allontanò progressivamente i lavoratori ungheresi dall’attività sindacale, già pesantemente messa in crisi dall’emergere di valori individualisti e da una latente sfiducia verso le azioni collettive propria della società civile ungherese. Tutto questo è dimostrato dal crollo dell’affiliazione sindacale tra i lavoratori: nel giro di 5 anni (1991-1996) il maggiore sindacato magiaro, il MSzOSz, perde 2 milioni di iscritti (Frege, 2001).

Sulla base di questi presupposti FIDESZ è stato in grado, dal 2010 in poi, di sviluppare un dialogo selettivo con la LIGA e il sindacato di ispirazione cattolica MOSZ (Munkástanácsok Országos Szövetsége), escludendo progressivamente i “sindacati riformati” dal confronto istituzionale (Neumann, 2012). Appoggiandosi a frammentazioni che hanno radici nel periodo di transizione degli anni 90, Orbán ha quindi applicato una politica del divide et impera, approfittando dell’incapacità cronica del movimento sindacale ungherese di essere unito. In questo senso, la fusione avvenuta nel 2013 tra i sindacati riformati rappresenta una speranza per un futuro miglioramento della forza contrattuale sindacale nel paese, sebbene la strada verso un’azione comune con le organizzazioni di lavoro indipendenti resti ancora tutta in salita.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #38 il: Febbraio 17, 2018, 12:21:34 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/88216

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UNGHERIA: Il sistema sanitario arrugginisce ma il problema sono i rifugiati

Gian Marco Moisé 23 ore fa   

Per il secondo anno consecutivo, l’Ungheria si colloca in fondo alla classifica dell’Indice Sanitario Europeo del Consumatore (ECHI), a pari merito con Polonia, ma dietro ad Albania e Montenegro, stati che nonostante gli sforzi per entrare a farne parte, non sono ancora membri dell’Unione Europea.

L’Indice Sanitario Europeo del Consumatore (ECHI)

L’Indice Sanitario Europeo del Consumatore è un’analisi comparativa dei sistemi sanitari dei vari paesi europei dal punto di vista del consumatore, considerando tempi di attesa, accesso e qualità alle medicine e alle informazioni. La Centrale del Consumatore della Sanità (Health Consumer Powerhouse) è un think tank di origine svedese specializzato nel paragone delle prestazioni sanitarie dei diversi paesi. Visto dalla Commissione europea come il principale strumento di misurazione delle prestazioni sanitarie nazionali, ma inviso dal British Medical Journal che l’ha criticato per l’assegnazione eccessivamente arbitraria dei punteggi.

L’indice attribuisce un punteggio complessivo a ciascun paese in cui il minimo sono 333 punti e il massimo sono 1.000. Nel 2006, l’Ungheria aveva conseguito un punteggio di 600 punti, ma da quell’anno le prestazioni sono calate costantemente. L’anno scorso il paese aveva ottenuto 575 punti, undici in più rispetto a quelli assegnati alla Polonia.

L’Ungheria ha uno dei peggiori tassi di sopravvivenza di persone con tumore in tutta Europa, con un tasso di sopravvivenza per 5 anni poco al di sopra del 40% contro i 70% di Norvegia, Svizzera e Islanda. Lunghissimi i tempi di attesa per le TAC, il paese era in fondo alla classifica anche per la contrazione di infezioni in ospedale. Solo l’Albania ha superato l’Ungheria in fatto di “piccole donazioni” fatte a medici per l’ottenimento di cure più attente. Il paese però, eccelleva per una copertura quasi totale di bambini vaccinati contro le otto malattie più diffuse, e per il numero di ore di educazione fisica richieste a scuola.

Il risultato di quest’anno

Così come l’anno scorso, l’Ungheria si è collocata 30esima su 35 paesi esaminati (29esima su 31 se si considerano i paesi con lo stesso punteggio). Stupisce in particolar modo come nonostante le riforme restrittive volute dalla Polonia in ambito contraccettivo, i paesi siano arrivati a pari merito. La spiegazione che ne è stata data dagli autori è che: “Non c’è alcun tipo di correlazione tra accessibilità alla sanità e denaro pubblico speso.” Anzi, è persino meno costoso avere un sistema senza liste d’attesa perché: “Il sistema sanitario è fondamentalmente un processo industriale. Come ogni manager professionale di questo sistema certamente saprà, procedure lisce con un minimo di pausa o interruzione sono la chiave per tenere i costi bassi.”

Il problema sembra essere di natura culturale rispetto alla capacità di concepire il sistema sanitario. Infatti, Viktor Orbán già quand’era all’opposizione aveva dichiarato che: “Il sistema sanitario non è un business.” Lo stesso presidente dell’Associazione Medica Ungherese, István Éger ha chiarito che: “Non ci si occupa di consumatori, ma di pazienti.”

Il problema è generazionale

Mi permetterete il gioco di parole nella misura in cui si faccia notare che essendo pazienti, gli si richieda che aspettino pazientemente in fila il loro turno, per ore, settimane e mesi. In linea di principio è giusta la distinzione tra sistema sanitario e business, ma se si andasse al di là della strumentalizzazione delle parole e si guardasse alla realtà dei fatti, forse si potrebbe notare che un sistema ibrido che favorisca l’ingresso dei privati in ambito sanitario potrebbe rendere più soddisfatti i pazienti, e allo stesso tempo alleggerire il bilancio statale. Prova ne è il fatto che il Montenegro in un anno è passato dal 34esimo al 25esimo posto, e la Slovacchia è migliorata di 71 punti dal 2016.

Quello che urta di più della linea politica di Orbán è che è fatta di vecchie inefficaci soluzioni per problemi nuovi e complessi. Montesquieu scriveva che: “Il potere corrompe e il potere assoluto corrompe assolutamente.” Orbán è stato corrotto, anzi corroso fino all’osso da anni al potere. È invecchiato, e nonostante abbia anagraficamente solo 54 anni, si comporta come un leader sovietico. In gioventù si opponeva a un regime illiberale, oggi parla dei benefici della “democrazia illiberale”, vede nemici ovunque e focalizza l’attenzione pubblica sui rifugiati invece che concentrarsi sul migliorare il sistema sanitario del paese.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #39 il: Febbraio 18, 2018, 17:20:06 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/Dieci-anni-di-storie-dal-Kosovo-186140

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Dieci anni di storie dal Kosovo

Il Kosovo festeggia dieci anni di indipendenza. Anni segnati da successi simbolici, ma senza vere risposte a questioni come disoccupazione, convivenza, corruzione e mancanza di una strategia di sviluppo
16/02/2018 -  Veton Kasapolli   Pristina

Il decimo anniversario della dichiarazione di indipendenza del Kosovo coincide con il primo schieramento di una squadra nazionale alle Olimpiadi invernali a Pyongchang, in Corea del Sud. L'unico membro della squadra, lo sciatore Albin Tahiri, ha però ben poche possibilità di vincere una medaglia. La prima pagina della storia olimpica del Kosovo è stata scritta solo due anni fa, a Rio de Janeiro. Lì, grazie alla campionessa di judo Majlinda Kelmendi, il Kosovo ha vinto la sua prima medaglia d'oro: il suo più grande successo nello sport globale.

Questi momenti olimpici non sarebbero stati possibili senza la cruciale decisione del CIO di ammettere il Kosovo tra i suoi membri nel 2014. I politici del Kosovo esaltano come storici questi risultati ed esortano tutti i kosovari a cercare il successo e il riconoscimento internazionale individuale attraverso il duro lavoro, nello sport come in altri campi.

Sfortunatamente, un percorso così ambizioso è alla portata di pochissimi giovani. Albin Tahiri ha potuto permettersi allenamenti sulle piste da sci in vari paesi dell'UE facendo affidamento a risorse economiche personali, mentre in patria la squadra di Majlinda Kelmendi continua ad allenarsi in sale non riscaldate a causa dei continui tagli all'elettricità. Anche la nazionale di calcio, recentemente ammessa dalla FIFA, continua a giocare le partite casalinghe in Albania, in assenza di uno stadio con gli standard richiesti.

Agli altri non restano che strade più tortuose per raggiungere l'altro lato dei confini del Kosovo. Il più giovane paese in Europa è anche il più isolato del Vecchio continente: i suoi cittadini sono gli ultimi dei Balcani occidentali a non poter viaggiare senza visto nell'area Schengen. Questo non ha impedito a quasi il 10% degli 1,8 milioni di abitanti di entrare irregolarmente nell'UE da quando il Kosovo ha dichiarato l'indipendenza, il 17 febbraio 2008. Molti hanno addirittura rischiato la vita sulle montagne in inverno o nascondendosi in condizioni disumane all'interno dei camion. Alcuni sono morti attraversando dei fiumi nel tentativo di raggiungere l'Ungheria.

Una fuga così sistematica dal Kosovo libero e indipendente non era prevista dieci anni fa. All'epoca della dichiarazione di indipendenza, la società del Kosovo desiderava staccarsi da una debole amministrazione internazionale e autogestirsi, sognando di diventare presto un prospero nuovo paese nel mezzo dell'Europa.
Un'economia al palo

Nonostante una crescita costante del PIL del 3-4% l'anno dal 2008, tuttavia, l'economia non è mai decollata. Ciò ha portato i tassi ufficiali di disoccupazione al 27% (in realtà molto più alti, specialmente tra i giovani). I laureati che escono ogni anno dalle università pubbliche e private appena fondate a Pristina e nelle altre principali città kosovare lottano per un numero estremamente limitato di posti di lavoro. Anche le opportunità di ottenere un impiego presso il più grande datore di lavoro – il settore pubblico – rimangono scoraggianti. È proprio la mancanza di opportunità di lavoro che rimane oggi il più grande problema percepito dal cittadino kosovaro medio.

Mentre molti hanno cercato di emigrare, l'élite del Kosovo ha sviluppato un ambiente economico senza un chiaro modello di sviluppo: dieci anni di autogoverno si sono concretizzati in una serie di autostrade moderne, ma costose. Tale determinazione per investimenti pubblici ad effetto accomuna tutti i governi che si sono succeduti dall'indipendenza.

L'unica altra strategia di sviluppo messa in campo è stata la privatizzazione delle imprese pubbliche e di proprietà statale. Sfortunatamente sono stati creati ben pochi nuovi posti di lavoro nella produzione o nelle industrie: nel frattempo, però è esploso il settore della piccola e media distribuzione, dove però si vendono quasi esclusivamente merci importate. La sproporzione fra importazioni ed esportazioni (nove a uno in favore delle prime) riassume il dato più caratteristico della società consumistica del Kosovo indipendente.

Nel corso degli anni ci sono stati miglioramenti nel contesto degli investimenti, confermati dai World Bank Doing Business Reports, ma la realtà è che solo pochi vogliono investire il proprio capitale in un paese in difficoltà segnato dal conflitto. Il Kosovo continua a non convincere di avere un ambiente politico normale, un sistema giudiziario equo e indipendente e una fornitura stabile di energia elettrica, fondamentale per qualsiasi industria.

A proposito, recentemente lo stato ha annunciato di voler investire nell'utilizzo delle sue riserve di lignite, fra le più grandi in Europa. Alla fine del 2017, il governo ha firmato un contratto con una società con sede negli Stati Uniti per sviluppare una nuova centrale a carbone lignite da 600 MW, ma le prime forniture non saranno disponibili prima del 2023. Fino ad allora, i livelli di importazione di energia elettrica continueranno a salire, come per tutto il resto.
Stato di diritto, i problemi restano

Per quanto riguarda lo stato di diritto, il Kosovo non ha mostrato segni significativi di miglioramento durante questo decennio. Centinaia di migliaia di casi arretrati continuano a perseguitare i tribunali. Quando l'inefficienza si combina con l'incapacità di affrontare casi sensibili come la corruzione, il pubblico smette di credere nel sistema giudiziario stesso, e lo stesso vale per i partner del Kosovo, ovvero l'Unione europea e gli Stati Uniti. La prima continua a finanziare EULEX, la sua più grande missione all'estero, dal 2008, per trattare casi che i tribunali kosovari non riescono a gestire per una ragione o per l'altra. L'anno del decennale dovrebbe essere segnato anche dall'apertura della nuova Corte speciale per i supposti crimini di guerra commessi dal 1998 al 2000 da parte di membri dell'Esercito per la liberazione del Kosovo (UCK) che opererà dai Paesi Bassi.

L'esordio della Corte però appare estremamente problematico: prima ancora che l'istituzione abbia fatto partire i primi processi, che con tutta probabilità coinvolgeranno politici di primo piano, il parlamento di Pristina ha effettuato vari tentativi di bloccarne l'attività. Un comportamento che ha scatenato la dura reazione di Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania e Italia. Dopo le critiche internazionali, il Kosovo sembra aver fatto però marcia indietro e potrebbe diventare l'unica entità dell'ex Jugoslavia ad avere un tribunale ad hoc per gestire in modo indipendente il proprio recente passato, impegno che può essere utilizzato per ottenere più credibilità e sostegno internazionale.
Riconoscimenti internazionali

Finora il Kosovo ha ottenuto 116 riconoscimenti a livello globale : ancora troppo poco per aspirare ad entrare nelle Nazioni Unite e nelle sue organizzazioni. Allo stesso modo, non sono stati registrati progressi nel convincere ad un atteggiamento diverso i cinque paesi UE che non riconoscono la dichiarazione di indipendenza di dieci anni fa. Nonostante le divisioni, l'UE ha dimostrato la volontà di impegnarsi nelle relazioni con il Kosovo, firmando l'accordo di stabilizzazione e associazione nel 2016 che prevede un chiaro programma di riforme negli anni a venire. Tuttavia, la più recente Strategia per i Balcani occidentali conferma che il Kosovo può aspirare ad intraprendere il percorso di integrazione europea solo a passi molto piccoli.

Lento è anche il processo di riconciliazione tra la maggioranza albanese e le altre comunità del paesi. La minoranza serba continua a vivere una vita parallela gestendo i propri settori educativo, medico e culturale. Il paese non è affatto vicino a colmare questa divisione, soprattutto nelle municipalità del nord, scosso nelle ultime settimane dall'omicidio del leader politico Oliver Ivanović.

Ma le divisioni possono essere notate solo da chi le vive in prima persona, così come la corruzione, la disuguaglianza o la disoccupazione. Sulla carta, il Kosovo è un paese multietnico in cui l'albanese e il serbo sono lingue garantite dalla Costituzione. La sua legislazione è tra le più moderne, ma in pratica rimane largamente inattuata. In teoria, l'ambiente per gli investimenti esteri ha registrato progressi sorprendenti, ma non vi sono ancora investitori reali disposti a scommettere sul paese. Al loro posto, centinaia di milioni di euro in rimesse affluiscono dalla diaspora per sfamare grandi famiglie disoccupate.

Fino a quando tutto questo non migliorerà, al kosovaro medio rimangono poche speranze di cambiamento ed opportunità: per non cadere nella tentazione di fuggire lontano, non resta che gioire delle storie di giovani talenti arrivati a successi incredibili, ma individuali, nello sport, nel cinema o nella musica.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #40 il: Febbraio 24, 2018, 18:04:04 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-attacco-alla-procura-anti-corruzione-186319

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Romania: attacco alla procura anti-corruzione

Il governo romeno prosegue senza indugio nella propria riforma della giustizia. Ed ora mette nel mirino la procuratrice anti-corruzione Laura Codruța Kövesi
23/02/2018 -  Mihaela Iordache   

Nonostante le critiche, gli avvertimenti europei e le proteste di strada, il principale partito della Romania, il PSD (partito Socialdemocratico), va avanti con il proprio progetto di riforma della giustizia, fatta su misura – secondo l'opposizione – per i suoi membri indagati per corruzione.

Ieri il ministro della Giustizia romeno Tudorel Toader ha chiesto la revoca dell'incarico alla procuratrice Laura Codruța Kövesi, a capo della procura anti-corruzione (Dna).

Della lotta alla corruzione, la Kövesi è diventata un simbolo nel paese. Ma per il PSD il Dipartimento Nazionale Anti-corruzione da lei guidato da tre anni non farebbe altro che fabbricare dossier contro i socialdemocratici.

In realtà, negli ultimi anni, la Romania ha fatto passi notevoli nella lotta alla corruzione, risultati apprezzati anche da Bruxelles che ora guarda con preoccupazione l'assalto del PSD alla giustizia, attraverso modifiche di legge e il tentativo di sottometterla al controllo politico.

La quarantaquattrenne Laura Codruța Kövesi però intende continuare il proprio lavoro sino alla fine del suo mandato, cioè tra un anno. Il leader del PSD Liviu Dragnea – indagato e condannato per corruzione – non sembra però intenzionato a permetterglielo, convinto dell'esistenza di uno “stato parallelo” costituito da magistrati e uomini dei servizi segreti che darebbero la caccia a politici innocenti.
Esecuzione pubblica

Il discorso di ieri del guardasigilli è stato articolato in venti punti ed alcuni commentatori politici lo hanno definito “un'esecuzione pubblica” ed hanno evocato i tempi di Ceaușescu, dove c'era solo “chi era con noi e chi era contro di noi”, e i metodi operativi della Securitate, i famigerati servizi segreti del regime.

Tra le varie cose di cui il ministro ha accusato la Kövesi anche quella di danneggiare l'immagine del paese: cosa possono pensare gli altri paesi vedendo che in Romania un così alto numero di politici è corrotto? Cosa possono pensare – verrebbe da aggiungere – di un politico come Liviu Dragnea che ha cambiato tre primi ministri in un anno e che dopo molti anni di governo della contea di Teleorman non è riuscito a ridurvi la povertà dilagante, utile solo a raccogliere voti quando i socialdemocraici promettono aumenti di stipendi e di assistenza sociale?
Per strada

A qualche ora dal discorso del ministro della Giustizia che ha chiesto la revoca della procuratrice Laura Codruța Kövesi, circa 1000 persone sono scese in strada a Bucarest a suo sostegno e altre centinaia nelle altre grandi città del paese. Si prevedono altre manifestazioni nei prossimi giorni, nonostante la neve che sta ricoprendo in queste ore la capitale romena.

Da quando ha vinto le elezioni, nel dicembre del 2016, il PSD ha “il merito” di aver fatto scendere la gente per strada. “Giustizia non corruzione”, ”Uscite fuori di casa, se v’importa”, ”Tudorel, dimissioni”, ”Che la DNA venga e vi porti via”, ”Il PSD, la peste rossa”, questi gli slogan delle proteste. Dall’inizio del gennaio del 2017, queste ultime sono state organizzate soprattutto attraverso Facebook.

Il ministro della Giustizia si recherà prossimamente anche in Parlamento per sostenere la propria richiesta di revoca dell'incarico alla procuratrice della DNA. La parola finale toccherà però al presidente della Romania, Klaus Iohannis, che si è sempre detto contrario alle modalità con cui i socialdemocratici stanno cambiando la legislazione nell’ambito giudiziario. Ma non mancano neppure analisi secondo le quali presto lo stesso presidente potrebbe finire nel mirino del PSD attraverso un'ipotetica sospensione dal suo incarico attraverso un voto del parlamento. Tra l'altro l'anno prossimo sono previste le elezioni presidenziali.

Di fatto il PSD sta tenendo impegnato il paese in situazioni fortemente conflittuali che occupano tutti i dibattiti televisivi schierati pro o contro il governo di Bucarest.
E ora?

Dopo la richiesta di revoca fatta dal ministro della Giustizia, il presidente romeno Klaus Iohannis ha intanto preso tempo, dichiarando che a causa della mancanza di chiarezza nei contenuti del rapporto presentato e tenendo conto che la valutazione dell’attività della DNA e del suo management da parte del presidente della Romania diverge da quella presentata dal ministro „si impone un’analisi approfondita di questo documento”.

Nei giorni precedenti alla richiesta di revoca il capo della procura anti-corruzione romena Laura Codruța Kövesi aveva tenuto una conferenza stampa nella quale aveva denunciato “l’attacco” contro la giustizia e il tentativo di screditare il Dipartimento anti-corruzione che “non falsifica prove come sostengono i politici”. Tutti gli attacchi che arrivano della sfera politica rappresentano per la Kövesi un tentativo di mettere in ginocchio lo stato romeno e umiliare la società.

Negli ultimi anni in seguito al lavoro anti-corruzione svolto dalla DNA oltre 70 politici tra cui ministri e parlamentari sono stati rinviati a giudizio.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #41 il: Febbraio 24, 2018, 18:08:32 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Catalin-Prisacariu-le-sfumature-della-censura-185908

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Cătălin Prisacariu: le sfumature della censura

Durante la sua brillante carriera ha inanellato numerose dimissioni, conseguenza del non voler scendere ai compromessi che gli venivano richiesti. Uno sguardo sulla stampa rumena da parte del giornalista investigativo Cătălin Prisacariu
22/02/2018 -  Stela Giurgeanu   

(Pubblicato originariamente da Dilema Veche nell'ambito del programma ECPMF, selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans e OBCT)

Cătălin Prisacariu è membro del comitato rumeno per il giornalismo investigativo ed ha, al suo attivo, una lunga lista di dimissioni. Agli esordi della carriera è stato giornalista nella stampa regionale a Iași, è poi divenuto giornalista investigativo per Evenimentul Zilei, poi capo del dipartimento investigativo di Academia Cațavencu e redattore capo a Kamikaze. Ha anche animato due talk show su TVR Info e B1TV. Infine, fino a poco tempo fa, è stato giornalista per România liberă che ha lasciato nel novembre scorso.

Lei lavora in questo campo da più di vent'anni ed ha attraversato i più grandi gruppi editoriali del paese, sia nella carta stampata che nell'audiovisivo. Ma alla fine ha sempre dato le dimissioni. Perché?

Per ragioni politico-economiche, alle quali si aggiungeva la censura, più o meno importante, più o meno sorniona. Non riesco a mentire e non sono mai riuscito a restare quando una cosa mi veniva imposta o quando le mie inchieste non venivano pubblicate. Il problema è che, dopo vent'anni di carriera, mi rendo conto di avere fatto il giro di quasi tutti i media del paese.
La libertà dei media in Romania

Per una panoramica esaustiva sul paese, visita il Resource Centre sulla libertà dei media curato da OBCTranseuropa. Tutte le risorse sulla Romania a partire da qui .

Che si tratti della stampa o della televisione, arriva il momento in cui il direttore ha bisogno di un “servizio” da parte di un rappresentante del partito al potere. A farne le spese in primo luogo sono i giornalisti di inchiesta i cui articoli vengono commissionati, ma poi non vengono pubblicati, per utilizzarli come merce di scambio con il protagonisti dell'inchiesta. Si pone allora il problema se accettare o meno, sapendo che se si alzano le mani una volta, vi è il rischio di doverlo rifare e si rischia di non sapere più chi si è e quale sia il senso del nostro mestiere. Ogni volta ho dato le dimissioni.

In alcuni media ho avuto fortuna, sono rimasto più a lungo. Ad Academia Cațavencu, dove dirigevo il dipartimento di investigazione, non ho avuto alcun contatto con il direttore sino al 2009. Supervisionavo tutte le inchieste ed ero garante dell'onestà del contenuto. Ma quando la lotta politica si è fatta rude, e il direttore ha voluto prendervi parte, me ne sono dovuto andare. In Romania rimanere integri è una questione di fortuna, tutto può andar bene per qualche anno e da un giorno all'altro ci si ritrova davanti ad una scelta.

Quando un giornalista lascia una redazione a causa della censura o di pressioni editoriali subite, non è accolto a braccia aperte dagli altri?

Al contrario! Quando nel 2015 sono stato licenziato da B1 TV, ufficialmente per ragioni economiche, ho cercato lavoro per un anno e mezzo. È stato il periodo peggiore che ho mai attraversato, senza prospettive e perché ho capito che la solidarietà, in questo ambiente, non esiste.

Anche se si è un giornalista della sua reputazione? Con una tale carriera alle spalle?

È una carriera che soprattutto penalizza. In Romania si è mal visti se si abbandonano più posti di lavoro. Chi vuole assumere un giornalista il cui precedente datore di lavoro dice che non ha accettato di fare quello che gli si chiedeva?

È impossibile in Romania per un giornalista onesto fare carriera?

È difficile. In questo mestiere è inevitabile entrare in contatto con qualcuno di importante e subirne le pressioni. Si può fare carriera lavorando da indipendenti ma vi è in questo caso la difficoltà della precarietà, o si può lavorare per delle Ong, ma i questo caso non si tratta veramente di giornalismo. Si può anche pubblicare su di un sito personale, ma il rischio è che i propri scritti vengano riutilizzati da altri, senza ricevere un centesimo, come mi è già accaduto.

Le pubblicazioni da indipendente hanno la stessa ricaduta sul grande pubblico dei media?

In Romania non è possibile vivere da giornalista investigativo indipendente. Una soluzione è quella di lavorare per la stampa estera. Con un po' di fortuna si potrebbe sopravvivere dal punto di vista finanziario. Il retro della medaglia è che spesso i soggetti vengono trattati per essere proposti ad un pubblico straniero. È raro il caso in cui vengano pubblicati in Romania e che abbiano un'incidenza. Durante una collaborazione con Der Spiegel, ho scritto di un rumeno coinvolto in un caso di corruzione che riguardava airbus. Nessuno ne ha parlato in Romania.

In alcuni paesi i giornalisti vengono minacciati di morte, subiscono aggressioni fisiche, vengono a volte uccisi... quale la situazione in Romania?

È una questione di contesto culturale, credo semplicemente che in Romania questa aggressioni fisiche non funzionino. Un clima simile forse vi è stato solo tra le due guerre mondiali, quando era chiaro che i legionari non avrebbero avuto alcuno scrupolo ad assassinare anche i giornalisti. Ma ora non vi sono reazioni così relativamente a quanto fatto emergere dalla stampa. Ma avviene anche perché in Romania i politici non si sentono minacciati dai giornalisti dato che nella maggior parte dei casi avviene un controllo editoriale preventivo al livello della direzione dei grandi gruppi mediatici.

Quale il ruolo del pubblico?

Affinché la società cambi vi sono due strade: un movimento dal basso verso l'alto, o dall'alto verso il basso. Io ritengo che attualmente le cose in Romania non possano essere cambiate dal basso verso l'alto, perché non vedo chi sia in grado di dare l'impulso per farlo. Se si guarda alla demografia ed alle disparità di reddito si capisce che, di fatto, questo paese non può coagulare attorno ad idee che coinvolgano un numero di persone sufficiente a provocare del vero cambiamento. La stampa può educare il pubblico, ma solo se più giornalisti accetteranno di subire ostracismo, fame e disperazione e inizieranno a non rispondere alle richieste dei loro superiori.

Quale la possibilità, un giorno, di avere in Romania una stampa sana?

All'inizio delle inchieste su Adrian Năstase, nel 2005, i giornalisti scoprirono documenti ai quali non avevano avuto accesso quando era primo ministro. Tutto l'ambiente era in fibrillazione e vi era vera concorrenza, e questo era un buon segno. Poi è arrivata la crisi finanziaria e il contesto politico è divenuto più teso. I grandi magnati hanno preso il controllo della stampa e si sono coalizzati. La crisi ha portato alla chiusura di numerose testate giornalistiche. I salari si sono abbassati, si doveva difendere il proprio posto di lavoro, veloci ad accettare compromessi. la concorrenza è di fatto sparita ed assieme a quest'ultima la buona salute della stampa. Quindi, vi è ancora molto da fare.

Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #42 il: Febbraio 25, 2018, 09:57:21 am »
http://www.eastjournal.net/archives/88521

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MONTENEGRO: Lanciate granate contro l’ambasciata statunitense

Gian Marco Moisé 3 giorni fa   

A Podgorica, intorno a mezzanotte un assalitore ha fatto esplodere due granate vicino al complesso dell’ambasciata statunitense. Secondo le testimonianze l’uomo sarebbe stato fermato dalle guardie di sicurezza all’ingresso dell’ambasciata e dopo aver lanciato una granata contro il muro di cinta dell’edificio si sarebbe ucciso con uno degli esplosivi rimasti attaccati alla sua cintura.

Secondo quanto appena riportato dal quotidiano Vijesti, la polizia montenegrina sospetta che l’attentatore potesse essere il quarantatreenne Dalibor Jauković, residente a Podgorica ma originario di Kraljevo, in Serbia.

Steve Goldstein, del dipartimento di stato, ha dichiarato che il movente dell’assalitore resta ignoto e non è chiaro se l’attentato intendesse essere suicida o no. Poco dopo le esplosioni la polizia ha chiuso l’accesso alla strada. L’ambasciata ha sospeso le regolari attività e dichiarato stato di allerta attiva.

Da quel che è emerso nelle prime ore, nessun membro dello staff dell’ambasciata è rimasto ferito nell’attentato. Il portavoce del dipartimento di stato Heather Nauert ha confermato che: “In questo momento lo staff dell’ambasciata sta lavorando con la polizia per identificare l’assalitore. L’ambasciata sta conducendo un’indagine interna per assicurarsi che tutto lo staff sia al sicuro.”

L’anno scorso, il Montenegro è stato il ventinovesimo paese a fare il suo ingresso nella NATO. Gli Stati Uniti hanno hanno legami diplomatici col Montenegro dal 2006, quando il paese ha dichiarato la sua indipendenza dalla Serbia.
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #43 il: Febbraio 25, 2018, 19:07:36 pm »
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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #44 il: Febbraio 27, 2018, 01:41:33 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Cittadini-italo-albanesi-la-carica-dei-200-mila-185685

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Cittadini italo-albanesi: la carica dei 200 mila
Sono sempre di più le persone appartenenti alla comunità albanese in Italia che stanno ottenendo la cittadinanza
26/02/2018 -  Keti Biçoku   

(Pubblicato originariamente su Shqiptariiitalise.com il 26 gennaio 2018, tit.orig. "Mbi 200 mijë shqiptarë kanë pasaportë italiane")

Se, da una parte, la crisi economica e la mancanza di veri e propri decreti flussi di lavoratori dall’estero ha causato il calo degli arrivi di nuovi immigrati albanesi in Italia, dall’altra, sempre più albanesi stanno diventando italiani. In molti hanno completato ormai il ciclo: lasciare il loro paese d'origine, immigrare, integrarsi e diventare pienamente parte della società, mettendo in tasca il passaporto italiano.

Tutto questo ha portato alla diminuzione del numero degli albanesi con un documento di soggiorno al di sotto delle 450 mila unità. Più precisamente, la comunità degli albanesi in Italia – quelli che si contano come permessi di soggiorno - è cresciuta di anno in anno fino all’inizio del 2013, quando superò il mezzo milione (502.546); da allora si è notato un continuo ridimensionamento per arrivare a 441.838 persone al 1° gennaio 2017.

Nello stesso periodo della riduzione della comunità degli albanesi con un documento di soggiorno, però, siamo testimoni dell’aumento rilevante di quanti diventano cittadini italiani.

I dati Istat parlano chiaro. Solo durante il 2016 hanno giurato fedeltà alla Costituzione italiana 36.920 cittadini albanesi. Sempre secondo l'Istat, sono donne e uomini, quasi in egual misura; diventano italiani più per ragioni di lunga residenza che di matrimonio con un italiano; e ottengono automaticamente la cittadinanza per trasmissione sempre più minori.

Le cifre del 2016 quasi quadruplicano rispetto a quelle del 2012, quando diventarono italiani solo 9.493 albanesi. Di anno in anno la crescita è stata inarrestabile: si è passati a 13.671 acquisizioni nel 2013, a 21.148 nel 2014 ed a 35.134 riconoscimenti di cittadinanza nel 2015.

Inoltre, solo nel 2016 hanno ottenuto la cittadinanza italiana più albanesi di quanti l’avevano acquisita fino al 2011. Lo dice il censimento del 2011. Infatti, un interessante dato raccolto in quell'occasione, fu quello della cittadinanza avuta prima di quella italiana. 33.699 persone dichiararono di avere la cittadinanza albanese prima di diventare italiani.

Una semplice addizione dei dati e i conti sono presto fatti: alla fine del 2016, gli albanesi diventati italiani superano i 150 mila.

Non sono ancora disponibili i dati del 2017, ma l’andamento attuale delle acquisizioni di cittadinanza, l’anzianità e la stabilità della comunità albanese in Italia fanno pensare che venga mantenuta la tendenza degli ultimi anni. Quindi è ragionevole stimare che oltre 35 mila altri albanesi abbiano giurato fedeltà al tricolore anche durante l’anno scorso.

Forse, qualcuno di tutti questi ha lasciato l’Italia, forse qualcun altro ha cambiato vita. Senza dubbio, però, siamo attorno a quest'ordine di grandezza.

E non è tutto: ai dati sfuggono tutti quelli di seconda generazione che in oltre un quarto di secolo, dal 1990 a questa parte, sono nati da coppie di albanesi, di cui almeno uno aveva già ottenuto la cittadinanza italiana, oppure nati da coppie miste italo-albanesi. Tutti questi bambini, non considerati mai stranieri dall’Italia, nascono italiani (almeno loro, visto l’affossamento al Senato della riforma della cittadinanza per i figli degli immigrati), quindi non risultano nelle statistiche degli stranieri diventati italiani. Quanti sono? Difficile dirlo con esattezza, ma alcuni analisti parlano di 25-30 mila.

Per i nati da genitori albanesi, ma tutti e due con passaporto italiano, non esistono statistiche. Troviamo dati solo per i nati delle coppie miste. Nei rapporti annuali Istat sulla natalità risulta che solo nell’anno 2016 sono nati oltre 2.600 bimbi da tali coppie: 2.300 nel 2015, 2.150 nel 2014, 1.800 nel 2013, 1.850 nel 2012, 1.750 nel 2011, 1.500 del 2010, … oltre 1.400 nel 2008, …, circa 1.350 nel 2006 e così via.

Quindi, affermare che ci sono oltre 200 mila italiani odierni "di sangue albanese" – senza considerare gli arbëreshë - non è sbagliato. Almeno per le leggi in vigore, perché nessuno può sapere poi cosa, nell'intimo, si senta ognuno di noi.

Fanno comunque tutti parte di quella grande comunità di albanesi all’estero sui quali l’Albania non sa tanto. Né quanti sono di preciso e tanto meno dove vivono. L’ultimo governo ha dedicato loro un ministero, progettando la loro registrazione per dare loro la possibilità di partecipare alle elezioni albanesi votando da dove vivono. Forse è troppo tardi ormai e non si sa quanto possa essere ancora confortante il detto "Meglio tardi che mai".
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